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Resumo:
Questo lavoro nasce principalmente da un legame affettivo e di parentela che mi lega alla figura di Mario Giacomelli e alla sua grande opera di fotografo che lo ha portato a raggiungere un ruolo fondamentale nella storia della fotografia contemporanea. Ricordo che sin da quando ero bambino rimanevo affascinato dalle sue opere, da quei paesaggi fotografati in bianco e nero, da quelle sagome dei pretini che sembrano danzare nel vuoto, il tutto però senza capire la vera importanza di quello che avevo davanti ai miei occhi e ignorando completamente tutto l’interesse, le critiche e i dibattiti che quegli scatti accendevano in quegli anni, al punto di venire addirittura esposti in quello che si può definire il museo di arte moderna per antonomasia, ovvero il MoMa, in fondo per me non era altro che uno zio. Il ricordo mi porta nella sua piccola e buia Tipografia Marchigiana, in pieno centro storico a Senigallia, proprio dietro il Municipio, dove lo trovavo sempre indaffarato con timbri, foto e oggetti di ogni tipo, sommerso in un caos primordiale. È incredibile pensare come in quel minuscolo negozio siano passati tutti i più grandi personaggi della fotografia italiana, quali Giuseppe Cavalli, Ferruccio Ferroni, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna; dietro quella facciata di piccola bottega si nascondeva un universo parallelo che entrava in contatto con le più importanti gallerie e musei di arte contemporanea del mondo. Oggi al suo posto c’è una Parrucchieria. Molte cose sono cambiate, io ho capito, aimè in ritardo, l’importanza del personaggio che ho avuto la fortuna di conoscere e di avere come parente. La città stessa si è accorta solo dopo la morte, come spesso accade, di quale formidabile artista ha cresciuto, un artista che è sempre rimasto fedele alla sua terra di origine, che ha rappresentato una fonte inesauribile di spunti per la sua opera fotografica. A quel punto si è scatenato un turbinio di conferenze, mostre e pubblicazioni sul lavoro di Giacomelli, tanto che sarebbe rimasto impossibile a chiunque non capire il peso che questa figura ha ancora oggi per la città. Proprio lo scorso Novembre è ricorso il decennale della sua scomparsa e in questa occasione si è dato il via ad una infinita serie di iniziative, mostre, conferenze e pubblicazioni dedicate alla figura del fotografo senigalliese, ribadendo la necessità per la città di dotarsi di uno spazio idoneo ad ospitare questi eventi. In una recente intervista condotta dal quotidiano Il Resto del Carlino, Simone Giacomelli, figlio del fotografo, ha sottolineato l’urgenza della creazione di uno spazio dedicato alle fotografie del padre “Io lavoro molto con l'estero e sono in contatto con appassionati che arrivano da tutto il mondo per ammirare le foto di Giacomelli. C'è un gruppo di studenti che mi ha contattato dall'Australia. Ho dovuto dire di aspettare perché in città c'è una raccolta di foto al Museo mezzadria ed una parte al Museo dell'informazione. Manca un luogo dove si possa invece vedere tutta la produzione.”. Con queste premesse il progetto per un Centro Internazionale della Fotografia non poteva che essere a Senigallia, non tanto per il fatto di essere la mia città, alla quale sono molto legato, quanto per l’essere stata la culla di un grande artista quale Mario Giacomelli, dalla quale non si è mai voluto allontanare e che ha rappresentato per lui la fonte di ispirazione di quasi tutte le sue opere. Possiamo dire che grazie a questo personaggio, Senigallia è diventata la città della Fotografia, in quanto non passa settimana senza che non venga presentata una nuova iniziativa in ambito fotografico e non vengano organizzate mostre di fotografi di calibro internazionale quali Henri Cartier Bresson, Ara Guler, etc… Ecco quindi motivato il titolo di Internazionale attribuito al museo, in quanto da questo cuore pulsante si dovranno creare una serie di diramazioni che andranno a collegare tutti i principali centri di fotografia mondiali, favorendo lo scambio culturale e il dibattito. Senigallia è una città di modeste