73 resultados para MUSICOLOGIA


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La tesi è dedicata allo studio dei Responsori della Settimana Santa contenuti nel volume manoscritto Musica per la Settimana Santa conservato presso l’Accademia Filarmonica di di Bologna: (I-Baf FA1 443), che la tradizione storiografica fino ad alcuni anni fa attribuiva interamente ad Alessandro Scarlatti. Il volume raccoglie un ampio repertorio di brani musicali appartenenti a generi destinati ai periodi liturgici della Quaresima e del Triduo pasquale. Il lavoro è dedicato ai responsori considerati innanzitutto come progetto compositivo a sé stante e come fonte di rilievo nell’ambito della musica sacra e del genere responsoriale in particolare. Lo studio è suddiviso in due parti: la prima riguarda le ricerche codicologiche sul volume, del quale si riassume anche la storia con nuove ricerche sulla sua acquisizione da parte dell’Accademia Filarmonica. Viene poi esaminato il contesto storico-liturgico della musica per la Settimana Santa e si prendono in esame gli aspetti stilistici del repertorio responsoriale polifonico italiano dalla metà del ‘500 allla prima metà del ’700, in particolare nell’ambito del cosiddetto «stile osservato» del tempo. Nel terzo ed ultimo capitolo della prima parte vengono analizzati nella forma e nello stile i responsori del Ms 443 di Bologna, tenendo conto della teoria musicale e delle consuetudini contrappuntistiche in vigore tra la fine del sec. XVII e l’inizio del sec. XVIII. Nelle rispettive appendici ai capitoli si dànno le Tavole esplicative, con dati di natura codicologica, tecnico-musicale e testuale liturgica e gli elenchi dettagliati delle fonti responsoriali polifoniche rintracciate, manoscritte e a stampa. La seconda parte del lavoro presenta l’edizione critica della musica, con annessa la sua riproduzione in facsimile su CD. Nell’apparato critico la sezione dei Testi restituisce l’edizione filologica dei testi liturgici intonati.

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Igor Stravinskij (1882-1971) utilizzò di sovente fonti preesistenti come parte integrante del proprio artigianato compositivo. In questa tesi dottorale ho studiato il processo creativo di Stravinskij negli anni Venti sulle musiche di Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893). Nella prima parte della dissertazione ho indagato la Sleeping Princess (1921) e il successivo Mariage d’Aurore (1922-1929), entrambi allestiti dai Ballets russes di Sergej Djagilev (1872-1929). Dopo aver localizzato e contestualizzato le fonti manoscritte e i materiali d’uso, ho ricostruito le ri-orchestrazioni effettuate da Stravinskij della Danse russe (Coda del Pas de deux n. 28) e del Presto del Finale (n. 30), che erano a tutt’oggi inedite. La ricerca sulla Sleeping Princess si è rivelata fondamentale per la conseguente analisi del Baiser de la Fée (1928, Ballets de Mme Ida Rubinstein), balletto basato su pezzi pianistici e romanze per voce e pianoforte di Čajkovskij. Grazie allo studio dello Skizzenbuch VIII, della partitura pianistica manoscritta e di tutte le fonti rinvenute, ho gettato ulteriore luce sul processo compositivo di Stravinskij sulle fonti čajkovskiane. Ho rinvenuto nuove appropriazioni che finora non erano note.

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L’attività nel teatro della Villa medicea di Pratolino, presso Firenze, giunse al culmine nel primo decennio del ’700, quando il principe Ferdinando de’ Medici commissionò e vi fece rappresentare, una per anno, opere in musica di Alessandro Scarlatti e di Giacomo Antonio Perti. Benché le partiture siano perdute, sopravvive un’ingente quantità di materiale documentario, in massima parte inedito, il quale dà un eccezionale resoconto sul mecenatismo del Principe e sul funzionamento della macchina teatrale. La dissertazione si concentra sulle sei opere poste in musica da Perti ("Lucio Vero", 1700, in collaborazione con Martino Bitti; "Astianatte", 1701; "Dionisio re di Portogallo", 1707; "Ginevra principessa di Scozia", 1708; "Berenice regina d’Egitto", 1709; "Rodelinda regina de’ Longobardi", 1710), sui rapporti del compositore col Principe, col librettista Antonio Salvi, col rivale Scarlatti, coi cantanti e con la corte medicea, sullo stile da lui perseguito e – per quanto è dato sapere o lecito ipotizzare – sulla fisionomia dei suoi lavori (strutture e risorse letterarie, teatrali e musicali).

