302 resultados para Cavezzo, sisma, ricostruzione


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L’analisi del movimento umano ha come obiettivo la descrizione del movimento assoluto e relativo dei segmenti ossei del soggetto e, ove richiesto, dei relativi tessuti molli durante l’esecuzione di esercizi fisici. La bioingegneria mette a disposizione dell’analisi del movimento gli strumenti ed i metodi necessari per una valutazione quantitativa di efficacia, funzione e/o qualità del movimento umano, consentendo al clinico l’analisi di aspetti non individuabili con gli esami tradizionali. Tali valutazioni possono essere di ausilio all’analisi clinica di pazienti e, specialmente con riferimento a problemi ortopedici, richiedono una elevata accuratezza e precisione perché il loro uso sia valido. Il miglioramento della affidabilità dell’analisi del movimento ha quindi un impatto positivo sia sulla metodologia utilizzata, sia sulle ricadute cliniche della stessa. Per perseguire gli obiettivi scientifici descritti, è necessario effettuare una stima precisa ed accurata della posizione e orientamento nello spazio dei segmenti ossei in esame durante l’esecuzione di un qualsiasi atto motorio. Tale descrizione può essere ottenuta mediante la definizione di un modello della porzione del corpo sotto analisi e la misura di due tipi di informazione: una relativa al movimento ed una alla morfologia. L’obiettivo è quindi stimare il vettore posizione e la matrice di orientamento necessari a descrivere la collocazione nello spazio virtuale 3D di un osso utilizzando le posizioni di punti, definiti sulla superficie cutanea ottenute attraverso la stereofotogrammetria. Le traiettorie dei marker, così ottenute, vengono utilizzate per la ricostruzione della posizione e dell’orientamento istantaneo di un sistema di assi solidale con il segmento sotto esame (sistema tecnico) (Cappozzo et al. 2005). Tali traiettorie e conseguentemente i sistemi tecnici, sono affetti da due tipi di errore, uno associato allo strumento di misura e l’altro associato alla presenza di tessuti molli interposti tra osso e cute. La propagazione di quest’ultimo ai risultati finali è molto più distruttiva rispetto a quella dell’errore strumentale che è facilmente minimizzabile attraverso semplici tecniche di filtraggio (Chiari et al. 2005). In letteratura è stato evidenziato che l’errore dovuto alla deformabilità dei tessuti molli durante l’analisi del movimento umano provoca inaccuratezze tali da mettere a rischio l’utilizzabilità dei risultati. A tal proposito Andriacchi scrive: “attualmente, uno dei fattori critici che rallentano il progresso negli studi del movimento umano è la misura del movimento scheletrico partendo dai marcatori posti sulla cute” (Andriacchi et al. 2000). Relativamente alla morfologia, essa può essere acquisita, ad esempio, attraverso l’utilizzazione di tecniche per bioimmagini. Queste vengono fornite con riferimento a sistemi di assi locali in generale diversi dai sistemi tecnici. Per integrare i dati relativi al movimento con i dati morfologici occorre determinare l’operatore che consente la trasformazione tra questi due sistemi di assi (matrice di registrazione) e di conseguenza è fondamentale l’individuazione di particolari terne di riferimento, dette terne anatomiche. L’identificazione di queste terne richiede la localizzazione sul segmento osseo di particolari punti notevoli, detti repere anatomici, rispetto ad un sistema di riferimento solidale con l’osso sotto esame. Tale operazione prende il nome di calibrazione anatomica. Nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento viene implementata una calibrazione anatomica a “bassa risoluzione” che prevede la descrizione della morfologia dell’osso a partire dall’informazione relativa alla posizione di alcuni repere corrispondenti a prominenze ossee individuabili tramite palpazione. Attraverso la stereofotogrammetria è quindi possibile registrare la posizione di questi repere rispetto ad un sistema tecnico. Un diverso approccio di calibrazione anatomica può essere realizzato avvalendosi delle tecniche ad “alta risoluzione”, ovvero attraverso l’uso di bioimmagini. In questo caso è necessario disporre di una rappresentazione digitale dell’osso in un sistema di riferimento morfologico e localizzare i repere d’interesse attraverso palpazione in ambiente virtuale (Benedetti et al. 1994 ; Van Sint Jan et al. 2002; Van Sint Jan et al. 2003). Un simile approccio è difficilmente applicabile nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento, in quanto normalmente non si dispone della strumentazione necessaria per ottenere le bioimmagini; inoltre è noto che tale strumentazione in alcuni casi può essere invasiva. Per entrambe le calibrazioni anatomiche rimane da tenere in considerazione che, generalmente, i repere anatomici sono dei punti definiti arbitrariamente all’interno di un’area più vasta e irregolare che i manuali di anatomia definiscono essere il repere anatomico. L’identificazione dei repere attraverso una loro descrizione verbale è quindi povera in precisione e la difficoltà nella loro identificazione tramite palpazione manuale, a causa della presenza dei tessuti molli interposti, genera errori sia in precisione che in accuratezza. Tali errori si propagano alla stima della cinematica e della dinamica articolare (Ramakrishnan et al. 1991; Della Croce et al. 1999). Della Croce (Della Croce et al. 1999) ha inoltre evidenziato che gli errori che influenzano la collocazione nello spazio delle terne anatomiche non dipendono soltanto dalla precisione con cui vengono identificati i repere anatomici, ma anche dalle regole che si utilizzano per definire le terne. E’ infine necessario evidenziare che la palpazione manuale richiede tempo e può essere effettuata esclusivamente da personale altamente specializzato, risultando quindi molto onerosa (Simon 2004). La presente tesi prende lo spunto dai problemi sopra elencati e ha come obiettivo quello di migliorare la qualità delle informazioni necessarie alla ricostruzione della cinematica 3D dei segmenti ossei in esame affrontando i problemi posti dall’artefatto di tessuto molle e le limitazioni intrinseche nelle attuali procedure di calibrazione anatomica. I problemi sono stati affrontati sia mediante procedure di elaborazione dei dati, sia apportando modifiche ai protocolli sperimentali che consentano di conseguire tale obiettivo. Per quanto riguarda l’artefatto da tessuto molle, si è affrontato l’obiettivo di sviluppare un metodo di stima che fosse specifico per il soggetto e per l’atto motorio in esame e, conseguentemente, di elaborare un metodo che ne consentisse la minimizzazione. Il metodo di stima è non invasivo, non impone restrizione al movimento dei tessuti molli, utilizza la sola misura stereofotogrammetrica ed è basato sul principio della media correlata. Le prestazioni del metodo sono state valutate su dati ottenuti mediante una misura 3D stereofotogrammetrica e fluoroscopica sincrona (Stagni et al. 2005), (Stagni et al. 2005). La coerenza dei risultati raggiunti attraverso i due differenti metodi permette di considerare ragionevoli le stime dell’artefatto ottenute con il nuovo metodo. Tale metodo fornisce informazioni sull’artefatto di pelle in differenti porzioni della coscia del soggetto e durante diversi compiti motori, può quindi essere utilizzato come base per un piazzamento ottimo dei marcatori. Lo si è quindi utilizzato come punto di partenza per elaborare un metodo di compensazione dell’errore dovuto all’artefatto di pelle che lo modella come combinazione lineare degli angoli articolari di anca e ginocchio. Il metodo di compensazione è stato validato attraverso una procedura di simulazione sviluppata ad-hoc. Relativamente alla calibrazione anatomica si è ritenuto prioritario affrontare il problema associato all’identificazione dei repere anatomici perseguendo i seguenti obiettivi: 1. migliorare la precisione nell’identificazione dei repere e, di conseguenza, la ripetibilità dell’identificazione delle terne anatomiche e della cinematica articolare, 2. diminuire il tempo richiesto, 3. permettere che la procedura di identificazione possa essere eseguita anche da personale non specializzato. Il perseguimento di tali obiettivi ha portato alla implementazione dei seguenti metodi: • Inizialmente è stata sviluppata una procedura di palpazione virtuale automatica. Dato un osso digitale, la procedura identifica automaticamente i punti di repere più significativi, nella maniera più precisa possibile e senza l'ausilio di un operatore esperto, sulla base delle informazioni ricavabili da un osso digitale di riferimento (template), preliminarmente palpato manualmente. • E’ stato poi condotto uno studio volto ad indagare i fattori metodologici che influenzano le prestazioni del metodo funzionale nell’individuazione del centro articolare d’anca, come prerequisito fondamentale per migliorare la procedura di calibrazione anatomica. A tale scopo sono stati confrontati diversi algoritmi, diversi cluster di marcatori ed è stata valutata la prestazione del metodo in presenza di compensazione dell’artefatto di pelle. • E’stato infine proposto un metodo alternativo di calibrazione anatomica basato sull’individuazione di un insieme di punti non etichettati, giacenti sulla superficie dell’osso e ricostruiti rispetto ad un TF (UP-CAST). A partire dalla posizione di questi punti, misurati su pelvi coscia e gamba, la morfologia del relativo segmento osseo è stata stimata senza identificare i repere, bensì effettuando un’operazione di matching dei punti misurati con un modello digitale dell’osso in esame. La procedura di individuazione dei punti è stata eseguita da personale non specializzato nell’individuazione dei repere anatomici. Ai soggetti in esame è stato richiesto di effettuare dei cicli di cammino in modo tale da poter indagare gli effetti della nuova procedura di calibrazione anatomica sulla determinazione della cinematica articolare. I risultati ottenuti hanno mostrato, per quel che riguarda la identificazione dei repere, che il metodo proposto migliora sia la precisione inter- che intraoperatore, rispetto alla palpazione convenzionale (Della Croce et al. 1999). E’ stato inoltre riscontrato un notevole miglioramento, rispetto ad altri protocolli (Charlton et al. 2004; Schwartz et al. 2004), nella ripetibilità della cinematica 3D di anca e ginocchio. Bisogna inoltre evidenziare che il protocollo è stato applicato da operatori non specializzati nell’identificazione dei repere anatomici. Grazie a questo miglioramento, la presenza di diversi operatori nel laboratorio non genera una riduzione di ripetibilità. Infine, il tempo richiesto per la procedura è drasticamente diminuito. Per una analisi che include la pelvi e i due arti inferiori, ad esempio, l’identificazione dei 16 repere caratteristici usando la calibrazione convenzionale richiede circa 15 minuti, mentre col nuovo metodo tra i 5 e i 10 minuti.

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La tesi nasce da una collaborazione di ricerca, attiva da anni, tra il DISTART - Area Topografia ed il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, impegnato da lungo tempo in scavi archeologici nella regione egiziana del Fayyum. Lo scopo di questa tesi è offrire un contributo alla creazione di un database multiscala di informazioni georeferenziate, che possa essere di supporto ad ulteriori approfondimenti sul territorio del Fayyum. Il raggiungimento degli obiettivi preposti è stato perseguito mediante l’utilizzo sistematico di algoritmi di classificazione su immagini satellitari a media risoluzione registrate ed ortorettificate. Per quanto riguarda la classificazione litologica, sulla base delle informazioni presenti in letteratura, è stata ottenuta una mappa della fascia desertica che circonda l’oasi, in cui sono distinte diverse tipologie: sabbie sciolte recenti, arenarie mioceniche, calcareniti dell’Eocene superiore, calcari dell’Eocene medio, basalti tardo-oligocenici. Inoltre è stata messa a punto una procedura per giungere ad una classificazione almeno in parte automatica di anomalie sul terreno che presentano una forma lineare. L’applicazione di questa procedura potrà rivelarsi utile per ulteriori indagini finalizzate alla individuazione di paleocanali, naturali o artificiali, ed alla ricostruzione dell’assetto idrografico nel passato.

