930 resultados para Sculpture, Baroque.
Resumo:
La presente ricerca, L’architettura religiosa di Luis Moya Blanco. La costruzione come principio compositivo, tratta i temi inerenti l’edificazione di spazi per il culto della religione cristiana che l’architetto spagnolo progetta e realizza a Madrid dal 1945 al 1970. La tesi è volta ad indagare quali siano i principi alla base della composizione architettonica che si possano considerare immutati, nel lungo arco temporale in cui l’autore si trova ad operare. Tale indagine, partendo da una prima analisi riguardante gli anni della formazione e gli scritti da lui prodotti, verte in particolare sullo studio dei progetti più recenti e ancora poco trattati dalla critica. L’obbiettivo della presente tesi è dunque quello di apportare un contributo originale sull’aspetto compositivo della sua architettura. Ma analizzare la composizione significa, in Moya, analizzare la costruzione che, a dispetto del susseguirsi dei linguaggi, rimarrà l’aspetto principale delle sue opere. Lo studio dei manufatti mediante categorie estrapolate dai suoi stessi scritti – la matematica, il numero, la geometria e i tracciati regolatori - permette di evidenziare punti di contatto e di continuità tra le prime chiese, fortemente caratterizzate da un impianto barocco, e gli ultimi progetti che sembrano cercare invece un confronto con forme decisamente moderne. Queste riflessioni, parallelamente contestualizzate nell’ambito della sua consistente produzione saggistica, andranno a confluire nell’idea finale per cui la costruzione diventi per Luis Moya Blanco il principio compositivo da cui non si può prescindere, la regola che sostanzia nella materia il numero e la geometria. Se la costruzione è dunque la pietrificazione di leggi geometrico-matematiche che sottendono schemi planimetrici; il ricorso allo spazio di origine centrale non risponde all’intenzione di migliorare la liturgia, ma a questioni di tipo filosofico-idealista, che fanno corrispondere alla somma naturalezza della perfezione divina, la somma perfezione della forma circolare o di uno dei suoi derivati come l’ellisse.
Resumo:
Il presente progetto di ricerca, nato inizialmente con l’obbiettivo d’individuare in che modo e in che misura, i testi teatrali del drammaturgo e comico dell’Arte Giovan Battista Andreini, detto Lelio, figlio d’Isabella e Francesco, anche loro attori e letterati d’alto livello, risentirono dell’influenza del mondo dei coevi teatri in musica, dall’intermedio al balletto, si è progressivamente evoluto, divenendo, ben presto, uno studio sulle modalità compositive sperimentali dell’Andreini, dove, in verità, la dimensione del sonoro e la manipolazione dell’elemento musicale, non furono altro che uno dei vari aspetti di suddetta poetica dell’innovazione. Analizzando dunque, minuziosamente, tutte le pièce andreiniane e contestualizzandole, di volta in volta, nel composito panorama sociale, politico e culturale, della prima metà del XVII secolo, in Italia come in Francia, giacché egli lavorò in entrambi gli stati con una certa regolarità - per questo motivo le ricerche sul campo si sono equamente ripartite tra i due paesi - si è giunti a ricostruire, nel dettaglio, quel tessuto, variegato e multiforme, di legami ed influenze, caratterizzato dalla perpetua pulsione alla sperimentazione, esistente tra l’universo performativo barocco e quello che può considerarsi uno dei più alti esponenti della commedia dell’Arte italiana dell’epoca, ridisegnando così i confini di una carriera interamente votata al Teatro e durata più di mezzo secolo.
Resumo:
La tesi di ricerca ha portato alla realizzazione di un’edizione critica del Giappone di Daniello Bartoli (1660): per la prima volta la «seconda parte» dell’Asia trova, in questo lavoro, una trascrizione integrale condotta con moderni criteri filologi. Quanto all’esegesi la ricerca ha visto la compilazione di tre «Schedari»: un «Indice dei nomi», che vede l’identificazione dei personaggi storici citati esplicitamente nell’opera, ne traccia un rapido profilo biografico e ne fornisce precisa e aggiornata bibliografia. Per quanto riguarda i missionari evocati dall’autore nel testo, questa sezione indica se (e dove) si tratta di personaggio o di fonte (registrando, nel caso, il luogo o i luoghi in cui Bartoli ricorre a tale testimonianza); un «Indice dei luoghi», che dà l’indicazione moderna del luogo citato e ne fornisce il riscontro con i repertori più aggiornati; un «Lessico» riservato ai termini giapponesi presenti nel testo che vengono spiegati e, là dove possibile, studiati nella loro storia, nella loro presenza nella coeva letteratura di viaggio e corredati di utili riferimenti bibliografici. Le pagine introduttive inquadrano l’opera di Bartoli sia nell’orizzonte biografico dell’autore sia nel milieu gesuitico barocco, fornendo puntuali coordinate storiche grazie alle quali recuperare il più ampio contesto delle missioni gesuitiche nell’Estremo Oriente tra Cinque e Seicento. Particolare attenzione è stata riservata al modo di intendere il compito dello storico da parte di Bartoli: una storiografia la sua che s’intreccia in modi affatto peculiari alle diverse forme stilistiche e dinamiche retoriche richieste dalle altre due grandi attività a cui egli dedicò impegno e passione: l’insegnamento e la predicazione.
