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Una breve introduzione sulla storia del mosaico: dalle origine alle sue evoluzione tipologiche e tecnologiche nel tempo, di come si organizzavano le antiche botteghe del mosaico e le suddivisione dei compiti tra il pictor imaginarius, pictor parietarius e il musivarius (la gerarchia) all’interno di essi; la tecniche esecutiva per la messa in opera dei mosaici pavimentali romani. Visto che i mosaici si trovano a Suasa, quindi è stata riassunta la storia della città romana di Suasa con le sua varie fase edilizie, con maggior approfondimenti per gli edifici che presentano pavimentazione a mosaico: in primo luogo è la domus dei Coiedii contenente più di diciotto pavimenti in opus tessellatum. Il secondo è quello del così detto Edificio 4 (ancora inedito e di incerta natura e destinazione) portato in luce solo parzialmente con due settore a mosaico. Successivamente è stato effettuato in maniera dettagliata lo studio dello stato di conservazione dei vani musivi che sono state oggetto in senso stretto dei varie interventi conservativi, sia nella domus dei Coiedii (vano AU, oecus G e vano BB) che in Edificio 4 (vano A e vano D), evidenziando così le diverse morfologie di degrado in base “Normativa UNI 11176/2006 con l’aiuto della documentazione grafica ed fotografica. Un ampio e complessivo studio archeometrico-tecnologico dei materiali impiegati per la realizzazione dei musaici a Suasa (tessere e malte) presso i laboratori del CNR di Faenza.. Sono stati prelevati complessivamente 90 campione da tredici vani musivi di Suasa, di cui 28 campione di malte, comprese tra allettamento e di sottofondo,42 tessere lapidee e 20 tessere vitree; questi ultimi appartengono a sette vani della domus. Durante l’operazione del prelevo, è stato presso in considerazione le varie tipologie dei materiali musivi, la cromia ed le morfologie di degrado che erano presente. Tale studio ha lo scopo di individuare la composizione chimico-mineropetrografico, le caratteristiche tessiturali dei materiali e fornire precisa informazione sia per fine archeometrici in senso stretto (tecnologie di produzione, provenienza, datazione ecc.), che come supporto ai interventi di conservazione e restauro. Infine si è potuto costruire una vasta banca dati analitici per i materiali musivi di Suasa, che può essere consultata, aggiornata e confrontata in futuro con altri materiali proveniente dalla stessa province e/o regione. Applicazione dei interventi conservativi: di manutenzione, pronto intervento e di restauro eseguiti sui vani mosaicati di Suasa che presentavano un pessimo stato di conservazione e necessitavano l’intervento conservativo, con la documentazione grafica e fotografica dei varie fase dell’intervento. In particolare lo studio dei pregiatissimi materiali marmorei impiegati per la realizzazione dell’opus sectile centrale (sala G) nella domus dei Coiedii, ha portato alla classificazione e alla schedatura di sedici tipi di marmi impiegati; studio esteso poi al tessellato che lo circonda: studio del andamento, tipologie dei materiali, dei colore, dimensione delle tessere, interstizio ecc., ha permesso con l’utilizzo delle tavole tematiche di ottenere una chiara lettura per l’intero tessellato, di evidenziare così, tutti gli interventi antiche e moderni di risarciture, eseguiti dal II sec. d.C. fio ad oggi. L’aspetto didattico (teorico e pratico) ha accompagnato tutto il lavoro di ricerca Il lavoro si qualifica in conclusione come un esempio assai significativo di ricerca storicoiconografiche e archeometriche, con risultati rilevanti sulle tecnologie antiche e sui criteri di conservazione più idonei.

