996 resultados para didattica matematica storia fonti equazioni
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La tesi parla della storia dei grattacieli, in particolare le principali scuole di pensiero che hanno permesso lo sviluppo del grattacielo e le innovazioni con le quali hanno raggiunto quote sempre più alte.
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La tesi analizza la rappresentazione del maquis nella letteratura spagnola contemporanea, scritti in castigliano e pubblicati dal 1985 ad oggi. La tesi si articola in tre capitoli: il primo presenta a livello teorico la metodologia e gli strumenti utilizzati nello svolgimento dello studio, ed è incentrato innanzitutto sul tentativo di definizione e catalogazione dei romanzi del maquis, con una particolare attenzione alla temperie culturale cui fanno riferimento, presentando le estetiche postmoderna e neomoderna e cercando di situare le opere narrative facenti parte del corpus della ricerca. Nel secondo capitolo è centrale in cambio l’analisi dei rapporti tra Storia e narrazione: oltre a concentrarsi sul dibattito interdisciplinare circa le connessioni tra la Storia e la narrativa, si cerca di dar conto dei riflessi di questa riflessione contemporanea all’interno delle opere facenti parte del corpus. Infine, il terzo capitolo riguarda l’analisi delle metafore animali rintracciabili nei romanzi sul maquis scelti, concentrandosi principalmente su Luna de lobos di Julio Llamazares e La agonía del búho chico di Justo Vila. L’impiego di questa figura retorica, che si ritrova in vari gradi in tutte le opere narrative scelte, risponde tanto ad una ricerca di verosimiglianza quanto alle modalità di rappresentazione della realtà empirica, riportando l’attenzione sui metodi atti alla figurazione e all’accesso alla conoscenza del mondo. La proposta di un cambio di paradigma estetico e narrativo in atto nella letteratura contemporanea spagnola cerca quindi una conferma nel momento dell’analisi, attraverso la quale si cerca di indagare se, e in che misura, il romanzo sul maquis si inserisce nel dibattito letterario odierno, e quanto contribuisce allo sviluppo del medesimo paradigma estetico in via di definizione – quello neomoderno –, cercando una conferma che si basa sulla presenza di quelle tematiche segnalate nel momento della discussione teorica e metodologica come tratti basilari e strutturanti le opere.
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La tesi analizza i rapporti tra l’ordinamento italiano e la Cedu, in particolare la collocazione della Cedu all’interno del sistema delle fonti alla luce della modifica dell’art. 117, comma 1 Cost. Si tratta di un tema molto dibattuto in dottrina, specialmente a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Questa tematica risulta strettamente connessa al profilo dell’interazione tra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale e i giudici ordinari. L’analisi del profilo statico concernente lo status della Cedu nel sistema italiano deve quindi essere accompagnata dall’esame del profilo dinamico, relativo al ruolo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo nell’esperienza dell’ordinamento nazionale. Entrambi i profili di indagine sono esaminati alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di Cassazione e della Corte di Strasburgo. Prima di essere esaminate singolarmente, queste tematiche richiedono la preliminare ricognizione dei termini della dicotomia tra i due modelli concettuali di riferimento in tema di rapporti interordinamentali: il monismo e il dualismo. Trasferite nel peculiare contesto del sistema Cedu, tali categorie dogmatiche si arricchiscono di ulteriori profili, che esorbitano dalla sistemazione del rapporto tra fonti. La tenuta dei due paradigmi concettuali, che sono nati ed operano nel contesto della teorica delle fonti, deve essere verificata anche rispetto all’attuale fenomeno della produzione europea di diritto giurisprudenziale ed alla capacità paradigmatica assunta dalla giurisprudenza di Strasburgo. Il diritto e le istituzioni giuridiche tendono ad assumere sempre più sembianze giurisdizionali, generando un’osmosi che porta a trasferire il focus dai rapporti interordinamentali ai rapporti tra giurisprudenze.
