427 resultados para indirizzo :: 908 :: Processi e materiali


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In questo lavoro viene condotta un’analisi critica delle caratteristiche materiali e delle performance di una classe di polimeri recentemente sviluppata, i “Polimeri a Microporosità Intrinseca”, di grande interesse per lo sviluppo di membrane per la separazione di gas, specialmente nella Carbon Capture. Partendo dall’analisi del meccanismo di separazione di gas in membrane polimeriche dense si fornisce una overview sulle tecnologie assodate e innovative per la separazione di gas e per la CC. Le caratteristiche e le proprietà strutturali di rilievo dei polimeri vetrosi sono poi brevemente illustrate e le correlazioni empiriche note tra le suddette e le proprietà di trasporto di materia. Vengono quindi descritti i PIMs analizzando in primis la loro tipica struttura chimica, i processi di sintesi e le caratteristiche principali. Per il PIM-1, capostipite della categoria, il trasporto di gas viene approfondito con lo studio della variabilità delle proprietà quali la permeabilità, la diffusività e la solubilità di penetranti gassosi con i parametri operativi (p, T, composizione dei feed), considerando anche fenomeni tipici dei polimeri vetrosi quali l’aging e l’effetto dei solventi. Sono poi analizzate le proprietà di trasporto nei diversi PIMs, e confrontate con quelle di polimeri di comune utilizzo nelle separazioni in esame. La rielaborazione dei dati raccolti permette di confrontare le performance di una varietà di polimeri nella separazione di gas. In particolare l’analisi critica dei diagrammi permeabilità/selettività induce ad una valutazione approssimativa ma significativa delle possibili soluzioni tra cui optare per una data separazione di gas, considerando anche i parametri operativi tipici della stessa. Infine, vengono riportati e commentati dati di permeazione di miscele gassose in due diversi PIMs e nel polimero PTMSP, ponendo l’attenzione sulle reali condizioni operative con cui la tecnologia a membrane si deve confrontare in applicazioni reali.

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Il seguente elaborato è la conclusione dell'esperienza di tesi volta alla progettazione di componenti, nello specifico sedili e punti di ancoraggio per le cinture di sicurezza, per il cruiser Emilia 4, veicolo solare che gareggerà con le più importanti università mondiali nella 2017 World Solar Challenge in Australia. L'attività compiuta risulta essere il punto di arrivo dell'ottimizzazione strutturale degli elementi, attribuendo fondamentale importanza al peso delle strutture; l'obiettivo è stato raggiunto mediante l'adozione della fibra di carbonio, nel rispetto del regolamento della corsa e delle norme stradali australiane. Gran parte delle attività sono state svolte a Castel San Pietro nell'azienda Metal Tig, impresa specializzata nella lavorazione dei laminati in composito; qui si sono tenute riunioni settimanali per discutere dei progressi del progetto e delle modifiche da apportare. Il lavoro di tesi si conclude con la quarta revisione dei componenti affidatomi: essa probabilmente non sarà la versione definitiva, ma sicuramente sarà un punto di riferimento per i prossimi progettisti impegnati nell'impresa.

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Durante la vita operativa di un aeromobile, gli elementi costitutivi possono essere soggetti a diverse tipologie di carichi. Questi carichi possono provocare la nascita e la propagazione di eventuali cricche, le quali una volta raggiunta una determinata dimensione possono portare alla rottura del componente stesso causando gravi incidenti. A tale proposito, la fatica costituisce uno dei fattori principali di rottura delle strutture aeronautiche. Lo studio e l’applicazione dei principi di fatica sugli aeroplani sono relativamente recenti, in quanto inizialmente gli aerei erano realizzati in tela e legno, un materiale che non soffre di fatica e assorbe le vibrazioni. I materiali aeronautici si sono evoluti nel tempo fino ad arrivare all’impiego dei materiali compositi per la costruzione degli aeromobili, nel 21. secolo. Il legame tra nascita/propagazione delle cricche e le tensioni residue ha portato allo sviluppo di numerose tecniche per la misurazione di queste ultime, con il fine di contrastare il fenomeno di rottura a fatica. Per la misurazione delle tensioni residue nei componenti metallici esistono diverse normative di riferimento, al contrario, per i materiali compositi, la normativa di riferimento è tuttora oggetto di studio. Lo scopo di questa tesi è quello di realizzare una ricerca e studiare dei metodi di riferimento per la misurazione delle tensioni residue nei laminati compositi, tramite l’approfondimento di una tecnica di misurazione delle tensioni residue, denominata Incremental Hole Drilling.

