59 resultados para Dispositivi medici


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Il tema della ricerca ha riguardato preliminarmente la definizione di farmaco descritta nel d.lgs. n. 219 del 2006 (Codice dei farmaci per uso umano). Oltre al danno prodotto da farmaci, la ricerca ha approfondito anche la tutela ex ante ed ex post riguardante la produzione di dispositivi medici (Direttiva della Comunità Economica Europea n. 42 del 1993 e Direttiva della Comunità Economica Europea n. 374 del 1985). E’ stato necessario soffermarsi sull’analisi del concetto di precauzione per il quale nell’ambito di attività produttive, come quelle che cagionano inquinamento ambientale, o “pericolose per la salute umana” come quelle riguardanti la produzione di alimenti e farmaci, è necessario eliminare i rischi non conosciuti nella produzione di questi ultimi al fine di garantire una tutela completa della salute. L’analisi della Direttiva della Comunità Economica Europea n. 374 del 1985 nei suoi aspetti innovativi ha riguardato l’esame dei casi di danno da farmaco (Trib. Roma, 20 Giugno 2002, Trib. Roma 27 Giugno 1987, Trib. Milano 19 Novembre 1987, Cassazione Civile n. 6241 del 1987): profilo critico è quello riguardante la prova liberatoria, mentre l'art. 2050 prevede che «si debbano adottare tutte le misure necessarie per evitare il danno», l'art. 118, lett. e), c. cons.) prevede una serie di casi di esonero di responsabilità del produttore (tra cui il rischio di sviluppo). Dall'analisi emerge poi la necessità da parte del produttore di continuo utilizzo del duty to warn (Art. 117 del Codice del Consumo lett. A e B ): esso consiste nel dovere continuo di informazione del produttore tramite i suoi rappresentanti e il bugiardino presente nelle confezioni dei farmaci. Tale dovere è ancor più importante nel caso della farmacogenetica, infatti, al fine di evitare reazioni avverse nel bugiardino di alcuni farmaci verrà prescritta la necessità di effettuare un test genetico prima dell’assunzione.

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The use of scaffolds for Tissue Engineering (TE) is increasing due to their efficacy in helping the body rebuild damaged or diseased tissue. Hydroxyapatite (HA) is the most suitable bioactive ceramic to be used in orthopaedic reconstruction since it replicates the mineral component of the hard tissues, and it has therefore excellent biocompatibility properties. The temporal and spatial control of the tissue regeneration process is the limit to be overcome in order to treat large bone and osteochondral defects. In this thesis we describe the realization of a magnetic scaffolds able to attract and take up growth factors or other bio-agents in vivo via a driving magnetic force. This concept involves the use of magnetic nanoparticles (MNP) functionalized with selected growth factors or stem cells. These functionalized MNP act as shuttles transporting the bio-agents towards and inside the scaffold under the effect of the magnetic field, enhancing the control of tissue regeneration processes. This scaffold can be imagined as a fixed “station” that provides a unique possibility to adjust the scaffold activity to the specific needs of the healing tissue. Synthetic bone graft substitutes, made of collagen or biomineralized collagen (i.e. biomimetic Hydroxyapatite/collagen composites) were used as starting materials for the fabrication of magnetic scaffolds. These materials are routinely used clinically to replace damaged or diseased cartilaginous or bone tissue. Our magnetization technique is based on a dip-coating process consisting in the infilling of biologically inspired porous scaffolds with aqueous biocompatible ferrofluids’ suspensions. In this technique, the specific interconnected porosity of the scaffolds allows the ferrofluids to be drawn inside the structure by capillarity. A subsequent freeze-drying process allows the solvent elimination while keeping very nearly the original shape and porosity of the scaffolds. The remaining magnetic nanoparticles, which are trapped in the structure, lead to the magnetization of the HA/Collagen scaffold. We demonstrate here the possibility to magnetize commercially available scaffolds up to magnetization values that are used in drug delivery processes. The preliminary biocompatibility test showed that the investigated scaffolds provide a suitable micro-environment for cells. The biocompatibility of scaffold facilitates the growth and proliferation of osteogenic cells.

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Inizialmente teorizzato a partire dall’osservazione degli animali negli studi di etologia di fine Ottocento, il mimetismo si è sviluppato come tekné in una interessante sinergia fra pratica artistica e necessità militare in occasione dei due conflitti mondiali. Attraverso una lettura critica dei testi di Roger Caillois e di Georges Bataille, questa ricerca posiziona il mimetismo nell’ambito della teoria della antivisione e lo inserisce all’interno del discorso anti-oculocentrico che scorre nei canali sotterranei dell’arte del Novecento. Il mimetismo destabilizza il dogma modernista della visualità pura operando un oltrepassamento dei confini identitari e il collasso della logica binaria dell’estetica occidentale fondata sulla opposizione fra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, corpo e ambiente. Articolato in tre diverse declinazioni del fare artistico - il paradigma spaziale, il paradigma aptico e il paradigma performativo – il mimetismo veicola un tipo di “presenza” che mette in gioco il corpo ed il contesto extracorporeo in un recupero estetico del valore fenomenologico dell’essere al mondo.

