298 resultados para 550 Scienze della Terra


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La farmacogenetica fornisce un importante strumento utile alla prescrizione farmacologica, migliorando l’efficacia terapeutica ed evitando le reazioni avverse. Il citocromo P450 gioca un ruolo centrale nel metabolismo di molti farmaci utilizzati nella pratica clinica e il suo polimorfismo genetico spiega in gran parte le differenze interindividuali nella risposta ai farmaci. Con riferimento alla terapia della narcolessia, occorre premettere che la narcolessia con cataplessia è una ipersonnia del Sistema Nervoso Centrale caratterizzata da eccessiva sonnolenza diurna, cataplessia, paralisi del sonno, allucinazioni e sonno notturno disturbato. Il trattamento d’elezione per la narcolessia include stimolanti dopaminergici per la sonnolenza diurna e antidepressivi per la cataplessia, metabolizzati dal sistema P450. Peraltro, poiché studi recenti hanno attestato un’alta prevalenza di disturbi alimentari nei pazienti affetti da narcolessia con cataplessia, è stata ipotizzata una associazione tra il metabolismo ultrarapido del CYP2D6 e i disturbi alimentari. Lo scopo di questa ricerca è di caratterizzare il polimorfismo dei geni CYP2D6, CYP2C9, CYP2C19, CYP3A4, CYP3A5 e ABCB1 coinvolti nel metabolismo e nel trasporto dei farmaci in un campione di 108 pazienti affetti da narcolessia con cataplessia, e valutare il fenotipo metabolizzatore in un sottogruppo di pazienti che mostrano un profilo psicopatologico concordante con la presenza di disturbi alimentari. I risultati hanno mostrato che il fenotipo ultrarapido del CYP2D6 non correla in maniera statisticamente significativa con i disturbi alimentari, di conseguenza il profilo psicopatologico rilevato per questo sottogruppo di pazienti potrebbe essere parte integrante del fenotipo sintomatologico della malattia. I risultati della tipizzazione di tutti i geni analizzati mostrano un’alta frequenza di pazienti con metabolismo intermedio, elemento potenzialmente in grado di influire sulla risposta terapeutica soprattutto in caso di regime politerapico, come nel trattamento della narcolessia. In conclusione, sarebbe auspicabile l’esecuzione del test farmacogenetico in pazienti affetti da narcolessia con cataplessia.

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Obiettivo: Valutare il ruolo brainstem-vermis angle (BV angle) a 16-18 settimane per la diagnosi precoce delle anomalie cistiche della fossa cranica posteriore. Metodi: Uno studio prospettico, multicentrico, osservazionale. Volumi ecografici tridimensionali della testa fetale sono stati acquisiti in feti a 16-18 settimane. Tre operatori di simile esperienza hanno misurato il BV angle nel piano sagittale come precedentemente descritto1,2 e hanno annotato se il quarto ventricolo era aperto sul piano assiale. Un follow-up dettagliato è stato ottenuto in tutti i casi. Risultati: Tra novembre 2009 e marzo 2011, 150 volumi sono stati acquisiti ad un’epoca gestazionale media di 16 settimane. A causa di una scarsa qualità delle immaginai, 49 volumi sono stati esclusi, con una popolazione finale di 101 casi. Di questi, 6 hanno ricevuto successivamente una diagnosi di malformazione di Dandy-Walker (DWM) e 2 di cisti della tasca di Blake (BPC), gli altri erano normali. In tutti i feti con anomalie cistiche della fossa cranica posteriore, il BV angle è risultato significativamente più ampio rispetto ai controlli (57.3+23.0° vs 9.4+7.7°, U-Mann Whitney test p<0.000005). Nel 90.3% dei feti normali, il BV angle era <20° e il quarto ventricolo era chiuso sul piano assiale. In 9 feti normali e nei casi con BPC, l’angolo era >20° ma <45° (25.8+5.6°) e il quarto ventricolo era aperto posteriormente sul piano assiale, ma solo utilizzando una scansione non convenzionale. In tutti i feti con DWM, il BV angle era >45° (67.9+13.9°) e il quarto ventricolo era aperto anche sul piano assiale standard. Conclusioni: Fino ad ora la diagnosi di anomalie cistiche della fossa cranica posteriore è stata consideratea difficile o impossibile prima di 20 settimane, a causa del presunto sviluppo tardivo del verme cerebellare. La nostra esperienza suggerisce che la misurazione del BV angle consente un’identificazione precisa di queste condizioni già a 16 settimane.