dimensioni sulla costa adriatica, una città dalle grandi potenzialità e che fa del turismo sia balneare che culturale i suoi punti di forza. La progettazione di questa sede museale mi ha permesso di affrontare e approfondire lo studio storico della città nella sua evoluzione. Da questa analisi è emerso un caso molto particolare ed interessante, quello di Piazza Simoncelli, un vuoto urbano che si presenta come una vera e propria lacerazione del tessuto cittadino. La piazza infatti è stata sede fino al 1894 di uno dei quattro lotti del ghetto ebraico. Cambia quindi il ruolo del sito. Ma la mancata capacità aggregativa di questo vuoto, data anche dal fatto della mancanza di un edificio rappresentativo, ne muta il ruolo in parcheggio. E’ la storia di molti ghetti italiani inseriti in piani di risanamento che vedevano la presenza del costruito antecedente, come anomalia da sanare. E’ la storia del ghetto di Roma o di quello di Firenze, che sorgeva nel luogo dell’attuale Piazza della Repubblica. Tutti sventrati senza motivazioni diverse che non la fatiscenza dell’aggregato. A Senigallia il risultato è stato una vera e propria lacerazione del tessuto urbano, giungendo alla produzione di un vuoto oppositivo al resto della città, che ha portato la perdita della continuità spaziale, se non si vuole poi far riferimento a quella culturale. Il mio intervento quindi vede nel legame con la storia e con l’identità del luogo un punto fondamentale di partenza. Da queste basi ho cercato di sviluppare un progetto che ha come presupposto il forte legame con la memoria del luogo e con le architetture locali. Un progetto che possa rappresentare un polo culturale, un cuore pulsante dove poter sviluppare e approfondire le conoscenze fotografiche, dal quale poter entrare in contatto con tutti i principali centri dedicati alla fotografia e nel quale poter tenere sempre vivo il ricordo di uno dei più importanti artisti che la città ha avuto la fortuna di crescere.
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La mostra è diventata un nuovo paradigma della cultura contemporanea. Sostenuta da proprie regole e da una grammatica complessa produce storie e narrazioni. La presente ricerca di dottorato si struttura come un ragionamento critico sulle strategie del display contemporaneo, tentando di dimostrare, con strumenti investigativi eterogenei, assumendo fonti eclettiche e molteplici approcci disciplinari - dall'arte contemporanea, alla critica d'arte, la museologia, la sociologia, l'architettura e gli studi curatoriali - come il display sia un modello discorsivo di produzione culturale con cui il curatore si esprime. La storia delle esposizioni del XX secolo è piena di tentativi di cambiamento del rapporto tra lo sviluppo di pratiche artistiche e la sperimentazione di un nuovo concetto di mostra. Nei tardi anni Sessanta l’ingresso, nella scena dell’arte, dell’area del concettuale, demolisce, con un azzeramento radicale, tutte le convenzioni della rappresentazione artistica del dopoguerra, ‘teatralizzando’ il medium della mostra come strumento di potere e introducendo un nuovo “stile di presentazione” dei lavori, un display ‘dematerializzato” che rovescia le classiche relazioni tra opera, artista, spazio e istituzione, tra un curatore che sparisce (Siegelaub) e un curatore super-artista (Szeemann), nel superamento del concetto tradizionale di mostra stessa, in cui il lavoro del curatore, in quanto autore creativo, assumeva una propria autonomia strutturale all’interno del sistema dell’arte. Lo studio delle radici di questo cambiamento, ossia l’emergere di due tipi di autorialità: il curatore indipendente e l’artista che produce installazioni, tra il 1968 e il 1972 (le mostre di Siegelaub e Szeemann, la mimesi delle pratiche artistiche e curatoriali di Broodthaers e la tensione tra i due ruoli generata dalla Critica Istituzionale) permette di inquadrare teoricamente il fenomeno. Uno degli obbiettivi della ricerca è stato anche affrontare la letteratura critica attraverso una revisione/costruzione storiografica sul display e la storia delle teorie e pratiche curatoriali - formalizzata in modo non sistematico all'inizio degli anni Novanta, a partire da una rilettura retrospettiva della esperienze delle neoavanguardie – assumendo materiali e metodologie provenienti, come già dichiarato, da ambiti differenti, come richiedeva la composizione sfaccettata e non fissata dell’oggetto di studio, con un atteggiamento che si può definire comparato e post-disciplinare. Il primo capitolo affronta gli anni Sessanta, con la successione sistematica dei primi episodi sperimentali attraverso tre direzioni: l’emergere e l’affermarsi del curatore come autore, la proliferazione di mostre alternative che sovvertivano il formato tradizionale e le innovazioni prodotte dagli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale. Esponendo la smaterializzazione concettuale, Seth Siegelaub, gallerista, critico e impresario del concettuale, ha realizzato una serie di mostre innovative; Harald Szeemann crea la posizione indipendente di exhibition maker a partire When attitudes become forms fino al display anarchico di Documenta V; gli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale, soprattutto Marcel Broodhthears col suo Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles, analizzano la struttura della logica espositiva come opera d’arte. Nel secondo capitolo l’indagine si sposta verso la scena attivista e alternativa americana degli anni Ottanta: Martha Rosler, le pratiche community-based di Group Material, Border Art Workshop/Taller de Arte Fronterizo, Guerrilla Girls, ACT UP, Art Workers' Coalition che, con proposte diverse elaborano un nuovo modello educativo e/o partecipativo di mostra, che diventa anche terreno del confronto sociale. La mostra era uno svincolo cruciale tra l’arte e le opere rese accessibili al pubblico, in particolare le narrazioni, le idee, le storie attivate, attraverso un originale ragionamento sulle implicazioni sociali del ruolo del curatore che suggeriva punti di vista alternativi usando un forum istituzionale. Ogni modalità di display stabiliva relazioni nuove tra artisti, istituzioni e audience generando abitudini e rituali diversi per guardare la mostra. Il potere assegnato all’esposizione, creava contesti e situazioni da agire, che rovesciavano i metodi e i formati culturali tradizionali. Per Group Material, così come nelle reading-room di Martha Rosler, la mostra temporanea era un medium con cui si ‘postulavano’ le strutture di rappresentazione e i modelli sociali attraverso cui, regole, situazioni e luoghi erano spesso sovvertiti. Si propongono come artisti che stanno ridefinendo il ruolo della curatela (significativamente scartano la parola ‘curatori’ e si propongono come ‘organizzatori’). La situazione cambia nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. Oltre agli sconvolgimenti geopolitici, la fine della guerra fredda e dell’ideologia, l’apertura ai flussi e gli scambi conseguenti al crollo delle frontiere, i profondi e drammatici cambiamenti politici che coinvolgono l’Europa, corrispondono al parallelo mutamento degli scenari culturali e delle pratiche espositive. Nel terzo capitolo si parte dall’analisi del rapporto tra esposizioni e Late Capitalist Museum - secondo la definizione di Rosalind Krauss - con due mostre cruciali: Le Magiciens de la Terre, alle origini del dibattito postcoloniale e attraverso il soggetto ineffabile di un’esposizione: Les Immatériaux, entrambe al Pompidou. Proseguendo nell’analisi dell’ampio corpus di saggi, articoli, approfondimenti dedicati alle grandi manifestazioni internazionali, e allo studio dell’espansione globale delle Biennali, avviene un cambiamento cruciale a partire da Documenta X del 1997: l’inclusione di lavori di natura interdisciplinare e la persistente integrazione di elementi discorsivi (100 days/100 guests). Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi, quello che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. La sfida delle pratiche contemporanee è non essere più conformi alle tre unità classiche della modernità: unità di tempo, di spazio e di narrazione. L’episodio più emblematico viene quindi indagato nel terzo capitolo: la Documenta X di Catherine David, il cui merito maggiore è stato quello di dichiarare la mostra come format ormai insufficiente a rappresentare le nuove istanze contemporanee. Le quali avrebbero richiesto - altrimenti - una pluralità di modelli, di spazi e di tempi eterogenei per poter divenire un dispositivo culturale all’altezza dei tempi. La David decostruisce lo spazio museale come luogo esclusivo dell’estetico: dalla mostra laboratorio alla mostra come archivio, l’evento si svolge nel museo ma anche nella città, con sottili interventi di dissimulazione urbana, nel catalogo e nella piattaforma dei 100 giorni di dibattito. Il quarto capitolo affronta l’ultima declinazione di questa sperimentazione espositiva: il fenomeno della proliferazione delle Biennali nei processi di globalizzazione culturale. Dalla prima mostra postcoloniale, la Documenta 11 di Okwui Enwezor e il modello delle Platforms trans-disciplinari, al dissolvimento dei ruoli in uno scenario post-szeemanniano con gli esperimenti curatoriali su larga scala di Sogni e conflitti, alla 50° Biennale di Venezia. Sono analizzati diversi modelli espositivi (la mostra-arcipelago di Edouard Glissant; il display in crescita di Zone of Urgency come estetizzazione del disordine metropolitano; il format relazionale e performativo di Utopia Station; il modello del bric à brac; la “Scuola” di Manifesta 6). Alcune Biennali sono state sorprendentemente autoriflessive e hanno consentito un coinvolgimento più analitico con questa particolare forma espressiva. Qual è l'impatto sulla storia e il dibattito dei sistemi espositivi? Conclusioni: Cos’è la mostra oggi? Uno spazio sotto controllo, uno spazio del conflitto e del dissenso, un modello educativo e/o partecipativo? Una piattaforma, un dispositivo, un archivio? Uno spazio di negoziazione col mercato o uno spazio di riflessione e trasformazione? L’arte del display: ipotesi critiche, prospettive e sviluppi recenti.
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Il concetto di contaminazione fra architettura ed arti plastiche e figurative è molto antico. La dicotomia arte-architettura, sancita in via definitiva con il moderno museo di spoliazione napoleonica, non può che essere considerata una variazione neo-tecnicista sulla quale, non sempre giustamente, sono andati assestandosi gli insegnamenti delle scuole politecniche. Non così è sempre stato. Come il tempio greco può essere considerato un’opera plastica nel suo complesso, esempio tra i primi di fusione tra arte e architettura, moltissimi sono gli esempi che hanno guidato la direzione della ricerca che si è intesa perseguire. Molti sono gli esempi del passato che ci presentano figure di architetto-artista: un esempio fra tutti Michelangelo Buonarroti; come per altro non è nuovo, per l’artista puro, cimentarsi nella progettazione dello spazio architettonico o urbano, o per l'architetto essere coinvolto dalle indagini della ricerca artistica a lui contemporanea dalla quale trarre suggestioni culturali. Le rappresentazioni dei linguaggi visivi sono il frutto di contaminazioni che avvengono su diversi livelli e in più direzioni. Spesso le ricerche artistiche più significative hanno anticipato o influenzato il mondo del design, dell’architettura, della comunicazione. L’intenzione della ricerca è stata quindi approfondire, attraverso un viaggio nel Novecento, con particolare attenzione al Secondo Dopoguerra, i fenomeni culturali che hanno prodotto i più significativi sviluppi stilistici nell’ambito della ricerca e del rinnovo del linguaggio architettonico. Il compito, parafrasando Leonardo Benevolo, non è stato quello di elencare le singole battute della discussione ma di riconoscere gli interventi fruttuosi a lunga scadenza. Mutuando gli insegnamenti della scuola del Bauhaus, arte e architettura sono state affiancate perché considerate espressioni strettamente relazionate di coevi fenomeni culturali. L’obiettivo ha puntato all’individuazione dei meccanismi delle interazioni tra discipline, cercando di delineare il profilo della complessità dell’espressione del contemporaneo in architettura.