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Con la presente tesi si è inteso studiare le possibilità applicative di una particolare tipologia strutturale dotata di isolamento sismico “di piano”, intendendosi con ciò una struttura in cui l'intero piano terra, tramite l'inserimento di opportuni elementi dissipativi isteretici ed in analogia al consueto isolamento sismico di base, agisce da “strato” di protezione passiva per i piani sovrastanti. A riguardo, fra le possibili soluzioni per realizzare effettivamente tale isolamento "di piano" è stata considerata la disposizione di particolari elementi dissipativi isteretici di controvento detti Crecent-Shaped Braces, caratterizzati da una forma bilatera o curva, tale comunque da presentare un'eccentricità non nulla fra l'asse del controvento stesso e la linea congiungente gli estremi.

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L’attività di dottorato qui descritta ha riguardato inizialmente lo sviluppo di biosensori elettrochimici semplificati per la rilevazione di DNA e successivamente lo studio di dispositivi organici ad effetto di campo per la stimolazione e il rilevamento dell’attività bioelettrica di cellule neuronali. Il lavoro di ricerca riguardante il prima parte è stato focalizzato sulla fabbricazione e sulla caratterizzazione di un biosensore a due elettrodi per la rilevazione di DNA solubile , facilmente producibile a livello industriale. Tale sensore infatti, è in grado di leggere livelli diversi di correnti faradiche sulle superfici in oro degli elettrodi, a discrezione di un eventuale ibridizzazione del DNA da analizzare su di esse. I risultati ottenuti riguardo a questo biosensore sono :la paragonabilità dello stesso con i sensori standard a tre elettrodi basati sulla medesima metodica, la possibilità di effettuare due misure in parallelo di uno stesso campione o di 2 diversi campioni su di uno stesso di dispositivo e la buona applicabilità della chimica superficiale a base di tale biosensore a superfici create con tecnologie industriali. Successivamente a tali studi, mi sono focalizzato sull’utilizzo di dispositivi organici ad effetto campo (in particolare OTFT) per lo sviluppo di un biosensore capace di stimolare e registrare l’attività bioelettrica di cellule neuronali. Inizialmente sono state identificate le caratteristiche del materiale organico utilizzato e successivamente del dispositivo fabbricato pre e post esposizione all’ambiente fisiologico. Poi, sono stati effettuati esperimenti per osservare la capacità di stimolare e di leggere i segnali elettrogenici da parte dell’OTFT. I risultati ottenuti da tali studi sono che: il materiale organico ed il dispositivo mantengo le loro caratteristiche morfologiche e funzionali dopo l’esposizione per giorni all’ambiente fisiologico. Inoltre l’OFET in grado di stimolare il cambiamento delle tensioni di membrana cellulari e contemporaneamente di registrare tali variazioni e le eventuali risposte cellulari provocate da esse.

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In questa tesi verranno trattati sia il problema della creazione di un ambiente di simulazione a domini fisici misti per dispositivi RF-MEMS, che la definizione di un processo di fabbricazione ad-hoc per il packaging e l’integrazione degli stessi. Riguardo al primo argomento, sarà mostrato nel dettaglio lo sviluppo di una libreria di modelli MEMS all’interno dell’ambiente di simulazione per circuiti integrati Cadence c . L’approccio scelto per la definizione del comportamento elettromeccanico dei MEMS è basato sul concetto di modellazione compatta (compact modeling). Questo significa che il comportamento fisico di ogni componente elementare della libreria è descritto per mezzo di un insieme limitato di punti (nodi) di interconnessione verso il mondo esterno. La libreria comprende componenti elementari, come travi flessibili, piatti rigidi sospesi e punti di ancoraggio, la cui opportuna interconnessione porta alla realizzazione di interi dispositivi (come interruttori e capacità variabili) da simulare in Cadence c . Tutti i modelli MEMS sono implementati per mezzo del linguaggio VerilogA c di tipo HDL (Hardware Description Language) che è supportato dal simulatore circuitale Spectre c . Sia il linguaggio VerilogA c che il simulatore Spectre c sono disponibili in ambiente Cadence c . L’ambiente di simulazione multidominio (ovvero elettromeccanico) così ottenuto permette di interfacciare i dispositivi MEMS con le librerie di componenti CMOS standard e di conseguenza la simulazione di blocchi funzionali misti RF-MEMS/CMOS. Come esempio, un VCO (Voltage Controlled Oscillator) in cui l’LC-tank è realizzato in tecnologia MEMS mentre la parte attiva con transistor MOS di libreria sarà simulato in Spectre c . Inoltre, nelle pagine successive verrà mostrata una soluzione tecnologica per la fabbricazione di un substrato protettivo (package) da applicare a dispositivi RF-MEMS basata su vie di interconnessione