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Il lavoro di tesi nasce con l'intento di realizzare un'analisi unitaria della tematica dei ragazzi selvaggi al fine di evidenziare il valore e le ripercussioni di quanto oggigiorno può emergere dal portare avanti lo studio dei ragazzi selvaggi da una prospettiva pedagogico-educativa. L’espressione ragazzo selvaggio viene tradizionalmente usata per riferirsi a quei bambini/e cresciuti per un lungo periodo in compagnia di animali o in luoghi isolati. Nel corso del tempo altre accezioni sono comparse e l’utilizzo di tale espressione ha assunto significati diversi in base ai contesti di riferimento e alle eventuali connessioni con la tematica del selvaggio in generale. Questa tematica si colloca al crocevia tra più aree di ricerca; gli incroci sono come territori di confine, luoghi in cui è facile smarrirsi, ma sono anche luoghi di incontro, di confronto, di scambio, luoghi che conducono a nuova conoscenza. Affrontare, come in questo caso, un argomento di ricerca ricco di aspetti analizzabili da più punti di vista, implica la necessità di riferirsi a più prospettive d'indagine e di rapportarsi con differenti ambiti di studio. Ciò non deve però tradursi in un’inclusione indistinta e giustapponente delle diverse letture del fenomeno e degli elementi connessi alla ricerca. Il presente lavoro cerca pertanto di adottare un orientamento olistico alla tematica dei ragazzi selvaggi avvalendosi di uno sguardo di matrice pedagogico-educativa. L’obiettivo generale della ricerca si articola in tre sotto-obiettivi, identificabili nello specifico come: - realizzare un’analisi del fenomeno dei ragazzi selvaggi che metta in luce gli apporti della tematica all’evoluzione della storia della pedagogia; - far emergere ed evidenziare le connessioni della tematica a problematiche educative attualmente rilevanti ed oggetto del dibattito pedagogico contemporaneo; - analizzare i punti di contatto tra le ricerche sui feral children e le evidenze emerse dagli studi in campo neuroscientifico.
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Una stella non è un sistema in "vero" equilibrio termodinamico: perde costantemente energia, non ha una composizione chimica costante nel tempo e non ha nemmeno una temperatura uniforme. Ma, in realtà, i processi atomici e sub-atomici avvengono in tempi così brevi, rispetto ai tempi caratteristici dell'evoluzione stellare, da potersi considerare sempre in equilibrio. Le reazioni termonucleari, invece, avvengono su tempi scala molto lunghi, confrontabili persino con i tempi di evoluzione stellare. Inoltre il gradiente di temperatura è dell'ordine di 1e-4 K/cm e il libero cammino medio di un fotone è circa di 1 cm, il che ci permette di assumere che ogni strato della stella sia uno strato adiabatico a temperatura uniforme. Di conseguenza lo stato della materia negli interni stellari è in una condizione di ``quasi'' equilibrio termodinamico, cosa che ci permette di descrivere la materia attraverso le leggi della Meccanica Statistica. In particolare lo stato dei fotoni è descritto dalla Statistica di Bose-Einstein, la quale conduce alla Legge di Planck; lo stato del gas di ioni ed elettroni non degeneri è descritto dalla Statistica di Maxwell-Boltzmann; e, nel caso di degenerazione, lo stato degli elettroni è descritto dalla Statistica di Fermi-Dirac. Nella forma più generale, l'equazione di stato dipende dalla somma dei contributi appena citati (radiazione, gas e degenerazione). Vedremo prima questi contributi singolarmente, e dopo li confronteremo tra loro, ottenendo delle relazioni che permettono di determinare quale legge descrive lo stato fisico di un plasma stellare, semplicemente conoscendone temperatura e densità. Rappresentando queste condizioni su un piano $\log \rho \-- \log T$ possiamo descrivere lo stato del nucleo stellare come un punto, e vedere in che stato è la materia al suo interno, a seconda della zona del piano in cui ricade. È anche possibile seguire tutta l'evoluzione della stella tracciando una linea che mostra come cambia lo stato della materia nucleare nelle diverse fasi evolutive. Infine vedremo come leggi quantistiche che operano su scala atomica e sub-atomica siano in grado di influenzare l'evoluzione di sistemi enormi come quelli stellari: infatti la degenerazione elettronica conduce ad una massa limite per oggetti completamente degeneri (in particolare per le nane bianche) detta Massa di Chandrasekhar.