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Lo studio intrapreso si è posto come obiettivo la caratterizzazione dal punto di vista elettrico dei materiali coinvolti nella realizzazione di accessori per applicazioni in HVDC, in particolare mescole isolanti, semiconduttive e varioresistive. La necessità di un lavoro di questo tipo viene giustificata dalla costante espansione dei sistemi in DC nella trasmissione dell’energia elettrica, i quali presentano caratteristiche fisiche che si differenziano sensibilmente da quelle tipiche dei tradizionali sistemi in AC, dunque richiedono componenti e materiali opportunamente progettati per garantire condizioni di servizio sicure e affidabili. L’obiettivo della trattazione consiste nello studio di analogie e differenze tra le proprietà elettriche fornite da prove su diverse configurazioni di provini, nella fattispecie di tipo piano e cilindrico cavo. In primo luogo si studiano i provini di tipo piano al fine di ricavare informazioni basilari sul materiale e sulla mescola che lo costituisce e di prendere decisioni relative al proseguimento dei test. Dopo aver effettuato un sufficiente numero di test su varie tipologie di provini piani e aver riconosciuto le mescole più performanti dal punto di vista elettrico, meccanico e termico, si procede alla realizzazione di provini cilindrici stampati, su cui si intraprendono le medesime misure effettuate per la configurazione piana. Questa seconda fase di caratterizzazione è fondamentale, in quanto consente di verificare che le proprietà già studiate su piastra si conservino in una geometria molto più simile a quella assunta dal prodotto finale evitando di sostenere costi onerosi per la produzione di un accessorio full-size. Il lavoro è stato svolto nel laboratorio elettrico di alta tensione della divisione R&D del gruppo Prysmian di Milano, leader mondiale nella produzione di sistemi in cavo per alte e altissime tensioni.

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La pianificazione e la gestione dei processi è diventata un elemento critico a causa della crescente complessità delle attività all’interno delle organizzazioni. Nell’era dell’impresa digitale, la gestione dei processi di businesss viene coadiuvata mediante l’utilizzo di sistemi software che sono in grado di gestire una grande quantità di informazioni ovvero i sistemi BPM. Il Business Performance Management è una disciplina gestionale che si occupa di descrivere e gestire i processi di business di una organizzazione. L’obiettivo della seguente tesi è verificare se il modello del processo realizzato precedentemente all’implementazione del sistema reale possa permettere una più dettagliata analisi del sistema e anticipare relative problematiche che talvolta si evincono solamente durante il mero sviluppo. Inoltre si vuole verificare se il modello realizzato in fase di discussione di un nuovo progetto cliente possa poi migliorare anche lo scambio di informazioni nel team di sviluppo. A supporto di questa tesi è stato sviluppato un caso di studio reale in una società di gestione del risparmio specializzata in fondi di investimento immobiliare. Inizialmente si è proceduto con una prima fase di raccolta dei requisiti dell’applicativo che si è conclusa con la realizzazione dei modelli creati utilizzando due linguaggi che sono il Business Process Model and Notation (BPMN) e il Decision Model and Notation (DMN); il medesimo applicativo è stato successivamente implementato seguendo i modelli realizzati. I tempi globali di sviluppo del sistema e la migliore comprensione del modello da parte del team di sviluppo hanno fatto evincere l’utilità della modellazione a fronte di maggiori giornate uomo. Inoltre è stata riscontata maggiore manutenibilità complessiva del sistema.