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Introduzione: la leishmaniosi canina (CanL) è una malattia infettiva, trasmessa da vettore e sostenuta da un protozoo, la Leishmania infantum. La CanL ha assunto sempre più importanza sia in medicina veterinaria che in medicina umana. La leishmaniosi è fortemente associata allo sviluppo di una nefropatia cronica. Disegno dello studio: studio di coorte retrospettivo. Obiettivo: individuare le alterazioni clinico-patologiche prevalenti al momento dell’ammissione e durante il follow-up del paziente, per identificare quelle con un valore prognostico maggiore. Materiali e metodi: 167 cani, per un totale di 187 casi trattati, con diagnosi sierologica e/o citologica di Leishmaniosi e dati ematobiochimici completi, elettroforesi sierica, analisi delle urine e biochimica urinaria comprensiva di proteinuria (UPC) ed albuminuria (UAC), profilo coagulativo (ATIII, d-Dimeri, Fibrinogeno) e marker d’infiammazione (CRP). Dei pazienti inclusi è stato seguito il follow-up clinico e clinicopatologico per un periodo di tempo di due anni e sono stati considerati. Risultati: Le alterazione clinicopatologiche principali sono state anemia (41%), iperprotidemia (42%), iperglobulinemia (75%), ipoalbuminemia (66%), aumento della CRP (57%), incremento dell’UAC (78%), aumento dell’UPC (70%), peso specifico inadeguato (54%) e riduzione dell’ATIII (52%). Il 37% dei pazienti non era proteinurico e di questi il 27% aveva già un’albuminuria patologica. Il 38% dei pazienti aveva una proteinuria nefrosica (UPC>2,5) e il 22% era iperazotemico. I parametri clinicopatologici hanno mostrato una tendenza a rientrare nella normalità dopo il 90° giorno di follow-up. La creatinina sierica, tramite un analisi multivariata, è risultata essere il parametro correlato maggiormente con l’outcome del paziente. Conclusione: i risultati ottenuti in funzione dell’outcome dei pazienti hanno mostrato che i soggetti deceduti durante il follow-up, al momento dell’ammissione avevano valori di creatinina, UPC e UAC più elevati e ingravescenti. Inoltre l’UAC può venire considerato un marker precoce di nefropatia e la presenza di iperazotemia all’ammissione, in questi pazienti, ha un valore prognostico negativo.