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Reinforced concrete columns might fail because of buckling of the longitudinal reinforcing bar when exposed to earthquake motions. Depending on the hoop stiffness and the length-over-diameter ratio, the instability can be local (in between two subsequent hoops) or global (the buckling length comprises several hoop spacings). To get insight into the topic, an extensive literary research of 19 existing models has been carried out including different approaches and assumptions which yield different results. Finite element fiberanalysis was carried out to study the local buckling behavior with varying length-over-diameter and initial imperfection-over-diameter ratios. The comparison of the analytical results with some experimental results shows good agreement before the post buckling behavior undergoes large deformation. Furthermore, different global buckling analysis cases were run considering the influence of different parameters; for certain hoop stiffnesses and length-over-diameter ratios local buckling was encountered. A parametric study yields an adimensional critical stress in function of a stiffness ratio characterized by the reinforcement configuration. Colonne in cemento armato possono collassare per via dell’instabilità dell’armatura longitudinale se sottoposte all’azione di un sisma. In funzione della rigidezza dei ferri trasversali e del rapporto lunghezza d’inflessione-diametro, l’instabilità può essere locale (fra due staffe adiacenti) o globale (la lunghezza d’instabilità comprende alcune staffe). Per introdurre alla materia, è proposta un’esauriente ricerca bibliografica di 19 modelli esistenti che include approcci e ipotesi differenti che portano a risultati distinti. Tramite un’analisi a fibre e elementi finiti si è studiata l’instabilità locale con vari rapporti lunghezza d’inflessione-diametro e imperfezione iniziale-diametro. Il confronto dei risultati analitici con quelli sperimentali mostra una buona coincidenza fino al raggiungimento di grandi spostamenti. Inoltre, il caso d’instabilità globale è stato simulato valutando l’influenza di vari parametri; per certe configurazioni di rigidezza delle staffe e lunghezza d’inflessione-diametro si hanno ottenuto casi di instabilità locale. Uno studio parametrico ha permesso di ottenere un carico critico adimensionale in funzione del rapporto di rigidezza dato dalle caratteristiche dell’armatura.

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La tesi tratta di strumenti finalizzati alla valutazione dello stato conservativo e di supporto all'attività di manutenzione dei ponti, dai più generali Bridge Management Systems ai Sistemi di Valutazione Numerica della Condizione strutturale. Viene proposto uno strumento originale con cui classificare i ponti attraverso un Indice di Valutazione Complessiva e grazie ad esso stabilire le priorità d'intervento. Si tara lo strumento sul caso pratico di alcuni ponti della Provincia di Bologna. Su un ponte in particolare viene realizzato un approfondimento specifico sulla determinazione approssimata dei periodi propri delle strutture da ponte. Si effettua un confronto dei risultati di alcune modellazioni semplificate in riferimento a modellazioni dettagliate e risultati sperimentali.

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La presente tesi riguarda lo studio di procedimenti di ottimizzazione di sistemi smorzati. In particolare, i sistemi studiati sono strutture shear-type soggette ad azioni di tipo sismico impresse alla base. Per effettuare l’ottimizzazione dei sistemi in oggetto si agisce sulle rigidezze di piano e sui coefficienti di smorzamento effettuando una ridistribuzione delle quantità suddette nei piani della struttura. È interessante effettuare l’ottimizzazione di sistemi smorzati nell’ottica della progettazione antisismica, in modo da ridurre la deformata della struttura e, conseguentemente, anche le sollecitazioni che agiscono su di essa. Il lavoro consta di sei capitoli nei quali vengono affrontate tre procedure numerico-analitiche per effettuare l’ottimizzazione di sistemi shear-type. Nel primo capitolo si studia l’ottimizzazione di sistemi shear-type agendo su funzioni di trasferimento opportunamente vincolate. In particolare, le variabili di progetto sono le rigidezze di piano, mentre i coefficienti di smorzamento e le masse di piano risultano quantità note e costanti durante tutto il procedimento di calcolo iterativo; per effettuare il controllo dinamico della struttura si cerca di ottenere una deformata pressoché rettilinea. Tale condizione viene raggiunta ponendo le ampiezze delle funzioni di trasferimento degli spostamenti di interpiano pari all’ampiezza della funzione di trasferimento del primo piano. Al termine della procedura si ottiene una ridistribuzione della rigidezza complessiva nei vari piani della struttura. In particolare, si evince un aumento della rigidezza nei piani più bassi che risultano essere quelli più sollecitati da una azione impressa alla base e, conseguentemente, si assiste ad una progressiva riduzione della variabile di progetto nei piani più alti. L’applicazione numerica di tale procedura viene effettuata nel secondo capitolo mediante l’ausilio di un programma di calcolo in linguaggio Matlab. In particolare, si effettua lo studio di sistemi a tre e a cinque gradi di libertà. La seconda procedura numerico-analitica viene presentata nel terzo capitolo. Essa riguarda l’ottimizzazione di sistemi smorzati agendo simultaneamente sulla rigidezza e sullo smorzamento e consta di due fasi. La prima fase ricerca il progetto ottimale della struttura per uno specifico valore della rigidezza complessiva e dello smorzamento totale, mentre la seconda fase esamina una serie di progetti ottimali in funzione di diversi valori della rigidezza e dello smorzamento totale. Nella prima fase, per ottenere il controllo dinamico della struttura, viene minimizzata la somma degli scarti quadratici medi degli spostamenti di interpiano. Le variabili di progetto, aggiornate dopo ogni iterazione, sono le rigidezze di piano ed i coefficienti di smorzamento. Si pone, inoltre, un vincolo sulla quantità totale di rigidezza e di smorzamento, e i valori delle rigidezze e dei coefficienti di smorzamento di ogni piano non devono superare un limite superiore posto all’inizio della procedura. Anche in questo caso viene effettuata una ridistribuzione delle rigidezze e dei coefficienti di smorzamento nei vari piani della struttura fino ad ottenere la minimizzazione della funzione obiettivo. La prima fase riduce la deformata della struttura minimizzando la somma degli scarti quadrarici medi degli spostamenti di interpiano, ma comporta un aumento dello scarto quadratico medio dell’accelerazione assoluta dell’ultimo piano. Per mantenere quest’ultima quantità entro limiti accettabili, si passa alla seconda fase in cui si effettua una riduzione dell’accelerazione attraverso l’aumento della quantità totale di smorzamento. La procedura di ottimizzazione di sistemi smorzati agendo simultaneamente sulla rigidezza e sullo smorzamento viene applicata numericamente, mediante l’utilizzo di un programma di calcolo in linguaggio Matlab, nel capitolo quattro. La procedura viene applicata a sistemi a due e a cinque gradi di libertà. L’ultima parte della tesi ha come oggetto la generalizzazione della procedura che viene applicata per un sistema dotato di isolatori alla base. Tale parte della tesi è riportata nel quinto capitolo. Per isolamento sismico di un edificio (sistema di controllo passivo) si intende l’inserimento tra la struttura e le sue fondazioni di opportuni dispositivi molto flessibili orizzontalmente, anche se rigidi in direzione verticale. Tali dispositivi consentono di ridurre la trasmissione del moto del suolo alla struttura in elevazione disaccoppiando il moto della sovrastruttura da quello del terreno. L’inserimento degli isolatori consente di ottenere un aumento del periodo proprio di vibrare della struttura per allontanarlo dalla zona dello spettro di risposta con maggiori accelerazioni. La principale peculiarità dell’isolamento alla base è la possibilità di eliminare completamente, o quantomeno ridurre sensibilmente, i danni a tutte le parti strutturali e non strutturali degli edifici. Quest’ultimo aspetto è importantissimo per gli edifici che devono rimanere operativi dopo un violento terremoto, quali ospedali e i centri operativi per la gestione delle emergenze. Nelle strutture isolate si osserva una sostanziale riduzione degli spostamenti di interpiano e delle accelerazioni relative. La procedura di ottimizzazione viene modificata considerando l’introduzione di isolatori alla base di tipo LRB. Essi sono costituiti da strati in elastomero (aventi la funzione di dissipare, disaccoppiare il moto e mantenere spostamenti accettabili) alternati a lamine in acciaio (aventi la funzione di mantenere una buona resistenza allo schiacciamento) che ne rendono trascurabile la deformabilità in direzione verticale. Gli strati in elastomero manifestano una bassa rigidezza nei confronti degli spostamenti orizzontali. La procedura di ottimizzazione viene applicata ad un telaio shear-type ad N gradi di libertà con smorzatori viscosi aggiunti. Con l’introduzione dell’isolatore alla base si passa da un sistema ad N gradi di libertà ad un sistema a N+1 gradi di libertà, in quanto l’isolatore viene modellato alla stregua di un piano della struttura considerando una rigidezza e uno smorzamento equivalente dell’isolatore. Nel caso di sistema sheat-type isolato alla base, poiché l’isolatore agisce sia sugli spostamenti di interpiano, sia sulle accelerazioni trasmesse alla struttura, si considera una nuova funzione obiettivo che minimizza la somma incrementata degli scarti quadratici medi degli spostamenti di interpiano e delle accelerazioni. Le quantità di progetto sono i coefficienti di smorzamento e le rigidezze di piano della sovrastruttura. Al termine della procedura si otterrà una nuova ridistribuzione delle variabili di progetto nei piani della struttura. In tal caso, però, la sovrastruttura risulterà molto meno sollecitata in quanto tutte le deformazioni vengono assorbite dal sistema di isolamento. Infine, viene effettuato un controllo sull’entità dello spostamento alla base dell’isolatore perché potrebbe raggiungere valori troppo elevati. Infatti, la normativa indica come valore limite dello spostamento alla base 25cm; valori più elevati dello spostamento creano dei problemi soprattutto per la realizzazione di adeguati giunti sismici. La procedura di ottimizzazione di sistemi isolati alla base viene applicata numericamente mediante l’utilizzo di un programma di calcolo in linguaggio Matlab nel sesto capitolo. La procedura viene applicata a sistemi a tre e a cinque gradi di libertà. Inoltre si effettua il controllo degli spostamenti alla base sollecitando la struttura con il sisma di El Centro e il sisma di Northridge. I risultati hanno mostrato che la procedura di calcolo è efficace e inoltre gli spostamenti alla base sono contenuti entro il limite posto dalla normativa. Giova rilevare che il sistema di isolamento riduce sensibilmente le grandezze che interessano la sovrastruttura, la quale si comporta come un corpo rigido al di sopra dell’isolatore. In futuro si potrà studiare il comportamento di strutture isolate considerando diverse tipologie di isolatori alla base e non solo dispositivi elastomerici. Si potrà, inoltre, modellare l’isolatore alla base con un modello isteretico bilineare ed effettuare un confronto con i risultati già ottenuti per il modello lineare.