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La tesi si occupa del rapporto tra il Maestro di Ozieri e la produzione figurativa in Sardegna nella prima metà del Cinquecento. Studia l'uso delle incisioni. Valuta l'influenza della pittura romana e meridionale. Riflette sulla possibile identità straniera del pittore, sulla base delle molte somiglianze con artisti tedeschi e fiamminghi. Si occupa di comprendere quali possano essere considerate le opere autografe e quali quelle eseguite da seguaci e imitatori. Riformula alla luce dei confronti stilistici e delle ricerche in archivio la personalità dell'artista e la sua collocazione cronologica.
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Questa tesi prende in esame le convergenze culturali (tecniche e prassi attoriali) nelle metodologie pedagogiche del “secondo” Novecento teatrale. L’analisi riguarda il modo in cui le tecniche provenienti dai derivati della tradizione africana – in particolare le azioni, i gesti e gli atteggiamenti corporei usati nelle danze sacre del Candomblé – e lo studio degli organi espressivi del corpo permettono all’ artista della scena di acquisire conoscenze pragmatiche su determinati automatismi della sua struttura bio-psichica. L’esame di queste convergenze è fatto pertanto attraverso l’analisi di pratiche teatrali che ammettono le interconnessioni culturali, le “migrazioni” ed i “contagi” fra tecniche teatrali europee e modus operandi extraeuropei. Mediante l’analisi di queste pratiche pedagogiche transculturali si verifica che, gli elementi tecnico-espressivi “estranei” appartenenti ad altre culture possono essere efficaci in un tipo di metodologia “meticcia” solo quando questo modus operandi transculturale contempla la partecipazione collaborativa tra i soggetti coinvolti nel processo educativo.
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Obiettivo principale della ricerca è quello di aggiungere un tassello mancante, attraverso una nuova chiave di lettura, alla complessa attività artistico-teorica dell’artista futurista Enrico Prampolini (1894-1956). Questa tesi, oltre a riordinare e raccogliere tutto ciò che riguarda l’architettura e il rapporto di quest’ultima con le arti nell'opera di Prampolini, coglie l’occasione per puntualizzarne aspetti ancora poco esplorati, grazie anche all'analisi inedita dei documenti originali dell'artista conservati presso il CRDAV del Museo d’arte contemporanea di Roma. Partendo dall'analisi dei rapporti dell’artista modenese con le avanguardie straniere, la ricerca prosegue con la presa in esame dei manifesti, degli scritti e degli articoli noti e inediti legati alla teoria architettonica nella produzione dell’artista modenese. Il nucleo centrale della ricerca è costituito dagli elementi inediti emersi presso l’Archivio Prampolini consistenti in relazioni di progetti architettonici per un Piano urbanistico del Centro Alberghiero di Castel Fusano (1938) e per due alberghi nel centro di Roma (1938-1939). La seconda parte della ricerca si concentra sull'analisi del rapporto tra arte e architettura nel Futurismo e sul fondamentale contributo dato in tal senso da Prampolini, in particolare attraverso la “plastica murale”, come completamento dell’architettura futurista e fascista e la concezione dell’Arte Polimaterica. Nell'ultima parte della ricerca si affronta infine l'analisi del rapporto tra arte e architettura gestito in ambito istituzionale in Italia tra le due guerre, con l’emanazione, nel 1942, della legge detta “del 2%”. Aspetto finora inedito delle vicende legate alla “legge del 2%” è l'emergere del ruolo centrale di Prampolini nel contribuire al dibattito che portò alla sua approvazione, e non secondariamente nella ricerca di migliori condizioni economiche e maggiori occasioni di lavoro per gli artisti. La figura di Enrico Prampolini emerge dunque, da questa ricerca, come un nodo fondamentale per comprendere alcuni degli aspetti ancora inesplorati della cultura artistico-architettonica italiana degli anni Venti-Quaranta.