Resumo:
Tra il V ed il VI secolo, la città di Ravenna, per tre volte capitale, emerge fra i più significativi centri dell’impero, fungendo da cerniera tra Oriente e Occidente, soprattutto grazie ai mosaici parietali degli edifici di culto, perfettamente inseriti in una koinè culturale e artistica che ha come comune denominatore il Mar Mediterraneo, nel contesto di parallele vicende storiche e politiche. Rispetto ai ben noti e splendidi mosaici ravennati, che insieme costituiscono senza dubbio un unicum nel panorama artistico dell’età tardoantica e altomedievale, nelle decorazioni musive parietali dei coevi edifici di culto dei diversi centri dell’impero d’Occidente e d’Oriente, e in particolare in quelli localizzati nelle aree costiere, si possono cogliere divergenze, ma anche simmetrie dal punto di vista iconografico, iconologico e stilistico. Sulla base della letteratura scientifica e attraverso un poliedrico esame delle superfici musive parietali, basato su una metodologia interdisciplinare, si è cercato di chiarire l’articolato quadro di relazioni culturali, ideologiche ed artistiche che hanno interessato e interessano tuttora Ravenna e i vari centri della tarda antichità, insistendo sulla pluralità, sulla complessità e sulla confluenza di diverse esperienze artistiche sui mosaici di Ravenna. A tale scopo, i dati archeologici e artistici sono stati integrati con quelli storici, agiografici ed epigrafici, con opportuni collegamenti all’architettura, alla scultura, alle arti decorative e alle miniature, a testimonianza dell’unità di intenti di differenti media artistici, orientati, pur nella diversità, verso le medesime finalità dogmatiche, politiche e celebrative. Si tratta dunque di uno studio di revisione e di sintesi sui mosaici parietali mediterranei di V e VI secolo, allo scopo di aggiungere un nuovo tassello alla già pur vasta letteratura dedicata all’argomento.
Resumo:
Questa tesi comprende la ricerca sui materiali provenienti dagli scavi britannici, avvenuti fra il 1911 e il 1920, del sito di Karkemish (Gaziantep - Turchia). Vengono qui studiati gli oggetti (a eccezione delle sculture) databili all’Età del Bronzo e del Ferro, che sono nella quasi totalità inediti. Si sono prese in considerazione i reperti attualmente conservati al British Museum di Londra, nei Musei Archeologici di Istanbul e al Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara.
Resumo:
Arnt van Tricht, gest. 1570, unterhielt bis in die späten 50er Jahre des 16. Jahrhunderts, wahrschein-lich aus Antwerpen kommend, in Kalkar am Niederrhein eine sehr erfolgreiche Werkstatt. Die bis dahin vorherrschende spätgotische Formensprache der langjährig ansässigen Bildhauer löste er durch die der Renaissance ab, führte jedoch deren Arbeitsfelder und Materialwahl weiter. Arnt van Tricht schuf Arbeiten sowohl religiöser als auch profaner Natur innerhalb des Gebiets der damals sehr bedeutenden Vereinigten Herzogtümer Kleve-Mark-Jülich-Berg und Geldern. Seine wohlhabenden Auftraggeber entstammten dem Klerus, der Bürgerschaft und dem Adel.rnIm Rahmen der Arbeit zeigte sich, dass sich für den Künstler die Verlegung der herzoglichen Residenz nach Düsseldorf und der wirtschaftliche Niedergang der Region letztlich stärker auswirkte als die religiösen Veränderungen durch die Reformation.rnArnt van Tricht schuf die meisten seiner religiösen Bildwerke für die Stiftskirche St. Viktor in Xanten, die durch die Bürgerschaft ausgestattete Pfarrkirche von St. Nicolai in Kalkar und umliegende Gemeinden. Einzelne Stücke sind, wohl über familiäre Verflechtungen vermittelt, in einem weiteren Radius zu finden. Van Tricht arbeitete Schnitzretabel mitsamt ihrer ornamentalen und figuralen Aus-stattung sowie Skulpturen(-gruppen) in Eichenholz. Daneben finden sich im Werk zahlreiche in Sandstein gearbeitete Skulpturen, die teilweise an Pfeilern und Portalen der Kirchen architektur-gebunden sind. Neben diesen rundplastischen Werken schuf Arnt van Tricht eine große Anzahl an steinernen Reliefarbeiten. Hierbei nehmen die überwiegend für die lokalen Kanoniker gearbeiteten Epitaphien mit biblischem Reliefbild in Ornamentrahmen den größten Teil