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Il presente lavoro si propone di analizzare il calcestruzzo armato come materiale da costruzione, in particolare focalizzando l’attenzione sulle tecniche di prevenzione di alcuni tipi di degrado con l’utilizzo di trattamenti superficiali. Il calcestruzzo è uno dei materiali da costruzione più utilizzati in quanto presenta molteplici vantaggi come la libertà di forma, il basso costo dei materiali ed il buon comportamento strutturale. Nonostante quanto detto, si possono evidenziare delle criticità inerenti all’utilizzo di questo materiale, il tema centrale di questo lavoro è quello di analizzare nuove tecniche di protezione atte a salvaguardare la struttura da tre diverse tipologie di degrado, valutandone l’effettiva efficacia nell’ottenere quello per cui sono state previste. Nei primi capitoli si esaminerà il calcestruzzo come materiale da costruzione e saranno spiegati i processi che il conglomerato cementizio deve compiere per diventare un materiale indurito e resistente. Nel terzo capitolo si affronteranno, senza entrare nella descrizione puntuale di ciascuna di esse, le diverse cause di degrado del calcestruzzo armato. Infine nel quarto ed ultimo capitolo, verranno esposti tre casi studio: il primo tratta di un tipo di degrado spesso non preso in considerazione ma causante ingenti danni all’aspetto paesaggistico e al patrimonio storico: si analizzano i rivestimenti da poter applicare al calcestruzzo per rendere più semplificato il processo di rimozione dai graffiti. Il secondo si ripromette di analizzare l’efficacia nel proteggere le armature di acciaio dalla corrosione per mezzo un nuovo tipo di pigmenti core-shell poco costosi ma soprattutto ecosostenibili. Infine si porrà lo sguardo su un problema non indifferente ovvero quello della protezione del calcestruzzo armato dalle alte temperature anche in questo caso utilizzando un trattamento superficiale volto a migliorare le performance del calcestruzzo durante l’incendio.

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Questo è uno studio sui processi cognitivi dell'essere umano che rendono più facile la lettura delle interfacce web. Precisamente si focalizza sulle icone, su come e perché il carico cognitivo viene ridotto quando vengono usate correttamente all'interno di una interfaccia web ma anche su come l'impatto di una immagine sia molto più forte di una parola. Arrivati a interiorizzare queste argomentazioni verranno utilizzate per poter scoprire il mondo dell'e-commerce e di come un utente possa essere più o meno portato a comprare grazie alla buona creazione dell'interfaccia grafica.

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La tesi in oggetto è stata svolta presso la Galletti spa. L'obiettivo iniziale era quello di studiare un percorso all'interno dello stabilimento produttivo al fine di enfatizzare le peculiarità della produzione tenendo conto dei fattori riguardanti la sicurezza. E' stata inoltre realizzata, con l'aiuto di una agenzia di comunicazione, una piattaforma di comunicazione. Analizzando il processo produttivo è emersa un'ulteriore problematica: l'elevata quantità di work in progress stoccati a bordo linea. In particolare, in questa tesi è stata fatta un'analisi preliminare circa una linea di produzione. Sono stati analizzati, in termini di quantità, i prodotti che vengono assemblati in essa, e i codici dei semilavorati utili. In seguito sono state studiate le operazioni che vengono svolte in ogni postazione di lavoro e, in funzione del ciclo di lavoro gli sono stati assegnati i codici dei semilavorati. L'analisi si è conclusa studiando i consumi medi. Le prossime fasi dell'analisi prevedono lo studio dei volumi dei codici e di conseguenza la definizione delle aree di stoccaggio e lo studio dei lotti di produzione.