elettrica attraverso un wafer di Silicio. La soluzione di packaging prescelta rende possibili alcune tecniche per l’integrazione ibrida delle parti RF-MEMS e CMOS (hybrid packaging). Verranno inoltre messe in luce questioni riguardanti gli effetti parassiti (accoppiamenti capacitivi ed induttivi) introdotti dal package che influenzano le prestazioni RF dei dispositivi MEMS incapsulati. Nel dettaglio, tutti i gradi di libertà del processo tecnologico per l’ottenimento del package saranno ottimizzati per mezzo di un simulatore elettromagnetico (Ansoft HFSSTM) al fine di ridurre gli effetti parassiti introdotti dal substrato protettivo. Inoltre, risultati sperimentali raccolti da misure di strutture di test incapsulate verranno mostrati per validare, da un lato, il simulatore Ansoft HFSSTM e per dimostrate, dall’altro, la fattibilit`a della soluzione di packaging proposta. Aldilà dell’apparente debole legame tra i due argomenti sopra menzionati è possibile identificare un unico obiettivo. Da un lato questo è da ricercarsi nello sviluppo di un ambiente di simulazione unificato all’interno del quale il comportamento elettromeccanico dei dispositivi RF-MEMS possa essere studiato ed analizzato. All’interno di tale ambiente, l’influenza del package sul comportamento elettromagnetico degli RF-MEMS può essere tenuta in conto per mezzo di modelli a parametri concentrati (lumped elements) estratti da misure sperimentali e simulazioni agli Elementi Finiti (FEM) della parte di package. Infine, la possibilità offerta dall’ambiente Cadence c relativamente alla simulazione di dipositivi RF-MEMS interfacciati alla parte CMOS rende possibile l’analisi di blocchi funzionali ibridi RF-MEMS/CMOS completi.

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Introduzione L’importanza clinica, sociale ed economica del trattamento dell’ipertensione arteriosa richiede la messa in opera di strumenti di monitoraggio dell’uso dei farmaci antiipertensivi che consentano di verificare la trasferibilità alla pratica clinica dei dati ottenuti nelle sperimentazioni. L’attuazione di una adatta strategia terapeutica non è un fenomeno semplice da realizzare perché le condizioni in cui opera il Medico di Medicina Generale sono profondamente differenti da quelle che si predispongono nell’esecuzione degli studi randomizzati e controllati. Emerge, pertanto, la necessità di conoscere le modalità con cui le evidenze scientifiche trovano reale applicazione nella pratica clinica routinaria, identificando quei fattori di disturbo che, nei contesti reali, limitano l’efficacia e l’appropriatezza clinica. Nell’ambito della terapia farmacologica antiipertensiva, uno di questi fattori di disturbo è costituito dalla ridotta aderenza al trattamento. Su questo tema, recenti studi osservazionali hanno individuato le caratteristiche del paziente associate a bassi livelli di compliance; altri hanno focalizzato l’attenzione sulle caratteristiche del medico e sulla sua capacità di comunicare ai propri assistiti l’importanza del trattamento farmacologico. Dalle attuali evidenze scientifiche, tuttavia, non emerge con chiarezza il peso relativo dei due diversi attori, paziente e medico, nel determinare i livelli di compliance nel trattamento delle patologie croniche. Obiettivi Gli obiettivi principali di questo lavoro sono: 1) valutare quanta parte della variabilità totale è attribuibile al livello-paziente e quanta parte della variabilità è attribuibile al livello-medico; 2) spiegare la variabilità totale in funzione delle caratteristiche del paziente e in funzione delle caratteristiche del medico. Materiale e metodi Un gruppo di Medici di Medicina Generale che dipendono dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna si è volontariamente proposto di partecipare allo studio. Sono stati arruolati tutti i pazienti che presentavano almeno una misurazione di pressione arteriosa nel periodo compreso fra il 01/01/1997 e il 31/12/2002. A partire dalla prima prescrizione di farmaci antiipertensivi successiva o coincidente alla data di arruolamento, gli assistiti sono stati osservati per 365 giorni al fine di misurare la persistenza in trattamento. La durata del trattamento antiipertensivo è stata calcolata come segue: giorni intercorsi tra la prima e l’ultima prescrizione + proiezione, stimata sulla base delle Dosi Definite Giornaliere, dell’ultima prescrizione. Sono stati definiti persistenti i soggetti che presentavano una durata del trattamento maggiore di 273 giorni. Analisi statistica I dati utilizzati per questo lavoro presentano una struttura gerarchica nella quale i pazienti risultano “annidati” all’interno dei propri Medici di Medicina Generale. In questo contesto, le osservazioni individuali non sono del tutto indipendenti poiché i pazienti iscritti allo stesso Medico di Medicina Generale tenderanno ad essere tra loro simili a causa della “storia comune” che condividono. I test statistici tradizionali sono fortemente basati sull’assunto