ein.rnEin zweiter, gleichwertiger Werkkomplex, überwiegend in Sandstein gearbeitet, ist profaner Natur und fällt durch die Größe der Aufträge ins Gewicht. Arnt van Tricht war an einigen groß angelegten Modernisierungsprojekten an Stadthäusern und Kastellen des lokalen Adels beschäftigt. Für mehrere aufwendig gestaltete Fassadendekorationen arbeitete er Architekturglieder mit figürlicher Darstellung oder Ornament, Büsten und freiplastische Skulpturen. Arnt van Tricht war aber auch an der Aus-gestaltung der Innenräume beteiligt. Aufwendig skulptierte und reliefverzierte Kaminverkleidungen stehen dabei neben reduzierteren Arbeiten für offensichtlich weniger repräsentative Räume. Neben in Eichenholz gearbeiteter Vertäfelung schuf Arnt van Tricht hölzerne figurale Handtuchhalter. Diese zeigen, wie auch die Reliefbilder der Kamine, die darüber hinaus Wappen und Porträts der Bauherren aufnehmen, eine religiöse oder profane, auch antikisierende Thematik, bei der ein moralisierender Unterton mitschwingt.rnIn dieser Arbeit werden erstmals alle Werkstücke des Künstlers zusammengeführt dargestellt, so dass ein Werkkatalog mit einem Überblick über das sehr breit gefächerte Spektrum des Opus Arnt van Trichts vorliegt. Häufig durch bloße Nennung mit Arnt van Tricht in Verbindung gebrachte Arbeiten werden bewertet und die Zu- oder Abschreibung begründet. Auch können einige Stücke neu zugeschrieben werden.
Resumo:
Georg Breitner Simulacra Artis pretio metienda Studien zur Erforschung spätantiker mythologischer Rundplastik Zusammenfassung: Die römische Rundplastik stellt einen zentralen Bestandteil römischer Ausstattung dar. Wirtschaftliche und religionspolitische Veränderungen in der Spätantike beeinflussten nachhaltig ihre Herstellung und Verwendung. In der Forschung stehen sich derzeit zwei Haupttendenzen gegenüber. Während die eine das Ende der römischen Idealplastik im 3.Jh.n.Chr. sehen möchte, schlägt die andere eine nahezu ungebrochene Produktion bis in das späte 4.Jh.n.Chr. vor. Die Arbeit untersucht daher nicht nur den Entwicklungsprozess, sondern auch die Gründe für die heute so unterschiedliche Bewertung. Nach dem einleitenden Teil zum Forschungstand, dem chronologischen Rahmen und der Zielsetzung der Arbeit, wird im zweiten Teil die heidnische Rundplastik in der spätantiken Literatur betrachtet. Ausgehend von der Frage nach dem Bedarf an Rundplastik und dem privaten wie öffentlichen Aufstellungskontextes in der Spätantike, werden Grundlagen für die Bestimmung spätantiker Verhaltensmuster herausgearbeitet, die eine Aussage über die Herstellung von rundplastischen Werken wahrscheinlich macht. Hierzu werden ausgewählte literarische Quellen herangezogen, die Veränderungen im Umgang mit der Präsenz heidnischer Rundplastik in einem zunehmend christlich geprägten gesellschaftlichen Raum nachzeichnen lassen. Die höchst unterschiedlichen Äußerungen spätantiker Autoren weisen auf eine vielschichtige Auseinandersetzung mit dem kulturellen Erbe und seinem Weiterleben. Die Betrachtung der literarischen Quellen zeigt, dass weder Hinweise für ein mangelndes Interesse bestehen, noch die im 4.Jh. einsetzenden religiösen Veränderungen eine Produktion und Aufstellung der mythologischen Rundplastik ausschließen. Vielmehr zeigt sich ein wachsendes Bewusstsein am kulturellen Erbe, das sich in der Auseinandersetzung mit dem Inhalt und dem künstlerischen Schaffensprozess einer Statue ausdrückt. Durch die Loslösung des mythologischen Inhalts der Statuen von der heidnischen Religionsausübung erhalten die Statuen, aber auch ihre Künstler eine neue Wertschätzung, die ihren Erhalt garantieren und neue künstlerische Prozesse auslösen. Mit der Analyse der literarischen Quellen sind die Rahmenbedingungen eines gesellschaftlichen Umfelds bestimmt, die in den folgenden Kapiteln auf ihre Verbindungen mit der realen Existenz spätantiker Statuen mit mythologischem Inhalt geprüft werden. Im dritten Teil werden zunächst methodische Aspekte zu den unterschiedlichen Positionen in der Forschung diskutiert. Die bisherigen Datierungsvorschläge spätantiker Rundplastik stehen dabei ebenso im Zentrum, wie die Vorschläge eigener