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Questa tesi descrive le fasi della progettazione e dell'implementazione di una applicazione mobile per il supporto alla didattica del corso di Programmazione del CdL di Ingegneria e Scienze Informatiche del Campus di Cesena. Il progetto ha lo scopo di mettere a disposizione degli studenti e dei docenti una applicazione per dispositivi Android che permetta di usufruire dei servizi attualmente forniti dal portale ufficiale del corso. Le funzionalità principali consistono nell'accesso ai materiali didattici e nella gestione delle consegne di esercizi propedeutici alla prova finale per quanto concerne gli studenti; ai professori è invece fornita la possibilità di eseguire la correzione degli elaborati e seguirne lo stato di avanzamento. Visto l'elevato numero di utenti che utilizzava il portale esistente tramite tablet e smartphone si è ritenuto necessario lo sviluppo di questo prodotto che possa fornire una user experience ottimizzata per questi dispositivi. Durante la progettazione è stata data particolare importanza all'ottimizzazione delle prestazioni, sfruttando gli strumenti più recenti forniti agli sviluppatori, e alla conformità con i principali design pattern della programmazione per dispositivi Android. Allo scopo di fornire un prodotto utilizzabile dalla maggior parte dell'utenza potenziale, si è inoltre data priorità alla compatibilità con tutti i dispositivi e le versioni del sistema operativo, senza rinunciare ad alcuna funzionalità. Il risultato del lavoro consiste in un prototipo pienamente funzionante e utilizzabile che mira a fornire una base stabile su cui eseguire future evoluzioni.
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Il presente lavoro è incentrato sulla raccolta e l’analisi dell’instrumentum fittile inscriptum – in particolare laterizi, dolia, lucerne, ceramica fine da mensa, anfore e tappi d’anfora - rinvenuto a Modena e nel suo territorio. L’attenzione è stata concentrata sul materiale bollato e, per quanto riguarda le anfore, anche sullo studio degli esemplari recanti tituli picti. Si è proceduto ad una raccolta di tutto il materiale edito, a cui si è aggiunto lo studio di un’ingente quantità di reperti provenienti da due recenti scavi suburbani: quello presso il Parco Novi Sad, che si segnala soprattutto per la ricchezza del materiale anforico, e quello di Viale Reiter, ove sono venuti alla luce numerosi scarti di cottura di lucerne a canale recanti le firme di alcuni dei più noti produttori di tali oggetti nel mondo romano. A ciascuna categoria di instrumentum è stato dedicato un capitolo, corredato di tabelle in cui è stato raccolto tutto il materiale considerato; inoltre, per i reperti del Parco Novi Sad e di Viale Reiter, è stato realizzato un catalogo corredato di riproduzioni grafiche e fotografiche. Per quanto concerne le iscrizioni dipinte, un capitolo è stato dedicato a quelle presenti sulle anforette adriatiche da pesce; quanto ai tituli picti su anfore di morfologia betica per il trasporto di salse di pesce è stato effettuato un confronto con esemplari rinvenuti in due scavi inediti a Parma, che presentano significative analogie col materiale modenese. Dall’analisi dell’instrumentum inscriptum di Mutina, pur consapevoli dei limiti insiti in una ricerca incentrata unicamente su tale tipo di materiale, è emersa un’immagine della colonia, tra la tarda età repubblicana ed il I sec. d.C., congruente con quella delineata dalle fonti letterarie, dall’epigrafia lapidaria e dai rinvenimenti archeologici, ossia di una città di notevole importanza e ricchezza.
