422 resultados para Utopia


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La mostra è diventata un nuovo paradigma della cultura contemporanea. Sostenuta da proprie regole e da una grammatica complessa produce storie e narrazioni. La presente ricerca di dottorato si struttura come un ragionamento critico sulle strategie del display contemporaneo, tentando di dimostrare, con strumenti investigativi eterogenei, assumendo fonti eclettiche e molteplici approcci disciplinari - dall'arte contemporanea, alla critica d'arte, la museologia, la sociologia, l'architettura e gli studi curatoriali - come il display sia un modello discorsivo di produzione culturale con cui il curatore si esprime. La storia delle esposizioni del XX secolo è piena di tentativi di cambiamento del rapporto tra lo sviluppo di pratiche artistiche e la sperimentazione di un nuovo concetto di mostra. Nei tardi anni Sessanta l’ingresso, nella scena dell’arte, dell’area del concettuale, demolisce, con un azzeramento radicale, tutte le convenzioni della rappresentazione artistica del dopoguerra, ‘teatralizzando’ il medium della mostra come strumento di potere e introducendo un nuovo “stile di presentazione” dei lavori, un display ‘dematerializzato” che rovescia le classiche relazioni tra opera, artista, spazio e istituzione, tra un curatore che sparisce (Siegelaub) e un curatore super-artista (Szeemann), nel superamento del concetto tradizionale di mostra stessa, in cui il lavoro del curatore, in quanto autore creativo, assumeva una propria autonomia strutturale all’interno del sistema dell’arte. Lo studio delle radici di questo cambiamento, ossia l’emergere di due tipi di autorialità: il curatore indipendente e l’artista che produce installazioni, tra il 1968 e il 1972 (le mostre di Siegelaub e Szeemann, la mimesi delle pratiche artistiche e curatoriali di Broodthaers e la tensione tra i due ruoli generata dalla Critica Istituzionale) permette di inquadrare teoricamente il fenomeno. Uno degli obbiettivi della ricerca è stato anche affrontare la letteratura critica attraverso una revisione/costruzione storiografica sul display e la storia delle teorie e pratiche curatoriali - formalizzata in modo non sistematico all'inizio degli anni Novanta, a partire da una rilettura retrospettiva della esperienze delle neoavanguardie – assumendo materiali e metodologie provenienti, come già dichiarato, da ambiti differenti, come richiedeva la composizione sfaccettata e non fissata dell’oggetto di studio, con un atteggiamento che si può definire comparato e post-disciplinare. Il primo capitolo affronta gli anni Sessanta, con la successione sistematica dei primi episodi sperimentali attraverso tre direzioni: l’emergere e l’affermarsi del curatore come autore, la proliferazione di mostre alternative che sovvertivano il formato tradizionale e le innovazioni prodotte dagli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale. Esponendo la smaterializzazione concettuale, Seth Siegelaub, gallerista, critico e impresario del concettuale, ha realizzato una serie di mostre innovative; Harald Szeemann crea la posizione indipendente di exhibition maker a partire When attitudes become forms fino al display anarchico di Documenta V; gli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale, soprattutto Marcel Broodhthears col suo Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles, analizzano la struttura della logica espositiva come opera d’arte. Nel secondo capitolo l’indagine si sposta verso la scena attivista e alternativa americana degli anni Ottanta: Martha Rosler, le pratiche community-based di Group Material, Border Art Workshop/Taller de Arte Fronterizo, Guerrilla Girls, ACT UP, Art Workers' Coalition che, con proposte diverse elaborano un nuovo modello educativo e/o partecipativo di mostra, che diventa anche terreno del confronto sociale. La mostra era uno svincolo cruciale tra l’arte e le opere rese accessibili al pubblico, in particolare le narrazioni, le idee, le storie attivate, attraverso un originale ragionamento sulle implicazioni sociali del ruolo del curatore che suggeriva punti di vista