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Le ricerche di carattere eustatico, mareografico, climatico, archeologico e geocronologico, sviluppatesi soprattutto nell’ultimo ventennio, hanno messo in evidenza che gran parte delle piane costiere italiane risulta soggetta al rischio di allagamento per ingressione marina dovuta alla risalita relativa del livello medio del mare. Tale rischio è la conseguenza dell’interazione tra la presenza di elementi antropici e fenomeni di diversa natura, spesso difficilmente discriminabili e quantificabili, caratterizzati da magnitudo e velocità molto diverse tra loro. Tra le cause preponderanti che determinano l’ingressione marina possono essere individuati alcuni fenomeni naturali, climatici e geologici, i quali risultano fortemente influenzati dalle attività umane soprattutto a partire dal XX secolo. Tra questi si individuano: - la risalita del livello del mare, principalmente come conseguenza del superamento dell’ultimo acme glaciale e dello scioglimento delle grandi calotte continentali; - la subsidenza. Vaste porzioni delle piane costiere italiane risultano soggette a fenomeni di subsidenza. In certe zone questa assume proporzioni notevoli: per la fascia costiera emiliano-romagnola si registrano ratei compresi tra 1 e 3 cm/anno. Tale subsidenza è spesso il risultato della sovrapposizione tra fenomeni naturali (neotettonica, costipamento di sedimenti, ecc.) e fenomeni indotti dall’uomo (emungimenti delle falde idriche, sfruttamento di giacimenti metaniferi, escavazione di materiali per l’edilizia, ecc.); - terreni ad elevato contenuto organico: la presenza di depositi fortemente costipabili può causare la depressione del piano di campagna come conseguenza di abbassamenti del livello della falda superficiale (per drenaggi, opere di bonifica, emungimenti), dello sviluppo dei processi di ossidazione e decomposizione nei terreni stessi, del costipamento di questi sotto il proprio peso, della carenza di nuovi apporti solidi conseguente alla diminuita frequenza delle esondazioni dei corsi d’acqua; - morfologia: tra i fattori di rischio rientra l’assetto morfologico della piana e, in particolare il tipo di costa (lidi, spiagge, cordoni dunari in smantellamento, ecc. ), la presenza di aree depresse o comunque vicine al livello del mare (fino a 1-2 m s.l.m.), le caratteristiche dei fondali antistanti (batimetria, profilo trasversale, granulometria dei sedimenti, barre sommerse, assenza di barriere biologiche, ecc.); - stato della linea di costa in termini di processi erosivi dovuti ad attività umane (urbanizzazione del litorale, prelievo inerti, costruzione di barriere, ecc.) o alle dinamiche idro-sedimentarie naturali cui risulta soggetta (correnti litoranee, apporti di materiale, ecc. ). Scopo del presente studio è quello di valutare la probabilità di ingressione del mare nel tratto costiero emiliano-romagnolo del Lido delle Nazioni, la velocità di propagazione del fronte d’onda, facendo riferimento allo schema idraulico del crollo di una diga su letto asciutto (problema di Riemann) basato sul metodo delle caratteristiche, e di modellare la propagazione dell’inondazione nell’entroterra, conseguente all’innalzamento del medio mare . Per simulare tale processo è stato utilizzato il complesso codice di calcolo bidimensionale Mike 21. La fase iniziale di tale lavoro ha comportato la raccolta ed elaborazione mediante sistema Arcgis dei dati LIDAR ed idrografici multibeam , grazie ai quali si è provveduto a ricostruire la topo-batimetria di dettaglio della zona esaminata. Nel primo capitolo è stato sviluppato il problema del cambiamento climatico globale in atto e della conseguente variazione del livello marino che, secondo quanto riportato dall’IPCC nel rapporto del 2007, dovrebbe aumentare al 2100 mediamente tra i 28 ed i 43 cm. Nel secondo e terzo capitolo è stata effettuata un’analisi bibliografica delle metodologie per la modellazione della propagazione delle onde a fronte ripido con particolare attenzione ai fenomeni di breaching delle difese rigide ed ambientali. Sono state studiate le fenomenologie che possono inficiare la stabilità dei rilevati arginali, realizzati sia in corrispondenza dei corsi d’acqua, sia in corrispondenza del mare, a discapito della protezione idraulica del territorio ovvero dell’incolumità fisica dell’uomo e dei territori in cui esso vive e produce. In un rilevato arginale, quale che sia la causa innescante la formazione di breccia, la generazione di un’onda di piena conseguente la rottura è sempre determinata da un’azione erosiva (seepage o overtopping) esercitata dall’acqua sui materiali sciolti costituenti il corpo del rilevato. Perciò gran parte dello studio in materia di brecce arginali è incentrato sulla ricostruzione di siffatti eventi di rottura. Nel quarto capitolo è stata calcolata la probabilità, in 5 anni, di avere un allagamento nella zona di interesse e la velocità di propagazione del fronte d’onda. Inoltre è stata effettuata un’analisi delle condizioni meteo marine attuali (clima ondoso, livelli del mare e correnti) al largo della costa emiliano-romagnola, le cui problematiche e linee di intervento per la difesa sono descritte nel quinto capitolo, con particolare riferimento alla costa ferrarese, oggetto negli ultimi anni di continui interventi antropici. Introdotto il sistema Gis e le sue caratteristiche, si è passati a descrivere le varie fasi che hanno permesso di avere in output il file delle coordinate x, y, z dei punti significativi della costa, indispensabili al fine della simulazione Mike 21, le cui proprietà sono sviluppate nel sesto capitolo.

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CAPITOLO 1 INTRODUZIONE Il lavoro presentato è relativo all’utilizzo a fini metrici di immagini satellitari storiche a geometria panoramica; in particolare sono state elaborate immagini satellitari acquisite dalla piattaforma statunitense CORONA, progettata ed impiegata essenzialmente a scopi militari tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, e recentemente soggette ad una declassificazione che ne ha consentito l’accesso anche a scopi ed utenti non militari. Il tema del recupero di immagini aeree e satellitari del passato è di grande interesse per un ampio spettro di applicazioni sul territorio, dall’analisi dello sviluppo urbano o in ambito regionale fino ad indagini specifiche locali relative a siti di interesse archeologico, industriale, ambientale. Esiste infatti un grandissimo patrimonio informativo che potrebbe colmare le lacune della documentazione cartografica, di per sé, per ovvi motivi tecnici ed economici, limitata a rappresentare l’evoluzione territoriale in modo asincrono e sporadico, e con “forzature” e limitazioni nel contenuto informativo legate agli scopi ed alle modalità di rappresentazione delle carte nel corso del tempo e per diversi tipi di applicazioni. L’immagine di tipo fotografico offre una rappresentazione completa, ancorché non soggettiva, dell’esistente e può complementare molto efficacemente il dato cartografico o farne le veci laddove questo non esista. La maggior parte del patrimonio di immagini storiche è certamente legata a voli fotogrammetrici che, a partire dai primi decenni del ‘900, hanno interessato vaste aree dei paesi più avanzati, o regioni di interesse a fini bellici. Accanto a queste, ed ovviamente su periodi più vicini a noi, si collocano le immagini acquisite da piattaforma satellitare, tra le quali rivestono un grande interesse quelle realizzate a scopo di spionaggio militare, essendo ad alta risoluzione geometrica e di ottimo dettaglio. Purtroppo, questo ricco patrimonio è ancora oggi in gran parte inaccessibile, anche se recentemente sono state avviate iniziative per permetterne l’accesso a fini civili, in considerazione anche dell’obsolescenza del dato e della disponibilità di altre e migliori fonti di informazione che il moderno telerilevamento ci propone. L’impiego di immagini storiche, siano esse aeree o satellitari, è nella gran parte dei casi di carattere qualitativo, inteso ad investigare sulla presenza o assenza di oggetti o fenomeni, e di rado assume un carattere metrico ed oggettivo, che richiederebbe tra l’altro la conoscenza di dati tecnici (per esempio il certificato di calibrazione nel caso delle camere aerofotogrammetriche) che sono andati perduti o sono inaccessibili. Va ricordato anche che i mezzi di presa dell’epoca erano spesso soggetti a fenomeni di distorsione ottica o altro tipo di degrado delle immagini che ne rendevano difficile un uso metrico. D’altra parte, un utilizzo metrico di queste immagini consentirebbe di conferire all’analisi del territorio e delle modifiche in esso intercorse anche un significato oggettivo che sarebbe essenziale per diversi scopi: per esempio, per potere effettuare misure su oggetti non più esistenti o per potere confrontare con precisione o co-registrare le immagini storiche con quelle attuali opportunamente georeferenziate. Il caso delle immagini Corona è molto interessante, per una serie di specificità che esse presentano: in primo luogo esse associano ad una alta risoluzione (dimensione del pixel a terra fino a 1.80 metri) una ampia copertura a terra (i fotogrammi di alcune missioni coprono strisce lunghe fino a 250 chilometri). Queste due caratteristiche “derivano” dal principio adottato in fase di acquisizione delle immagini stesse, vale a dire la geometria panoramica scelta appunto perché l’unica che consente di associare le due caratteristiche predette e quindi molto indicata ai fini spionaggio. Inoltre, data la numerosità e la frequenza delle missioni all’interno dell’omonimo programma, le serie storiche di questi fotogrammi permettono una ricostruzione “ricca” e “minuziosa” degli assetti territoriali pregressi, data appunto la maggior quantità di informazioni e l’imparzialità associabili ai prodotti fotografici. Va precisato sin dall’inizio come queste immagini, seppur rappresentino una risorsa “storica” notevole (sono datate fra il 1959 ed il 1972 e coprono regioni moto ampie e di grandissimo interesse per analisi territoriali), siano state molto raramente impiegate a scopi metrici. Ciò è probabilmente imputabile al fatto che il loro trattamento a fini metrici non è affatto semplice per tutta una serie di motivi che saranno evidenziati nei capitoli successivi. La sperimentazione condotta nell’ambito della tesi ha avuto due obiettivi primari, uno generale ed uno più particolare: da un lato il tentativo di valutare in senso lato le potenzialità dell’enorme patrimonio rappresentato da tali immagini (reperibili ad un costo basso in confronto a prodotti simili) e dall’altro l’opportunità di indagare la situazione territoriale locale per una zona della Turchia sud orientale (intorno al sito archeologico di Tilmen Höyük) sulla quale è attivo un progetto condotto dall’Università di Bologna (responsabile scientifico il Prof. Nicolò Marchetti del Dipartimento di Archeologia), a cui il DISTART collabora attivamente dal 2005. L’attività è condotta in collaborazione con l’Università di Istanbul ed il Museo Archeologico di Gaziantep. Questo lavoro si inserisce, inoltre, in un’ottica più ampia di quelle esposta, dello studio cioè a carattere regionale della zona in cui si trovano gli scavi archeologici di Tilmen Höyük; la disponibilità di immagini multitemporali su un ampio intervallo temporale, nonché di tipo multi sensore, con dati multispettrali, doterebbe questo studio di strumenti di conoscenza di altissimo interesse per la caratterizzazione dei cambiamenti intercorsi. Per quanto riguarda l’aspetto più generale, mettere a punto una procedura per il trattamento metrico delle immagini CORONA può rivelarsi utile all’intera comunità che ruota attorno al “mondo” dei GIS e del telerilevamento; come prima ricordato tali immagini (che coprono una superficie di quasi due milioni di chilometri quadrati) rappresentano un patrimonio storico fotografico immenso che potrebbe (e dovrebbe) essere utilizzato sia a scopi archeologici, sia come supporto per lo studio, in ambiente GIS, delle dinamiche territoriali di sviluppo di quelle zone in cui sono scarse o addirittura assenti immagini satellitari dati cartografici pregressi. Il lavoro è stato suddiviso in 6 capitoli, di cui il presente costituisce il primo. Il secondo capitolo è stato dedicato alla descrizione sommaria del progetto spaziale CORONA (progetto statunitense condotto a scopo di fotoricognizione del territorio dell’ex Unione Sovietica e delle aree Mediorientali politicamente correlate ad essa); in questa fase vengono riportate notizie in merito alla nascita e all’evoluzione di tale programma, vengono descritti piuttosto dettagliatamente gli aspetti concernenti le ottiche impiegate e le modalità di acquisizione delle immagini, vengono riportati tutti i riferimenti (storici e non) utili a chi volesse approfondire la conoscenza di questo straordinario programma spaziale. Nel terzo capitolo viene presentata una breve discussione in merito alle immagini panoramiche in generale, vale a dire le modalità di acquisizione, gli aspetti geometrici e prospettici alla base del principio panoramico, i pregi ed i difetti di questo tipo di immagini. Vengono inoltre presentati i diversi metodi rintracciabili in bibliografia per la correzione delle immagini panoramiche e quelli impiegati dai diversi autori (pochi per la verità) che hanno scelto di conferire un significato metrico (quindi quantitativo e non solo qualitativo come è accaduto per lungo tempo) alle immagini CORONA. Il quarto capitolo rappresenta una breve descrizione del sito archeologico di Tilmen Höyuk; collocazione geografica, cronologia delle varie campagne di studio che l’hanno riguardato, monumenti e suppellettili rinvenute nell’area e che hanno reso possibili una ricostruzione virtuale dell’aspetto originario della città ed una più profonda comprensione della situazione delle capitali del Mediterraneo durante il periodo del Bronzo Medio. Il quinto capitolo è dedicato allo “scopo” principe del lavoro affrontato, vale a dire la generazione dell’ortofotomosaico relativo alla zona di cui sopra. Dopo un’introduzione teorica in merito alla produzione di questo tipo di prodotto (procedure e trasformazioni utilizzabili, metodi di interpolazione dei pixel, qualità del DEM utilizzato), vengono presentati e commentati i risultati ottenuti, cercando di evidenziare le correlazioni fra gli stessi e le problematiche di diversa natura incontrate nella redazione di questo lavoro di tesi. Nel sesto ed ultimo capitolo sono contenute le conclusioni in merito al lavoro in questa sede presentato. Nell’appendice A vengono riportate le tabelle dei punti di controllo utilizzati in fase di orientamento esterno dei fotogrammi.