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La presente ricerca si occupa della figura di Marco Zoppo, pittore e artista poliedrico, nato a Cento, in Emilia, intorno al 1432. L'indagine si concentra soprattutto sugli esordi e la prima maturità di questo artista, che lo videro attivo in centri importanti come Bologna e Padova e Venezia.
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Questa breve tesi, incentrata sulla persona e sulle opere di Emilio Tadini, ha come scopo quello di mettere in evidenza e rivelare al pubblico contemporaneo un uomo dalle mille sfaccettature, spesso relegato al solo ambito della pittura, che può essere, invece, a pieno titolo definito come un artista poliedrico. Dopo un breve excursus volto a fornire qualche riferimento biografico, il contesto storico nel quale agisce, e la stretta relazione da lui instaurata tra la scrittura e la pittura, si esaminerà la sua traduzione di Re Lear di William Shakespeare, pubblicata da Einaudi. Il dramma verrà analizzato dapprima in una chiave di lettura alternativa che nasce dal considerarlo come una tragedia della parola, per poi scandagliarlo nei minimi particolari attraverso l’approfondimento delle varie tematiche – l’amore, la morte, la pazzia e la cecità. Un importante supporto è dato dalla traduzione di Agostino Lombardo per Garzanti, mezzo per uno studio comparato e contrastivo tra le due proposte di resa in italiano. In seguito, si illustreranno le scelte traduttive di Emilio Tadini, partendo dall’assunto di una parola volta a ridurre la Distanza, l’Alterità e di un traduttore-funambolo, costantemente sull’orlo di una doppia vertigine – il rimanere troppo fedeli e il discostarsi eccessivamente dal testo fonte. Prima di procedere a una rassegna dei punti salienti di alcuni suoi scritti, in particolare, de La tempesta, e de La deposizione, si confronteranno il Re Lear e La Tempesta shakespeariana, cercando di dimostrare come quest’ultimo prenda le mosse dagli avvenimenti del primo. Infine, si cercherà di concepire il Prospero di Tadini come una summa moderna tra i due personaggi principali delle opere in questione – Lear da un lato e Prospero dall’altro –, evidenziando l’importanza della voce e della figura del mediatore-guida, in grado di spaziare all’interno della distanza, servendosi di parole scelte sulla base delle proprie esperienze personali.
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Felicita Sartori, nata a Pordenone nel 1714 ca. come figlia del notaio Felice Sartori e di Tommasa Scotti, ricevette la sua prima formazione artistica intorno al 1724 da suo zio, il calcografo Antonio dall'Agata a Gorizia. Tramite lo zio la quattordicenne si trasferisce a Venezia dove entra nella bottega-casa di Rosalba Carriera per perfezionarsi nella miniatura e nella pittura a pastello senoché nelle varie tecniche della grafica. Durante gli anni seguenti Felicita diventa, accanto alle sorelle di Rosalba, la collaboratrice piú stretta della Carriera che in questi anni tocca il colmo della fama artistica, dovuto soprattutto al suo strepitoso successo riscosso durante il soggiorno a Parigi dal 1720 al 1721. I numerosissimi incarichi che le giungono da tutta l'Europa incrementano la produttivitá e lasciano supporre che la bottega abbia contribuito in misura notevole a contentare tali richieste. Negli anni dopo il 1730 l'attività di Felicita oltre le varie attività pittoriche entro la bottega della Carriera si estende alla produzione di incisioni per le pubblicazioni di Gaspare Stampa e di Jacques-Bénigne Bossuet. Incide inoltre le stampe dai disegni di Giovanni Battista Piazetta, pubblicati da Antonio Maria