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Il dolore non è solo una conseguenza della malattia ma un fattore patogeno che è di per se stesso in grado di perpetuare il danno all’organismo. Il suo trattamento non è quindi solo un atto di umanità ma un contributo ad arrestare la malattia e restituire la salute al paziente. Tra i farmaci più popolari per la terapia del dolore negli animali da affezione si trova la buprenorfina. Questa molecola viene impiegata con successo da anni nel cane e nel gatto per motivi riconducibili, oltre che alla sua efficacia (la sua potenza è diverse volte quella della morfina), alla lunga durata d’azione e alla scarsità degli effetti collaterali. Nonostante l’ampia diffusione e longevità del suo utilizzo, però, sappiamo poco della farmacocinetica di questa molecola negli animali da affezione; i dosaggi clinicamente impiegati sono di fatto estrapolati dagli studi nell’uomo oppure basati su semplici osservazioni degli effetti; i pochi dati farmacocinetici ottenuti nel cane fanno riferimento a singoli boli di dosi che non sempre corrispondono a quelle clinicamente impiegate. Nonostante la buprenorfina trovi il suo principale impiego nelle somministrazioni protratte a lungo (durante il periodo post-operatorio o la degenza ospedaliera) non è mai stato indagato il profilo farmacocinetico della molecola somministrata a boli ripetuti o come infusione continua. Il nostro studio si pone come obiettivo di indagare la farmacocinetica della buprenorfina somministrata come bolo di carico seguito da un’infusione costante a dosaggi considerati clinici in cani sani nel periodo post operatorio. Lo scopo ultimo è quello di sviluppare un protocollo per la somministrazione di questa molecola in modo prolungato in pazienti degenti ed addolorati per poi, in futuro, confrontare la somministrazione come infusione continua con i tradizionali boli ripetuti. Per lo studio sono state utilizzate giovani cagne adulte di taglia media o grande sottoposte ad intervento di ovariectomia.

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L’obiettivo della tesi è studiare il virus HIV-1 in relazione alle alterazioni sistemiche, riscontrate nel paziente HIV-infetto, in particolare alterazioni a carico del sistema scheletrico, indotte dal virus o dall’azione dei farmaci utilizzati nella terapia antiretrovirale (HAART). L’incidenza dell’osteoporosi nei pazienti HIV-positivi è drammaticamente elevata rispetto alla popolazione sana. Studi clinici hanno evidenziato come alcuni farmaci, ad esempio inibitori della proteasi virale, portino alla compromissione dell’omeostasi ossea, con aumento del rischio fratturativo. Il nostro studio prevede un follow-up di 12 mesi dall’inizio della HAART in una coorte di pazienti naïve, monitorando diversi markers ossei. I risultati ottenuti mostrano un incremento dei markers metabolici del turnover osseo, confermando l’impatto della HAART sull’omeostasi ossea. Successivamente abbiamo focalizzato la nostra attenzione sugli osteoblasti, il citotipo che regola la sintesi di nuova matrice ossea. Gli esperimenti condotti sulla linea HOBIT mettono in evidenza come il trattamento, in particolare con inibitori della proteasi, porti ad apoptosi nel caso in cui vi sia una concentrazione di farmaco maggiore di quella fisiologica. Tuttavia, anche concentrazioni fisiologiche di farmaci possono regolare negativamente alcuni marker ossei, come ALP e osteocalcina. Infine esiste la problematica dell’eradicazione di HIV-1 dai reservoirs virali. La HAART riesce a controllare i livelli viremici, ciononostante diversi studi propongono alcuni citotipi come potenziali reservoir di infezione, vanificando l’effetto della terapia. Abbiamo, perciò, sviluppato un nuovo approccio molecolare all’eradicazione: sfruttare l’enzima virale integrasi per riconoscere in modo selettivo le sequenze LTR virali per colpire il virus integrato. Fondendo integrasi e l’endonucleasi FokI, abbiamo generato diversi cloni. Questi sono stati transfettati stabilmente in cellule Jurkat, suscettibili all’infezione. Una volta infettate, abbiamo ottenuto una significativa riduzione dei markers di infezione. Successivamente la transfezione nella linea linfoblastica 8E5/LAV, che porta integrata nel genoma una copia di HIV, ha dato risultati molto incoraggianti, come la forte riduzione del DNA virale integrato.