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La tesi di dottorato di Carlo Antonio Gobbato prende in considerazione e sviluppa, secondo una prospettiva rigorosamente sociologica, i temi e i problemi che discendono dai progressi delle bioscienze e delle biotecnologie con particolare riferimento alla programmazione degli esseri umani con precise caratteristiche. Muovendo dalla riflessione di Jurgen Habermas sui caratteri della genetica liberale, sono stati, innanzi tutto, ripresi alcuni temi fondamentali della storia del pensiero politico e giuridico sviluppatisi in età moderna, considerando con particolare attenzione la ricostruzione epistemologica operata da Michel Foucault in merito alla nozione di biopolitica, ovvero sia al modo con cui si è cercato, a partire dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti dalla pratica governamentale nei confronti delle persone (pratiche concernenti la salute, il controllo sociale, l’igiene, la mortalità, le razze, ecc.). La biopolitica è una categoria gnoseologica di spiegazione dell’idea di sviluppo presente nell’età moderna, dove sono iscritti vari saperi e pratiche governamentali, risultando così un concetto storicamente determinato da costruzioni produttive e tecnologiche che consentono, oppure obbligano, la vita ad entrare nella storia. D’altra parte, la biopolitica non produce letteralmente la vita, ma interviene direttamente sulla vita consentendone le condizioni di mantenimento e sviluppo. Se la biopolitica ha determinato l’instaurazione del dominio della specie umana sulla materia inerte, la rivoluzione scientifica in atto, anche in ragione dell’intensità con cui procede lo sviluppo delle bioscienze e delle biotecnologie, sta determinando l’affermazione del dominio sulla materia vivente Il progressivo affrancamento delle bioscienze e delle biotecnologie dal sistema sociale e dal sotto sistema sanitario sta comportando un’intensa proliferazione legislativa e normativa di cui la bioetica è parte, assieme alla costituzione ed allo sviluppo di un polo di apparati tendenzialmente autonomo, anche in ragione delle grandi quantità di trasferimenti finanziari, pubblici e privati, specificatamente dedicati e del nuovo mercato dei brevetti sulla vita. Sono evidenti le preoccupazioni degli organismi internazionali e nazionali, ai loro massimi livelli, per un fenomeno emergente, reso possibile dai rapidi progressi delle bioscienze, che consente la messa a disposizione sul mercato globale di “prodotti” ricavati dal corpo umano impossibili da reperire se tali progressi non si fossero verificati. Si tratta di situazioni che formano una realtà giuridica, sociale e mercantile che sempre più le bioscienze contribuiscono, con i loro successi, a rappresentare e costruire, anche se una parte fondamentale nell’edificazione, cognitiva ed emozionale, di tali situazioni, che interagiscono direttamente con l’immaginario soggettivo e sociale, è costituita dal sistema dell’informazione, specializzata e non, che sta con intensità crescente offrendo notizie e riproduzioni, vere o verosimili, scientificamente fondate oppure solo al momento ipotizzate, ma poste e dibattute, che stanno oggettivamente alimentando nuove attese individuali e sociali in grado di generare propensioni e comportamenti verso “oggetti di consumo” non conosciuti solo fino a pochi anni fa. Propensioni e comportamenti che possono assumere, in ragione della velocità con cui si succedono le scoperte delle bioscienze e la frequenza con cui sono immessi nel mercato i prodotti biotecnologici (indipendentemente dalla loro vera o presunta efficacia), anche caratteri di effervescenza anomica, fino alla consumazione di atti gravemente delittuosi di cui la stessa cronaca e le inchieste giudiziarie che si stanno aprendo iniziano a dare conto. La tesi considera criticamente la nuova realtà che emerge dai progressi delle bioscienze e, dopo aver identificato nella semantica dell’immunità e nel dominio sul movimento del corpo gli orientamenti concettuali che forniscono il significato essenziale alla biopolitica di Foucault, cerca di definire secondo una prospettiva propriamente sociologica la linea di separazione fra le pratiche immunitarie ed altre pratiche che non possono essere fatte rientrare nelle prime o, anche, il limite del discorso di Foucault davanti alle questioni poste da Habermas ed inerenti la programmazione genetica degli esseri viventi. Le pratiche genetiche, infatti, non sono propriamente immunitarie e, anzi, la stessa logica discorsiva intorno al gene non ha carattere immunitario, anche se può apportare benefici immunitari. La logica del gene modifica la forma del corpo, è generativa e rigenerativa, può ammettere ed includere, ma anche negare, la semantica biopolitica, i suoi oggetti e i suoi nessi. Gli oggetti della biopolitica sono ogni giorno di più affiancati dagli oggetti di questa dimensione radicalmente originale, per significati e significanti, dimensione che, con un neologismo, si può definire polisgenetica, ovvero sia una pratica governamentale sui generis, con importanti riflessi sul piano socio – criminologico. L’ultima parte della tesi riporta i risultati di recenti ricerche sociologiche sulla percezione sociale dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie, nonché presenta i risultati dell’elaborazione delle interviste effettuate per la tesi di ricerca.

