988 resultados para Geschichte 1890-1918


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Plakate begleiten den Film auch in Deutschland schon seit seinen Anfängen 1895/96. Filmplakate sollen Filminhalte in einem grafischen Kürzel zusammenfassen. Aufraggeber ist zumeist der Filmverleih bzw. die Filmgesellschaft, seltener einzelne Kinos. Filmplakate sind im wesentlichen bildlich-figürlich bestimmt, viele illustrieren auf naive Art eine Szene des Films, verbunden mit der Darstellung der Schauspieler. Die Grafiker können sich oft lediglich anhand von Inhaltsangaben und Fotos einen Eindruck von der zu bewerbenden Sache verschaffen. Zunächst werben sie für Programme, weniger für einzelne Filme. Das ändert sich mit der zunehmenden Länge der Produktionen. Neben zahlreichen anonymen Zeichnern werden schon bald auch namhafte Plakatkünstler mit Filmplakaten beschäftigt, wie Klinger, Deutsch, Kainer, Hohlwein, Erdt, die jeweils verschiedene Plakatauffassungen vertreten. Plakate für Asta Nielsen oder Henny Porten dokumentieren frühe Stardarstellungen, diejenigen für frühe Detektivfilme stehen für ein Genre. Mit dem Namen Fenneker steht das expressionistische Filmplakat um 1920 in Verbindung. Grafiker wie Matejko; Leonard, oder Kupfer-Sachs arbeiten eher naturalistisch. Konstruktivistische Plakate entwirf Tschichold. 1927 für den Münchener „Phoebus-Palast“. Zwischen 1930 und 1945 ist der Plakatstil des Ufa-Werbedienstes maßgebend. Abweichend davon kann Pewas Fotomontageplakate gestalten.. Sehr früh beginnt die Zensur sich der Filmplakate anzunehmen. Zunächst in unterschiedlichen Rechtstiteln enthalten, wird die Plakatzensur 1920 im „Reichslichtspielgesetz“ verankert.

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Questa tesi parte da un evento “minore” della storia del XIX secolo per tendere, poi, ad alcuni obiettivi particolari. L’evento è costituito da uno strano funerale postumo, quello di Piero Maroncelli, carbonaro finito alla Spielberg, graziato, poi emigrato in Francia e in America, il cui corpo viene sepolto a New York nell’estate del 1846. Quarant’anni dopo, nel 1886, i resti di Maroncelli vengono esumati e – attraverso una “trafila” particolare, di cui è protagonista la Massoneria, da una sponda all’altra dell’Atlantico – solennemente trasferiti nella città natale di Forlì, dove vengono collocati nel pantheon del cimitero monumentale, inaugurato per l’occasione. Gli eventi celebrativi che si consumano a New York e a Forlì sono molto diversi fra loro, anche se avvengono quasi in contemporanea e sotto regie politiche ispirate dal medesimo radicalismo anticlericale. E’ chiaro che Maroncelli è un simbolo e un pretesto: simbolo di un’italianità transnazionale, composta di un “corpo” in transito, fuori dello spazio nazionale, ma appartenente alla patria (quella grande e quella piccola); pretesto per acquisire e rafforzare legami politici, mercè mobilitazioni di massa in un caso fondate sul festival, sulla festa en plein air, nell’altro sui rituali del cordoglio per i “martiri” dell’indipendenza. L’opportunità di comparare questi due contesti – l’Italia, colta nella sua periferia radicale e la New York della Tammany Hall -, non sulla base di ipotesi astratte, ma nella concretezza di un “caso di studio” reale e simultaneo, consente di riflettere sulla pervasività dell’ideologia democratica nella sua accezione ottocentesca, standardizzata dalla Massoneria, e, d’altro canto, sui riti del consenso, colti nelle rispettive tipicità locali. Un gioco di similitudini e di dissomiglianze, quindi. Circa gli obiettivi particolari – al di là della ricostruzione