di indipendenza tra le osservazioni. Se questa ipotesi risulta violata, le stime degli errori standard prodotte dai test statistici convenzionali sono troppo piccole e, di conseguenza, i risultati che si ottengono appaiono “impropriamente” significativi. Al fine di gestire la non indipendenza delle osservazioni, valutare simultaneamente variabili che “provengono” da diversi livelli della gerarchia e al fine di stimare le componenti della varianza per i due livelli del sistema, la persistenza in trattamento antiipertensivo è stata analizzata attraverso modelli lineari generalizzati multilivello e attraverso modelli per l’analisi della sopravvivenza con effetti casuali (shared frailties model). Discussione dei risultati I risultati di questo studio mostrano che il 19% dei trattati con antiipertensivi ha interrotto la terapia farmacologica durante i 365 giorni di follow-up. Nei nuovi trattati, la percentuale di interruzione terapeutica ammontava al 28%. Le caratteristiche-paziente individuate dall’analisi multilivello indicano come la probabilità di interrompere il trattamento sia più elevata nei soggetti che presentano una situazione clinica generale migliore (giovane età, assenza di trattamenti concomitanti, bassi livelli di pressione arteriosa diastolica). Questi soggetti, oltre a non essere abituati ad assumere altre terapie croniche, percepiscono in minor misura i potenziali benefici del trattamento antiipertensivo e tenderanno a interrompere la terapia farmacologica alla comparsa dei primi effetti collaterali. Il modello ha inoltre evidenziato come i nuovi trattati presentino una più elevata probabilità di interruzione terapeutica, verosimilmente spiegata dalla difficoltà di abituarsi all’assunzione cronica del farmaco in una fase di assestamento della terapia in cui i principi attivi di prima scelta potrebbero non adattarsi pienamente, in termini di tollerabilità, alle caratteristiche del paziente. Anche la classe di farmaco di prima scelta riveste un ruolo essenziale nella determinazione dei livelli di compliance. Il fenomeno è probabilmente legato ai diversi profili di tollerabilità delle numerose alternative terapeutiche. L’appropriato riconoscimento dei predittori-paziente di discontinuità (risk profiling) e la loro valutazione globale nella pratica clinica quotidiana potrebbe contribuire a migliorare il rapporto medico-paziente e incrementare i livelli di compliance al trattamento. L’analisi delle componenti della varianza ha evidenziato come il 18% della variabilità nella persistenza in trattamento antiipertensivo sia attribuibile al livello Medico di Medicina Generale. Controllando per le differenze demografiche e cliniche tra gli assistiti dei diversi medici, la quota di variabilità attribuibile al livello medico risultava pari al 13%. La capacità empatica dei prescrittori nel comunicare ai propri pazienti l’importanza della terapia farmacologica riveste un ruolo importante nel determinare i livelli di compliance al trattamento. La crescente presenza, nella formazione dei medici, di corsi di carattere psicologico finalizzati a migliorare il rapporto medico-paziente potrebbe, inoltre, spiegare la relazione inversa, particolarmente evidente nella sottoanalisi effettuata sui nuovi trattati, tra età del medico e persistenza in trattamento. La proporzione non trascurabile di variabilità spiegata dalla struttura in gruppi degli assistiti evidenzia l’opportunità e la necessità di investire nella formazione dei Medici di Medicina Generale con l’obiettivo di sensibilizzare ed “educare” i medici alla motivazione ma anche al monitoraggio dei soggetti trattati, alla sistematica valutazione in pratica clinica dei predittori-paziente di discontinuità e a un appropriato utilizzo della classe di farmaco di prima scelta. Limiti dello studio Uno dei possibili limiti di questo studio risiede nella ridotta rappresentatività del campione di medici (la partecipazione al progetto era su base volontaria) e di pazienti (la presenza di almeno una misurazione di pressione arteriosa, dettata dai criteri di arruolamento, potrebbe aver distorto il campione analizzato, selezionando i pazienti che si recano dal proprio medico con maggior frequenza). Questo potrebbe spiegare la minore incidenza di interruzioni terapeutiche rispetto a studi condotti, nella stessa area geografica, mediante database amministrativi di popolazione. Conclusioni L’analisi dei dati contenuti nei database della medicina generale ha consentito di valutare l’impiego dei farmaci antiipertensivi nella pratica clinica e di stabilire la necessità di porre una maggiore attenzione nella pianificazione e nell’ottenimento dell’obiettivo che il trattamento si prefigge. Alla luce dei risultati emersi da questa valutazione, sarebbe di grande utilità la conduzione di ulteriori studi osservazionali volti a sostenere il progressivo miglioramento della gestione e del trattamento dei pazienti a rischio cardiovascolare nell’ambito della medicina generale.