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La ricerca ha perseguito l’obiettivo di individuare e definire il potere di un ente territoriale di sostituire, tramite i suoi organi o atti, quelli ordinari degli enti territoriali minori, per assumere ed esercitare compiutamente, in situazioni straordinarie, le funzioni proprie di questi. Dogmaticamente potremmo distinguere due generali categorie di sostituzione: quella amministrativa e quella legislativa, a seconda dell’attività giuridica nella quale il sostituto interviene. Nonostante tale distinzione riguardi in generale il rapporto tra organi o enti della stessa o di differenti amministrazioni, con eguale o diverso grado di autonomia; la ricerca ha mirato ad analizzare le due summenzionate categorie con stretto riferimento agli enti territoriali. I presupposti, l’oggetto e le modalità di esercizio avrebbero consentito ovviamente di sottocatalogare le due generali categorie di sostituzione, ma un’indagine volta a individuare e classificare ogni fattispecie di attività sostitutiva, più che un’attività complessa, è sembrata risultare di scarsa utilità. Più proficuo è parso il tentativo di ricostruire la storia e l’evoluzione del menzionato istituto, al fine di definire e comprendere i meccanismi che consentono l’attività sostitutiva. Nel corso della ricostruzione non si è potuto trascurare che, all’interno dell’ordinamento italiano, l’istituto della sostituzione è nato nel diritto amministrativo tra le fattispecie che regolavano l’esercizio della funzione amministrativa indiretta. La dottrina del tempo collocava la potestà sostitutiva nella generale categoria dei controlli. La sostituzione, infatti, non avrebbe avuto quel valore creativo e propulsivo, nel mondo dell’effettualità giuridica, quell’energia dinamica ed innovatrice delle potestà attive. La sostituzione rappresentava non solo la conseguenza, ma anche la continuazione del controllo. Le fattispecie, che la menzionata dottrina analizzava, rientravano principalmente all’interno di due categorie di sostituzione: quella disposta a favore dello Stato contro gli inadempimenti degli enti autarchici – principalmente il comune – nonché la sostituzione operata all’interno dell’organizzazione amministrativa dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato. Già in epoca unitaria era possibile rinvenire poteri sostitutivi tra enti, la prima vera fattispecie di potestà sostitutiva, era presente nella disciplina disposta da diverse fattispecie dell'allegato A della legge 20 marzo 1856 n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno. Tentativo del candidato è stato quello, quindi, di ricostruire l'evoluzione delle fattispecie sostitutive nella stratificazione normativa che seguì con il T.U. della legge Comunale e Provinciale R.D. 4 febbraio 1915 e le successive variazioni tra cui il R.D.L. 30 dicembre 1923. Gli istituti sostitutivi vennero meno (di fatto) con il consolidarsi del regime fascista. Il fascismo, che in un primo momento aveva agitato la bandiera delle autonomie locali, non tardò, come noto, una volta giunto al potere, a seguire la sua vera vocazione, dichiarandosi ostile a ogni proposito di decentramento e rafforzando, con la moltiplicazione dei controlli e la soppressione del principio elettivo, la già stretta dipendenza delle comunità locali dallo Stato. Vennero meno i consigli liberamente eletti e al loro posto furono insediati nel 1926 i Podestà e i Consultori per le Amministrazioni comunali; nel 1928 i Presidi e i Rettorati per le Amministrazioni Provinciali, tutti organi nominati direttamente o indirettamente dall’Amministrazione centrale. In uno scenario di questo tipo i termini autarchia e autonomia risultano palesemente dissonanti e gli istituti di coordinamento tra Stato ed enti locali furono ad esso adeguati; in tale ordinamento, infatti, la sostituzione (pur essendo ancora presenti istituti disciplinanti fattispecie surrogatorie) si presentò come un semplice rapporto interno tra organi diversi, di uno stesso unico potere e non come esso è in realtà, anello di collegamento tra soggetti differenti con fini comuni (Stato - Enti autarchici); per semplificare, potremmo chiederci, in un sistema totalitario come quello fascista, in cui tutti gli interessi sono affidati all’amministrazione centrale, chi dovrebbe essere il sostituito. Il potere sostitutivo (in senso proprio) ebbe una riviviscenza nella normativa post-bellica, come reazione alla triste parentesi aperta dal fascismo, che mise a nudo i mali e gli abusi dell’accentramento statale. La suddetta normativa iniziò una riforma in favore delle autonomie locali; infatti, come noto, tutti i partiti politici assunsero posizione in favore di una maggiore autonomia degli enti territoriali minori e ripresero le proposte dei primi anni dell’Unità di Italia avanzate dal Minghetti, il quale sentiva l’esigenza dell’istituzione di un ente intermedio tra Stato e Province, a cui affidare interessi territorialmente limitati: la Regione appunto. Emerge piuttosto chiaramente dalla ricerca che la storia politica e l’evoluzione del diritto pubblico documentano come ad una sempre minore autonomia locale nelle politiche accentratrici dello Stato unitario prima, e totalitario poi, corrisponda una proporzionale diminuzione di istituti di raccordo come i poteri sostitutivi; al contrario ad una sempre maggiore ed evoluta autonomia dello Stato regionalista della Costituzione del 1948 prima, e della riforma del titolo V oggi, una contestuale evoluzione e diffusione di potestà sostitutive. Pare insomma che le relazioni stato-regioni, regioni-enti locali che la sostituzione presuppone, sembrano rappresentare (ieri come oggi) uno dei modi migliori per comprendere il sistema delle autonomie nell’evoluzione della stato regionale e soprattutto dopo la riforma apportata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Dalla preliminare indagine storica un altro dato, che pare emergere, sembra essere la constatazione che l'istituto nato e giustificato da esigenze di coerenza e efficienza dell'azione amministrativa sia stato trasferito nell'ambio delle relazioni tra stato e autonomie territoriali. Tale considerazione sembra essere confermata dal proseguo dell’indagine, ed in particolare dai punti di contatto tra presupposti e procedure di sostituzione nell’analisi dell’istituto. Nonostante, infatti, il Costituente non disciplinò poteri sostitutivi dello Stato o delle regioni, al momento di trasferire le competenze amministrative alle regioni la Corte costituzionale rilevò il problema della mancanza di istituti posti a garantire gli interessi pubblici, volti ad ovviare alle eventuali inerzie del nuovo ente territoriale. La presente ricerca ha voluto infatti ricostruire l’ingresso dei poteri sostitutivi nel ordinamento costituzionale, riportando le sentenze del Giudice delle leggi, che a partire dalla sentenza n. 142 del 1972 e dalla connessa pronuncia n. 39 del 1971 sui poteri di indirizzo e coordinamento dello Stato, pur non senza incertezze e difficoltà, ha finito per stabilire un vero e proprio “statuto” della sostituzione con la sentenza n. 177 del 1988, individuando requisiti sostanziali e procedurali, stimolando prima e correggendo successivamente gli interventi del legislatore. Le prime fattispecie sostitutive furono disciplinate con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare con l’art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, la quale disciplina, per il rispetto dell’autonomia regionale, venne legittimata dalla stessa Corte nella sentenza n. 182 del 1976. Sempre con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari intervenne l’art. 6 c. 3°, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616. La stessa norma va segnalata per introdurre (all’art. 4 c. 3°) una disciplina generale di sostituzione in caso di inadempimento regionale nelle materie delegate dallo Stato. Per il particolare interesse si deve segnalare il D.M. 21 settembre 1984, sostanzialmente recepito dal D.L. 27 giugno 1985, n. 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), poi convertito in legge 8 agosto 1985, n. 431 c.d. legge Galasso. Tali disposizioni riaccesero il contenzioso sul potere sostitutivo innanzi la Corte Costituzionale, risolto nelle sentt. n. 151 e 153 del 1986. Tali esempi sembrano dimostrare quello che potremmo definire un dialogo tra legislatore e giudice della costituzionalità nella definizione dei poteri sostitutivi; il quale culminò nella già ricordata sent. n. 177 del 1988, nella quale la Corte rilevò che una legge per prevedere un potere sostitutivo costituzionalmente legittimo deve: essere esercitato da parte di un organo di governo; nei confronti di attività prive di discrezionalità nell’an e presentare idonee garanzie procedimentali in conformità al principio di leale collaborazione. Il modello definito dalla Corte costituzionale sembra poi essere stato recepito definitivamente dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale per prima ha connesso la potestà sostitutiva con il principio di sussidiarietà. Detta legge sembra rappresentare un punto di svolta nell’indagine condotta perché consente di interpretare al meglio la funzione – che già antecedentemente emergeva dallo studio dei rapporti tra enti territoriali – dei poteri sostitutivi quale attuazione del principio di sussidiarietà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha disciplinato all’interno della Costituzione ben due fattispecie di poteri sostitutivi all’art. 117 comma 5 e all’art. 120 comma 2. La “lacuna” del 1948 necessitava di essere sanata – in tal senso erano andati anche i precedenti tentativi di riforma costituzionale, basti ricordare l’art. 58 del progetto di revisione costituzionale presentato dalla commissione D’Alema il 4 novembre 1997 – i disposti introdotti dal riformatore costituzionale, però, non possono certo essere apprezzati per la loro chiarezza e completezza. Le due richiamate disposizioni costituzionali, infatti, hanno prodotto numerose letture. Il dibattito ha riguardato principalmente la natura delle due fattispecie sostitutive. In particolare, si è discusso sulla natura legislativa o amministrativa delle potestà surrogatorie e sulla possibilità da parte del legislatore di introdurre o meno la disciplina di ulteriori fattispecie sostitutive rispetto a quelle previste dalla Costituzione. Con particolare riferimento all’art. 120 c. 2 Cost. sembra semplice capire che le difficoltà definitorie siano state dovute all’indeterminatezza della fattispecie, la quale attribuisce al Governo il potere sostitutivo nei confronti degli organi (tutti) delle regioni, province, comuni e città metropolitane. In particolare, la dottrina, che ha attribuito all’art. 120 capoverso la disciplina di un potere sostitutivo sulle potestà legislative delle Regioni, è partita dalla premessa secondo la quale detta norma ha una funzione fondamentale di limite e controllo statale sulle Regioni. La legge 18 ottobre 2001 n. 3 ha, infatti, variato sensibilmente il sistema dei controlli sulle leggi regionali, con la modificazione degli artt. 117 e 127 della Costituzione; pertanto, il sistema dei controlli dopo la riforma del 2001, troverebbe nel potere sostitutivo ex art. 120 la norma di chiusura. Sul tema è insistito un ampio dibattito, al di là di quello che il riformatore costituzionale avrebbe dovuto prevedere, un’obiezione (più delle altre) pare spingere verso l’accoglimento della tesi che propende per la natura amministrativa della fattispecie in oggetto, ovvero la constatazione che il Governo è il soggetto competente, ex art. 120 capoverso Cost., alla sostituzione; quindi, se si intendesse la sostituzione come avente natura legislativa, si dovrebbe ritenere che il Costituente abbia consentito all’Esecutivo, tosto che al Parlamento, l’adozione di leggi statali in sostituzione di quelle regionali. Suddetta conseguenza sembrerebbe comportare una palese violazione dell’assetto costituzionale vigente. Le difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. si sono riversate sulla normativa di attuazione della riforma costituzionale, legge 5 giugno 2003, n. 131. In particolare nell’art. 8, il quale ha mantenuto un dettato estremamente vago e non ha preso una chiara e netta opzione a favore di una della due interpretazione riportate circa la natura della fattispecie attuata, richiamando genericamente che il potere sostitutivo si adotta “Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120” Cost. Di particolare interesse pare essere, invece, il procedimento disciplinato dal menzionato art. 8, il quale ha riportato una procedura volta ad attuare quelle che sono state le indicazioni della Corte in materia. Analogamente agli anni settanta ed ottanta, le riportate difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. e, più in generale il tema dei poteri sostitutivi dopo la riforma del 2001, sono state risolte e definite dal giudice della costituzionalità. In particolare, la Corte sembra aver palesemente accolto (sent. n. 43 del 2004) la tesi sulla natura amministrativa del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 c. 2 Cost. Il giudice delle leggi ha tra l’altro fugato i dubbi di chi, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, aveva letto nel potere sostitutivo, attribuito dalla riformata Costituzione al Governo, l’illegittimità di tutte quelle previsioni legislative regionali, che disponevano ipotesi di surrogazione (da parte della regione) nei confronti degli enti locali. La Corte costituzionale, infatti, nella già citata sentenza ha definito “straordinario” il potere di surrogazione attribuito dall’art. 120 Cost. allo Stato, considerando “ordinare” tutte quelle fattispecie sostitutive previste dalla legge (statale e regionale). Particolarmente innovativa è la parte dell'indagine in cui la ricerca ha verificato in concreto la prassi di esercizio della sostituzione statale, da cui sono sembrate emergere numerose tendenze. In primo luogo significativo sembra essere il numero esiguo di sostituzioni amministrative statali nei confronti delle amministrazioni regionali; tale dato sembra dimostrare ed essere causa della scarsa “forza” degli esecutivi che avrebbero dovuto esercitare la sostituzione. Tale conclusione sembra trovare conferma nell'ulteriore dato che sembra emergere ovvero i casi in cui sono stati esercitati i poteri sostitutivi sono avvenuti tutti in materie omogenee (per lo più in materia di tutela ambientale) che rappresentano settori in cui vi sono rilevanti interessi pubblici di particolare risonanza nell'opinione pubblica. Con riferimento alla procedura va enfatizzato il rispetto da parte dell'amministrazione sostituente delle procedure e dei limiti fissati tanto dal legislatore quanto nella giurisprudenza costituzionale al fine di rispettare l'autonomia dell'ente sostituito. Dalla ricerca emerge che non è stato mai esercitato un potere sostitutivo direttamente ex art. 120 Cost., nonostante sia nella quattordicesima (Governo Berlusconi) che nella quindicesima legislatura (Governo Prodi) con decreto sia stata espressamente conferita al Ministro per gli affari regionali la competenza a promuovere l’“esercizio coordinato e coerente dei poteri e rimedi previsti in caso di inerzia o di inadempienza, anche ai fini dell'esercizio del potere sostitutivo del Governo di cui all'art. 120 della Costituzione”. Tale conclusione, però, non lascia perplessi, bensì, piuttosto, sembra rappresentare la conferma della “straordinarietà” della fattispecie sostitutiva costituzionalizzata. Infatti, in via “ordinaria” lo Stato prevede sostituzioni per mezzo di specifiche disposizioni di legge o addirittura per mezzo di decreti legge, come di recente il D.L. 09 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania. Misure per la raccolta differenziata), che ha assegnato al Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri “le funzioni di Commissario delegato per l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania per il periodo necessario al superamento di tale emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2007”. Spesso l’aspetto interessante che sembra emergere da tali sostituzioni, disposte per mezzo della decretazione d’urgenza, è rappresentato dalla mancata previsione di diffide o procedure di dialogo, perché giustificate da casi di estrema urgenza, che spesso spingono la regione stessa a richiedere l’intervento di surrogazione. Del resto è stata la stessa Corte costituzionale a legittimare, nei casi di particolare urgenza e necessità, sostituzioni prive di dialogo e strumenti di diffida nella sent. n. 304 del 1987. Particolare attenzione è stata data allo studio dei poteri sostitutivi regionali. Non solo perché meno approfonditi in letteratura, ma per l’ulteriore ragione che tali fattispecie, disciplinate da leggi regionali, descrivono i modelli più diversi e spingono ad analisi di carattere generale in ordine alla struttura ed alla funzione dei poteri sostitutivi. Esse sembrano rappresentare (in molti casi) modelli da seguire dallo stesso legislatore statale, si vedano ad esempio leggi come quella della regione Toscana 31 ottobre 2001, n. 53, artt. 2, 3, 4, 5, 7; legge regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, art. 30, le quali recepiscono i principi sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale e scandiscono un puntuale procedimento ispirato alla collaborazione ed alla tutela delle attribuzioni degli enti locali. La ricerca di casi di esercizio di poter sostitutivi è stata effettuata anche con riferimento ai poteri sostitutivi regionali. I casi rilevati sono stati numerosi in particolare nella regione Sicilia, ma si segnalano anche casi nelle regioni Basilicata ed Emilia-Romagna. Il dato principale, che sembra emergere, pare essere che alle eterogenee discipline di sostituzione corrispondano eterogenee prassi di esercizio della sostituzione. Infatti, alle puntuali fattispecie di disciplina dei poteri sostitutivi dell’Emilia-Romagna corrispondono prassi volte ad effettuare la sostituzione con un delibera della giunta (organo di governo) motivata, nel rispetto di un ampio termine di diffida, nonché nella ricerca di intese volte ad evitare la sostituzione. Alla generale previsione della regione Sicilia, pare corrispondere un prassi sostitutiva caratterizzata da un provvedimento del dirigente generale all’assessorato per gli enti locali (organo di governo?), per nulla motivato, salvo il richiamo generico alle norme di legge, nonché brevi termini di diffida, che sembrano trovare la loro giustificazione in note o solleciti informati che avvisano l’ente locale della possibile sostituzione. In generale il fatto che in molti casi i poteri sostitutivi siano stimolati per mezzo dell’iniziativa dei privati, sembra dimostrare l’attitudine di tal istituto alla tutela degli interessi dei singoli. I differenti livelli nei quali operano i poteri sostitutivi, il ruolo che la Corte ha assegnato a tali strumenti nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nonché i dati emersi dall’indagine dei casi concreti, spingono ad individuare nel potere sostitutivo uno dei principali strumenti di attuazione del principio di sussidiarietà, principio quest’ultimo che sembra rappresentare – assieme ai corollari di proporzionalità, adeguatezza e leale collaborazione – la chiave di lettura della potestà sostitutiva di funzioni amministrative. In tal senso, come detto, pare emergere dall’analisi di casi concreti come il principio di sussidiarietà per mezzo dei poteri sostitutivi concretizzi quel fine, a cui l’art. 118 cost. sembra mirare, di tutela degli interessi pubblici, consentendo all’ente sovraordinato di intervenire laddove l’ente più vicino ai cittadini non riesca. Il principio di sussidiarietà sembra essere la chiave di lettura anche dell’altra categoria della sostituzione legislativa statale. L’impossibilità di trascurare o eliminare l’interesse nazionale, all’interno di un ordinamento regionale fondato sull’art. 5 Cost., sembra aver spino la Corte costituzionale ad individuare una sorta di “potere sostitutivo legislativo”, attraverso il (seppur criticabile) meccanismo introdotto per mezzo della sent. 303 del 2003 e della cosiddetta “chiamata i sussidiarietà”. Del resto adattare i principi enucleati nella giurisprudenza costituzionale a partire dalla sent. n. 117 del 1988 alla chiamata in sussidiarietà e i limiti che dal principio di leale collaborazione derivano, sembra rappresentare un dei modi (a costituzione invariata) per limitare quello che potrebbe rappresentare un meccanismo di rilettura dell’art. 117 Cost. ed ingerenza dello stato nelle competenze della regioni. Nonostante le sensibili differenze non si può negare che lo strumento ideato dalla Corte abbia assunto le vesti della konkurrierende gesetzgebung e, quindi, di fatto, di un meccanismo che senza limiti e procedure potrebbe rappresentare uno strumento di interferenza e sostituzione della stato nelle competenze regionali. Tali limiti e procedure potrebbero essere rinvenuti come detto nelle procedure di sostituzione scandite nelle pronunce del giudice delle leggi. I risultati che si spera emergeranno dalla descritta riflessione intorno ai poteri sostitutivi e il conseguente risultato circa lo stato del regionalismo italiano, non sembrano, però, rappresentare un punto di arrivo, bensì solo di partenza. I poteri sostitutivi potrebbero infatti essere oggetto di futuri interventi di riforma costituzionale, così come lo sono stati in occasione del tentativo di riforma del 2005. Il legislatore costituzionale nel testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta (recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione” e pubblicato in gazzetta ufficiale n. 269 del 18-11-2005) pareva aver fatto un scelta chiara sostituendo il disposto “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni” con “Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell'esercizio delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118”. Insomma si sarebbe introdotto quello strumento che in altri Paesi prende il nome di Supremacy clause o Konkurrierende Gesetzgebung, ma quali sarebbero state le procedure e limiti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare? Il dettato che rigidamente fissa le competenze di stato e regioni, assieme alla reintroduzione espressa dell’interesse nazionale, non avrebbe ridotto eccessivamente l’autonomia regionale? Tali interrogativi mirano a riflettere non tanto intorno a quelli che potrebbero essere gli sviluppi dell’istituto dei poteri sostitutivi. Piuttosto essi sembrano rappresenterebbe l’ulteriore punto di vista per tentare di comprendere quale percorso avrebbe potuto (o potrebbe domani) prendere il regionalismo italiano.