alternativi usando un forum istituzionale. Ogni modalità di display stabiliva relazioni nuove tra artisti, istituzioni e audience generando abitudini e rituali diversi per guardare la mostra. Il potere assegnato all’esposizione, creava contesti e situazioni da agire, che rovesciavano i metodi e i formati culturali tradizionali. Per Group Material, così come nelle reading-room di Martha Rosler, la mostra temporanea era un medium con cui si ‘postulavano’ le strutture di rappresentazione e i modelli sociali attraverso cui, regole, situazioni e luoghi erano spesso sovvertiti. Si propongono come artisti che stanno ridefinendo il ruolo della curatela (significativamente scartano la parola ‘curatori’ e si propongono come ‘organizzatori’). La situazione cambia nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. Oltre agli sconvolgimenti geopolitici, la fine della guerra fredda e dell’ideologia, l’apertura ai flussi e gli scambi conseguenti al crollo delle frontiere, i profondi e drammatici cambiamenti politici che coinvolgono l’Europa, corrispondono al parallelo mutamento degli scenari culturali e delle pratiche espositive. Nel terzo capitolo si parte dall’analisi del rapporto tra esposizioni e Late Capitalist Museum - secondo la definizione di Rosalind Krauss - con due mostre cruciali: Le Magiciens de la Terre, alle origini del dibattito postcoloniale e attraverso il soggetto ineffabile di un’esposizione: Les Immatériaux, entrambe al Pompidou. Proseguendo nell’analisi dell’ampio corpus di saggi, articoli, approfondimenti dedicati alle grandi manifestazioni internazionali, e allo studio dell’espansione globale delle Biennali, avviene un cambiamento cruciale a partire da Documenta X del 1997: l’inclusione di lavori di natura interdisciplinare e la persistente integrazione di elementi discorsivi (100 days/100 guests). Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi, quello che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. La sfida delle pratiche contemporanee è non essere più conformi alle tre unità classiche della modernità: unità di tempo, di spazio e di narrazione. L’episodio più emblematico viene quindi indagato nel terzo capitolo: la Documenta X di Catherine David, il cui merito maggiore è stato quello di dichiarare la mostra come format ormai insufficiente a rappresentare le nuove istanze contemporanee. Le quali avrebbero richiesto - altrimenti - una pluralità di modelli, di spazi e di tempi eterogenei per poter divenire un dispositivo culturale all’altezza dei tempi. La David decostruisce lo spazio museale come luogo esclusivo dell’estetico: dalla mostra laboratorio alla mostra come archivio, l’evento si svolge nel museo ma anche nella città, con sottili interventi di dissimulazione urbana, nel catalogo e nella piattaforma dei 100 giorni di dibattito. Il quarto capitolo affronta l’ultima declinazione di questa sperimentazione espositiva: il fenomeno della proliferazione delle Biennali nei processi di globalizzazione culturale. Dalla prima mostra postcoloniale, la Documenta 11 di Okwui Enwezor e il modello delle Platforms trans-disciplinari, al dissolvimento dei ruoli in uno scenario post-szeemanniano con gli esperimenti curatoriali su larga scala di Sogni e conflitti, alla 50° Biennale di Venezia. Sono analizzati diversi modelli espositivi (la mostra-arcipelago di Edouard Glissant; il display in crescita di Zone of Urgency come estetizzazione del disordine metropolitano; il format relazionale e performativo di Utopia Station; il modello del bric à brac; la “Scuola” di Manifesta 6). Alcune Biennali sono state sorprendentemente autoriflessive e hanno consentito un coinvolgimento più analitico con questa particolare forma espressiva. Qual è l'impatto sulla storia e il dibattito dei sistemi espositivi? Conclusioni: Cos’è la mostra oggi? Uno spazio sotto controllo, uno spazio del conflitto e del dissenso, un modello educativo e/o partecipativo? Una piattaforma, un dispositivo, un archivio? Uno spazio di negoziazione col mercato o uno spazio di riflessione e trasformazione? L’arte del display: ipotesi critiche, prospettive e sviluppi recenti.