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La tesi analizza, nel quadro del secondo dopoguerra, quattro casi studio scelti tra le opere di ricostruzione dell’architetto Josef Wiedemann (1910-2001) nel centro di Monaco di Baviera: Odeon (1951-1952), Alte Akademie (1951-1955), Siegestor (1956-1958) e Glyptothek (1961-1972). L’architetto si occupa di opere simbolo della città di Monaco, affrontando la loro ricostruzione come un tema fondante per la storia e l’identità del popolo bavarese, ma soprattutto come un’occasione per definire un metodo d’intervento sulle rovine della guerra. Il suo lavoro è caratterizzato infatti per la ricerca costante di una sintesi tra interesse per la conservazione dell’antico e apertura al nuovo; ispirandosi all’insegnamento del maestro Hans Döllgast, Wiedemann traccia una nuova originale strada per l’intervento sull’antico, segnata da una profonda capacità tecnico-progettuale e dall'attenzione alle nuove esigenze a cui deve rispondere un’architettura contemporanea. Partendo dai suoi scritti e dalle sue opere, si può rilevare un percorso coerente che, partendo dalla conoscenza della storia dell'edificio, ripercorrendone l’evoluzione dallo stato che potremmo definire “originario” allo stato di rovina, giunge a produrre nel progetto realizzato una sintesi tra il passato e il futuro. L'architetto, nella visione di Wiedemann, è chiamato a un compito di grande responsabilità: conoscere per progettare (o ri-progettare) un edificio che porta impressi su di sé i segni della propria storia. Nel metodo che viene messo progressivamente a punto operando nel corpo vivo dei monumenti feriti dalla guerra, è percepibile fino a distinguerlo chiaramente l’interesse e l’influenza del dibattito italiano sul restauro. La conservazione “viva” dell'esistente, così come viene definita da Wiedemann stesso, si declina in modo diverso per ogni caso particolare, approdando a risultati differenti tra loro, ma che hanno in comune alcuni principi fondamentali: conoscere, ricordare, conservare e innovare.
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La tesi riguarda la concessione di spazi di proprietà pubblica a privati, intesi come singole persone o enti, quali ad esempio i collegi, da parte delle autorità cittadine. Le fonti a disposizione per indagare tale pratica burocratica sono quasi totalmente di natura epigrafica, per lo più attestanti l’espressione locus datus decreto decurionum, variamente abbreviata, o formule similari. Questo aspetto della vita civica è stata cursoriamente oggetto di studio in diversi contributi, ma si tratta di articoli che circoscrivono il tema, analizzandolo in relazione a ristrette aree geografiche, oppure considerandone determinati aspetti (ad esempio l’ambito sacro o quello funerario). Si è perciò ritenuto utile proseguire questa linea di ricerca affrontando uno studio di più ampio raggio, che comprenda la documentazione epigrafica dell’intero territorio italico (costituito dalle undici regioni augustee ad esclusione di Roma), per tutte le tipologie testuali (iscrizioni sacre, funerarie, onorarie, su opera pubblica, exempla decreti), allo scopo di formulare osservazioni più precise e puntuali sulla procedura burocratica in esame, pur con tutti i limiti noti a chi affronti questo genere di indagine. Tra le conclusioni raggiunte, è emerso come durante il I-II sec. d.C. vi fosse la tendenza a concedere, sporadicamente, dei loca sepulturae extraurbani a membri delle famiglie delle élites cittadine, anche donne e fanciulli, mentre il foro e le altre aree pubbliche interne alla città erano soprattutto utilizzate direttamente dai decurioni per l’elevazione di dediche e statue. Nel corso del II sec. d.C., con massima diffusione nell’età antonina e poi in quella severiana, prese invece piede l’uso privato a scopo onorario degli spazi pubblici siti all’interno delle città, ovvero in aree prima pressoché precluse all’intervento di singoli cittadini: familiari e liberti, collegi e altri organismi commissionavano statue dedicate prevalentemente agli amministratori locali, magistrati cittadini spesso divenuti anche cavalieri.
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Il continuo sdoppiamento e la riverberazione sono le matrici di sviluppo di questa tesi, in cui le ricerche di Grotowski legate al Parateatro e al Teatro delle Fonti sono indagate e interpretate a partire da un pensiero polivalente che prende avvio nella sociologia della cultura e si radica in un terreno antropologico. La ricerca si configura come un’interpretazione possibile delle scelte operate da Grotowski e, complessivamente, dal Teatro Laboratorio, nel contesto delle trasformazioni socio-culturali successive agli anni Sessanta verificando come nel periodo dal '70 all'82 le scelte stesse rispecchino i valori culturali dell’epoca.La ricerca ricorre alla categoria della “festa” - intesa come realtà quotidiana elevata alla forma rituale, attraverso gli elementi culturali e identitari del gruppo di appartenenza - e, a partire da essa, sovrappone criticamente la logica dell’“identità in performance” con la nozione di “Incontro” elaborata da Grotowski. Questa logica è, successivamente, problematizzata attraverso il “diamante culturale”, un dispositivo di analisi della sociologia della culturache, a sua volta, è discusso eridimensionato a partire dalpresuppostodi “Decostruzione” e dall’idea di “Decondizionamento”legata al lavoro del Performer, inteso come individuo.Tre immagini e un’incognita rivelano i campi d’azioneed i principi che permeano l’intera ricerca raddoppiandosi e congiungendo l’immagine del Performer come individuo riflessivo. L’immagine riflessa si configura nel contrasto fra apparenza e presenza: nella domanda posta da Grotowski “che si può fare con la propria solitudine?” si evidenzia uno dei problemi a cui deve far fronte l’individuo in una determinata struttura culturale e, al contempo, viene suggerita una possibilità di amplificazione della percezione di “se stesso” da parte dell’Attore-Performer come Individuo.