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L’elaborato è dedicato all’esame della forma di emanazione e del sistema d’impugnazione degli atti del CSM circa la carriera giuridica dei magistrati, con particolare attenzione alle numerose implicazioni di livello costituzionale ed amministrativo sollevate dalla problematica. I principali obiettivi perseguiti sono: a) la verifica della costituzionalità del sistema predisposto dalla legge 24 marzo 1958, n. 195, la quale stabilisce che i provvedimenti consiliari siano emanati con decreto presidenziale o ministeriale e che possano essere sindacati dai giudici amministrativi; b) l’individuazione e la risoluzione delle ambiguità interpretative e dei dubbi applicativi che sono emersi fin dall’introduzione della legge in parola e che tutt’ora continuano costantemente a riproporsi, non avendo trovato compiuta sistemazione né in dottrina né in giurisprudenza; c) la ricognizione e l’esame critico della prassi giurisprudenziale, specialmente in ordine alle decisioni più recenti, tenuto conto della mancanza di studi aggiornati in merito pur a fronte dell’ampio numero di pronunce. Sulla base dell’ipotesi di partenza dell’irrinunciabilità, per la piena comprensione della portata precettiva della legge sopra citata, di un’esaustiva analisi delle premesse teoriche necessarie per una piena comprensione dello stessa, lo svolgimento è sostanzialmente articolato in due parti fondamentali. La prima incentrata sulla ricostruzione del perimetro costituzionale dell’indagine, con specifico riferimento all’assetto costituzionale della Magistratura. La seconda, riconducibile nell’alveo proprio del “diritto amministrativo”, concernente a) il significato e la funzione da attribuire alla forma di emanazione degli atti consiliari; b) i poteri ministeriali e presidenziali nella fase di esternazione; c) la tipologia degli atti impugnabili e dei vizi sindacabili in sede giurisdizionale. Con la consapevolezza che lo sviluppo dell’argomento prescelto rappresenta un’angolazione di visuale privilegiata relativamente allo svolgersi dei rapporti tra Potere Esecutivo ed Ordine giudiziario, la tesi affronta complesse questioni di carattere generale quali il principio di separazione dei poteri, il concetto di organo costituzionale e quello di autodichìa, la nozione di autonomia pubblica, i princìpi di imparzialità ed uguaglianza. Il vaglio della giurisprudenza costituzionale ed amministrativa, ampiamente richiamata, è condotto trattando a fondo, sia aspetti connotati da un elevato tasso di tecnicità, come la disciplina del conferimento d’incarichi direttivi, sia interrogativi concernenti diversi aspetti problematici. Segnatamente, l’indagine ha riguardato – tra l’altro – l’ammissibilità del sindacato del giudice amministrativo sugli atti “amministrativi” delle autorità non incardinate nella P.A.; la compatibilità dell’interpretazione evolutiva con l’art. 138 Cost.; la definizione di atto amministrativo; la stessa nozione costituzionale di pubblica amministrazione. La presa d’atto della tendenza giurisprudenziale ad estendere il sindacato al vizio di eccesso di potere conduce infine ad alcune riflessioni conclusive in merito alla conciliabilità del ruolo assunto dal giudice amministrativo col quadro normativo delineato dai Costituenti.

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La ricerca consiste nell’analisi degli elementi normativi che caratterizzano l’azione della Comunità in materia di alimenti. L’obiettivo è quello di verificare l’esistenza di un nucleo di principi comuni cui il legislatore comunitario si ispira nella ricerca di un equilibrio tra le esigenze di tutela della salute e quelle relative alla libera circolazione degli alimenti. Lo studio si apre con la ricostruzione storica delle principali fasi che hanno condotto alla definizione della politica comunitaria di sicurezza alimentare. Durante i primi anni del processo di integrazione europea, l’attenzione del legislatore comunitario si è concentrata sugli alimenti, esclusivamente in virtù della loro qualità di merci. La tutela della salute rimaneva nella sfera di competenza nazionale e le incursioni del legislatore comunitario in tale settore erano volte ad eliminare le divergenze normative suscettibili di rappresentare un ostacolo al commercio. Nella trattazione sono illustrati i limiti che un approccio normativo essenzialmente orientato alla realizzazione del mercato interno era in grado potenzialmente di creare sul sistema e che le vicende legate alle crisi alimentari degli anni Novanta hanno contribuito a rendere evidenti. Dall’urgenza di un coinvolgimento qualitativamente diverso della Comunità nelle tematiche alimentari, si è sviluppata progressivamente la necessità di una politica che fosse in grado di determinare un punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza alimentare e quelle della libera circolazione degli alimenti. Il risultato di tale processo di riflessione è stata l’adozione del Regolamento 178/2002 CE che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare ed istituisce l’Autorità per la sicurezza alimentare. Nei capitoli successivi, è svolta un’analisi dettagliata delle innovazioni normative introdotte nell’ambito dell’azione comunitaria in materia di alimenti, con l’obiettivo di verificare se tale riforma abbia impresso alla formazione delle regole in materia di alimenti caratteristiche e specificità proprie. In particolare, vengono esaminate le finalità della politica alimentare comunitaria, evidenziando il ruolo centrale ormai assunto dalla tutela della salute rispetto al principio fondamentale della libera circolazione. Inoltre, l’analisi si concentra nell’identificazione del campo di applicazione materiale – la definizione di alimento – e personale – la definizione di impresa alimentare e di consumatore – della legislazione alimentare. Successivamente, l'analisi si concentra s sui principi destinati ad orientare l’attività normativa della Comunità e degli Stati membri nell’ambito del settore in precedenza individuato. Particolare attenzione viene dedicata allo studio dell’interazione tra l’attività di consulenza scientifica e la fase politico-decisionale, attraverso l’approfondimento del principio dell’analisi dei rischi, del principio di precauzione e del principio di trasparenza. Infine, l’analisi si conclude con lo studio di alcuni requisiti innovativi introdotti dal Regolamento 178 come la rintracciabilità degli alimenti, l’affermazione generale dell’esigenza di garantire la sicurezza dei prodotti e la responsabilità primaria degli operatori del settore alimentare. Il risultato del profondo ripensamento del sistema attuato con il Regolamento 178 é la progressiva individuazione di un quadro di principi e requisiti orizzontali destinati ad imprimere coerenza ed organicità all’azione della Comunità in materia di alimenti. Tale tendenza è inoltre confermata dalla giurisprudenza comunitaria che utilizza tali principi in chiave interpretativa ed analogica. Lo studio si conclude con alcune considerazioni di carattere generale, mettendo in luce la difficoltà di bilanciare le esigenze di protezione della salute con gli imperativi della libera di circolazione degli alimenti. Tale difficoltà dipende dalla natura di merce “complessa” dei prodotti alimentari nel senso che, accanto alla dimensione economica e commerciale, essi sono caratterizzati da un’importante dimensione sociale e culturale. L'indagine svolta mostra come nel settore considerato la ricerca di un equilibrio tra esigenze contrapposte ha prodotto una sostanziale centralizzazione della gestione della politica alimentare a livello europeo.

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E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più “efficiente”. Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie “Post-Chicago”. Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l’analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull’applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3). Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall’ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.