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Il presente studio ha avuto l’obiettivo di indagare la produzione di bioetanolo di seconda generazione a partire dagli scarti lignocellulosici della canna da zucchero (bagassa), facendo riscorso al processo enzimatico. L’attività di ricerca è stata svolta presso il Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Lund (Svezia) all’interno di rapporti scambio con l’Università di Bologna. Il principale scopo è consistito nel valutare la produzione di etanolo in funzione delle condizioni operative con cui è stata condotta la saccarificazione e fermentazione enzimatica (SSF) della bagassa, materia prima che è stata sottoposta al pretrattamento di Steam Explosion (STEX) con aggiunta di SO2 come catalizzatore acido. Successivamente, i dati ottenuti in laboratorio dalla SSF sono stati utilizzati per implementare, in ambiente AspenPlus®, il flowsheet di un impianto che simula tutti gli aspetti della produzione di etanolo, al fine di studiarne il rendimento energetico dell’intero processo. La produzione di combustibili alternativi alle fonti fossili oggigiorno riveste primaria importanza sia nella limitazione dell’effetto serra sia nel minimizzare gli effetti di shock geopolitici sulle forniture strategiche di un Paese. Il settore dei trasporti in continua crescita, consuma nei paesi industrializzati circa un terzo del fabbisogno di fonti fossili. In questo contesto la produzione di bioetanolo può portare benefici per sia per l’ambiente che per l’economia qualora valutazioni del ciclo di vita del combustibile ne certifichino l’efficacia energetica e il potenziale di mitigazione dell’effetto serra. Numerosi studi mettono in risalto i pregi ambientali del bioetanolo, tuttavia è opportuno fare distinzioni sul processo di produzione e sul materiale di partenza utilizzato per comprendere appieno le reali potenzialità del sistema well-to-wheel del biocombustibile. Il bioetanolo di prima generazione ottenuto dalla trasformazione dell’amido (mais) e delle melasse (barbabietola e canna da zucchero) ha mostrato diversi svantaggi: primo, per via della competizione tra l’industria alimentare e dei biocarburanti, in secondo luogo poiché le sole piantagioni non hanno la potenzialità di soddisfare domande crescenti di bioetanolo. In aggiunta sono state mostrate forti perplessità in merito alla efficienza energetica e del ciclo di vita del bioetanolo da mais, da cui si ottiene quasi la metà della produzione di mondiale di etanolo (27 G litri/anno). L’utilizzo di materiali lignocellulosici come scarti agricolturali e dell’industria forestale, rifiuti urbani, softwood e hardwood, al contrario delle precedenti colture, non presentano gli svantaggi sopra menzionati e per tale motivo il bioetanolo prodotto dalla lignocellulosa viene denominato di seconda generazione. Tuttavia i metodi per produrlo risultano più complessi rispetto ai precedenti per via della difficoltà di rendere biodisponibili gli zuccheri contenuti nella lignocellulosa; per tale motivo è richiesto sia un pretrattamento che l’idrolisi enzimatica. La bagassa è un substrato ottimale per la produzione di bioetanolo di seconda generazione in quanto è disponibile in grandi quantità e ha già mostrato buone rese in etanolo se sottoposta a SSF. La bagassa tal quale è stata inizialmente essiccata all’aria e il contenuto d’acqua corretto al 60%; successivamente è stata posta a contatto per 30 minuti col catalizzatore acido SO2 (2%), al termine dei quali è stata pretrattata nel reattore STEX (10L, 200°C e 5 minuti) in 6 lotti da 1.638kg su peso umido. Lo slurry ottenuto è stato sottoposto a SSF batch (35°C e pH 5) utilizzando enzimi cellulolitici per l’idrolisi e lievito di birra ordinario (Saccharomyces cerevisiae) come consorzio microbico per la fermentazione. Un obiettivo della indagine è stato studiare il rendimento della SSF variando il medium di nutrienti, la concentrazione dei solidi (WIS 5%, 7.5%, 10%) e il carico di zuccheri. Dai risultati è emersa sia una buona attività enzimatica di depolimerizzazione della cellulosa che un elevato rendimento di fermentazione, anche per via della bassa concentrazione di inibitori prodotti nello stadio di pretrattamento come acido acetico, furfuraldeide e HMF. Tuttavia la concentrazione di etanolo raggiunta non è stata valutata sufficientemente alta per condurre a scala pilota un eventuale distillazione con bassi costi energetici. Pertanto, sono stati condotti ulteriori esperimenti SSF batch con addizione di melassa da barbabietola (Beta vulgaris), studiandone preventivamente i rendimenti attraverso fermentazioni alle stesse condizioni della SSF. I risultati ottenuti hanno suggerito che con ulteriori accorgimenti si potranno raggiungere gli obiettivi preposti. E’ stato inoltre indagato il rendimento energetico del processo di produzione di bioetanolo mediante SSF di bagassa con aggiunta di melassa in funzione delle variabili più significative. Per la modellazione si è fatto ricorso al software AspenPlus®, conducendo l’analisi di sensitività del mix energetico in uscita dall’impianto al variare del rendimento di SSF e dell’addizione di saccarosio. Dalle simulazioni è emerso che, al netto del fabbisogno entalpico di autosostentamento, l’efficienza energetica del processo varia tra 0.20 e 0.53 a seconda delle condizioni; inoltre, è stata costruita la curva dei costi energetici di distillazione per litro di etanolo prodotto in funzione delle concentrazioni di etanolo in uscita dalla fermentazione. Infine sono già stati individuati fattori su cui è possibile agire per ottenere ulteriori miglioramenti sia in laboratorio che nella modellazione di processo e, di conseguenza, produrre con alta efficienza energetica bioetanolo ad elevato potenziale di mitigazione dell’effetto serra.