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Obiettivo della tesi è stato quello di studiare il ruolo svolto dall’ipotalamo laterale (LH) nella regolazione dei processi di integrazione dell’attività autonomica e termoregolatoria con quella degli stati di veglia e sonno. A questo scopo, l’attività dell’LH è stata inibita per 6 ore (Esperimento A) mediante microiniezioni locali dell’agonista GABAA muscimolo nel ratto libero di muoversi, nel quale sono stati monitorati in continuo l’elelttroencefalogramma, l’elettromiogramma nucale, la pressione arteriosa (PA) e la temperatura ipotalamica (Thy) e cutanea. Gli animali sono stati studiati a temperatura ambientale (Ta) di 24°C e 10°C. I risultati hanno mostrato che l’inibizione acuta dell’LH riduce l’attività di veglia e sopprime la comparsa del sonno REM. Ciò avviene attraverso l’induzione di uno stato di sonno NREM caratterizzato da ipersincronizzazione corticale, con scomparsa degli stati transizionali al sonno REM. Quando l’animale è esposto a bassa Ta, tali alterazioni si associano a un ampio calo della Thy, che viene compensato da meccanismi vicarianti solo dopo un paio d’ore dall’iniezione. Sulla base di tali risultati, si è proceduto ad un ulteriore studio (Esperimento B) volto ad indagare il ruolo del neuropeptide ipocretina (prodotto in modo esclusivo a livello dell’LH) nei processi termoregolatori, mediante microiniezioni del medesimo nel bulbo rostrale ventromediale (RVMM), stazione cruciale della rete nervosa preposta all’attivazione dei processi termogenetici. La somministrazione di ipocretina è stata in grado di attivare la termogenesi e di potenziare la comparsa della veglia, con concomitante lieve incremento della PA e della frequenza cardiaca, quando effettuata alle Ta di 24°C o di 10°C, ma non alla Ta di 32°C. In conclusione, i risultati indicano che l’LH svolge un ruolo cruciale nella promozione degli stati di veglia e di sonno REM e, per tramite dell’ipocretina, interviene in modo coplesso a livello del RVMM nella regolazione dei processi di coordinamento dell'attività di veglia con quella termoregolatoria.

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E' stato sviluppato un algoritmo predittivo del rischio di consolidazione ossea (ARRCO – Algoritmo Rischio Ritardo Consolidazione Ossea - IGEA, Carpi, Italy) che combina diversi fattori correlati al rischio di ritardata o mancata guarigione di una frattura. Questo algoritmo ha permesso di idntificare una popolazione di pazienti affetti da fratture con aumentato rischio di ritardo di consolidazione o mancata guarigione. Questi pazienti sono stati sottoposti precocemente a stimolazione biofisica precoce mediante Campi Elettromagnetici Pulsati a bassa frequenza (CEMP), ottenendo la guarigione della frattura nella maggior parte dei casi e in tempi considerati fisiologici. Pertanto in un gruppo selezionato di pazienti, il trattamento può essere indirizzato all'applicazione precoce di CEMP, al fine di promuovere la consolidazione ossea di una frattura "a richio", il cui trattamento richiederebbe altrimenti tempi più prolungati e un costo virtuale maggiore dell'intero trattamento sanitario.

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Introduzione: L'analgesia epidurale è stata messa in correlazione con l'aumento della durata del secondo stadio del travaglio e del tasso di utilizzo della ventosa ostetrica. Diversi meccanismi sono stati ipotizzati, tra cui la riduzione di percezione della discesa fetale, della forza di spinta e dei riflessi che promuovono la progressione e rotazione della testa fetale nel canale del parto. Tali parametri sono solitamente valutati mediante esame clinico digitale, costantemente riportato essere poco accurato e riproducibile. Su queste basi l'uso dell'ecografia in travaglio, con introduzione di diversi parametri ecografici di valutazione della discesa della testa fetale, sono stati proposti per supportare la diagnosi clinica nel secondo stadio del travaglio. Scopi dello studio: studiare effetto dell’analgesia epidurale sulla progressione della testa fetale durante il II stadio del travaglio valutata mediante ecografia intrapartum. Materiali e metodi: una serie di pazienti nullipare a basso rischio a termine (37+0-42+0) sono state reclutate in modo prospettico nella sala parto del nostro Policlinico Universitario. In ciascuna di esse abbiamo acquisito un volume ecografico ogni 20 minuti dall’inizio della fase attiva del secondo stadio fino al parto ed una serie di parametri ecografici sono stati ricavati in un secondo tempo (angolo di progressione, distanza di progressione distanza testa sinfisi pubica e midline angle). Tutti questi parametri sono stati confrontati ad ogni intervallo di tempo nei due gruppi. Risultati: 71 pazienti totali, di cui 41 (57.7%) con analgesia epidurale. In 58 (81.7%) casi il parto è stato spontaneo, mentre in 8 (11.3%) e 5 (7.0%) casi rispettivamente si è ricorsi a ventosa ostetrica o taglio cesareo. I valori di tutti i parametri ecografici misurati sono risultati sovrapponibili nei due gruppi in tutti gli intervalli di misurazione. Conclusioni: la progressione della testa fetale valutata longitudinalmente mediante ecografia 3D non sembra differire significativamente nelle pazienti con o senza analgesia epidurale.