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Il mio lavoro di tesi si intitola "Alla ricerca dell'autenticità. Kathy Acker e Vladimir Sorokin a confronto". La comparazione riflette sulle inaspettate similarità sociali, e di conseguenza letterarie, di Usa e Urss dagli anni Settanta agli anni Novanta, indagate attraverso l'arte dei due scrittori citati nel titolo.  Kathy Acker è nata nel 1947 a New York e durante gli anni Settanta frequentò assiduamente la comunità artistica definita "Downtown New York". Vladimir Sorokin è nato nel 1955 nei dintorni di Mosca e negli stessi anni entrò all'intorno del circolo "Moskovskij Konzeptualism" della grande città. Queste due comunità artistiche erano create dalla libera aggregazione di artisti, scultori, letterati, poeti, musicisti.. in un vortice creativo in contrasto con la chiusura sociale e artistica degli ambiti definibili come accademici o ufficiali.  Con le loro opere Acker e Sorokin cercarono di distruggere le norme sovraimposte e arrivare all'"autenticità" riguardo al sé, all'homo sovieticus, all'uomo americano e riguardo al genere umano in generale.  Nell'arco del mio studio l'utopia del radioso avvenire sovietico e l'utopia del sogno americano d'oltreoceano si sono rivelati come prigioni della vita di ogni giorno, in grado di allontanare l'uomo dai suoi desideri veri e dai suoi impulsi più umani. Le risposte artistiche delle due comunità in generale e dei due scrittori in particolare sono volte alla liberazione dai vincoli dell'utopia e alla riscoperta di ciò che è ritenuto come debolezza e bassezza dell'uomo. Le due comunità artistiche cercarono il contatto con un vasto pubblico non elitario, cercano un linguaggio comprensibile da tutti. Contemporaneamente il corpo con tutte le sue pulsioni cerca di riguadagnare il proprio spazio in un sè egemonizzato dalla mente. Ma quel che queste comunità artistiche soprattutto fanno è porre domande alla coscienza e incoscienza della società. Cercano di trasformare il terrore quotidiano in qualcosa di comprensibile e scaricabile, un ruolo che una volta era proprio dei rituali trasgressivi del popolo e che dal Novecento, con la trasformazione del popolo in massa omologata, sono venuti a mancare. Acker e Sorokin cercano strutture narrative e artistiche in grado di proporre alla “corporealtà collettiva” una via di redenzione ritualistica. Questi artisti non si conformano e sono in grado di illuminare, di dare sostentamento all'individuo nella ricerca personale di una lingua, di un pensiero, di un mito in cui vivere. Reagiscono al balbettio omologante delle società di massa, non si adeguano a nessuna forma fissa e anche la loro arte continua a evolvere, a fallire, a cercare.

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Fino a qualche anno fa, la conversione di documenti cartacei in documenti digitali appariva come una vera e propria utopia. Quest’oggi invece pensiamo al digitale di qualsiasi tipologia come fosse un fattore prioritario, scontato ed immediato, da poterlo considerare una vera a propria dipendenza. Mentre una volta i documenti venivano depositati in archivi talvolta rudi e polverosi, spiacevoli da recuperare, sia per tempistiche sia per condizioni, oggi la quotidianità è così frenetica che occorre ottenere tutto in modo tempestivo. Un’ evoluzione socio-culturale ha portato all’elaborazione di tecniche sempre più sofisticate di ottimizzazione nel campo; si parla di “dematerializzazione dei documenti” o “processo di conservazione sostitutiva”, innovazione che ha determinato una vera e propria rivoluzione nella Pubblica Amministrazione, nei rapporti tra privati, nell’Ordinamento Giuridico e nella scienza del diritto, poiché è radicalmente mutata la concezione di “documento” così com’è conosciuto da migliaia di anni, nella sua natura res signata, “cosa “ che riporta informazioni. Il concetto di ”smaterializzazione” non è un’ assoluta novità se si pensa alle transazioni finanziarie di enormi quantità di denaro, che da anni avvengono in tutto il mondo, grazie a “documenti informatici”, senza che passi di mano una sola banconota. Lo scopo di questa tesi è approfondire il processo di conservazione sostitutiva, partendo dalle figure ad esso legate, per poi continuare con le regole tecniche di adozione, la validità probatoria dei documenti informatici, i formati, i metadati utilizzati, e così via.