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CAPITOLO 1 INTRODUZIONE Il lavoro presentato è relativo all’utilizzo a fini metrici di immagini satellitari storiche a geometria panoramica; in particolare sono state elaborate immagini satellitari acquisite dalla piattaforma statunitense CORONA, progettata ed impiegata essenzialmente a scopi militari tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, e recentemente soggette ad una declassificazione che ne ha consentito l’accesso anche a scopi ed utenti non militari. Il tema del recupero di immagini aeree e satellitari del passato è di grande interesse per un ampio spettro di applicazioni sul territorio, dall’analisi dello sviluppo urbano o in ambito regionale fino ad indagini specifiche locali relative a siti di interesse archeologico, industriale, ambientale. Esiste infatti un grandissimo patrimonio informativo che potrebbe colmare le lacune della documentazione cartografica, di per sé, per ovvi motivi tecnici ed economici, limitata a rappresentare l’evoluzione territoriale in modo asincrono e sporadico, e con “forzature” e limitazioni nel contenuto informativo legate agli scopi ed alle modalità di rappresentazione delle carte nel corso del tempo e per diversi tipi di applicazioni. L’immagine di tipo fotografico offre una rappresentazione completa, ancorché non soggettiva, dell’esistente e può complementare molto efficacemente il dato cartografico o farne le veci laddove questo non esista. La maggior parte del patrimonio di immagini storiche è certamente legata a voli fotogrammetrici che, a partire dai primi decenni del ‘900, hanno interessato vaste aree dei paesi più avanzati, o regioni di interesse a fini bellici. Accanto a queste, ed ovviamente su periodi più vicini a noi, si collocano le immagini acquisite da piattaforma satellitare, tra le quali rivestono un grande interesse quelle realizzate a scopo di spionaggio militare, essendo ad alta risoluzione geometrica e di ottimo dettaglio. Purtroppo, questo ricco patrimonio è ancora oggi in gran parte inaccessibile, anche se recentemente sono state avviate iniziative per permetterne l’accesso a fini civili, in considerazione anche dell’obsolescenza del dato e della disponibilità di altre e migliori fonti di informazione che il moderno telerilevamento ci propone. L’impiego di immagini storiche, siano esse aeree o satellitari, è nella gran parte dei casi di carattere qualitativo, inteso ad investigare sulla presenza o assenza di oggetti o fenomeni, e di rado assume un carattere metrico ed oggettivo, che richiederebbe tra l’altro la conoscenza di dati tecnici (per esempio il certificato di calibrazione nel caso delle camere aerofotogrammetriche) che sono andati perduti o sono inaccessibili. Va ricordato anche che i mezzi di presa dell’epoca erano spesso soggetti a fenomeni di distorsione ottica o altro tipo di degrado delle immagini che ne rendevano difficile un uso metrico. D’altra parte, un utilizzo metrico di queste immagini consentirebbe di conferire all’analisi del territorio e delle modifiche in esso intercorse anche un significato oggettivo che sarebbe essenziale per diversi scopi: per esempio, per potere effettuare misure su oggetti non più esistenti o per potere confrontare con precisione o co-registrare le immagini storiche con quelle attuali opportunamente georeferenziate. Il caso delle immagini Corona è molto interessante, per una serie di specificità che esse presentano: in primo luogo esse associano ad una alta risoluzione (dimensione del pixel a terra fino a 1.80 metri) una ampia copertura a terra (i fotogrammi di alcune missioni coprono strisce lunghe fino a 250 chilometri). Queste due caratteristiche “derivano” dal principio adottato in fase di acquisizione delle immagini stesse, vale a dire la geometria panoramica scelta appunto perché l’unica che consente di associare le due caratteristiche predette e quindi molto indicata ai fini spionaggio. Inoltre, data la numerosità e la frequenza delle missioni all’interno dell’omonimo programma, le serie storiche di questi fotogrammi permettono una ricostruzione “ricca” e “minuziosa” degli assetti territoriali pregressi, data appunto la maggior quantità di informazioni e l’imparzialità associabili ai prodotti fotografici. Va precisato sin dall’inizio come queste immagini, seppur rappresentino una risorsa “storica” notevole (sono datate fra il 1959 ed il 1972 e coprono regioni moto ampie e di grandissimo interesse per analisi territoriali), siano state molto raramente impiegate a scopi metrici. Ciò è probabilmente imputabile al fatto che il loro trattamento a fini metrici non è affatto semplice per tutta una serie di motivi che saranno evidenziati nei capitoli successivi. La sperimentazione condotta nell’ambito della tesi ha avuto due obiettivi primari, uno generale ed uno più particolare: da un lato il tentativo di valutare in senso lato le potenzialità dell’enorme patrimonio rappresentato da tali immagini (reperibili ad un costo basso in confronto a prodotti simili) e dall’altro l’opportunità di indagare la situazione territoriale locale per una zona della Turchia sud orientale (intorno al sito archeologico di Tilmen Höyük) sulla quale è attivo un progetto condotto dall’Università di Bologna (responsabile scientifico il Prof. Nicolò Marchetti del Dipartimento di Archeologia), a cui il DISTART collabora attivamente dal 2005. L’attività è condotta in collaborazione con l’Università di Istanbul ed il Museo Archeologico di Gaziantep. Questo lavoro si inserisce, inoltre, in un’ottica più ampia di quelle esposta, dello studio cioè a carattere regionale