methodischer Zielsetzungen. Es zeigt sich, dass die Polarisierung der Forschungsmeinung nicht allein durch das untersuchte Material, sondern vom methodischen Umgang mit der archäologischen Stilkritik und der Definition von Modellen kunsthistorischer Entwicklungen bestimmt wird. Es werden daher Wege gesucht, die Datierung spätantiker Kunstentwicklung am Beispiel der mythologischen Rundplastik auf eine neue methodische Basis zu stellen. Ausgehend von der Rundplastik des 3.Jh.n.Chr. werden im dritten Teil der Arbeit anhand ausgewählter Statuengruppen die bisherigen, teilweise kontrovers geführten Überlegungen zur Datierbarkeit und kunsthistorischen Stellung und Entwicklung spätantiker Rundplastik geprüft. Es zeigt sich, dass durch die Einbeziehung eines chronologisch weiter gefassten Rahmens (3.-5.Jh.) Möglichkeiten zur Bestimmung spätantiker Stiltendenzen und ihrer Datierung hinzugewonnen werden können. Auf dieser Grundlage können einige Statuen erstmals der Spätantike zugewiesen werden. Andere Statuen- bislang für spätantik gehalten - werden dagegen deutlich früher datiert. Die zeitstilistischen Bewertungen der Fallbeispiele zeigen, dass grundsätzliche Phänomene und Definitionen spätantiker Kunstentwicklung überdacht werden müssen. So zeugt das Fortbestehen klassischer Formprinzipien in einem gewandelten gesellschaftlichen Umfeld nicht von einer Renaissance, sondern vielmehr von einem andauernden Prozeß im Umgang mit dem kulturellen Erbe. Im fünften Abschnitt der Arbeit werden alle angesprochenen Aspekte nochmals aufgegriffen, um ein Bild von der Wertschätzung, Produktion und damit Fortbestandes römischer Idealplastik zu zeichnen. Die Arbeit schließt mit einem Ausblick ab, der Perspektiven der Stilanalyse spätantiker Rundplastik für die Bewertung nachfolgender Stilentwicklungen aufzeigt.
Resumo:
Famille de pasteurs, politiciens et entrepreneurs de Zofingue, attestée pour la première fois en 1527, lorsque leur aïeul Jean, tonnelier originaire de Nîmes, obtint la bourgeoisie de Zofingue. Michael (1521-1605), avoyer, l'un de ses cinq fils, est l'ancêtre de la branche des imprimeurs et éditeurs. Après lui, de nombreux R. consolidèrent durablement l'influence de la famille. A partir du XVIIIe s., divers membres firent des carrières politiques, tels Samuel (1706-1786), avoyer, et Rudolf Friedrich (1805-1886), président de la ville. Les R. furent aussi très liés à l'Eglise. Le fils de Michael, Moritz (1557-1615), fut pasteur et doyen à Zofingue. Jusqu'au XIXe s., la famille compta une trentaine d'ecclésiastiques, essentiellement des pasteurs officiant sur le territoire bernois, tels Johann Heinrich ( -> 3) et Michael ( -> 8). Les conseillers Beat (1712-1778) et Niklaus (1734-1766) furent les premiers R. actifs dans la production protoindustrielle de drap. D'autres négociants suivirent jusqu'au milieu du XIXe s. L'architecte Niklaus Emanuel (1744-1815) construisit l'hôtel de ville de Zofingue (1792-1795) de style baroque tardif. Johann Rudolf ( -> 4) se distingua sous la République helvétique (1798-1803). Samuel (1767-1826), conseiller municipal de Zofingue, créa les armoiries du canton d'Argovie en 1803. Les R. s'affirmèrent sur le plan cantonal avec Karl Ludwig ( -> 6), chancelier, et Arnold ( -> 1), conseiller d'Etat et plusieurs fois landamman, et sur le plan fédéral avec Johann Rudolf ( -> 5), conseiller national, et Gottlieb ( -> 2), conseiller aux Etats et chancelier de la Confédération. Johann Rudolf (1803-1874) fonda, en 1833, l'imprimerie Ringier à Zofingue, reprise par son fils Franz Emil (1837-1898). A partir de 1898, Paul August ( -> 9), représentant de la troisième génération d'imprimeurs, agrandit l'entreprise dont il fit la principale imprimerie et maison d'édition de Suisse. Cette expansion se poursuivit après 1960 sous son fils Hans (1906-2003). Avec les fils de celui-ci, Christoph (naissance1941, dans la firme jusqu'en 1991) et Michael (naissance1949), Ringier devint, à partir de 1985, une entreprise multinationale et multimédia. Bibliographie – F. Schoder, Ortsbürger von Zofingen, 1962 – P. Meier, T. Häussler, Zwischen Masse, Markt und Macht, 2009
Resumo:
The biggest challenge facing software developers today is how to gracefully evolve complex software systems in the face of changing requirements. We clearly need software systems to be more dynamic, compositional and model-centric, but instead we continue to build systems that are static, baroque and inflexible. How can we better build change-enabled systems in the future? To answer this question, we propose to look back to one of the most successful systems to support change, namely Smalltalk. We briefly introduce Smalltalk with a few simple examples, and draw some lessons for software evolution. Smalltalk's simplicity, its reflective design, and its highly dynamic nature all go a long way towards enabling change in Smalltalk applications. We then illustrate how these lessons work in practice by reviewing a number of research projects that support software evolution by exploiting Smalltalk's design. We conclude by summarizing open issues and challenges for change-enabled systems of the future.
Resumo:
The persuasive power of music is often relegated to the dimension of pathos: that which moves us emotionally. Yet, the music commodity is now situated in and around the liminal spaces of digitality. To think about how music functions, how it argues across media, and how it moves us, we must examine its material and immaterial realities as they present themselves to us and as we so create them. This dissertation rethinks the relationship between rhetoric and music by examining the creation, performance, and distribution of music in its material and immaterial forms to demonstrate its persuasive power. While both Plato and Aristotle understood music as a means to move men toward virtue, Aristotle tells us in his Laws, through the Athenian Stranger, that the very best kinds of music can help guide us to truth. From this starting point, I assess the historical problem of understanding the rhetorical potential of music as merely that which directs or imitates the emotions: that which “Soothes the savage breast,” as William Congreve writes. By furthering work by Vickers and Farnsworth, who suggest that the Baroque fascination with applying rhetorical figures to musical figures is an insufficient framework for assessing the rhetorical potential of music, I demonstrate the gravity of musical persuasion in its political weight, in its violence—the subjective violence of musical torture at Guantanamo and the objective, ideological violence of music—and in what Jacques Attali calls the prophetic nature of music. I argue that music has a significant function, and as a non-discursive form of argumentation, works on us beyond affect. Moreover, with the emergence of digital music distribution and domestic digital recording technologies, the digital music commodity in its material and immaterial forms allows for ruptures in the former methods of musical composition, production, and distribution and in the political potential of music which Jacques Attali describes as being able to foresee new political realities. I thus suggest a new theoretical framework for thinking about rhetoric and music by expanding on Lloyd Bitzer’s rhetorical situation, by offering the idea of “openings” to the existing exigence, audience, and constraints. The prophetic and rhetorical power of music in the aleatoric moment can help provide openings from which new exigencies can be conceived. We must, therefore, reconsider the role of rhetorical-musical composition for the citizen, not merely as a tool for entertainment or emotional persuasion, but as an arena for engaging with the political.
Resumo:
In der vorliegenden Besprechung von Peter Paul Rubens’ Lehrschrift De imitatione statuarum (um 1610) und Sir Joshua Reynolds’ Discourse on Sculpture (1780) wird der Versuch unternommen, das Lehrgerüst der Grammatik als ein gemeinsames Referenzmodell herauszuarbeiten und die Position dieser beiden Malergrößen innerhalb der neuzeitlichen Kunsttheorie genauer zu verorten. Hierbei werden besonders die medienspezifischen Eigenschaften von Skulptur im Verhältnis zur Malerei diskutiert, die Maler bei der Nachahmung von antiker Skulptur zu beachten haben.