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Analisi dell'utopia della città ideale, della sintesi di architettura e urbanistica nella megaforma e progetto di un ashram come laboratorio di vita collettiva.

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The utopian communities of Finns are linked to world history and the great ideological foundations behind numerous utopian endeavors. In the paper, Finnish utopian communities will be described, compared, and contrasted by their ideological backgrounds and in a global context. In addition, the reasons for the dissolution of these settlements are analyzed. Even though the Finnish utopian communities are not often mentioned together with More's Utopia, or with Fourier, Owen, Cabet, or Oneida, they have an interesting history reaching back to the 1792 “New Jerusalem” plan in Sierra Leone. While the best-known Finnish utopian ventures are Sointula in Canada (1901-1905) and Colonia Finlandesa (1906-1940) in Argentina there were, however, almost twenty similar Finnish ventures around the world based on nationalism, utopian socialism, cooperative movements, “tropic fevers,” and religious ideas.

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It is expected that climate change will have significant impacts on ecosystems. Most model projections agree that the ocean will experience stronger stratification and less nutrient supply from deep waters. These changes will likely affect marine phytoplankton communities and will thus impact on the higher trophic levels of the oceanic food web. The potential consequences of future climate change on marine microbial communities can be investigated and predicted only with the help of mathematical models. Here we present the application of a model that describes aggregate properties of marine phytoplankton communities and captures the effects of a changing environment on their composition and adaptive capacity. Specifically, the model describes the phytoplankton community in terms of total biomass, mean cell size, and functional diversity. The model is applied to two contrasting regions of the Atlantic Ocean (tropical and temperate) and is tested under two emission scenarios: SRES A2 or “business as usual” and SRES B1 or “local utopia.” We find that all three macroecological properties will decline during the next century in both regions, although this effect will be more pronounced in the temperate region. Being consistent with previous model predictions, our results show that a simple trait-based modeling framework represents a valuable tool for investigating how phytoplankton communities may reorganize under a changing climate.

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This article describes the Swiss education system with special emphasis on the characteristics that define its Higher Education and compares them with those of the Spanish University. It also reflects on the assumptions and values that have contributed to the success of the Swiss educational model, concluding with some recommendations.

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La novela de Marcelo Cohen, El oído absoluto, constituye dentro del sistema de la narrativa argentina, un ejemplo interesante y original por su relación con el género utópico. En efecto, el mundo posible creado por el texto para enmarcar la peripecia de los protagonistas: Evelino Borusso, Clarisa Wald, el padre de ésta, cuyo nombre original -León- ha devenido en Lotario, Tristán (nombres en los cuales es dable percibir un dejo de ironía que es la característica de toda la narración) se dan muchas de las características (insularidad, dirigismo, colectivismo, gobierno patriarcal regido por un grupo de filósofos o notables) y de las virtudes ensalzadas en la utopía clásica (el espíritu comunitario, la valoración del trabajo en detrimento del ocio, el desdén por el dinero). Pero al mismo tiempo se socavan, desde las dudas del narrador y de los personajes, las raíces mismas de ese mundo perfecto, y se reclama por una nueva utopía -a música, el lenguaje, la creación novelesca...- que cale más hondo en la intimidad, para clausurar, de una vez para siempre, la soledad y la incomunicación erigidos en puntos centrales de la meditación que la novela propone.