della zona in cui si trovano gli scavi archeologici di Tilmen Höyük; la disponibilità di immagini multitemporali su un ampio intervallo temporale, nonché di tipo multi sensore, con dati multispettrali, doterebbe questo studio di strumenti di conoscenza di altissimo interesse per la caratterizzazione dei cambiamenti intercorsi. Per quanto riguarda l’aspetto più generale, mettere a punto una procedura per il trattamento metrico delle immagini CORONA può rivelarsi utile all’intera comunità che ruota attorno al “mondo” dei GIS e del telerilevamento; come prima ricordato tali immagini (che coprono una superficie di quasi due milioni di chilometri quadrati) rappresentano un patrimonio storico fotografico immenso che potrebbe (e dovrebbe) essere utilizzato sia a scopi archeologici, sia come supporto per lo studio, in ambiente GIS, delle dinamiche territoriali di sviluppo di quelle zone in cui sono scarse o addirittura assenti immagini satellitari dati cartografici pregressi. Il lavoro è stato suddiviso in 6 capitoli, di cui il presente costituisce il primo. Il secondo capitolo è stato dedicato alla descrizione sommaria del progetto spaziale CORONA (progetto statunitense condotto a scopo di fotoricognizione del territorio dell’ex Unione Sovietica e delle aree Mediorientali politicamente correlate ad essa); in questa fase vengono riportate notizie in merito alla nascita e all’evoluzione di tale programma, vengono descritti piuttosto dettagliatamente gli aspetti concernenti le ottiche impiegate e le modalità di acquisizione delle immagini, vengono riportati tutti i riferimenti (storici e non) utili a chi volesse approfondire la conoscenza di questo straordinario programma spaziale. Nel terzo capitolo viene presentata una breve discussione in merito alle immagini panoramiche in generale, vale a dire le modalità di acquisizione, gli aspetti geometrici e prospettici alla base del principio panoramico, i pregi ed i difetti di questo tipo di immagini. Vengono inoltre presentati i diversi metodi rintracciabili in bibliografia per la correzione delle immagini panoramiche e quelli impiegati dai diversi autori (pochi per la verità) che hanno scelto di conferire un significato metrico (quindi quantitativo e non solo qualitativo come è accaduto per lungo tempo) alle immagini CORONA. Il quarto capitolo rappresenta una breve descrizione del sito archeologico di Tilmen Höyuk; collocazione geografica, cronologia delle varie campagne di studio che l’hanno riguardato, monumenti e suppellettili rinvenute nell’area e che hanno reso possibili una ricostruzione virtuale dell’aspetto originario della città ed una più profonda comprensione della situazione delle capitali del Mediterraneo durante il periodo del Bronzo Medio. Il quinto capitolo è dedicato allo “scopo” principe del lavoro affrontato, vale a dire la generazione dell’ortofotomosaico relativo alla zona di cui sopra. Dopo un’introduzione teorica in merito alla produzione di questo tipo di prodotto (procedure e trasformazioni utilizzabili, metodi di interpolazione dei pixel, qualità del DEM utilizzato), vengono presentati e commentati i risultati ottenuti, cercando di evidenziare le correlazioni fra gli stessi e le problematiche di diversa natura incontrate nella redazione di questo lavoro di tesi. Nel sesto ed ultimo capitolo sono contenute le conclusioni in merito al lavoro in questa sede presentato. Nell’appendice A vengono riportate le tabelle dei punti di controllo utilizzati in fase di orientamento esterno dei fotogrammi.

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In questi ultimi anni il tema della sicurezza sismica degli edifici storici in muratura ha assunto particolare rilievo in quanto a partire soprattutto dall’ordinanza 3274 del 2003, emanata in seguito al sisma che colpì il Molise nel 2002, la normativa ha imposto un monitoraggio ed una classificazione degli edifici storici sotto tutela per quanto riguarda la vulnerabilità sismica (nel 2008, quest’anno, scade il termine per attuare quest’opera di classificazione). Si è posto per questo in modo più urgente il problema dello studio del comportamento degli edifici storici (non solo quelli che costituiscono monumento, ma anche e soprattutto quelli minori) e della loro sicurezza. Le Linee Guida di applicazione dell’Ordinanza 3274 nascono con l’intento di fornire strumenti e metodologie semplici ed efficaci per affrontare questo studio nei tempi previsti. Il problema si pone in modo particolare per le chiese, presenti in grande quantità sul territorio italiano e di cui costituiscono gran parte del patrimonio culturale; questi edifici, composti di solito da grandi elementi murari, non presentano comportamento scatolare, mancando orizzontamenti, elementi di collegamento efficace e muri di spina interni e sono particolarmente vulnerabili ad azioni sismiche; presentano inoltre un comportamento strutturale a sollecitazioni orizzontali che non può essere colto con un approccio globale basato, ad esempio, su un’analisi modale lineare: non ci sono modi di vibrare che coinvolgano una sufficiente parte di massa della struttura; si hanno valori dei coefficienti di partecipazione dei varii modi di vibrare minori del 10% (in generale molto più bassi). Per questo motivo l’esperienza e l’osservazione di casi reali suggeriscono un approccio di studio degli edifici storici sacri in muratura attraverso l’analisi della sicurezza sismica dei cosiddetti “macroelementi” in cui si può suddividere un edificio murario, i quali sono elementi che presentano un comportamento strutturale autonomo. Questo lavoro si inserisce in uno studio