del “caso” Maroncelli -, ho cercato di sondare alcuni temi, proponendone una ricostruzione in primo luogo storiografica. Da un lato, il tema dell’esilio e del trapianto delle esperienze di vita e di relazione al di fuori del proprio contesto d’origine. Maroncelli utilizza, come strumento di identitario e di accreditamento, il fourierismo; la generazione appena successiva alla sua, grazie alla Giovine Italia, possiede già un codice interno, autoctono, cui fare riferimento; alla metà degli anni Cinquanta, ad esso si affiancherà, con successo crescente, la lettura “diplomatica” di ascendenza sabauda. Dall’altro, ho riflettuto sull’aspetto legato ai funerali politici, al cordoglio pubblico, al trasferimento postumo dei corpi. La letteratura disponibile, al riguardo, è assai ricca, e tale da consentire una precisa classificazione del “caso” Maroncelli all’interno di una tipologia della morte laica, ben delineata nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento. E poi, ancora, ho preso in esame le dinamiche “festive” e di massa, approfondendo quelle legate al mondo dell’emigrazione italiana a Mew York, così distante nel 1886 dall’élite colta di quarant’anni prima, eppure così centrale per il controllo politico della città. Dinamiche alle quali fa da contrappunto, sul versante forlivese, la visione del mondo radicale e massonico locale, dominato dalla figura di Aurelio Saffi e dal suo tentativo di plasmare un’immagine morale e patriottica della città da lasciare ai posteri. Quasi un’ossessione, per il vecchio triumviro della Repubblica romana (morirà nel 1890), che interviene sulla toponomastica, sull’edilizia cemeteriale, sui pantheon civico, sui “ricordi” patriottici. Ho utilizzato fonti secondarie e di prima mano. Anche sulle prime, quantitativamente assai significative, mi sono misurata con un lavoro di composizione e di lettura comparata prima mai tentato. La giustapposizione di chiavi di lettura apparentemente distanti, ma giustificate dalla natura proteiforme e complicata del nostro “caso”, apre, a mio giudizio, interessanti prospettive di ricerca. Circa le fonti di prima mano, ho attinto ai fondi disponibili su Maroncelli presso la Biblioteca comunale di Forlì, alle raccolte del Grande Oriente d’Italia a Roma, a periodici italoamericani assai rari, sparsi in diverse biblioteche italiane, da Milano a Roma. Mi rendo conto che la quantità dei materiali reperiti, sovente molto eterogenei, avrebbero imposto una lettura delle fonti più accurata di quella che, in questa fase della ricerca, sono riuscita a condurre. E’ vero, però, che le suggestioni già recuperabili ad un’analisi mirata al contenuto principale – le feste, la propaganda, il cordoglio – consentono la tessitura di una narrazione non forzata, nella quale il ricordo della Repubblica romana viaggia da una sponda all’altra dell’Atlantica, insieme ai resti di Maroncelli; nella quale il rituale massonico funge da facilitatore e da “mediatore culturale”; nella quale, infine, il linguaggio patriottico e la koinè democratica trans-nazionale riescono incredibilmente a produrre o a incarnare identità. Per quanto tempo? La risposta, nel caso forlivese, è relativamente facile; in quello della “colonia” italiana di New York, presto alterata nella sua connotazione demografica dalla grande emigrazione transoceanica, le cose appaiono più complesse. E, tuttavia, nel 1911, cinquantesimo dell’Unità, qualcuno, nella grande metropoli americana, si sarebbe ricordato di Maroncelli, sia pure in un contesto e con finalità del tutto diverse rispetto al 1886: segno che qualcosa, sotto traccia, era sopravvissuto.