Zanetti. La finora anonima collaboratrice della famosa veneziana esce dall'ombra quando, nel 1741, viene nominata artista di corte da Augusto III, principe elettore di Sassonia e ré di Polonia. Trasferitosi a Dresda, si unisce poche settimane dopo la nomina in matrimonio al consigliere di corte Franz Joseph von Hoffmann, che probabilmente aveva concosciuto nel 1740 nello studio veneziano di Rosalba spesso frequentato dall'elettore e del suo seguito. Felicita continua la su attività a Dresda dove nella Gemäldegalerie Alte Meister si conservano tuttora 15 miniature di sua mano. Grazie alle ricerche dedicate a queste opere è stato possibile di aumentare l'œuvre della Sartori di altre opere tra cui una Betsabea al bagno (coll. priv. München) già nelle collezioni reali sassoni. Sembra che l'artista dopo la morte del marito nel 1749, si sia trasferito con un secondo marito a Bamberg ma altre fonti citano la sua presenza a Dresda nel 1753 dove secondo le notizie fornite da Jean Pierre Mariette muore nel 1760 all'età di soli 46 anni.
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«Oggi, la storia» è un programma radiofonico della Radiotelevisione svizzera RSI che «mira a dare, seppur nel breve formato, profondità storico-filosofica a tematiche legate all’attualità o alle ricorrenze del calendario.» Le illustrazioni di Erik Dettwiler sono tratte dalla serie fotografica «Whiter ain't possible!» nata nel corso degli anni in diverse metropoli europee tra Roma, Bucarest e Berlino, ma anche nella città sudafricana di Johannesburg. L'amicizia tra lo storico e l'artista, sfociata in numerose successive collaborazioni, è nata negli anni 2004/2005 durante il loro soggiorno quali membri dell'Istituto Svizzero di Roma.
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Una experiencia vivida y comentada por el propio Suspisiche -pintor del litoral santafecino- y la frecuentación de los textos saerianos abren la posibilidad de este trabajo que pretende un acercamiento al cruce de lenguajes entre las obras de ambos. Cada uno desde su propia estética genera un espacio que trasciende la referencialidad para convertirse en una poética, pero también en una verdadera cosmovisión. Las obras de Saer van develando su concepción de la literatura y del mundo, concepción según la cual la realidad es huidiza, imposible de aprehender. Esta certeza conduce su proceso de escritura. aporta sus tópicos recurrentes que no son más que la insistencia desesperada por comunicar las propias percepciones. De la pintura de Suspisiche, dijo el crítico Taverna Irigoyen: "es un paisaje que pareciera entregársele fácilmente, y cuando lo va a hacer suyo, a penetrarlo, se convierte en un espejismo inatrapable". ¿Cómo resuelven ambos. en la superficie textual. esa desconfianza en la posibilidad de instaurar sus universos? Por el camino del lenguaje, por la experimentación con que pueden transformar, superponer, reiterar, hasta crear un significado. Nuestro trabajo trata de demostrar cómo ambos evolucionan hacia la esencialidad que se logra por la progresiva supresión de lo accesorio, el abandono del pintoresquismo y una praxis que exige técnicas cada vez más rigurosas. Para el/o ese analiza el proceso de productividad de esos espacios que envuelven el trayecto vital del hombre y son uno con él, no por afinidades psicologistas. a la manera romántica, sino fatalmente, por impregnación. por simbiosis, por acoplamiento. No es el hombre el que se apropia del paisaje. es el espacio el que lo contiene. y permite al artista. desde adentro. una mirada que no es sólo recreación estética. sino ideología. en el sentido de visión del mundo.