più ampio iniziato con una tesi di laurea dal titolo “Analisi Limite di Strutture in Muratura. Teoria e Applicazione all'Arco Trionfale” (M. Temprati), che ha studiato il comportamento dell’arco trionfale della chiesa collegiata di Santa Maria del Borgo a San Nicandro Garganico (FG). Suddividere un edificio in muratura in più elementi è il metodo proposto nelle Linee Guida, di cui si parla nel primo capitolo del presente lavoro: la vulnerabilità delle strutture può essere studiata tramite il moltiplicatore di collasso quale parametro in grado di esprimere il livello di sicurezza sismica. Nel secondo capitolo si illustra il calcolo degli indici di vulnerabilità e delle accelerazioni di danno per la chiesa di Santa Maria del Borgo, attraverso la compilazione delle schede dette “di II livello”, secondo quanto indicato nelle Linee Guida. Nel terzo capitolo viene riportato il calcolo del moltiplicatore di collasso a ribaltamento della facciata della chiesa. Su questo elemento si è incentrata l’attenzione nel presente lavoro. A causa della complessità dello schema strutturale della facciata connessa ad altri elementi dell’edificio, si è fatto uso del codice di calcolo agli elementi finiti ABAQUS. Della modellazione del materiale e del settaggio dei parametri del software si è discusso nel quarto capitolo. Nel quinto capitolo si illustra l’analisi condotta tramite ABAQUS sullo stesso schema della facciata utilizzato per il calcolo manuale nel capitolo tre: l’utilizzo combinato dell’analisi cinematica e del metodo agli elementi finiti permette per esempi semplici di convalidare i risultati ottenibili con un’analisi non-lineare agli elementi finiti e di estenderne la validità a schemi più completi e più complessi. Nel sesto capitolo infatti si riportano i risultati delle analisi condotte con ABAQUS su schemi strutturali in cui si considerano anche gli elementi connessi alla facciata. Si riesce in questo modo ad individuare con chiarezza il meccanismo di collasso di più facile attivazione per la facciata e a trarre importanti informazioni sul comportamento strutturale delle varie parti, anche in vista di un intervento di ristrutturazione e miglioramento sismico.

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Oggetto di questa tesi è lo studio della qualità del servizio di trasporto erogato che condiziona la qualità percepita dall’utente, poiché spesso proprio a causa di un errato processo di pianificazione e gestione della rete, molte aziende non sono in grado di consolidare un alto livello di efficienza che permetta loro di attrarre e servire la crescente domanda. Per questo motivo, si è deciso di indagare sugli aspetti che determinano la qualità erogata e sui fattori che la influenzano, anche attraverso la definizione di alcuni indicatori rappresentativi del servizio erogato. L’area di studio considerata è stata quella urbana di Bologna, e sono state prese in esame due linee di ATC, la 19 e la 27, caratterizzate entrambe da una domanda di trasporto molto elevata. L’interesse è ricaduto in modo particolare sugli aspetti legati alla regolarità del servizio, ovvero al rispetto della cadenza programmata delle corse e alla puntualità, ossia il rispetto dell’orario programmato delle stesse. Proprio da questi due aspetti, infatti, dipende in larga misura la percezione della qualità che gli utenti hanno del servizio di trasporto collettivo. Lo studio è stato condotto sulla base di dati raccolti attraverso due campagne di rilevamento, una effettuata nel mese di maggio dell’anno 2008 e l’altra nel mese di settembre dello stesso anno. La scelta del periodo, della zona e delle modalità di rilevamento è strettamente connessa all’obiettivo prefissato. Il servizio è influenzato dalle caratteristiche del sistema di trasporto: sia da quelle legate alla domanda che da quelle legate all’offerta. Nel caso della domanda di trasporto si considera l’influenza sul servizio del numero di passeggeri saliti e del tempo di sosta alle fermate. Nel caso dell’offerta di trasporto si osservano soprattutto gli aspetti legati alla rete di trasporto su cui si muovono gli autobus, analizzando quindi i tempi di movimento e le velocità dei mezzi, per vedere come le caratteristiche dell’infrastruttura possano condizionare il servizio. A tale proposito è opportuno dire che, mentre i dati della prima analisi ci sono utili per lo studio dell’influenza del tempo di sosta sull’intertempo, nella seconda analisi si vuole cercare di effettuare ulteriori osservazioni sull’influenza del tempo di movimento sulla cadenza, prendendo in esame altri elementi, come ad esempio tratti di linea differenti rispetto al caso precedente. Un’attenzione particolare, inoltre, verrà riservata alla verifica del rispetto della cadenza, dalla quale scaturisce la definizione del livello di servizio per ciò che riguarda la regolarità. Per quest’ultima verrà, inoltre, determinato anche il LOS relativo alla puntualità. Collegato al problema del rispetto della cadenza è il fenomeno dell’accodamento: questo si verifica quando i mezzi di una stessa linea arrivano contemporaneamente ad una fermata uno dietro l’altro. L’accodamento ha, infatti, origine dal mancato rispetto della cadenza programmata tra i mezzi ed è un’evidente manifestazione del mal funzionamento di un servizio di trasporto. Verrà infine condotta un’analisi dei fattori che possono influenzare le prestazioni del servizio di trasporto pubblico, così da collocare i dati ottenuti dalle operazioni di rilevamento in un quadro più preciso, capace di sottolineare alcuni elementi di criticità e possibili rapporti di causalità.