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Le acque di vegetazione (AV) costituiscono un serio problema di carattere ambientale, sia a causa della loro elevata produzione sia per l’ elevato contenuto di COD che oscilla fra 50 e 150 g/l. Le AV sono considerate un refluo a tasso inquinante fra i più elevati nell’ambito dell’industria agroalimentare e la loro tossicità è determinata in massima parte dalla componente fenolica. Il presente lavoro si propone di studiare e ottimizzare un processo non solo di smaltimento di tale refluo ma anche di una sua valorizzazione, utlizzandolo come materia prima per la produzione di acidi grassi e quindi di PHA, polimeri biodegradabili utilizzabili in varie applicazioni. A tale scopo sono stati utilizzati due bioreattori anaerobici a biomassa adesa, di identica configurazione, con cui si sono condotti due esperimenti in continuo a diverse temperature e carichi organici al fine di studiare l’influenza di tali parametri sul processo. Il primo esperimento è stato condotto a 35°C e carico organico pari a 12,39 g/Ld, il secondo a 25°C e carico organico pari a 8,40 g/Ld. Si è scelto di allestire e mettere in opera un processo a cellule immobilizzate in quanto questa tecnologia si è rivelata vantaggiosa nel trattamento continuo di reflui ad alto contenuto di COD e carichi variabili. Inoltre si è scelto di lavorare in continuo poiché tale condizione, per debiti tempi di ritenzione idraulica, consente di minimizzare la metanogenesi, mediata da microrganismi con basse velocità specifiche di crescita. Per costituire il letto fisso dei due reattori si sono utilizzati due diversi tipi di supporto, in modo da poter studiare anche l’influenza di tale parametro, in particolare si è fatto uso di carbone attivo granulare (GAC) e filtri ceramici Vukopor S10 (VS). Confrontando i risultati si è visto che la massima quantità di VFA prodotta nell’ambito del presente studio si ha nel VS mantenuto a 25°C: in tale condizione si arriva infatti ad un valore di VFA prodotti pari a 524,668 mgCOD/L. Inoltre l’effluente in uscita risulta più concentrato in termini di VFA rispetto a quello in entrata: nell’alimentazione la percentuale di materiale organico presente sottoforma di acidi grassi volatili era del 54 % e tale percentuale, in uscita dai reattori, ha raggiunto il 59 %. Il VS25 rappresenta anche la condizione in cui il COD degradato si è trasformato in percentuale minore a metano (2,35 %) e questo a prova del fatto che l’acidogenesi ha prevalso sulla metanogenesi. Anche nella condizione più favorevole alla produzione di VFA però, si è riusciti ad ottenere una loro concentrazione in uscita (3,43 g/L) inferiore rispetto a quella di tentativo (8,5 g/L di VFA) per il processo di produzione di PHA, sviluppato da un gruppo di ricerca dell’università “La Sapienza” di Roma, relativa ad un medium sintetico. Si può constatare che la modesta produzione di VFA non è dovuta all’eccessiva degradazione del COD, essendo questa nel VS25 appena pari al 6,23%, ma piuttosto è dovuta a una scarsa concentrazione di VFA in uscita. Questo è di buon auspicio nell’ottica di ottimizzare il processo migliorandone le prestazioni, poiché è possibile aumentare tale concentrazione aumentando la conversione di COD in VFA che nel VS25 è pari a solo 5,87%. Per aumentare tale valore si può agire su vari parametri, quali la temperatura e il carico organico. Si è visto che il processo di acidogenesi è favorito, per il VS, per basse temperature e alti carichi organici. Per quanto riguarda il reattore impaccato con carbone attivo la produzione di VFA è molto ridotta per tutti i valori di temperatura e carichi organici utilizzati. Si può quindi pensare a un’applicazione diversa di tale tipo di reattore, ad esempio per la produzione di metano e quindi di energia.

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La tecnica di ozonolisi viene applicata ai fanghi biologici derivanti da impianti di depurazione acque reflue urbane, e consiste nell'ottenere, grazie all'ozono, una minor massa fangosa da smaltire e una miglior trattabilità del fango residue. In questo elaborato si prendono in esame le sperimentazioni effettuate a Marina di Ravenna e si estraggono le prime conclusioni gestionali, economiche e ambientali sull'applicabilità del metodo a questo tipo di fango.