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L’obiettivo del lavoro consiste nell’implementare una metodologia operativa volta alla progettazione di reti di monitoraggio e di campagne di misura della qualità dell’aria con l’utilizzo del laboratorio mobile, ottimizzando le posizioni dei dispositivi di campionamento rispetto a differenti obiettivi e criteri di scelta. La revisione e l’analisi degli approcci e delle indicazioni fornite dalla normativa di riferimento e dai diversi autori di lavori scientifici ha permesso di proporre un approccio metodologico costituito da due fasi operative principali, che è stato applicato ad un caso studio rappresentato dal territorio della provincia di Ravenna. La metodologia implementata prevede l’integrazione di numerosi strumenti di supporto alla valutazione dello stato di qualità dell’aria e degli effetti che gli inquinanti atmosferici possono generare su specifici recettori sensibili (popolazione residente, vegetazione, beni materiali). In particolare, la metodologia integra approcci di disaggregazione degli inventari delle emissioni attraverso l’utilizzo di variabili proxy, strumenti modellistici per la simulazione della dispersione degli inquinanti in atmosfera ed algoritmi di allocazione degli strumenti di monitoraggio attraverso la massimizzazione (o minimizzazione) di specifiche funzioni obiettivo. La procedura di allocazione sviluppata è stata automatizzata attraverso lo sviluppo di un software che, mediante un’interfaccia grafica di interrogazione, consente di identificare delle aree ottimali per realizzare le diverse campagne di monitoraggio

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OBIETTIVI: Per esplorare il contributo dei fattori di rischio biomeccanico, ripetitività (hand activity level – HAL) e forza manuale (peak force - PF), nell’insorgenza della sindrome del tunnel carpale (STC), abbiamo studiato un’ampia coorte di lavoratori dell’industria, utilizzando come riferimento il valore limite di soglia (TLV©) dell’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH). METODI: La coorte è stata osservata dal 2000 al 2011. Abbiamo classificato l’esposizione professionale rispetto al limite di azione (AL) e al TLV dell’ACGIH in: “accettabile” (sotto AL), “intermedia” (tra AL e TLV) e “inaccettabile” (sopra TLV). Abbiamo considerato due definizioni di caso: 1) sintomi di STC; 2) sintomi e positività allo studio di conduzione nervosa (SCN). Abbiamo applicato modelli di regressione di Poisson aggiustati per sesso, età, indice di massa corporea e presenza di patologie predisponenti la malattia. RISULTATI: Nell’intera coorte (1710 lavoratori) abbiamo trovato un tasso di incidenza (IR) di sintomi di STC di 4.1 per 100 anni-persona; un IR di STC confermata dallo SCN di 1.3 per 100 anni-persona. Gli esposti “sopra TLV” presentano un rischio di sviluppare sintomi di STC di 1.76 rispetto agli esposti “sotto AL”. Un andamento simile è emerso per la seconda definizione di caso [incidence rate ratios (IRR) “sopra TLV”, 1.37 (intervallo di confidenza al 95% (IC95%) 0.84–2.23)]. Gli esposti a “carico intermedio” risultano a maggior rischio per la STC [IRR per i sintomi, 3.31 (IC95% 2.39–4.59); IRR per sintomi e SCN positivo, 2.56 (IC95% 1.47–4.43)]. Abbiamo osservato una maggior forza di associazione tra HAL e la STC. CONCLUSIONI: Abbiamo trovato un aumento di rischio di sviluppare la STC all’aumentare del carico biomeccanico: l’aumento di rischio osservato già per gli esposti a “carico intermedio” suggerisce che gli attuali valori limite potrebbero non essere sufficientemente protettivi per alcuni lavoratori. Interventi di prevenzione vanno orientati verso attività manuali ripetitive.