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La tesi della candidata presenta - attraverso lo studio della normativa e della giurisprudenza rilevanti in Italia, Francia e Germania – un’analisi dell'ambito soggettivo di applicazione del diritto costituzionale d'asilo e del suo rapporto con il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, nonchè della sua interazione con le altre forme di protezione della persona previste dal diritto comunitario e dal sistema CEDU di salvaguardia dei diritti fondamentali. Dal breve itinerario comparatistico percorso, emerge una forte tendenza alla neutralizzazione dell’asilo costituzionale ed alla sua sovrapposizione con la fattispecie del rifugio convenzionale quale carattere comune agli ordinamenti presi in esame, espressione di una consapevole scelta di politica del diritto altresì volta ad assimilare la materia alla disciplina generale dell’immigrazione al fine di ridimensionarne le potenzialità espansive (si pensi alla latitudine delle formule costituzionali di cui agli artt. 10, co. 3 Cost. it. e 16a, co. 1 Grundgesetz) e di ricondurre l'asilo entro i tradizionali confini della discrezionalità amministrativa quale sovrana concessione dello Stato ospitante. L'esame delle fonti comunitarie di recente introduzione illumina l’indagine: in particolare, la stessa Direttiva 2004/83CE sulla qualifica di rifugiato e sulla protezione sussidiaria consolida quanto stabilito dalle disposizioni convenzionali, ma ne estende la portata in modo significativo, recependo gli esiti della lunga evoluzione giurisprudenziale compiuta dalle corti nazionali e dal Giudice di Strasburgo nell’interpretazione del concetto di “persecuzione” (specialmente, in relazione all’individuazione delle azioni e degli agenti persecutori). Con riferimento al sistema giuridico italiano, la tesi si interroga sulle prospettive di attuazione del dettato dell’art. 10, terzo comma della Costituzione, ed inoltre propone la disamina di alcuni istituti chiave dell’attuale normativa in materia di asilo, attraverso cui si riscontrano importanti profili di incompatibilità con la natura di diritto fondamentale costituzionalmente tutelato, conferita al diritto di asilo dalla volontà dei Costituenti e radicata nella ratio della norma stessa (il trattenimento del richiedente asilo; la procedura di esame della domanda, l’onere probatorio e le cause ostative al suo accoglimento; l’effettività della tutela giurisdizionale). Le questioni più problematiche ancora irrisolte investono proprio tali aspetti del procedimento - previsto per ottenere quello che alcuni atti europei, tra cui l'art. 18 della Carta di Nizza, definiscono right to asylum - come rivela la disciplina contenuta nella Direttiva 2005/85CE, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Infine, il fenomeno della esternalizzazione dei controlli compromette lo stesso accesso alle procedure, nella misura in cui rende "mobile" il confine territoriale dell’area Schengen (attraverso l'introduzione del criterio dello "Stato terzo sicuro", degli strumenti dell'esame preliminare delle domande e della detenzione amministrativa nei Paesi di transito, nonché per mezzo del presidio delle frontiere esterne), relegando il trattamento dei richiedenti asilo ad uno spazio in cui non sempre è monitorabile l'effettivo rispetto del principio del non refoulement, degli obblighi internazionali relativi all’accoglienza dei profughi e delle clausole di determinazione dello Stato competente all'esame delle domande ai sensi del Regolamento n. 343/03, c.d. Dublino II (emblematico il caso del pattugliamento delle acque internazionali e dell'intercettazione delle navi prima del superamento dei confini territoriali). Questi delicati aspetti di criticità della disciplina procedimentale limitano il carattere innovativo delle recenti acquisizioni comunitarie sull’ambito di operatività delle nuove categorie definitorie introdotte (le qualifiche di rifugiato e di titolare di protezione sussidiaria e la complessa nozione di persecuzione, innanzitutto), richiedendo, pertanto, l’adozione di un approccio sistemico – piuttosto che analitico – per poter rappresentare in modo consapevole le dinamiche che concretamente si producono a livello applicativo ed affrontare la questione nodale dell'efficienza dell'attuale sistema multilivello di protezione del richiedente asilo.

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L’argomento trattato in questo elaborato è il problema sempre più emergente dello smaltimento dei fanghi provenienti dalla depurazione delle acque reflue. La quantità di fanghi da smaltire, infatti, è in continuo aumento e continuerà a crescere nel corso dei prossimi anni a causa di trattamenti sempre più spinti di depurazione e della costruzione di nuovi impianti. Dopo aver analizzato i vari scenari possibili per lo smaltimento dei fanghi ed i relativi costi, si passa ad analizzare le varie tecniche utilizzate per l’essiccamento dei fanghi (dirette ed indirette), includendo anche tecniche di ultima generazione come l’essiccamento per via solare. Si è andati poi ad analizzare nel dettaglio il funzionamento dell’impianto di essiccamento termico dei fanghi di depurazione di Coriano (RN), situato presso il termovalorizzatore e che sfrutta il calore proveniente da questo come fonte di calore per essiccare i fanghi. Sono state evidenziate le varie parti che compongono l’impianto e le caratteristiche delle correnti in ingresso ed uscita. Si è passati poi ad analizzare il pericolo di esplosione, all’interno dello stesso impianto, dovuto alla presenza di miscele esplosive formate dalla polvere organica del fango e dall’aria. Si sono analizzate tutte le modifiche apportate all’impianto in modo tale da prevenire questo rischio di esplosione. Infine è stata condotta una valutazione economica per dimostrare che l’essiccamento dei fanghi risulta un processo molto conveniente, perché consente di ridurre i volumi da trattare, e, quindi, di conseguenza anche i costi dello smaltimento finale.