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La lógica del mercado y al cambio de modelo de desarrollo en América Latina, en el intento de poder competir a nivel mundial, ha agudizado las disparidades y el deterioro ambiental. La presión que ejercen las grandes empresas y ciertos grupos con poder, el enquistamiento de una estructura administrativa que puja por mantener esquemas tradicionales ya perimidos y la falta de planificación impiden atender uno de los problemas claves que plantea la economía en el territorio, el de la concentración y los desequilibrios territoriales. Surge entonces el Ordenamiento Territorial como alternativa válida para atenuar estos procesos y dar respuesta a la sociedad. El caso que se presenta pone en el tapete muchos de estos temas que hoy preocupan y puede servir como experiencia transferible y aplicable a otras realidades que buscan consolidar un desarrollo local sustentable. El ante-proyecto de Ley de Ordenamiento Territorial y Usos del Suelo para la provincia de Mendoza, República Argentina, es un instrumento elaborado en el año 2006 por el sector académico-científico que desde una visión interdisciplinaria incorpora fundamentos técnicos y aportes de los actores sociales involucrados. La metodología aplicada permite consensuar por la sociedad en su conjunto los principios que sustentan la Ley, determinar la aplicación de ciertos instrumentos para efectivizar acciones en el territorio y definir una forma innovadora de hacer política, gestionar y planificar el uso del suelo. La propuesta considera al Ordenamiento Territorial como una política de Estado que debe propiciar condiciones de gobernabilidad. Sus principios y normas priorizan la equidad y el bienestar general por encima de los intereses particulares así como también el respeto de los valores y costumbres de la sociedad. Surge de un proceso participativo y sus principios y fines responden a los problemas actuales. Incorpora una serie de instrumentos debidamente jerarquizados conforme a las competencias jurisdiccionales y existencia de distintas escalas geográficas, como también, instrumentos jurídicos y prácticas administrativas innovadoras que permiten la resolución de conflictos territoriales. Identifica además recursos financieros para implementarla y prioriza el fortalecimiento de los mecanismos de control para un funcionamiento más ágil y eficaz de la gestión pública. Sin embargo existen riesgos vinculados a la voluntad política y el poder económico que pueden impedir que esta utopía se transforme en realidad. Solo la participación social es la que puede lograr vencer los intereses en juego y conseguir la aprobación de la Ley. Si esto se consigue se habrá dado un paso muy importante a ser imitado, sin lugar a dudas, en otros lugares de Argentina y América Latina.

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Las principales conclusiones del estudio realizado entre los años 2001 y 2002 sobre las políticas de ordenamiento territorial que desde comienzos de los años ochenta del siglo pasado se desarrollaban en los países de América Latina muestran que hacia el año 2002 las políticas latinoamericanas de Ordenamiento Territorial (OT) se encontraban en un estado incipiente. A través del análisis de los casos de países como Argentina, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Uruguay, México y Colombia se puede observar la complejidad de la gestión territorial en América Latina y los desafíos que enfrenta. Frente a esto es necesaria una apuesta territorial integral hacia un modelo de desarrollo en el que la política económica (global), las políticas sectoriales y las territoriales confluyan en la búsqueda de un nuevo orden territorial regionalmente armónico y equilibrado, socialmente justo y democrático, descentralizado, ambientalmente sostenible y económicamente competitivo, pero entendiendo dicha competitividad sin detrimento de los derechos sociales, ambientales y económicos de los ciudadanos. Es posible que bajo la lógica perversa de la economía de mercado esto sea una utopía, pero es lo único que le da sentido y significado socialmente aceptable a las políticas de desarrollo y ordenamiento territorial.

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Centramos la atención en la noción de “función utópica" del pensamiento de Arturo Andrés Roig. El problema se aborda partiendo del vínculo que se establece entre la función utópica y la condición humana. Apelamos al análisis de algunos textos de Ernst Bloch para mostrar los argumentos que esgrime en relación con el tratamiento de la utopía. A partir de la consideración de la función utópica como un ejercicio crítico mostramos que esta función implica un modo de habitar el hombre en el mundo. En otras palabras, trazamos un itinerario que lleva el propósito de esclarecer uno de los ejes que atraviesa la obra de Arturo Andrés Roig: la dimensión antropológica.