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OBIETTIVO: sintetizzare le evidenze disponibili sulla relazione tra i fattori di rischio (personali e lavorativi) e l’insorgenza della Sindrome del Tunnel Carpale (STC). METODI: è stata condotta una revisione sistematica della letteratura su database elettronici considerando gli studi caso-controllo e di coorte. Abbiamo valutato la qualità del reporting degli studi con la checklist STROBE. Le stime studio-specifiche sono state espresse come OR (IC95%) e combinate con una meta-analisi condotta con un modello a effetti casuali. La presenza di eventuali bias di pubblicazione è stata valutata osservando l’asimmetria del funnel plot e con il test di Egger. RISULTATI: Sono stati selezionati 29 studi di cui 19 inseriti nella meta-analisi: 13 studi caso-controllo e 6 di coorte. La meta-analisi ha mostrato un aumento significativo di casi di STC tra i soggetti obesi sia negli studi caso-controllo [OR 2,4 (1,9-3,1); I(2)=70,7%] che in quelli di coorte [OR 2,0 (1,6-2,7); I(2)=0%]. L'eterogeneità totale era significativa (I(2)=59,6%). Risultati simili si sono ottenuti per i diabetici e soggetti affetti da malattie della tiroide. L’esposizione al fumo non era associata alla STC sia negli studi caso-controllo [OR 0,7 (0,4-1,1); I(2)=83,2%] che di coorte [OR 0,8 (0,6-1,2); I(2)=45,8%]. A causa delle molteplici modalità di valutazione non è stato possibile calcolare una stima combinata delle esposizioni professionali con tecniche meta-analitiche. Dalla revisione, è risultato che STC è associata con: esposizione a vibrazioni, movimenti ripetitivi e posture incongrue di mano-polso. CONCLUSIONI: I risultati della revisione sistematica confermano le evidenze dell'esistenza di un'associazione tra fattori di rischio personali e STC. Nonostante la diversa qualità dei dati sull'esposizione e le differenze degli effetti dei disegni di studio, i nostri risultati indicano elementi di prova sufficienti di un legame tra fattori di rischio professionali e STC. La misurazione dell'esposizione soprattutto per i fattori di rischio professionali, è un obiettivo necessario per studi futuri.