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A partir de los cuentos “Artista de variedades", “La fábrica" y “Una partida de tenis" de Daniel Moyano, proponemos un análisis de las distintas “miradas" de la ciudad desde la perspectiva del migrante del interior. En la construcción textual del espacio urbano, surgida, sobre todo, a partir del uso del estilo indirecto libre, se pone en juego, también, la percepción de los personajes sobre sí mismos en ese nuevo espacio. Éstos, en un movimiento pendular, se interrogan sobre su propia identidad, que construyen y reconstruyen permanentemente a través del abandono de viejas imágenes de identificación relacionadas con el pueblo de origen y la incorporación de modelos nuevos propuestos por la ciudad.
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En el año 1979, Abelardo Arias publica su segunda novela de base histórica titulada Inconfidencia (El Aleijadinho), la cual recrea el Brasil imperial de fines del siglo XVIII, ámbito que dio a luz a ese extraño genio de la plástica que fue el mestizo Antonio Francisco de Lisboa, "el Aleijadihno ". Arias elude la facilidad de la biografia novelada y logra acercarse al escultor leproso desde su propia tensión de artista. Comprende, por ello, su tortuosa vida de marginado y hombre desengañado del amor, que vuelca su existencia a la creación estética. La relación que el Aleijadihno tiene con su obra, oscilante entre la exaltación religiosa y la pasión amorosa, nos lleva a estudiar en profundidad las líneas de tensión en torno de la correspondencia entre arte mayor y religiosidad. Como señala Abel Posse al respecto: "El gran artista (el Aleijadihno) tiende a fundar su obra alrededor de un weltanschaung o cosmovisión total y esta ambición lo acerca al mundo religioso y a la especulación metafisica ". La obra, por lo tanto, desarrolla una silenciosa agonia existencial y religiosa, el combate callado de un "alejado ", de un condenado a muerte.
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Regiones y Departamentos. Relatos de nuestra identidad es una serie que aborda las características turísticas, culturales e históricas de la provincia de Mendoza. En los 14 programas se han destacado y revalorizado las particularidades de cada uno de los departamentos de esta provincia argentina que se dividen en distintas regiones: Valle de Uco, Gran Mendoza, Zona Sur, Zona Este y Zona Nordeste VALLE DE UCO, es un documental que nos invita a recorrer la historia de San Carlos, un departamento que se consolidó a principios del siglo XIX con la llegada de los inmigrantes y el trabajo de los indígenas que habitaban la región. El bloque 2 presenta las características culturales y sociales de Tunuyán. Se destacan en este bloque las grandes figuras del departamento, Jorge Viñas (intérprete), Nicolino Locche y el artista plástico Carlos Alonso. Llegando al final del recorrido conocemos la cultura y los tipos de turismo que ofrece el departamento de Tupungato para concluir con un pequeño bloque dedicado a la escuela rural José C. Palma.
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Regiones y Departamentos. Relatos de nuestra identidad es una serie que aborda las características turísticas, culturales e históricas de la provincia de Mendoza. En los 14 programas se han destacado y revalorizado las particularidades de cada uno de los departamentos de esta provincia argentina que se dividen en distintas regiones: Valle de Uco, Gran Mendoza, Zona Sur, Zona Este y Zona Nordeste GRAN MENDOZA II es un documental que profundiza sobre las características más relevantes de los departamentos de Capital, Guaymallén y Maipú. En el bloque 1 repasamos la historia de Guaymallén, departamento que fue ocupado primeramente por los Huarpes y por los españoles. Para éste departamento fue la llegada del ferrocarril lo que lo convirtió en la vinculación con Chile. En este bloque se resaltan también algunas figuras destacadas como el canta-autor Armando Tejada Gómez, artista reconociedo a nivel internacional. El bloque 2 desarrolla los aspectos ligados a la economía de Maipú que se sustenta básicamente de la vitivinicultura, convirtiéndose en el templo del vino. También se destaca la trayectoria del Deportivo Maipú y de los artistas Antonio Sareli y Antonio Tormo. Finalmente el bloque 3 muestra la variada oferta turística con la que cuenta la ciudad de Mendoza.