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Il lavoro sperimentale condotto nell’ambito della presente tesi è stato svolto su un impianto pilota a flusso continuo con schema predenitro/nitro in scala di laboratorio, alimentato con refluo sintetico ed installato presso i laboratori della Sezione ACS PROT IDR - Gestione Risorse Idriche dell’ENEA (sede di Bologna). Le finalità della sperimentazione erano mirate ad una verifica preliminare sull’utilizzo di segnali indiretti, quali pH, ORP, DO, nel monitoraggio in tempo reale dei processi biologici, mirata alla possibilità di implementare un sistema di controllo automatico di un impianto di depurazione, capace di minimizzare i costi di gestione e in grado di garantire, in ogni caso, elevate efficienze depurative. Nel presente studio sono stati esaminati gli aspetti metodologici e tecnologici alla base dell’automazione di un impianto di trattamento di acque reflue, avendo il duplice obiettivo di garantire una buona qualità dell’effluente e un contestuale risparmio energetico. In particolare si è studiato un problema molto diffuso: il controllo della rimozione dell’azoto in un sistema a fanghi attivi con predenitrificazione per l’ossidazione congiunta di carbonio ed azoto, ponendolo in relazione con la variazione dei tempi di commutazione in un processo SBR. L’obiettivo primario della sperimentazione effettuata è stato quello di portare il sistema in un regime di equilibrio stazionario, in modo da poter definire delle condizioni di regime per le quali, ad un ingresso costante e noto, corrispondesse un’uscita altrettanto costante che mantenesse tali condizioni fino a quando non fosse cambiato l’ingresso e/o le condizioni al contorno. A questo scopo si è provveduto, in primo luogo, allo studio di un influente sintetico con cui alimentare l’impianto, di composizione tale da simulare in tutte le sue caratteristiche un refluo civile reale e, successivamente, alla valutazione di una configurazione impiantistica idonea per il raggiungimento dell’equilibrio dei processi. La prima parte della sperimentazione è stata dedicata all’avviamento dell’impianto, effettuando un monitoraggio continuo dell’intero sistema allo scopo di impostare i parametri operativi e in modo da ottenere condizioni stabili per effettuare le successive sperimentazioni.

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L’infezione da virus dell’ epatite E (HEV) nei suini e nell’uomo è stata segnalata in diversi Paesi. Nei suini, il virus causa infezioni asintomatiche, mentre nell’uomo è responsabile di epidemie di epatite ad andamento acuto nei Paesi a clima tropicale o subtropicale con condizioni igieniche scadenti, di casi sporadici in quelli sviluppati. HEV è stato isolato anche in diversi animali e l’analisi nucleotidica degli isolati virali di origine animale ha mostrato un elevato grado di omologia con i ceppi di HEV umani isolati nelle stesse aree geografiche, avvalorando l’ipotesi che l'infezione da HEV sia una zoonosi. In America del Sud HEV suino è stato isolato per la prima volta in suini argentini nel 2006, mentre solo dal 1998 esistono dati sull’ infezione da HEV nell’uomo in Bolivia. In questa indagine è stato eseguito uno studio di sieroprevalenza in due comunità rurali boliviane e i risultati sono stati confrontati con quelli dello studio di sieroprevalenza sopra menzionato condotto in altre zone rurali della Bolivia. Inoltre, mediante Nested RT-PCR, è stata verificata la presenza di HEV nella popolazione umana e suina. La sieroprevalenza per anticorpi IgG anti-HEV è risultata pari al 6,2%, molto simile a quella evidenziata nello studio precedente. La prevalenza maggiore (24%) si è osservata nei soggetti di età compresa tra 41 e 50 anni, confermando che l’ infezione da HEV è maggiore fra i giovani-adulti. La ricerca di anticorpi anti HEV di classe IgM eseguita su 52 sieri ha fornito 4 risultati positivi. Il genoma virale è stato identificato in uno dei 22 pool di feci umane e l'esame virologico di 30 campioni individuali fecali e 7 individuali di siero ha fornito rispettivamente risultati positivi in 4/30 e 1/7. La Nested RT-PCR eseguita sui 22 pool di feci suine ha dato esito positivo in 7 pool. L’analisi delle sequenze genomiche di tutti gli amplificati ha consentito di stabilire che gli isolati umani appartenevano allo stesso genotipo III di quelli suini e presentavano con questi una elevata omologia aminoacidica (92%).