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La ricerca oggetto della tesi dottorale verte sulla ricostruzione della disciplina della cessazione e delle fasi liquidatore dell’attività nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto, nel tentativo di individuare criteri certi ed omogenei per la sua individuazione, sia in prospettiva comunitaria che in prospettiva nazionale. In primo luogo, l’indagine si concentra sulla ricostruzione della nozione di attività economica e sui profili dinamici dell’attività in ambito comunitario, nell’intento di chiarire, sulla base della giurisprudenza, i criteri utilizzati per individuare la cessazione dell’attività rilevante ai fini dell’imposta, sfruttando in tal senso l’esperienza degli atti preparatori e l’applicabilità dell’ipotesi di applicazione dell’imposta per autoconsumo Vengono così valorizzati, accanto al profilo oggettivo costituito dalla presenza di una legame tra le operazioni della fase liquidatoria, il ruolo del soggetto passivo, quale portatore di una volontà che è in grado di influire sull’esistenza dell’attività stessa, e, conseguentemente, delle dichiarazioni formali imposte dalla Direttiva, quale manifestazione diretta di tale volontà ed elemento in grado di costituire un indice certo di cessazione. In seguito si esamina il regime impositivo nazionale ed in particolare le linee interpretative maggioritarie accolte da dottrina e giurisprudenza. Ricostruiti nozione e ruolo di attività economica, con riferimento all’esercizio d’impresa, vengono analizzati i diversi casi di cessazione contemplati dall’ordinamento –liquidazione volontaria, trasferimento dell’azienda e fallimento- analizzati sia nella prospettiva del diritto tributario che in quella del diritto commerciale. L’esame così sviluppato è volto a contestare l’interpretazione maggioritaria che vede nella sola presenza di beni residui alla liquidazione, o comunque la permanenza di un insieme di beni potenzialmente in grado di far riprendere l’esercizio, elemento sufficiente a mantenere in vita l’impresa e con essa la soggettività passiva all’imposta. Infine, vengono confrontati i risultati raggiunti nell’esame della disciplina comunitaria nazionale, ponendone in evidenza le possibilità incompatibilità ed i punti di contatto, con l’intenzione di dimostrare l’applicabilità anche a livello nazionale dei principi emersi in ambito comunitario.

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L’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer – indubbiamente uno dei capisaldi del pensiero novecentesco – rappresenta una filosofia molto composita, sfaccettata e articolata, per così dire formata da una molteplicità di dimensioni diverse che si intrecciano l’una con l’altra. Ciò risulta evidente già da un semplice sguardo alla composizione interna della sua opera principale, Wahrheit und Methode (1960), nella quale si presenta una teoria del comprendere che prende in esame tre differenti dimensioni dell’esperienza umana – arte, storia e linguaggio – ovviamente concepite come fondamentalmente correlate tra loro. Ma questo quadro d’insieme si complica notevolmente non appena si prendano in esame perlomeno alcuni dei numerosi contributi che Gadamer ha scritto e pubblicato prima e dopo il suo opus magnum: contributi che testimoniano l’importante presenza nel suo pensiero di altre tematiche. Di tale complessità, però, non sempre gli interpreti di Gadamer hanno tenuto pienamente conto, visto che una gran parte dei contributi esegetici sul suo pensiero risultano essenzialmente incentrati sul capolavoro del 1960 (ed in particolare sui problemi della legittimazione delle Geisteswissenschaften), dedicando invece minore attenzione agli altri percorsi che egli ha seguito e, in particolare, alla dimensione propriamente etica e politica della sua filosofia ermeneutica. Inoltre, mi sembra che non sempre si sia prestata la giusta attenzione alla fondamentale unitarietà – da non confondere con una presunta “sistematicità”, da Gadamer esplicitamente respinta – che a dispetto dell’indubbia molteplicità ed eterogeneità del pensiero gadameriano comunque vige al suo interno. La mia tesi, dunque, è che estetica e scienze umane, filosofia del linguaggio e filosofia morale, dialogo con i Greci e confronto critico col pensiero moderno, considerazioni su problematiche antropologiche e riflessioni sulla nostra attualità sociopolitica e tecnoscientifica, rappresentino le diverse dimensioni di un solo pensiero, le quali in qualche modo vengono a convergere verso un unico centro. Un centro “unificante” che, a mio avviso, va individuato in quello che potremmo chiamare il disagio della modernità. In altre parole, mi sembra cioè che tutta la riflessione filosofica di Gadamer, in fondo, scaturisca dalla presa d’atto di una situazione di crisi o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo e la nostra civiltà. Una crisi che, data la sua profondità e complessità, si è per così dire “ramificata” in molteplici direzioni, andando ad investire svariati ambiti dell’esistenza umana. Ambiti che pertanto vengono analizzati e indagati da Gadamer con occhio critico, cercando di far emergere i principali nodi problematici e, alla luce di ciò, di avanzare proposte alternative, rimedi, “correttivi” e possibili soluzioni. A partire da una tale comprensione di fondo, la mia ricerca si articola allora in tre grandi sezioni dedicate rispettivamente alla pars destruens dell’ermeneutica gadameriana (prima e seconda sezione) ed alla sua pars costruens (terza sezione). Nella prima sezione – intitolata Una fenomenologia della modernità: i molteplici sintomi della crisi – dopo aver evidenziato come buona parte della filosofia del Novecento sia stata dominata dall’idea di una crisi in cui verserebbe attualmente la civiltà occidentale, e come anche l’ermeneutica di Gadamer possa essere fatta rientrare in questo discorso filosofico di fondo, cerco di illustrare uno per volta quelli che, agli occhi del filosofo di Verità e metodo, rappresentano i principali sintomi della crisi attuale. Tali sintomi includono: le patologie socioeconomiche del nostro mondo “amministrato” e burocratizzato; l’indiscriminata espansione planetaria dello stile di vita occidentale a danno di altre culture; la crisi dei valori e delle certezze, con la concomitante diffusione di relativismo, scetticismo e nichilismo; la crescente incapacità a relazionarsi in maniera adeguata e significativa all’arte, alla poesia e alla cultura, sempre più degradate a mero entertainment; infine, le problematiche legate alla diffusione di armi di distruzione di massa, alla concreta possibilità di una catastrofe ecologica ed alle inquietanti prospettive dischiuse da alcune recenti scoperte scientifiche (soprattutto nell’ambito della genetica). Una volta delineato il profilo generale che Gadamer fornisce della nostra epoca, nella seconda sezione – intitolata Una diagnosi del disagio della modernità: il dilagare della razionalità strumentale tecnico-scientifica – cerco di mostrare come alla base di tutti questi fenomeni egli scorga fondamentalmente un’unica radice, coincidente peraltro a suo giudizio con l’origine stessa della modernità. Ossia, la nascita della scienza moderna ed il suo intrinseco legame con la tecnica e con una specifica forma di razionalità che Gadamer – facendo evidentemente riferimento a categorie interpretative elaborate da Max Weber, Martin Heidegger e dalla Scuola di Francoforte – definisce anche «razionalità strumentale» o «pensiero calcolante». A partire da una tale visione di fondo, cerco quindi di fornire un’analisi della concezione gadameriana della tecnoscienza, evidenziando al contempo alcuni aspetti, e cioè: primo, come l’ermeneutica filosofica di Gadamer non vada interpretata come una filosofia unilateralmente antiscientifica, bensì piuttosto come una filosofia antiscientista (il che naturalmente è qualcosa di ben diverso); secondo, come la sua ricostruzione della crisi della modernità non sfoci mai in una critica “totalizzante” della ragione, né in una filosofia della storia pessimistico-negativa incentrata sull’idea di un corso ineluttabile degli eventi guidato da una razionalità “irrazionale” e contaminata dalla brama di potere e di dominio; terzo, infine, come la filosofia di Gadamer – a dispetto delle inveterate interpretazioni che sono solite scorgervi un pensiero tradizionalista, autoritario e radicalmente anti-illuminista – non intenda affatto respingere l’illuminismo scientifico moderno tout court, né rinnegarne le più importanti conquiste, ma più semplicemente “correggerne” alcune tendenze e recuperare una nozione più ampia e comprensiva di ragione, in grado di render conto anche di quegli aspetti dell’esperienza umana che, agli occhi di una razionalità “limitata” come quella scientista, non possono che apparire come meri residui di irrazionalità. Dopo aver così esaminato nelle prime due sezioni quella che possiamo definire la pars destruens della filosofia di Gadamer, nella terza ed ultima sezione – intitolata Una terapia per la crisi della modernità: la riscoperta dell’esperienza e del sapere pratico – passo quindi ad esaminare la sua pars costruens, consistente a mio giudizio in un recupero critico di quello che egli chiama «un altro tipo di sapere». Ossia, in un tentativo di riabilitazione di tutte quelle forme pre- ed extra-scientifiche di sapere e di esperienza che Gadamer considera costitutive della «dimensione ermeneutica» dell’esistenza umana. La mia analisi della concezione gadameriana del Verstehen e dell’Erfahrung – in quanto forme di un «sapere pratico (praktisches Wissen)» differente in linea di principio da quello teorico e tecnico – conduce quindi ad un’interpretazione complessiva dell’ermeneutica filosofica come vera e propria filosofia pratica. Cioè, come uno sforzo di chiarificazione filosofica di quel sapere prescientifico, intersoggettivo e “di senso comune” effettivamente vigente nella sfera della nostra Lebenswelt e della nostra esistenza pratica. Ciò, infine, conduce anche inevitabilmente ad un’accentuazione dei risvolti etico-politici dell’ermeneutica di Gadamer. In particolare, cerco di esaminare la concezione gadameriana dell’etica – tenendo conto dei suoi rapporti con le dottrine morali di Platone, Aristotele, Kant e Hegel – e di delineare alla fine un profilo della sua ermeneutica filosofica come filosofia del dialogo, della solidarietà e della libertà.