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Il presente studio ha avuto l’obiettivo di indagare la produzione di bioetanolo di seconda generazione a partire dagli scarti lignocellulosici della canna da zucchero (bagassa), facendo riscorso al processo enzimatico. L’attività di ricerca è stata svolta presso il Dipartimento di Ingegneria Chimica dell’Università di Lund (Svezia) all’interno di rapporti scambio con l’Università di Bologna. Il principale scopo è consistito nel valutare la produzione di etanolo in funzione delle condizioni operative con cui è stata condotta la saccarificazione e fermentazione enzimatica (SSF) della bagassa, materia prima che è stata sottoposta al pretrattamento di Steam Explosion (STEX) con aggiunta di SO2 come catalizzatore acido. Successivamente, i dati ottenuti in laboratorio dalla SSF sono stati utilizzati per implementare, in ambiente AspenPlus®, il flowsheet di un impianto che simula tutti gli aspetti della produzione di etanolo, al fine di studiarne il rendimento energetico dell’intero processo. La produzione di combustibili alternativi alle fonti fossili oggigiorno riveste primaria importanza sia nella limitazione dell’effetto serra sia nel minimizzare gli effetti di shock geopolitici sulle forniture strategiche di un Paese. Il settore dei trasporti in continua crescita, consuma nei paesi industrializzati circa un terzo del fabbisogno di fonti fossili. In questo contesto la produzione di bioetanolo può portare benefici per sia per l’ambiente che per l’economia qualora valutazioni del ciclo di vita del combustibile ne certifichino l’efficacia energetica e il potenziale di mitigazione dell’effetto serra. Numerosi studi mettono in risalto i pregi ambientali del bioetanolo, tuttavia è opportuno fare distinzioni sul processo di produzione e sul materiale di partenza utilizzato per comprendere appieno le reali potenzialità del sistema well-to-wheel del biocombustibile. Il bioetanolo di prima generazione ottenuto dalla trasformazione dell’amido (mais) e delle melasse (barbabietola e canna da zucchero) ha mostrato diversi svantaggi: primo, per via della competizione tra l’industria alimentare e dei biocarburanti, in secondo luogo poiché le sole piantagioni non hanno la potenzialità di soddisfare domande crescenti di bioetanolo. In aggiunta sono state mostrate forti perplessità in merito alla efficienza energetica e del ciclo di vita del bioetanolo da mais, da cui si ottiene quasi la metà della produzione di mondiale di etanolo (27 G litri/anno). L’utilizzo di materiali lignocellulosici come scarti agricolturali e dell’industria forestale, rifiuti urbani, softwood e hardwood, al contrario delle precedenti colture, non presentano gli svantaggi sopra menzionati e per tale motivo il bioetanolo prodotto dalla lignocellulosa viene denominato di seconda generazione. Tuttavia i metodi per produrlo risultano più complessi rispetto ai precedenti per via della difficoltà di rendere biodisponibili gli zuccheri contenuti nella lignocellulosa; per tale motivo è richiesto sia un pretrattamento che l’idrolisi enzimatica. La bagassa è un substrato ottimale per la produzione di bioetanolo di seconda generazione in quanto è disponibile in grandi quantità e ha già mostrato buone rese in etanolo se sottoposta a SSF. La bagassa tal quale è stata inizialmente essiccata all’aria e il contenuto d’acqua corretto al 60%; successivamente è stata posta a contatto per 30 minuti col catalizzatore acido SO2 (2%), al termine dei quali è stata pretrattata nel reattore STEX (10L, 200°C e 5 minuti) in 6 lotti da 1.638kg su peso umido. Lo slurry ottenuto è stato sottoposto a SSF batch (35°C e pH 5) utilizzando enzimi cellulolitici per l’idrolisi e lievito di birra ordinario (Saccharomyces cerevisiae) come consorzio microbico per la fermentazione. Un obiettivo della indagine è stato studiare il rendimento della SSF variando il medium di nutrienti, la concentrazione dei solidi (WIS 5%, 7.5%, 10%) e il carico di zuccheri. Dai risultati è emersa sia una buona attività enzimatica di depolimerizzazione della cellulosa che un elevato rendimento di fermentazione, anche per via della bassa concentrazione di inibitori prodotti nello stadio di pretrattamento come acido acetico, furfuraldeide e HMF. Tuttavia la concentrazione di etanolo raggiunta non è stata valutata sufficientemente alta per condurre a scala pilota un eventuale distillazione con bassi costi energetici. Pertanto, sono stati condotti ulteriori esperimenti SSF batch con addizione di melassa da barbabietola (Beta vulgaris), studiandone preventivamente i rendimenti attraverso fermentazioni alle stesse condizioni della SSF. I risultati ottenuti hanno suggerito che con ulteriori accorgimenti si potranno raggiungere gli obiettivi preposti. E’ stato inoltre indagato il rendimento energetico del processo di produzione di bioetanolo mediante SSF di bagassa con aggiunta di melassa in funzione delle variabili più significative. Per la modellazione si è fatto ricorso al software AspenPlus®, conducendo l’analisi di sensitività del mix energetico in uscita dall’impianto al variare del rendimento di SSF e dell’addizione di saccarosio. Dalle simulazioni è emerso che, al netto del fabbisogno entalpico di autosostentamento, l’efficienza energetica del processo varia tra 0.20 e 0.53 a seconda delle condizioni; inoltre, è stata costruita la curva dei costi energetici di distillazione per litro di etanolo prodotto in funzione delle concentrazioni di etanolo in uscita dalla fermentazione. Infine sono già stati individuati fattori su cui è possibile agire per ottenere ulteriori miglioramenti sia in laboratorio che nella modellazione di processo e, di conseguenza, produrre con alta efficienza energetica bioetanolo ad elevato potenziale di mitigazione dell’effetto serra.