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La pobreza ha sido una cuestión vinculada a la justicia desde Platón a Thomas Pogge. El objetivo del presente texto es hacer hincapié en que Aristóteles establece que la pobreza es un mal en sí misma, fuente de conflictos sociales que -él piensa- una sociedad justa debería evitar. Por una parte, el lado histórico de la teoría aristotélica de la pobreza plantea que la democracia paradigmática promueve alguna clase de bienestar. Por otra parte, la faceta utópica expone los pensamientos de Aristóteles acerca de una sociedad ideal donde el crecimiento de la clase media reduce la lucha entre ciudadanos ricos y pobres. Sucintamente, encuentro en la filosofía política clásica lo que denomino una "Economía utópica del bienestar". Por lo tanto, me adhiero a aquellos que ven el origen de la teoría de los derechos humanos en Grecia Clásica

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El motivo central, que alienta a estas páginas, lo constituye la preocupación acerca de la posibilidad de generar una práctica tendiente a la emancipación de las cadenas del presente en ligazón con una teoría crítica de la sociedad que no suspenda su momento crítico negativo; que evite la recaída que encierra la construcción de alguna forma de absoluto en el interior de su perspectiva. En pos de dicho objetivo, se hará un recorrido de carácter "histórico" a través del pensamiento de diversos autores; el cual tendrá por fin permitirnos la construcción de nuestro problema "sistemático" en toda su complejidad. De allí que la elección de los registros, con los que aquí vamos a trabajar, se justifique no sólo en el nivel de su importancia para la historia de la teoría social; sino también por hallarse en ellos los elementos que nos permiten construir nuestro problema como tal. Centralmente, trataremos con escritos de Lukács y de Horkheimer; en los cuales encontraremos -por sobre un conjunto de rasgos comunes- fructíferas diferencias y contrapuntos, que nos permitirán avanzar en nuestro camino.

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El presente trabajo propone una lectura del ensayo central de Antonio Benítez Rojo La isla que se repite (1989), insoslayable para abordar y reflexionar sobre las culturas caribeñas, procurando delinear una posible interpretación de la relación entre su poética y el exilio como así también analizar algunas de las elecciones que hizo como intelectual, y el modo en que imaginó el Caribe en sus ensayos. En el mapa elaborado por Benítez Rojo las islas paradisíacas figuran junto a las dominadas por la violencia y la muerte, y a veces se confunden. La Plantación y la Utopía son los temas principales. Los ensayos de La isla que se repite permiten examinar su deseo de anudarse a otras tradiciones mediante un largo rodeo a través de las ricas matrices culturales del Caribe. Fue su modo de escapar y trascender el discurso autoritario de la "nación" dominante en la historia moderna cubana.

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El presente trabajo propone una lectura de la primera novela de Edgardo Rodríguez Juliá -La renuncia del héroe Baltasar- a partir del concepto de los comienzos teorizado por Edward Said, en tanto es posible advertir en ella una condensación de sentidos que el autor retoma, explora y continúa en su obra posterior. Por otra parte la novela aborda también, desde la ficción, los orígenes de la nacionalidad puertorriqueña mediante metáforas eróticas que dan cuenta de las relaciones de tensión entre blancos, mulatos y negros en la sociedad colonial puertorriqueña del siglo XVIII. En los conflictos derivados del esclavismo convergen espacios tales como el palenque, revueltas de esclavos, acciones características del cimarronaje como las fugas, es decir, diferentes imágenes que vinculan estrechamente esta obra en particular y textos posteriores del autor con una dimensión mayor, que excede los límites nacionales de Puerto Rico para abarcar la historia antillana.