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Le alterazioni della funzionalità mitocondriale detengono un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia di Alzheimer (AD), sostenendo il processo neurodegenerativo attraverso meccanismi quali la riduzione della disponibilità energetica e la iperproduzione di ROS. Alle numerose ipotesi di patogenesi dell’AD, si è recentemente affiancata la cosiddetta ipotesi vascolare. Nei soggetti AD è stata riscontrata una significativa riduzione della disponibilità di ossigeno a livello neuronale (ipossia neuronale). Da numerosi studi è poi emerso che l’ipossia gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’AD contribuendo a più vie patogenetiche contemporaneamente. Tuttavia, non sono stati ancora chiariti tutti i meccanismi attraverso cui l’ipossia esplica la sua azione di danno. Lo scopo di questo studio è stato quello di contribuire a chiarire il ruolo patologico dell’ipossia nell’AD, analizzando principalmente le alterazioni della funzionalità mitocondriale indotte dalla riduzione della disponibilità di ossigeno. Nella prima fase dello studio cellule PC12 sono state coltivate in presenza di β-amiloide e ipossia. In questo modello abbiamo osservato un potenziamento dei fenomeni di deplezione dell’ATP e di generazione delle ROS indotti dalla Aβ quando anche l’ipossia era presente come fonte di danno cellulare, ipotizzando per i due fattori un effetto congiunto di tipo additivo. Nella seconda fase abbiamo esposto all’ipossia fibroblasti prelevati da pazienti AD portatori di mutazioni a carico dei geni APP e PSEN. La presenza di mutazioni predisponenti ad un fenotipo AD era in grado di determinare un danno bioenergetico e ossidativo. Le alterazioni bioenergetiche riscontrate in normossia risultavano ulteriormente potenziate quando i fibroblasti erano coltivati in ipossia, mentre lo stato di stress ossidativo veniva evidenziato solo in condizioni ipossiche. Sulla base dei risultati finora conseguiti si può ipotizzare che uno dei meccanismi attraverso cui l’ipossia esplica la sua azione di danno nella AD, possa essere dovuto alla capacità di potenziare ulteriormente le alterazioni della funzionalità mitocondriale.

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Obiettivi. Valutare l’angiogenesi tumorale mediante la Microvessel density (MVD) come fattore predittivo di mortalità per tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC) pT1aN0M0 trattato chirurgicamente. Metodi. I dati demografici, clinici e istopatologici sono stati registrati per 82 pazienti (60 maschi, 22 femmine) sottoposti a resezione chirurgica in due diverse Chirurgie Toraciche tra gennaio 2002 e dicembre 2007 per tumori polmonari non a piccole cellule pT1AN0M0. La MVD è stata valutata mediante il conteggio visivo dei microvasi positivi alla colorazione immunoistochimica con anticorpo monoclonale anti-CD31 e definita come il numero medio di microvasi per 1 mm2 di campo ottico. Risultati. Sono state eseguite 59 lobectomie (72%) e 23 resezioni sublobari (28%). Reperti istopatologici: 43 adenocarcinomi (52%) e 39 neoplasie non- adenocarcinoma (48%) pT1aN0M0; MVD media: 161 (CD31/mm2); mediana: 148; range 50-365, cut-off=150. Una MVD elevata (> 150 CD31/mm2) è stata osservata in 40 pazienti (49%), una MVD ridotta ( ≤ 150 CD31/mm2 ) in 42 pazienti (51%). Sopravvivenze a 5 anni: 70 % e 95%, rispettivamente per il gruppo ad elevata MVD vs il gruppo a ridotta MVD con una p = 0,0041, statisticamente significativa. Il tipo di resezione chirurgica, il diametro del tumore, le principali comorbidità e l’istotipo nono sono stati fattori predittivi significativi di mortalità correlata alla malattia. La MVD è risultata essere superiore nel gruppo “Adenocarcinoma” (MVD mediana=180) rispetto al gruppo “Non-Adenocarcinoma (MVD mediana=125), con un test di Mann-Whitney statisticamente significativo (p < 0,0001). Nel gruppo “Adenocarcinoma” la sopravvivenza a 5 anni è stata del 66% e 93 %, rispettivamente per i pazienti con MVD elevata e ridotta (p = 0.043. Conclusioni. Il nostro studio ha mostrato che la Microvessel density valutata con la colorazione immunoistochimica per CD31 ha un valore prognostico rilevante nel carcinoma polmonare in stadio precoce pT1aN0M0.

