935 resultados para GLOBAL GOVERNANCE


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E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più “efficiente”. Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie “Post-Chicago”. Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l’analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull’applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3). Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall’ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.

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Several commentators have expressed disappointment with New Labour's apparent adherence to the policy frameworks of the previous Conservative administrations. The employment orientation of its welfare programmes, the contradictory nature of the social exclusion initiatives, and the continuing obsession with public sector marketisation, inspections, audits, standards and so on, have all come under critical scrutiny (c.f., Blyth 2001; Jordan 2001; Orme 2001). This paper suggests that in order to understand the socio-economic and political contexts affecting social work we need to examine the relationship between New Labour's modernisation project and its insertion within an architecture of global governance. In particular, membership of the European Union (EU), International Monetary Fund (IMF) and World Trade Organisation (WTO) set the parameters for domestic policy in important ways. Whilst much has been written about the economic dimensions of 'globalisation' in relation to social work rather less has been noted about the ways in which domestic policy agenda are driven by multilateral governance objectives. This policy dimension is important in trying to respond to various changes affecting social work as a professional activity. What is possible, what is encouraged, how things might be done, is tightly bounded by the policy frameworks governing practice and affected by those governing the lives of service users. It is unhelpful to see policy formulation in purely national terms as the UK is inserted into a network governance structure, a regulatory framework where decisions are made by many countries and organisations and agencies. Together, they are producing a 'new legal regime', characterised by a marked neo-liberal policy agenda. This paper aims to demonstrate the relationship of New Labour's modernisation programme to these new forms of legality by examining two main policy areas and the welfare implications they are enmeshed in. The first is privatisation, and the second is social policy in the European Union. Examining these areas allows a demonstration of how much of the New Labour programme can be understood as a local implementation of a transnational strategy, how parts of that strategy produce much of the social exclusion it purports to address, and how social welfare, and particularly social work, are noticeable by their absence within policy discourses of the strategy. The paper details how the privatisation programme is considered to be a crucial vehicle for the further development of a transnational political-economy, where capital accumulation has been redefined as 'welfare'. In this development, frameworks, codes and standards are central, and the final section of the paper examines how the modernisation strategy of the European Union depends upon social policy marked by an employment orientation and risk rationality, aimed at reconfiguring citizen identities.The strategy is governed through an 'open mode of coordination', in which codes, standards, benchmarks and so on play an important role. The paper considers the modernisation strategy and new legality within which it is embedded as dependent upon social policy as a technology of liberal governance, one demonstrating a new rationality in comparison to that governing post-Second World War welfare, and which aims to reconfigure institutional infrastructure and citizen identity.

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This chapter is a contribution to the Palgrave Handbook of European Media Policy (co-edited by Pauwels, Donders & Loisen). It is the chapter’s purpose to examine the proponents of the cultural exception policy, their strategies and demands, and to explore how they came to be reflected in the law and policy of the World Trade Organization (WTO). The chapter also looks at the current state of affairs, as although WTO law has not undergone any substantial amendments since its entry into force in 1995, the media landscape has in the meantime been truly transformed, in some aspects in a revolutionary manner. The broader picture of global governance has not remained still either, with new and emergent powers, changing mechanisms of rule-making and taking.

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The chapter maps these trade versus culture developments in the WTO and the positions of the European Union (EU or the Union) and its member states, which were not always coherent. It also looks at the actual results of the trade versus culture contestation – that is, the rules on trade in goods and services in the WTO and how they reflect the need for more policy space in matters of cultural policy, which the EU so ardently pressed for. The chapter further analyses the evolution of both the international trade regulation and the discourse on cultural policy. This discourse has in fact undergone a major transformation in the last two decades, as it has moved from the ‘exception culturelle’ rhetoric, which dominated the Uruguay trade talks, towards a more positive but also more pro-active agenda under the slogan of cultural diversity. The EU has been a major driver of this transformation, which has succeeded in mobilising the international community and ultimately led to the adoption of the 2005 UNESCO Convention on the Protection and Promotion of the Diversity of Cultural Expressions. The chapter concludes by appraisal of the current state of the debate situating it into the broader picture of contemporary global governance. It asks how the EU could effectively pursue its cultural policy aspirations and endorse its cultural diversity agenda in a world of complexity and rapid technological change, in particular in view of the affordances of digital media.