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Questo lavoro di tesi nasce da un progetto di ricerca promosso nel 2001 dal Prof. Leonardo Seccia (Seconda Facoltà di Ingegneria, sede di Forlì, e C.I.R.A.M., Università di Bologna), dal Prof. Nicola Santopuoli (Facoltà di Architettura Valle Giulia, Sapienza Università di Roma), dal Prof. Ingo Muller e dal Dott. André Musolff (Technical University Berlin, Facultat III, Thermodynamics). Tale progetto ha avuto come obiettivo lo studio, la progettazione e la realizzazione di un dispositivo di ancoraggio in lega a memoria di forma per il restauro di affreschi e mosaici parietali, che presentino distacchi più o meno evidenti fra gli strati di intonaco di supporto, proponendosi come mezzo efficace per la salvaguardia strutturale di tali zone variamente ammalorate. In particolare, è stata programmata una serie di prove di laboratorio per caratterizzare in modo preciso il comportamento del materiale prescelto, al fine di realizzare un prototipo rispondente alle caratteristiche di progetto ed anche per implementare un modello numerico sufficientemente realistico. A questo proposito, è stato anche approfondito il problema della scelta del modello costitutivo più adeguato. Successivamente, i risultati ottenuti sono stati impiegati nella progettazione e realizzazione di nuovi dispositivi in lega a memoria di forma da impiegare nel campo dei beni culturali, fra cui sistemi reversibili per il ricongiungimento di parti fratturate e sistemi di movimentazione intelligenti sia per lastre di protezione di superfici affrescate, sia per finestre da inserire in contesti museali per il controllo del microclima.

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L’oggetto della presente dissertazione è inerente aspetti affidabilistici e diagnostici dei componenti delle reti elettriche. Sono stati condotti studi sul ruolo svolto dai parametri presenti nei modelli affidabilistici utilizzati in presenza di regimi distorti. I risultati ottenuti nel corso della ricerca, indicano chiaramente come anche il fattore efficace Krms e, soprattutto, il fattore di forma, Kf, sotto certe condizioni, possano avere effetti considerevoli sulla degradazione degli isolanti (a volte con contributi perfino maggiori di quello dato dal ben noto fattore di picco, Kp, considerato predominante). Viene inoltre riportata un’indagine sviluppata sui principali Dispositivi Automatizzati per il Controllo degli Isolamenti (AIMS), attualmente disponibili sul mercato. Sono illustrati e discussi innovativi modelli di rischio integrati, sviluppati per integrare informazioni fornite dall’analisi affidabilistica tradizionale con misure di proprietà diagnostiche, acquisite grazie ad un monitoraggio costante dei componenti in servizio. L’impiego di tali modelli permetterebbe di ottenere una manutenzione di tipo affidabilistico-diagnostico, basata sull’effettiva condizione del componente in esame (manutenzione tipo CBM), piuttosto che su scadenze temporali fissate a priori (manutenzione di tipo TBM).

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Con questo lavoro di tesi si è cercato da un lato di dare un contributo al settore dei sensori chimici, caratterizzando e sviluppando diversi sistemi che presentano promettenti proprietà per l’utilizzo nella realizzazione di sensori luminescenti, e dall’altro di studiare sistemi di nanoparticelle di oro per identificarne e caratterizzarne i processi che portano all’interazione con un’unità fluorescente di riferimento, il pirene. Quest’ultima parte della tesi, sviluppata nel capitolo 4, sebbene possa apparire “slegata” dall’ambito della sensoristica, in realtà non lo è in quanto il lavoro di ricerca svolto rappresenta una buona base di partenza per lo sviluppo di sistemi di nanoparticelle metalliche con un possibile impiego in campo biomedico e diagnostico. Tutte le specie studiate, seppur molto diverse tra loro, posseggono quindi buone caratteristiche di luminescenza ed interessanti capacità di riconoscimento, più o meno selettivo, di specie in soluzione o allo stato gassoso. L’approccio generale che è stato adottato comporta una iniziale caratterizzazione in soluzione ed una susseguente ottimizzazione del sistema mirata a passare al fissaggio su supporti solidi in vista di possibili applicazioni pratiche. A tal proposito, nel capitolo 3 è stato possibile ottenere un monostrato organico costituito da un recettore (un cavitando), dotato di una parte fluorescente le cui proprietà di luminescenza sono sensibili alla presenza di una funzione chimica che caratterizza una classe di analiti, gli alcoli. E’ interessante sottolineare come lo stesso sistema in soluzione si comporti in maniera sostanzialmente differente, mostrando una capacità di segnalare l’analita molto meno efficiente, anche in funzione di una diversa orientazione della parte fluorescente. All’interfaccia solido-gas invece, l’orientamento del fluoroforo gioca un ruolo chiave nel processo di riconoscimento, e ottimizzando ulteriormente il setup sperimentale e la composizione dello strato, sarà possibile arrivare a segnalare quantità di analita sempre più basse. Nel capitolo 5 invece, è stato preso in esame un sistema le cui potenzialità, per un utilizzo come sonda fluorescente nel campo delle superfici di silicio, sembra promettere molto bene. A tal proposito sono stati discussi anche i risultati del lavoro che ha fornito l’idea per la concezione di questo sistema che, a breve, verrà implementato a sua volta su superficie solida. In conclusione, le ricerche descritte in questa tesi hanno quindi contribuito allo sviluppo di nuovi chemosensori, cercando di migliorare sia le proprietà fotofisiche dell’unità attiva, sia quelle dell’unità recettrice, sia, infine, l’efficienza del processo di traduzione del segnale. I risultati ottenuti hanno inoltre permesso di realizzare alcuni prototipi di dispositivi sensoriali aventi caratteristiche molto promettenti e di ottenere informazioni utili per la progettazione di nuovi dispositivi (ora in fase di sviluppo nei laboratori di ricerca) sempre più efficienti, rispondendo in tal modo alle aspettative con cui questo lavoro di dottorato era stato intrapreso.