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Il lavoro di tesi nasce con l'intento di realizzare un'analisi unitaria della tematica dei ragazzi selvaggi al fine di evidenziare il valore e le ripercussioni di quanto oggigiorno può emergere dal portare avanti lo studio dei ragazzi selvaggi da una prospettiva pedagogico-educativa. L’espressione ragazzo selvaggio viene tradizionalmente usata per riferirsi a quei bambini/e cresciuti per un lungo periodo in compagnia di animali o in luoghi isolati. Nel corso del tempo altre accezioni sono comparse e l’utilizzo di tale espressione ha assunto significati diversi in base ai contesti di riferimento e alle eventuali connessioni con la tematica del selvaggio in generale. Questa tematica si colloca al crocevia tra più aree di ricerca; gli incroci sono come territori di confine, luoghi in cui è facile smarrirsi, ma sono anche luoghi di incontro, di confronto, di scambio, luoghi che conducono a nuova conoscenza. Affrontare, come in questo caso, un argomento di ricerca ricco di aspetti analizzabili da più punti di vista, implica la necessità di riferirsi a più prospettive d'indagine e di rapportarsi con differenti ambiti di studio. Ciò non deve però tradursi in un’inclusione indistinta e giustapponente delle diverse letture del fenomeno e degli elementi connessi alla ricerca. Il presente lavoro cerca pertanto di adottare un orientamento olistico alla tematica dei ragazzi selvaggi avvalendosi di uno sguardo di matrice pedagogico-educativa. L’obiettivo generale della ricerca si articola in tre sotto-obiettivi, identificabili nello specifico come: - realizzare un’analisi del fenomeno dei ragazzi selvaggi che metta in luce gli apporti della tematica all’evoluzione della storia della pedagogia; - far emergere ed evidenziare le connessioni della tematica a problematiche educative attualmente rilevanti ed oggetto del dibattito pedagogico contemporaneo; - analizzare i punti di contatto tra le ricerche sui feral children e le evidenze emerse dagli studi in campo neuroscientifico.

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La Fondazione ANT rappresenta una delle più ampie esperienze al mondo di assistenza socio-sanitaria gratuita a domicilio ai malati di tumore, tramite équipe di specialisti costituite da medici, psicologi e infermieri. La patologia oncologica ha un enorme impatto sul benessere dei pazienti. Un modo per raggruppare i diversi sintomi di disagio psicologico è utilizzare il concetto di distress, che sarebbe importante monitorare in modo semplice e veloce. Primo studio: 66 pazienti oncologici (40% uomini; età media 54 anni) in cure palliative domiciliari. Il 79% dei pazienti ha mostrato livelli clinicamente significativi di distress. Il 55% dei partecipanti allo studio ha riportato alti livelli di ansia, e l'81% dei pazienti ha riportato alti livelli di depressione. Dall'analisi delle curve ROC il singolo item del Distress Thermometer, con un cut-off maggiore o uguale a 4, è stato in grado di rilevare il 97% dei soggetti con punteggi clinici di ansia e depressione, quindi può essere utilizzato anche come uno strumento di screening precoce rapido ed affidabile per i disturbi dell'umore. I familiari sono la prima risorsa dei malati di tumore, e l'identificazione dei loro bisogni è utile per individuare chi ha maggiore necessità di aiuto ed in quali aree. Secondo studio: 115 caregiver di pazienti oncologici (37% uomini; età media 52 anni). Di seguito i bisogni più frequenti. Salute psicofisica: “preoccupazioni circa il/la paziente” (72%), ansia (53%) e rabbia (52%). Informazioni: “come prendersi cura del paziente” (64%), “terapie alternative e/o complementari” (64%) e “come gestire lo stress” (57%). Servizi e strutture sanitarie: “un operatore di riferimento”, (65%), “cure infermieristiche a domicilio” (62%), “indicazioni su servizi ospedalieri” (57%), ed “assistenza per caregiver, ad esempio consulenza psicologica” (55%). Il monitoraggio dei bisogni consentirebbe un'ottimizzazione dell'assistenza, prevenendo situazioni che potrebbero compromettere il benessere della famiglia e la qualità dell'assistenza fornita al paziente.