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Durch die Entwicklung der chemischen Industrie im 19. Jahrhundert traten völlig neue medizinische Probleme auf. 1895 postulierte Dr. Ludwig Rehn, ein Chirurg am Städtischen Krankenhaus in Frankfurt am Main, auf dem Chirurgenkongreß erstmals einen Zusammenhang zwischen dem Blasenkarzinom und seinem gehäuften Auftreten bei Arbeitern der organisch-chemischen Farbenfabriken. Er hatte bemerkt, daß er in relativ kurzer Zeit einige Patienten mit Blasenkrebs operiert hatte, die auffälligerweise alle in derselben Fabrik arbeiteten. Da diese Krankheit sehr selten war, versuchte er in Zusammenarbeit mit Heinrich Paul Schwerin das Phänomen zu ergründen. Einerseits mußte die schädliche Substanz selbst genau identifiziert werden, andererseits die Kanzerogenese aufgeklärt sowie eine Therapie gefunden bzw. prophylaktische Maßnahmen eingeleitet werden. Wie auch heute bei vielen neuen Entdeckungen dauerte es Jahrzehnte, bis Ärzte diese These anerkannten. Besonders starke Anfeindung erfuhr Ludwig Rehn von Fabrikärzten aufgrund ihrer Verpflichtung für das Wohlergehen der Arbeiter und ihrer Abhängigkeit von der wirtschaftlichen Prosperität der Fabriken, z. B. von Friedrich Wilhelm Grandhomme. Es ergab sich die bis heute bestehende Schwierigkeit, zwischen den Wünschen der produzierenden, arbeitsplätzeschaffenden Industrie und dem Schutz der Arbeitnehmer und der Umwelt einen Konsens herzustellen. Die Probleme Therapie und Prophylaxe sowie Identifikation aller Blasenkrebs verursachenden Substanzen sind auch im 21. Jahrhundert noch nicht völlig geklärt.

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Im Mittelpunkt der vorliegenden Arbeit stehen zwei spätgotische Verglasungen aus der Region des Mittelrheins, die bislang zumeist aus stilistischen Gründen mehr oder weniger eng miteinander verknüpft worden sind. Die Partenheimer Scheiben entstanden für die nach 1435 erneuerte Pfarrkirche des gleichnamigen Ortes in Rheinhessen, die Bopparder Fenster waren für das ab 1440 errichtete Seitenschiff der dortigen Karmeliterkirche bestimmt. Beide Zyklen wurden bereits im frühen 19. Jahrhundert ihren ursprünglichen Standorten entfremdet. Der Partenheimer Bestand gelangte vor allem in das Hessische Landesmuseum von Darmstadt. Die Bopparder Glasmalereien haben sich mittlerweile weltweit über Museen und Privatsammlungen verstreut. Im Nachzeichnen der dabei gewählten Wege liegt einer der Schwerpunkte der Arbeit, im Feststellen der zugleich vorgenommenen Strukturveränderungen ein weiterer. Die nicht zuletzt auf dieser Basis erstellten Vorschläge zur Rekonstruktion der einst in situ bestehenden Verhältnisse erlauben dabei vor allem dem Bopparder Komplex eine Präzisierung oder sogar Korrektur von früheren Annahmen: Datieren lassen sich die Karmeliterfenster nunmehr in die Jahre zwischen 1443 und 1446. Zu ihren Stiftern zählten neben dem Trierer Erzbischof Jakob v. Sierck offenbar ausschließlich der lokale Adel sowie diverse Bruderschaften der Stadt inklusive einzelner Vertreter derselben. Das wichtigste Fazit dieser Neubestimmung ist deshalb die regionale Verankerung der Fenster. Nicht zu bestätigen ist die vormals postulierte Werkstattgemeinschaft beider Zyklen: Der um 1440 geschaffene Kernbestand von Partenheim scheint im Rhein-Main-Gebiet verwurzelt und nur das nördlichste Chorfenster wurde nach etwa zehnjähriger Pause von anderen Glasmalern ausgeführt. Den Bopparder Auftrag teilten sich stattdessen von vornherein eine vielleicht in Koblenz ansässige Werkstatt sowie ein in Lothringen tätiges Atelier. Vollkommen eigenständig sind die Zyklen von Partenheim und Boppard damit gleichwohl exemplarische Vertreter für die stilistische Vielfalt am Mittelrhein im 15. Jahrhundert.