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Understanding the interaction of sea ice with offshore structures is of primary importance for the development of technology in cold climate regions. The rheological properties of sea ice (strength, creep, viscosity) as well as the roughness of the contact surface are the main factors influencing the type of interaction with a structure. A device was developed and designed and small scale laboratory experiments were carried out to study sea ice frictional interaction with steel material by means of a uniaxial compression rig. Sea-ice was artificially grown between a stainless steel piston (of circular cross section) and a hollow cylinder of the same material, coaxial to the former and of the same surface roughness. Three different values for the roughness were tested: 1.2, 10 and 30 μm Ry (maximum asperities height), chosen as representative values for typical surface conditions, from smooth to normally corroded steel. Creep tests (0.2, 0.3, 0.4 and 0.6 kN) were conducted at T = -10 ºC. By pushing the piston head towards the cylinder base, three different types of relative movement were observed: 1) the piston slid through the ice, 2) the piston slid through the ice and the ice slid on the surface of the outer cylinder, 3) the ice slid only on the cylinder surface. A cyclic stick-slip motion of the piston was detected with a representative frequency of 0.1 Hz. The ratio of the mean rate of axial displacement to the frequency of the stick-slip oscillations was found to be comparable to the roughness length (Sm). The roughness is the most influential parameter affecting the amplitude of the oscillations, while the load has a relevant influence on the their frequency. Guidelines for further investigations were recommended. Marco Nanetti - seloselo@virgilio.it

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In questa tesi si è voluta porre l’attenzione sulla suscettibilità alle alte temperature delle resine che li compongono. Lo studio del comportamento alle alte temperature delle resine utilizzate per l’applicazione dei materiali compositi è risultato un campo di studio ancora non completamente sviluppato, nel quale c’è ancora necessità di ricerche per meglio chiarire alcuni aspetti del comportamento. L’analisi di questi materiali si sviluppa partendo dal contesto storico, e procedendo successivamente ad una accurata classificazione delle varie tipologie di materiali compositi soffermandosi sull’ utilizzo nel campo civile degli FRP (Fiber Reinforced Polymer) e mettendone in risalto le proprietà meccaniche. Considerata l’influenza che il comportamento delle resine riveste nel comportamento alle alte temperature dei materiali compositi si è, per questi elementi, eseguita una classificazione in base alle loro proprietà fisico-chimiche e ne sono state esaminate le principali proprietà meccaniche e termiche quali il modulo elastico, la tensione di rottura, la temperatura di transizione vetrosa e il fenomeno del creep. Sono state successivamente eseguite delle prove sperimentali, effettuate presso il Laboratorio Resistenza Materiali e presso il Laboratorio del Dipartimento di Chimica Applicata e Scienza dei Materiali, su dei provini confezionati con otto differenti resine epossidiche. Per valutarne il comportamento alle alte temperature, le indagini sperimentali hanno valutato dapprima le temperature di transizione vetrosa delle resine in questione e, in seguito, le loro caratteristiche meccaniche. Dalla correlazione dei dati rilevati si sono cercati possibili legami tra le caratteristiche meccaniche e le proprietà termiche delle resine. Si sono infine valutati gli aspetti dell’applicazione degli FRP che possano influire sul comportamento del materiale composito soggetto alle alte temperature valutando delle possibili precauzioni che possano essere considerate in fase progettuale.