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Considering that endemic hunger is a consequence of poverty, and that food is arguably the most basic of all human needs, this book chapter shows one of the more prominent examples of rules and policy fragmentation but also one of the most blatant global governance problems. The three monotheistic religions Judaism, Christians and Islam are surprisingly unanimous about God’s prescriptions on hunger or, put theologically, on what can be said, or should be said, about the interpretations and traditions which, taken together, form the respective and differentiated traditions, identities and views of these beliefs on how to deal with poverty and hunger. A clear social ethos, in the form of global needs satisfaction, runs through both Jewish and Christian texts, and the Qur’an (Zakat). It confirms the value inversion between the world of the mighty and that of the hungry. The message is clear: because salvation is available only through the grace of God, those who have must give to those who have not. This is not charity: it is an inversion of values which can not be addressed by spending 0.7% of your GDP on ODA, and the implication of this sense of redistributive justice is that social offenders will be subject to the Last Judgement. Interestingly, these religious scriptures found their way directly into the human rights treaties adopted by the United Nations and ratified by the parliaments, as a legal base for the duty to protect, to respect and to remedy. On the other side the contradiction with international trade law is all the more flagrant, and it has a direct bearing on poverty: systematic surplus food dumping is still allowed under WTO rules, despite the declared objective ‘to establish a fair and market-oriented agricultural trading system’. A way forward would be a kind of ‘bottom up’ approach by focusing on extreme cases of food insecurity caused by food dumping, or by export restrictions where a direct effect of food insecurity in other countries can be established. Also, international financing institutions need to review their policies and lending priorities. The same goes for the bilateral investment treaties and a possible ‘public interest’ clause, at least in respect of agricultural land acquisitions in vulnerable countries. The bottom line is this: WTO rules cannot entail a right to violate other, equally binding treaty obligations when its membership as a whole claims to contribute to the Millennium Development Goals and pledges to eradicate extreme poverty and hunger.

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An E15 Initiative think piece: Investment incentives rank among the most important policy instruments governments employ to influence the locational decisions of multinational firms. In the wake of the recent increase in locational competition and the growing impact of investment incentives and support measures for state-owned enterprises (SOEs), the need for enhanced disciplines on investment incentives has gained political and academic salience. This think piece explores the evolution of investment incentives from a development and rule-making perspective. It summarises the existing literature and examines current practices and recent trends in FDI flows and the use of various investment incentives. This is followed by a discussion of the reasons for the observed stalemate in attempts at disciplinary rule-making. The paper concludes by putting forth recommendations for data gathering and transparency that could further the move toward improved global governance founded on the increasing complementarities of trade, investment, and competition law and policy as the core pillars of a more open, inclusive, and just world economy.

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Refugiados ambientais são refugiados não convencionais e são migrantes forçados, interna ou internacionalmente, temporária ou permanentemente, em situação de vulnerabilidade e que se veem obrigados a deixar sua morada habitual por motivos ambientais de início lento ou de início rápido, causados por motivos naturais, antropogênicos ou pela combinação de ambos. Embora não existam reconhecimento e proteção específica para esses migrantes no direito internacional em escala global, alguns instrumentos jurídicos regionais e leis nacionais assim o fazem. Argumenta-se, nesta tese de doutorado, que os refugiados ambientais possuem modos de proteção geral em certas áreas do direito internacional e que as possibilidades atuais e futuras de proteção específica podem ser encontradas nas fontes primárias do direito internacional, indicadas no artigo 38(1) do Estatuto da Corte Internacional de Justiça. Foram identificadas sete vias de proteção dos refugiados ambientais no direito internacional e no direito interno estatal: (i) a via da ação humanitária, (ii) a via da proteção complementar, (iii) a via da legislação nacional, (iv) a via da justiça climática, (v) a via da responsabilidade compartilhada, (vi) a via da judicialização do refúgio ambiental e (vii) a via do tratado internacional. Sugere-se, ainda, o estabelecimento de uma governança migratória-ambiental global baseada nos regimes internacionais e na ação dos atores nos níveis local, nacional, regional e internacional para a execução das formas de proteção e para o atendimento das necessidades dos refugiados ambientais no mundo.

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During the Great Recession, central banks went well beyond their normal operations and provided liquidity in unlimited amounts, in foreign currency and to foreign banks. Central bank cooperation took the form of a swap network, and amounted to an episode of global monetary policy. However, though bank cooperation will continue to contribute to global governance, the swap network should not be made permanent and given an institutional basis to provide international lending of last resort. Swaps are a monetary policy tool and should continue to be decided on by central banks like all other monetary policy tools,to avoid impinging on their independence, which a difficult historical process has shown to be the best basis for price stability.

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This special report is intended to serve as a background briefing document for the European Climate Platform seminar on Carbon Markets in the 2015 Agreement: Role and Architecture, but also raises issues of more enduring relevance in the wider debate about market mechanisms and the next climate change agreement. The paper looks at the relationship between the carbon market and a new climate change agreement, to be finalised in Paris in 2015. It tries to answer two key questions: does the carbon market have a role to play in a post-2020 agreement, and what is the role of a post-2020 agreement in the creation and operation of a carbon market? Introduction. The world has changed in many ways since 1997 when the Kyoto Protocol was adopted, along some critical axes, both from an economic and emissions points of view. Moreover, and this cannot be quantified, the appetite for global governance, especially for an agreement with such far-reaching implications as a climate change agreement, has diminished considerably. This paper looks at the relationship between the carbon market and a new climate change agreement, to be finalised in Paris in 2015. It tries to answer two key questions: does the carbon market have a role to play in a post-2020 agreement, and what is the role of a post-2020 agreement in the creation and operation of a carbon market?