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La presente ricerca di dottorato consiste in un’analisi di carattere politico ed istituzionale dei poteri signorili e territoriali, collegati a distretti castrensi, documentati nella Romagna nord-occidentale durante il pieno medioevo. L’indagine mira a ricostruire, principalmente attraverso fonti documentarie, alcune delle quali inedite, la geografia dei poteri in un’area sub-regionale, con particolare attenzione al fenomeno della signoria rurale, dei poteri comitali e dell’incastellamento. Partendo dallo studio di una realtà locale, la ricerca arriva a sviluppare argomentazioni di carattere generale, ricollegandosi al dibattito storiografico sui poteri signorili e l’incastellamento. La ricerca risulta incentrata sui soggetti politici, laici ed ecclesiastici, detentori dei castelli e dei poteri pubblici nella Bassa Romagna, in primo luogo gli arcivescovi di Ravenna, i vescovi e i conti di Imola, le famiglie comitali di Cunio, Bagnacavallo e Donigallia nei secoli XI-XIII. L'attenzione si concentra, in particolare, sulla fase del cosiddetto “secondo incastellamento” e sui decenni a cavaliere tra XII e XIII secolo, con il tentativo di espansione dei comuni nel contado e la formalizzazione dei poteri dei signori rurali da parte dei sovrani svevi. Proprio alla complessa interazione con il mondo cittadino e allo stretto rapporto dei Cunio e dei Malvicini con la corte di Federico II viene dato ampio spazio nei capitoli conclusivi del presente lavoro.
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La ricerca riguarda lo studio del cantiere edilizio protobizantino, con particolare riferimento al ciclo della lavorazione del marmo. Quest’ultimo viene analizzato sotto il profilo amministrativo, tecnico, sociale ed artigianale. L’elemento guida della ricerca sono i marchi dei marmorari, sigle apposte da funzionari e maestranze durante il processo produttivo. Dapprima, fonti letterarie ed epigrafiche, tra cui le sigle di cava e officina su marmo, vengono esaminate per ricostruire il sistema alto-imperiale di amministrazione delle cave e di gestione dei flussi marmorei, nonché l’iter tecnico-artigianale adottato per la produzione dei manufatti. Il confronto con i dati disponibili per la tarda antichità, con particolare riferimento alle cave di Proconneso, evidenzia una sostanziale continuità della prassi burocratico-amministrativa, mentre alcuni cambiamenti si riscontrano nell’ambito produttivo-artigianale. Il funzionamento degli atelier marmorari viene approfondito attraverso lo studio dei marchi dei marmorari. Si tratta di caratteri greci singoli, multipli o monogrammi. Una ricognizione sistematica delle sigle dalla pars Orientalis dell’impero, reperite in bibliografia o da ricognizioni autoptiche, ha portato alla raccolta di circa 2360 attestazioni. Per esse si propone una classificazione tipologica tra sigle di cava, stoccaggio, officina. Tra le sigle di cava si annoverano sigle di controllo, destinazione/committenza, assemblaggio/posizionamento. Una particolare attenzione è riservata alle sigle di officina, riferibili ad un nome proprio di persona, ovvero al πρωτομαΐστωρ, il capo-bottega che supervisionava il lavoro dei propri artigiani e fungeva da garante del prodotto consegnato alla committenza. Attraverso lo studio comparato delle sigle reperite a Costantinopoli e in altri contesti si mette in luce la prassi operativa adottata dagli atelier nei processi di manifattura, affrontando anche il problema delle maestranze itineranti. Infine, sono analizzate fonti scritte di varia natura per poter collocare il fenomeno del marmo in un contesto socio-economico più ampio, con particolare riferimento alle figure professionali ed artigianali coinvolte nei cantieri e al problema della committenza.