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Se il lavoro dello storico è capire il passato come è stato compreso dalla gente che lo ha vissuto, allora forse non è azzardato pensare che sia anche necessario comunicare i risultati delle ricerche con strumenti propri che appartengono a un'epoca e che influenzano la mentalità di chi in quell'epoca vive. Emergenti tecnologie, specialmente nell’area della multimedialità come la realtà virtuale, permettono agli storici di comunicare l’esperienza del passato in più sensi. In che modo la storia collabora con le tecnologie informatiche soffermandosi sulla possibilità di fare ricostruzioni storiche virtuali, con relativi esempi e recensioni? Quello che maggiormente preoccupa gli storici è se una ricostruzione di un fatto passato vissuto attraverso la sua ricreazione in pixels sia un metodo di conoscenza della storia che possa essere considerato valido. Ovvero l'emozione che la navigazione in una realtà 3D può suscitare, è un mezzo in grado di trasmettere conoscenza? O forse l'idea che abbiamo del passato e del suo studio viene sottilmente cambiato nel momento in cui lo si divulga attraverso la grafica 3D? Da tempo però la disciplina ha cominciato a fare i conti con questa situazione, costretta soprattutto dall'invasività di questo tipo di media, dalla spettacolarizzazione del passato e da una divulgazione del passato parziale e antiscientifica. In un mondo post letterario bisogna cominciare a pensare che la cultura visuale nella quale siamo immersi sta cambiando il nostro rapporto con il passato: non per questo le conoscenze maturate fino ad oggi sono false, ma è necessario riconoscere che esiste più di una verità storica, a volte scritta a volte visuale. Il computer è diventato una piattaforma onnipresente per la rappresentazione e diffusione dell’informazione. I metodi di interazione e rappresentazione stanno evolvendo di continuo. Ed è su questi due binari che è si muove l’offerta delle tecnologie informatiche al servizio della storia. Lo scopo di questa tesi è proprio quello di esplorare, attraverso l’utilizzo e la sperimentazione di diversi strumenti e tecnologie informatiche, come si può raccontare efficacemente il passato attraverso oggetti tridimensionali e gli ambienti virtuali, e come, nel loro essere elementi caratterizzanti di comunicazione, in che modo possono collaborare, in questo caso particolare, con la disciplina storica. La presente ricerca ricostruisce alcune linee di storia delle principali fabbriche attive a Torino durante la seconda guerra mondiale, ricordando stretta relazione che esiste tra strutture ed individui e in questa città in particolare tra fabbrica e movimento operaio, è inevitabile addentrarsi nelle vicende del movimento operaio torinese che nel periodo della lotta di Liberazione in città fu un soggetto politico e sociale di primo rilievo. Nella città, intesa come entità biologica coinvolta nella guerra, la fabbrica (o le fabbriche) diventa il nucleo concettuale attraverso il quale leggere la città: sono le fabbriche gli obiettivi principali dei bombardamenti ed è nelle fabbriche che si combatte una guerra di liberazione tra classe operaia e autorità, di fabbrica e cittadine. La fabbrica diventa il luogo di "usurpazione del potere" di cui parla Weber, il palcoscenico in cui si tengono i diversi episodi della guerra: scioperi, deportazioni, occupazioni .... Il modello della città qui rappresentata non è una semplice visualizzazione ma un sistema informativo dove la realtà modellata è rappresentata da oggetti, che fanno da teatro allo svolgimento di avvenimenti con una precisa collocazione cronologica, al cui interno è possibile effettuare operazioni di selezione di render statici (immagini), di filmati precalcolati (animazioni) e di scenari navigabili interattivamente oltre ad attività di ricerca di fonti bibliografiche e commenti di studiosi segnatamente legati all'evento in oggetto. Obiettivo di questo lavoro è far interagire, attraverso diversi progetti, le discipline storiche e l’informatica, nelle diverse opportunità tecnologiche che questa presenta. Le possibilità di ricostruzione offerte dal 3D vengono così messe a servizio della ricerca, offrendo una visione integrale in grado di avvicinarci alla realtà dell’epoca presa in considerazione e convogliando in un’unica piattaforma espositiva tutti i risultati. Divulgazione Progetto Mappa Informativa Multimediale Torino 1945 Sul piano pratico il progetto prevede una interfaccia navigabile (tecnologia Flash) che rappresenti la pianta della città dell’epoca, attraverso la quale sia possibile avere una visione dei luoghi e dei tempi in cui la Liberazione prese forma, sia a livello concettuale, sia a livello pratico. Questo intreccio di coordinate nello spazio e nel tempo non solo migliora la comprensione dei fenomeni, ma crea un maggiore interesse sull’argomento attraverso l’utilizzo di strumenti divulgativi di grande efficacia (e appeal) senza perdere di vista la necessità di valicare le tesi storiche proponendosi come piattaforma didattica. Un tale contesto richiede uno studio approfondito degli eventi storici al fine di ricostruire con chiarezza una mappa della città che sia precisa sia topograficamente sia a livello di navigazione multimediale. La preparazione della cartina deve seguire gli standard del momento, perciò le soluzioni informatiche utilizzate sono quelle fornite da Adobe Illustrator per la realizzazione della topografia, e da Macromedia Flash per la creazione di un’interfaccia di navigazione. La base dei dati descrittivi è ovviamente consultabile essendo contenuta nel supporto media e totalmente annotata nella bibliografia. È il continuo evolvere delle tecnologie d'informazione e la massiccia diffusione dell’uso dei computer che ci porta a un cambiamento sostanziale nello studio e nell’apprendimento storico; le strutture accademiche e gli operatori economici hanno fatto propria la richiesta che giunge dall'utenza (insegnanti, studenti, operatori dei Beni Culturali) di una maggiore diffusione della conoscenza storica attraverso la sua rappresentazione informatizzata. Sul fronte didattico la ricostruzione di una realtà storica attraverso strumenti informatici consente anche ai non-storici di toccare con mano quelle che sono le problematiche della ricerca quali fonti mancanti, buchi della cronologia e valutazione della veridicità dei fatti attraverso prove. Le tecnologie informatiche permettono una visione completa, unitaria ed esauriente del passato, convogliando tutte le informazioni su un'unica piattaforma, permettendo anche a chi non è specializzato di comprendere immediatamente di cosa si parla. Il miglior libro di storia, per sua natura, non può farlo in quanto divide e organizza le notizie in modo diverso. In questo modo agli studenti viene data l'opportunità di apprendere tramite una rappresentazione diversa rispetto a quelle a cui sono abituati. La premessa centrale del progetto è che i risultati nell'apprendimento degli studenti possono essere migliorati se un concetto o un contenuto viene comunicato attraverso più canali di espressione, nel nostro caso attraverso un testo, immagini e un oggetto multimediale. Didattica La Conceria Fiorio è uno dei luoghi-simbolo della Resistenza torinese. Il progetto è una ricostruzione in realtà virtuale della Conceria Fiorio di Torino. La ricostruzione serve a arricchire la cultura storica sia a chi la produce, attraverso una ricerca accurata delle fonti, sia a chi può poi usufruirne, soprattutto i giovani, che, attratti dall’aspetto ludico della ricostruzione, apprendono con più facilità. La costruzione di un manufatto in 3D fornisce agli studenti le basi per riconoscere ed esprimere la giusta relazione fra il modello e l’oggetto storico. Le fasi di lavoro attraverso cui si è giunti alla ricostruzione in 3D della Conceria: . una ricerca storica approfondita, basata sulle fonti, che possono essere documenti degli archivi o scavi archeologici, fonti iconografiche, cartografiche, ecc.; . La modellazione degli edifici sulla base delle ricerche storiche, per fornire la struttura geometrica poligonale che permetta la navigazione tridimensionale; . La realizzazione, attraverso gli strumenti della computer graphic della navigazione in 3D. Unreal Technology è il nome dato al motore grafico utilizzato in numerosi videogiochi commerciali. Una delle caratteristiche fondamentali di tale prodotto è quella di avere uno strumento chiamato Unreal editor con cui è possibile costruire mondi virtuali, e che è quello utilizzato per questo progetto. UnrealEd (Ued) è il software per creare livelli per Unreal e i giochi basati sul motore di Unreal. E’ stata utilizzata la versione gratuita dell’editor. Il risultato finale del progetto è un ambiente virtuale navigabile raffigurante una ricostruzione accurata della Conceria Fiorio ai tempi della Resistenza. L’utente può visitare l’edificio e visualizzare informazioni specifiche su alcuni punti di interesse. La navigazione viene effettuata in prima persona, un processo di “spettacolarizzazione” degli ambienti visitati attraverso un arredamento consono permette all'utente una maggiore immersività rendendo l’ambiente più credibile e immediatamente codificabile. L’architettura Unreal Technology ha permesso di ottenere un buon risultato in un tempo brevissimo, senza che fossero necessari interventi di programmazione. Questo motore è, quindi, particolarmente adatto alla realizzazione rapida di prototipi di una discreta qualità, La presenza di un certo numero di bug lo rende, però, in parte inaffidabile. Utilizzare un editor da videogame per questa ricostruzione auspica la possibilità di un suo impiego nella didattica, quello che le simulazioni in 3D permettono nel caso specifico è di permettere agli studenti di sperimentare il lavoro della ricostruzione storica, con tutti i problemi che lo storico deve affrontare nel ricreare il passato. Questo lavoro vuole essere per gli storici una esperienza nella direzione della creazione di un repertorio espressivo più ampio, che includa gli ambienti tridimensionali. Il rischio di impiegare del tempo per imparare come funziona questa tecnologia per generare spazi virtuali rende scettici quanti si impegnano nell'insegnamento, ma le esperienze di progetti sviluppati, soprattutto all’estero, servono a capire che sono un buon investimento. Il fatto che una software house, che crea un videogame di grande successo di pubblico, includa nel suo prodotto, una serie di strumenti che consentano all'utente la creazione di mondi propri in cui giocare, è sintomatico che l'alfabetizzazione informatica degli utenti medi sta crescendo sempre più rapidamente e che l'utilizzo di un editor come Unreal Engine sarà in futuro una attività alla portata di un pubblico sempre più vasto. Questo ci mette nelle condizioni di progettare moduli di insegnamento più immersivi, in cui l'esperienza della ricerca e della ricostruzione del passato si intreccino con lo studio più tradizionale degli avvenimenti di una certa epoca. I mondi virtuali interattivi vengono spesso definiti come la forma culturale chiave del XXI secolo, come il cinema lo è stato per il XX. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di suggerire che vi sono grosse opportunità per gli storici impiegando gli oggetti e le ambientazioni in 3D, e che essi devono coglierle. Si consideri il fatto che l’estetica abbia un effetto sull’epistemologia. O almeno sulla forma che i risultati delle ricerche storiche assumono nel momento in cui devono essere diffuse. Un’analisi storica fatta in maniera superficiale o con presupposti errati può comunque essere diffusa e avere credito in numerosi ambienti se diffusa con mezzi accattivanti e moderni. Ecco perchè non conviene seppellire un buon lavoro in qualche biblioteca, in attesa che qualcuno lo scopra. Ecco perchè gli storici non devono ignorare il 3D. La nostra capacità, come studiosi e studenti, di percepire idee ed orientamenti importanti dipende spesso dai metodi che impieghiamo per rappresentare i dati e l’evidenza. Perché gli storici possano ottenere il beneficio che il 3D porta con sè, tuttavia, devono sviluppare un’agenda di ricerca volta ad accertarsi che il 3D sostenga i loro obiettivi di ricercatori e insegnanti. Una ricostruzione storica può essere molto utile dal punto di vista educativo non sono da chi la visita ma, anche da chi la realizza. La fase di ricerca necessaria per la ricostruzione non può fare altro che aumentare il background culturale dello sviluppatore. Conclusioni La cosa più importante è stata la possibilità di fare esperienze nell’uso di mezzi di comunicazione di questo genere per raccontare e far conoscere il passato. Rovesciando il paradigma conoscitivo che avevo appreso negli studi umanistici, ho cercato di desumere quelle che potremo chiamare “leggi universali” dai dati oggettivi emersi da questi esperimenti. Da punto di vista epistemologico l’informatica, con la sua capacità di gestire masse impressionanti di dati, dà agli studiosi la possibilità di formulare delle ipotesi e poi accertarle o smentirle tramite ricostruzioni e simulazioni. Il mio lavoro è andato in questa direzione, cercando conoscere e usare strumenti attuali che nel futuro avranno sempre maggiore presenza nella comunicazione (anche scientifica) e che sono i mezzi di comunicazione d’eccellenza per determinate fasce d’età (adolescenti). Volendo spingere all’estremo i termini possiamo dire che la sfida che oggi la cultura visuale pone ai metodi tradizionali del fare storia è la stessa che Erodoto e Tucidide contrapposero ai narratori di miti e leggende. Prima di Erodoto esisteva il mito, che era un mezzo perfettamente adeguato per raccontare e dare significato al passato di una tribù o di una città. In un mondo post letterario la nostra conoscenza del passato sta sottilmente mutando nel momento in cui lo vediamo rappresentato da pixel o quando le informazioni scaturiscono non da sole, ma grazie all’interattività con il mezzo. La nostra capacità come studiosi e studenti di percepire idee ed orientamenti importanti dipende spesso dai metodi che impieghiamo per rappresentare i dati e l’evidenza. Perché gli storici possano ottenere il beneficio sottinteso al 3D, tuttavia, devono sviluppare un’agenda di ricerca volta ad accertarsi che il 3D sostenga i loro obiettivi di ricercatori e insegnanti. Le esperienze raccolte nelle pagine precedenti ci portano a pensare che in un futuro non troppo lontano uno strumento come il computer sarà l’unico mezzo attraverso cui trasmettere conoscenze, e dal punto di vista didattico la sua interattività consente coinvolgimento negli studenti come nessun altro mezzo di comunicazione moderno.