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During the 2008 financial crisis, the G20 was hastily elevated to ‘global economic steering committee’. In the early stages of the crisis, the G20 was an effective forum for crisis containment. As the crisis has eased, however, the G20 has lost both direction and momentum. Governments and policymakers have felt less need to act in unison and have rather refocused on their national agendas, as is their duty and primary function. However, effective global governance is needed permanently, not just in crisis times. It is desirable to have more representative and effective global governance that, among other things, is equipped to prevent crises rather than just react to them. In an environment of rapid change in global patterns of trade and wealth creation, a new revamped (but highly representative) grouping should be created within the G20, to provide leadership on key economic policy matters. Euro-area members should give up their individual seats in this G7+, allowing room for China and other large emerging economies. Without euro-area countries taking such a step, it would be impossible to reconcile effectiveness and representation in this new G7+, which would take charge of decision making on global economic imbalances, financial and monetary issues. All existing G20 countries, including individual euro-area countries, would however remain in the G20, which could potentially expand and would remain the prime forum for discussion on all remaining matters at global level.

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Chinese elites do not treat Europe as an equal partner and are convinced that China holds the upper hand over Europe. They see a growing asymmetry in bilateral relations. China’s sense of its own potential is boosted by internal divisions within the European Union. At the same time, Europe is China’s key economic partner and an ‘economic pillar’ supporting China’s growth on the international stage. Beijing strives to maintain Europe’s open attitude towards the Chinese economy, in particular its exports, technology transfer to China, location of investments and diversification of China’s currency reserves. Cooperation with Europe and support from Europe are necessary to enable China to improve its position in the international economic and financial system, mainly in order to legitimise China’s actions in the area of multilateralism and global governance. Similarly, Beijing attaches great importance to maintaining Europe’s non-involvement in two issues: China’s core interests and Chinese-American relations.

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This article compares the constitutive relationship between foreign policy and globalisation in Australia and New Zealand. Drawing upon insights from constructivist international relations theory we argue that foreign policy instantiates a state's social identity, its self-understanding of its role and moral purpose by projecting a distinctive image onto the global stage. We explore the differences and the similarities between Australia and New Zealand by examining how each country views international order, global trade, global governance and human rights and international security. Although both countries appear to be transforming themselves into more 'globalised' states, there are significant differences in the way each seeks to balance the competing strategic and normative demands. This diplomatic divergence, we argue, stems from different conceptions of state identity.

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La governance del settore alimentare si fonda su una struttura multilivello, ove poteri locali, nazionali, sovranazionali e globali interagiscono. In tale assetto, ogni regolatore è chiamato a proteggere interessi diversi tra loro, tra cui l'ambiente, la salute umana, il benessere animale e la libera concorrenza. La regolazione del settore alimentare, inoltre, impone la considerazione di aspetti etici e culturali, dotati di una forte matrice territoriale. In questo sistema, i valori che entrano in gioco non sono egualmente rappresentati, ma quelli considerati "minori" sono sovente sovrastati dalle esigenze di protezione di un unico interesse: la libera concorrenza su scala globale. Ne deriva che la regolazione del settore alimentare necessita di un nuovo equilibrio. Questo può richiedere sia l'adozione di nuove regole - soprattutto a livello sovranazionale - sia un'interpretazione maggiormente inclusiva dei principi e delle regole già esistenti da parte delle Corti. Tuttavia, risulta maggiormente urgente e di immediata efficacia permettere ai soggetti interessati, siano essi privati o pubblici, di partecipare alla formulazione delle politiche e delle decisioni inerenti il settore alimentare. La partecipazione procedurale è in grado di soddisfare esigenze differenti e talvolta opposte, pertanto essa è regolata dal legislatore a seconda dello scopo finale prefissato. Principalmente, essa è vista come una applicazione diretta dei principi di democrazia e trasparenza; tuttavia, il suo reale impatto sul risultato finale delle decisioni pubbliche può scostarsi considerevolemente da tale paradigma. Lo scopo di tale lavoro è analizzare i diversi modelli partecipativi implementati nei vari livelli di governo, al fine di determinarne il reale impatto sui soggetti interessati e sul bilanciamento degli interessi in gioco. La conclusione dimostra un certo livello di perplessità per ciò che riguarda l'assetto di tali garanzie nella regolazione del settore alimentare, dove lo sviluppo del concetto di democrazia partecipativa e di bilancio tra gli interessi rilevanti è ancora acerbo.