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Il confronto in corso tra gli esperti di management sanitario sui dipartimenti ospedalieri, la crescente attenzione sui modelli di organizzazione a rete e le indagini sui servizi sanitari condotte con strumenti di analisi dei network hanno rappresentato la base su cui sviluppare il disegno dello studio. La prospettiva relazionale e le tecniche di social network analysis (Sna) sono state impiegate in un indagine empirica effettuata presso tre Dipartimenti Ospedalieri dell’Azienda USL di Bologna per osservare la struttura delle relazioni che intercorrono nell’ambito dei dipartimenti, tra le unità operative e tra i clinici, al fine di assicurare il quotidiano svolgersi dei processi clinico assistenziali dei pazienti. L’indagine si è posta tre obiettivi. Il primo è quello di confrontare la rete delle relazioni “reali” che intercorrono tra unità operative e tra clinici con le relazioni “progettate” attraverso l’afferenza delle unità operative nei dipartimenti e dei singoli clinici nelle unità operative. In sostanza si tratta di confrontare, con intenti esclusivamente conoscitivi, la struttura organizzativa formale – istituzionale con quella “informale”, che emerge dalle relazioni giornaliere tra i professionisti. In secondo luogo si intende comprendere se e come i fattori di natura attributiva che caratterizzano i singoli rispondenti, (es. età, sesso, laurea, anni di permanenza in azienda, ecc.) incidano sulla natura e sull’intensità delle relazioni e delle collaborazioni intrattenute con i colleghi all’interno dell’azienda. L’analisi ha un intento “esplicativo”, in quanto si cerca di indagare come le similitudini nelle caratteristiche individuali possano o meno incidere sull’intensità degli scambi e quindi delle collaborazioni tra professionisti. Il terzo obiettivo è volto a comprendere se e come i fattori attributivi e/o relazionali siamo in grado di spiegare l’attitudine mostrata dai singoli professionisti rispetto l’adozione di un approccio alla pratica clinica ispirato all’Evidence based medicine. Lo scopo è quello di verificare se la disponibilità / orientamento ad operare in una prospettiva evidence based sia più legata ad elementi e caratteristiche personali piuttosto che all’influenza esercitata da coloro con i quali si entra in contatto per motivi lavorativi. La relativa semplicità della fase di indagine ha indotto ad arricchire i contenuti e gli obiettivi originari del lavoro allo scopo di correlare indicatori relazionali e attributivi con indicatori di “performance”, in particolare di efficienza e appropriatezza. Le relazioni sono state rilevate attraverso un questionario sociometrico inserito in uno spazio web accessibile dalla rete ospedaliera e compilato online da parte dei medici. Il questionario è stato organizzato in tre sezioni: la prima per la raccolta di informazioni anagrafiche e dati attributivi dei clinici; la seconda volta a raccogliere i dati relazionali, funzionali e di consulenza, verso le equipe di professionisti (unità operative) e verso i singoli colleghi clinici; la terza sezione è dedicata alla raccolta di informazioni sull’utilizzo delle evidenze scientifiche a supporto della propria pratica clinica (consultazione di riviste, banche dati, rapporti di HTA, etc,) e sulla effettiva possibilità di accesso a tali strumenti. L’azienda ha fornito i dati di struttura e la base dati degli indicatori di attività delle UO arruolate nello studio. La compliance complessiva per i tre dipartimenti è stata pari a circa il 92% (302 rispondenti su un campione di 329 medici.). Non si sono rilevate differenze significative sulla compliance per i tre dipartimenti considerati. L’elaborazione dei dati è stata effettuata mediante specifici software per l’analisi delle reti sociali, UCINET 6 per il calcolo degli indicatori relazionali (centralità, densità, structural holes etc.), e Pajek per l’analisi grafica dei network. L’ultima fase è stata realizzata con l’ausilio del software statistico STATA vers. 10. L’analisi dei risultati è distinta in due 2 fasi principali. In primis è stato descritto il network di relazioni professionali rilevate, sono stai calcolati i relativi indicatori di centralità relazionale e verificato il grado di sovrapposizione tra struttura formale dei dipartimenti in studio con le relazioni informali che si stabiliscono tra di essi nell’ambito clinico. Successivamente è stato analizzato l’impatto che le relazioni esercitano sulla propensione da parte dei