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This study seeks to address a gap in the study of nonviolent action. The gap relates to the question of how nonviolence is performed, as opposed to the meaning or impact of nonviolent politics. The dissertation approaches the history of nonviolent protest in South Asia through the lens of performance studies. Such a shift allows for concepts such as performativity and theatricality to be tested in terms of their applicability and relevance to contemporary political and philosophical questions. It also allows for a different perspective on the historiography of nonviolent protest. Using concepts, modes of analysis and tropes of thinking from the emerging field of performance studies, the dissertation analyses two different cases of nonviolent protest, asking how politics is performatively constituted. The first two sections of this study set out the parameters of the key terms of the dissertation: nonviolence and performativity, by tracing their genealogies and legacies as terms. These histories are then located as an intersection in the founding of the nonviolent. The case studies at the analytical core of the dissertation are: fasting as a method in Gandhi's political arsenal, and the army of nonviolent soldiers in the North-West Frontier Province, known as the Khudai Khidmatgar. The study begins with an overview of current theorisations of nonviolence. The approach to the subject is through an investigation of commonly held misconceptions about nonviolent action, such as its supposed passivity, the absence of violence, its ineffectiveness and its spiritual basis. This section addresses the lacunae within existing theories of nonviolence and points to possible fertile spaces for further exploration. Section 3 offers an overview of the different shades of the concept of performativity, asking how it is used in various contexts and how these different nuances can be viewed in relation to each other. The dissertation explores how a theory of performativity may be correlated to the theorisation of nonviolence. The correlations are established in four boundary areas: action/inaction, violence/absence of violence, the actor/opponent and the body/spirit. These boundary areas allow for a theorising of nonviolent action as a performative process. The first case study is Gandhi's use of the fast as a method of nonviolent protest. Using a close reading of his own writings, speeches and letters, as well as a reading of responses to his fast in British newspapers and within India, the dissertation asks what made fasting into Gandhi's most favoured mode of protest and political action. The study reconstructs his unique praxis of the fast from a performative perspective, demonstrating how display and ostentation are vital to the political economy of the fast. It also unveils the cultural context and historical reservoir of body practices, which Gandhi drew from and adapted into 'weapons' of political action. The relationship of Gandhian nonviolence to the body forms a crucial part of the analysis. The second case study is the nonviolent army of the Pashtuns, Khudai Khidmatgar (KK), literally Servants of God. This anti-imperialist movement in the North-West Frontier Province of what is today the border between Pakistan and Afghanistan existed between 1929 and 1948. The movement adopted the organisational form of an army. It conducted protest activities against colonial rule, as well as social reform activities for the Pashtuns. This group was connected to the Congress party of Gandhi, but the dissertation argues that their conceptualisation and praxis of nonviolence emerged from a very different tradition and worldview. Following a brief introduction to the socio-political background of this Pashtun movement, the dissertation explores the activities that this nonviolent army engaged in, looking at their unique understanding of the militancy of an unarmed force, and their mode of combat and confrontation. Of particular interest to the analysis is the way the KK re-combined and mixed what appear to be contradictory ideologies and acts. In doing so, they reframed cultural and historical stereotypes of the Pashtuns as a martial race, juxtaposing the institutional form of the army with a nonviolent praxis based on Islamic principles and social reform. The example of the Khudai Khidmatgar is used to explore the idea that nonviolence is not the opposite of violent conflict, but in fact a dialectical engagement and response to violence. Section 5, in conclusion, returns to the boundary areas of nonviolence: action, violence, the opponent and the body, and re-visits these areas on a comparative note, bringing together elements from Gandhi's fasts and the practices of the KK. The similarities and differences in the two examples are assessed and contextualised in relation to the guiding question of this study, namely the question of the performativity of nonviolent action.

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