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Il presente studio ha come obbiettivo lo sviluppo di composti di origine naturale come potenziali farmaci antitumorali, attraverso la definizione dei loro specifici target cellulari e molecolari su diversi modelli cellulari ad alta predittività. Gli isotiocianati, contenuti nei vegetali appartenenti alla famiglia delle Crucifereae, sono dotati di una comprovata capacità di inibire la formazione di tumori in modelli animali preventivamente trattati con cancerogeni. Questa attività è riconducibile principalmente alla modulazione degli enzimi coinvolti nell’attivazione/detossificazione di xenobiotici e ad effetti citostatici e citossici, osservati su numerose linee cellulari. Un isotiocianato particolarmente promettente è il sulforafane (SFN). La ricerca condotta durante il periodo di dottorato si è, quindi, focalizzata sull’isotiocianato SFN e in particolare sulla sua capacità di modulare specifici eventi cellulari e molecolari coinvolti nel processo di leucemogenesi. Inizialmente è stato indagato il potenziale citostatico e citotossico del SFN su una linea cellulare T linfoblastoide (cellule Jurkat), con particolare attenzione agli effetti sulla proliferazione cellulare, all’induzione di apoptosi/necrosi e all’analisi di alcuni dei meccanismi molecolari coinvolti negli effetti citostatici e citotossici dell’isotiocianato ( livelli proteici di p53, bax e bcl-2). Successivamente, poiché requisiti fondamentali di un antitumorale sono selettività d’azione e scarsa tossicità, è stato indagato il potenziale citostatico e citotossico dell’isotiocianato SFN sulla controparte non trasformata delle cellule leucemiche T linfoblastoidi, analizzando gli stessi eventi studiati su cellule tumorali e alcuni dei meccanismi molecolari coinvolti (livelli proteici di ciclina D2, ciclina D3, chinasi ciclina dipendente (CDK) 4 e CDK6 ). Il SFN si è dimostrato in grado di indurre apoptosi sulle cellule Jurkat e di inibirne la proliferazione, mediante un blocco in fase G2/M del ciclo cellulare e un incremento dei livelli di p53 e bax. Il SFN è in grado di indurre effetti citostatici e citotossici anche su linfociti T non trasformati. Tuttavia, le dosi necessarie per esibire tali effetti sono ben più elevate di quelle attive su cellule leucemiche. Una tappa importante nello sviluppo di un farmaco antitumorale è, la definizione, dove possibile, dei suoi effetti in un modello ex vivo, altamente predittivo di quella che sarà la risposta farmacologica in vivo. Sono stati quindi valutati gli effetti del SFN su colture primarie di blasti provenienti da pazienti affetti da diversi tipi di leucemia , sia mieloide che linfoblastica. Il SFN non sembra possedere alcuna attività su campioni da pazienti affetti da LLC, mentre un importante attività proapoptotica si registra nei campioni da pazienti affetti da LMA, dove l’effetto del SFN è sorprendentemente marcato anche su campioni da pazienti multiresistenti. L’attività dell’isotiocianato sui campioni da pazienti affetti da LLA è decisamente più marcata sul campione da paziente affetto da LLA a cellule B, mentre sul campione di Leucemia Acuta Bifenotipica l’effetto proapoptotico del SFN si registra dopo tempi di trattamento brevi piuttosto che dopo tempi di trattamento più lunghi. In conclusione, i risultati ottenuti evidenziano che il SFN possiede un’interessante attività antileucemica in vitro e, dato di particolare rilevanza, anche ex vivo.

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L’uso frequente dei modelli predittivi per l’analisi di sistemi complessi, naturali o artificiali, sta cambiando il tradizionale approccio alle problematiche ambientali e di rischio. Il continuo miglioramento delle capacità di elaborazione dei computer facilita l’utilizzo e la risoluzione di metodi numerici basati su una discretizzazione spazio-temporale che permette una modellizzazione predittiva di sistemi reali complessi, riproducendo l’evoluzione dei loro patterns spaziali ed calcolando il grado di precisione della simulazione. In questa tesi presentiamo una applicazione di differenti metodi predittivi (Geomatico, Reti Neurali, Land Cover Modeler e Dinamica EGO) in un’area test del Petén, Guatemala. Durante gli ultimi decenni questa regione, inclusa nella Riserva di Biosfera Maya, ha conosciuto una rapida crescita demografica ed un’incontrollata pressione sulle sue risorse naturali. L’area test puó essere suddivisa in sotto-regioni caratterizzate da differenti dinamiche di uso del suolo. Comprendere e quantificare queste differenze permette una migliore approssimazione del sistema reale; é inoltre necessario integrare tutti i parametri fisici e socio-economici, per una rappresentazione più completa della complessità dell’impatto antropico. Data l’assenza di informazioni dettagliate sull’area di studio, quasi tutti i dati sono stati ricavati dall’elaborazione di 11 immagini ETM+, TM e SPOT; abbiamo poi realizzato un’analisi multitemporale dei cambi uso del suolo passati e costruito l’input per alimentare i modelli predittivi. I dati del 1998 e 2000 sono stati usati per la fase di calibrazione per simulare i cambiamenti nella copertura terrestre del 2003, scelta come data di riferimento per la validazione dei risultati. Quest’ultima permette di evidenziare le qualità ed i limiti per ogni modello nelle differenti sub-regioni.