singoli medici a utilizzare nuove evidenze scientifiche I primi risultati emersi dallo studio forniscono interessanti evidenze, con particolare riguardo al dato di un discreto grado di “sovrapposizione” tra struttura formale e informale delle unità organizzative in studio e a correlazioni significative tra fattori relazionali e attitudine dei medici verso l’utilizzo dell’approccio EBM. Altre evidenze, in specie la correlazione tra “centralità” degli attori organizzativi e alcuni indicatori di performance /appropriatezza, meritano ulteriori approfondimenti e una definitiva validazione. In conclusione lo studio dimostra che la prospettiva relazionale e la Sna consentono di porre in evidenza caratteristiche dei dipartimenti, dei suoi attori e delle loro reti di reciproche relazioni, in grado di favorire la comprensione di alcune dinamiche ricercate proprio attraverso l’organizzazione dipartimentale e quindi di specifico interesse per il management, i clinici e quanti altri impegnati nella gestione e nello sviluppo di questo modello di organizzazione dell’ospedale.

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Definizione del problema: Nonostante il progresso della biotecnologia medica abbia consentito la sopravvivenza del feto, fuori dall’utero materno, ad età gestazionali sempre più basse, la prognosi a breve e a lungo termine di ogni nuovo nato resta spesso incerta e la medicina non è sempre in grado di rimediare completamente e definitivamente ai danni alla salute che spesso contribuisce a causare. Sottoporre tempestivamente i neonati estremamente prematuri alle cure intensive non ne garantisce la sopravvivenza; allo stesso modo, astenervisi non ne garantisce la morte o almeno la morte immediata; in entrambi i casi i danni alla salute (difetti della vista e dell’udito, cecità, sordità, paralisi degli arti, deficit motori, ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento e del comportamento) possono essere gravi e permanenti ma non sono prevedibili con certezza per ogni singolo neonato. Il futuro ignoto di ogni nuovo nato, insieme allo sgretolamento di terreni morali condivisi, costringono ad affrontare laceranti dilemmi morali sull’inizio e sul rifiuto, sulla continuazione e sulla sospensione delle cure. Oggetto: Questo lavoro si propone di svolgere un’analisi critica di alcune strategie teoriche e pratiche con le quali, nell’ambito delle cure intensive ai neonati prematuri, la comunità scientifica, i bioeticisti e il diritto tentano di aggirare o di risolvere l’incertezza scientifica e morale. Tali strategie sono accomunate dalla ricerca di criteri morali oggettivi, o almeno intersoggettivi, che consentano ai decisori sostituti di pervenire ad un accordo e di salvaguardare il vero bene del paziente. I criteri esaminati vanno dai dati scientifici riguardanti la prognosi dei prematuri, a “fatti” di natura più strettamente morale come la sofferenza del paziente, il rispetto della libertà di coscienza del medico, l’interesse del neonato a sopravvivere e a vivere bene. Obiettivo: Scopo di questa analisi consiste nel verificare se effettivamente tali strategie riescano a risolvere l’incertezza morale o se invece lascino aperto il dilemma morale delle cure intensive neonatali. In quest’ultimo caso si cercherà di trovare una risposta alla domanda “chi deve decidere per il neonato?” Metodologia e strumenti: Vengono esaminati i più importanti documenti scientifici internazionali riguardanti le raccomandazioni mediche di cura e i pareri della comunità scientifica; gli studi scientifici riguardanti lo stato dell’arte delle conoscenze e degli strumenti terapeutici disponibili ad oggi; i pareri di importanti bioeticisti e gli approcci decisionali più frequentemente proposti ed adoperati; alcuni documenti giuridici internazionali riguardanti la regolamentazione della sperimentazione clinica; alcune pronunce giudiziarie significative riguardanti casi di intervento o astensione dall’intervento medico senza o contro il consenso dei genitori; alcune indagini sulle opinioni dei medici e sulla prassi medica internazionale; le teorie etiche più rilevanti riguardanti i criteri di scelta del legittimo decisore sostituto del neonato e la definizione dei suoi “migliori interessi” da un punto di vista filosofico-morale. Struttura: Nel primo capitolo si ricostruiscono le tappe più importanti della storia delle cure intensive neonatali, con particolare attenzione agli sviluppi dell’assistenza respiratoria negli ultimi decenni. In tal modo vengono messi