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La ricerca ha come oggetto l’edizione critica di circa tremila regesti di documenti di area bolognese datati al X-XII secolo. I documenti sono stati trascritti tra il XVII e XVIII secolo in undici cartulari ecclesiastici, conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna. Il lavoro s’inserisce nel progetto di edizione delle carte bolognesi di epoca medievale in corso presso la cattedra di Paleografia latina e Diplomatica dell’Università di Bologna, attualmente incentrata sull’edizione delle carte del secolo XII. La ricerca si propone come strumento di supporto a tale progetto e come completamento delle carte già pubblicate: i cartulari, infatti, offrono spesso copie di documenti mancanti dell’originale o in cattivo stato di conservazione, e costituiscono l’unica traccia di una memoria storica altrimenti perduta. Le raccolte esaminate si collocano a ridosso del periodo napoleonico, quando la maggior parte degli enti ecclesiastici venne soppressa e i loro beni incamerati dallo Stato; esse quindi rispecchiano la condizione dei principali archivi ecclesiastici cittadini dei primi secoli del Medioevo bolognese. La ricerca è strutturata in una prima parte volta a definire in termini storico-diplomatistici la tipologia di fonte esaminata: oggi i cartulari non sono più intesi come semplici raccoglitori di documenti, ma come sistema organico di fonti in grado di far luce su aspetti importanti della storia dell’ente che li ha prodotti. L’indagine del loro contesto di produzione permette di comprenderne meglio le finalità, la forma e il valore giuridico. Parte della ricerca è stata poi incentrata sullo studio delle ragioni che hanno portato gli istituti religiosi bolognesi alla redazione dei cartulari: a tal fine è stata esaminata la legislazione ecclesiastica cinque-settecentesca in materia di conservazione della documentazione e il rapporto della legislazione stessa con la prassi archivistica. Infine è stata realizzata l’edizione critica vera e propria dei regesti, mirante a descrivere le caratteristiche principali di ciascun cartulario.
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All’ascolto dell’incompiuto Matrimonio di Musorgskij, Borodin aveva sentenziato lapidariamente: «une chose manquée». Uguale commento viene riservato tuttora alla produzione operistica di Sergej Rachmaninov. In questo caso però non ci troviamo di fronte a un teatro rivoluzionario che si trova costretto a fare un passo indietro rispetto ai principi programmatici di cui si vuol far portatore, bensì a un potenziale inespresso, a un profilo drammaturgico mai giunto a piena maturazione. L’evidente eterogeneità della produzione operistica lasciataci in eredità dal compositore non permette infatti di determinarne con chiarezza le ‘linee guida’ e ne rende problematica la collocazione nel contesto musicale a lui coevo. Scopo della presente dissertazione è indagare l’apprendistato e il debutto operistico del compositore russo attraverso l’analisi di materiale documentario, testi letterari, partiture nonché delle fonti critiche in lingua russa, difficilmente accessibili per lo studioso italiano. Il cuore dell’elaborato è un’analisi dettagliata di Aleko, un atto unico presentato nel 1892 dal compositore come prova finale al corso di ‘Libera composizione’ del Conservatorio di Mosca. L’opera viene considerata nel suo complesso come organismo drammatico-musicale autonomo (rapporto fonte/libretto, articolazione interna, sistema delle forme, costellazione dei personaggi, distribuzione delle voci, ecc.), ma inquadrata al contempo nel più ampio contesto del teatro musicale coevo (recezione critica sia da parte della pubblicistica coeva sia da parte della storiografia musicale). Viene fornita in appendice un’edizione del libretto con traduzione a fronte. Incorniciano l’analisi dell’opera un capitolo in cui si offre una rilettura estetica del ‘caso Rachmaninov’ e un aperçu sulla produzione operistica matura del compositore, alla luce delle riflessioni proposte nel corso della dissertazione.
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Studio del riprofilarsi di due sezioni di spiaggia (protetta e non) secondo diverse condizioni meteo-marine (scenario presente e scenario a breve termine) nella località di Cesenatico. Tale lavoro è stato svolto tramite il software XBeach, riscontrando la sua validità e gettando solide basi per lavori futuri in altre località.