in luce sia i cambiamenti morali e sociali prodotti dalla meccanizzazione e dalla medicalizzazione dell’assistenza neonatale, sia la continuità della medicina neonatale con il tradizionale paternalismo medico, con i suoi limiti teorici e pratici e con lo sconfinare della pratica terapeutica nella sperimentazione incontrollata. Nel secondo capitolo si sottopongono ad esame critico le prime tre strategie di soluzione dell’incertezza scientifica e morale. La prima consiste nel decidere la “sorte” di un singolo paziente in base ai dati statistici riguardanti la prognosi di tutti i nati in condizioni cliniche analoghe (“approccio statistico”); la seconda, in base alla risposta del singolo paziente alle terapie (“approccio prognostico individualizzato”); la terza, in base all’evoluzione delle condizioni cliniche individuali osservate durante un periodo di trattamento “aggressivo” abbastanza lungo da consentire la raccolta dei dati clinici utili a formulare una prognosi sicura(“approccio del trattamento fino alla certezza”). Viene dedicata una più ampia trattazione alla prima strategia perché l’uso degli studi scientifici per predire la prognosi di ogni nuovo nato accomuna i tre approcci e costituisce la strategia più diffusa ed emblematica di aggiramento dell’incertezza. Essa consiste nella costruzione di un’ “etica basata sull’evidenza”, in analogia alla “medicina basata sull’evidenza”, in quanto ambisce a fondare i doveri morali dei medici e dei genitori solo su fatti verificabili (le prove scientifiche di efficacia delle cure)apparentemente indiscutibili, avalutativi o autocertificativi della moralità delle scelte. Poiché la forza retorica di questa strategia poggia proprio su una (parziale) negazione dell’incertezza dei dati scientifici e sulla presunzione di irrilevanza della pluralità e della complessità dei valori morali nelle decisioni mediche, per metterne in luce i limiti si è scelto di dedicare la maggior parte del secondo capitolo alla discussione dei limiti di validità scientifica degli studi prognostici di cui i medici si avvalgono per predire la prognosi di ogni nuovo nato. Allo stesso scopo, in questo capitolo vengono messe in luce la falsa neutralità morale dei giudizi scientifici di “efficacia”, “prognosi buona”, “prognosi infausta” e di “tollerabilità del rischio” o dei “costi”. Nel terzo capitolo viene affrontata la questione della natura sperimentale delle cure intensive per i neonati prematuri al fine di suggerire un’ulteriore ragione dell’incertezza morale, dell’insostenibilità di obblighi medici di trattamento e della svalutazione dell’istituto del consenso libero e informato dei genitori del neonato. Viene poi documentata l’esistenza di due atteggiamenti opposti manifestati dalla comunità scientifica, dai bioeticisti e dal diritto: da una parte il silenzio sulla natura sperimentale delle terapie e dall’altra l’autocertificazione morale della sperimentazione incontrollata. In seguito si cerca di mostrare come entrambi, sebbene opposti, siano orientati ad occultare l’incertezza e la complessità delle cure ai neonati prematuri, per riaffermare, in tal modo, la precedenza dell’autorità decisionale del medico rispetto a quella dei genitori. Il quarto capitolo, cerca di rispondere alla domanda “chi deve decidere in condizioni di incertezza?”. Viene delineata, perciò, un’altra strategia di risoluzione dell’incertezza: la definizione del miglior interesse (best interest) del neonato, come oggetto, limite e scopo ultimo delle decisioni mediche, qualsiasi esse siano. Viene verificata l’ipotesi che il legittimo decisore ultimo sia colui che conosce meglio di ogni altro i migliori interessi del neonato. Perciò, in questo capitolo vengono esposte e criticate alcune teorie filosofiche sul concetto di “miglior interesse” applicato allo speciale status del neonato. Poiché quest’analisi, rivelando l’inconoscibilità del best interest del neonato, non consente di stabilire con sicurezza chi sia intitolato a prendere la decisione ultima, nell’ultimo capitolo vengono esaminate altre ragioni per le quali i genitori dovrebbero avere l’ultima parola nelle decisioni di fine o di proseguimento della vita. Dopo averle scartate, viene proposta una ragione alternativa che, sebbene non risolutiva, si ritiene abbia il merito di riconoscere e di non mortificare l’irriducibilità dell’incertezza e l’estrema complessità delle scelte morali, senza rischiare, però, la paralisi decisionale, il nichilismo morale e la risoluzione non pacifica dei conflitti.