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La tesi si occupa della «processione con Misteri» organizzata da Carlo Bascapè, preposito generale dei Barnabiti, a Milano, la notte del venerdì santo, a partire dal 1587. Di questo importante rito processionale sono giunte fino a noi diverse testimonianze documentarie, conservate presso l’Archivio Storico dei Barnabiti a Milano, che sono state il cuore di questa ricerca. La processione è una grande meditazione pubblica dove la musica svolge un ruolo molto importante. Il percorso che ho seguito è stato teso a rendere ragione delle motivazioni drammatiche e devozionali della processione, per poi approdare al significativo ruolo che la componente musicale svolgeva nel rito stesso. Nel primo capitolo ho rievocato la figura di Carlo Bascapè (1550-1615), inserendo la sua figura all’interno delle esperienze storiche nelle quali si è formato (la Milano di san Carlo Borromeo e l’Ordine dei Chierici regolari di San Paolo). Nel secondo capitolo ho scandagliato le radici devozionali alla base della processione (i concetti di devozione e orazione) e messo a fuoco il ruolo della musica nell’esperienza religiosa dei Barnabiti e, in particolar modo, di Carlo Bascapè. Il terzo capitolo si concentra sulle principali modalità di rappresentazione e meditazione della passione di Cristo. Nel quarto capitolo ho ricostruito, attraverso una lettura dei documenti, e con approfondimenti tratti dalla letteratura devozionale tardocinquecentesca sulla passione, i vari aspetti della processione e i suoi protagonisti (religiosi, nobili della città di Milano, musicisti), e, infine, ho messo in luce gli aspetti devozionali e drammaturgici. Nel quinto capitolo ho analizzato le musiche superstiti, pervenendo alla conclusione che ogni aspetto musicale era concepito tenendo ben presenti i due aspetti su cui era imperniata la processione: la rappresentazione della passione e l’immedesimazione dei fedeli. L’ultima parte della tesi consiste, infine, nella trascrizione dei documenti archivistici, nella loro parte testuale e musicale.

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La tesi esamina il codice musicale Gr. Rés Vm7 676 della Biblioteca Nazionale di Parigi, che rappresenta una fonte di grande interesse per lo studio della musica vocale italiana tra Quattro e Cinquecento. Compilato nel 1502, il codice è stato oggetto di analisi da parte di vari studiosi, che ne hanno preso in esame singoli brani o intere sezioni, allo scopo di attestare procedimenti compositivi particolari (Torrefranca) o caratteri stilistici locali, in particolare relativi alla frottola mantovana e ferrarese (Prizer). Un’accurata ricognizione sul repertorio è stata effettuata da Nanie Bridgman in un saggio degli anni Cinquanta del secolo scorso, ma non è mai stato realizzato uno studio organico sul manoscritto. Pertanto la ricerca si è proposta di riconsiderare l’intero repertorio italiano tramandato dal codice, per proporre un plausibile inquadramento stilistico nella cultura della poesia per musica coeva. La trascrizione dei testi e delle musiche, supportata dal confronto con le fonti manoscritte e a stampa, letterarie e musicali, ha consentito di formulare alcune ipotesi in merito alla circolazione del repertorio tramandato e all’ambiente di produzione del documento. L’inconsueta varietà di forme musicali riscontrate nel codice consente inoltre di assumere questo manoscritto come una delle principali fonti della tradizione musicale che precede immediatamente la ‘sistemazione’ del repertorio frottolistico effettuata da Ottaviano Petrucci, a partire dal 1504, con la pubblicazione dei suoi undici libri di frottole (1501-1514).

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Le musiche “popolaresche” urbane, in genere trascurate nella letteratura etnomusicologica, sono state quasi completamente ignorate nel caso della Romania. Il presente studio si propone di colmare almeno in parte questa lacuna, indagando questo fenomeno musicale nella Bucarest degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Le musiche esaminate sono tuttavia inserite entro una cornice storica più ampia, che data a partire dalla fine del XVIII secolo, e messe in relazione con alcune produzioni di origine rurale che con queste hanno uno stretto rapporto. Il caso di Maria Lătărețu (1911-1972) si è rivelato particolarmente fecondo in questo senso, dal momento che la cantante apparteneva ad entrambi i versanti musicali, rurale e urbano, e nepadroneggiava con disinvoltura i rispettivi repertori. Dopo il suo trasferimento nella capitale, negli anni Trenta, è diventata una delle figure di maggior spicco di quel fenomeno noto come muzică populară (creazione musicale eminentemente urbana e borghese con radici però nel mondo delle musiche rurali). L’analisi del repertorio (o, per meglio dire, dei due repertori) della Lătărețu, anche nel confronto con repertori limitrofi, ha permesso di comprendere più da vicino alcuni dei meccanismi musicali alla base di questa creazione. Un genere musicale che non nasce dal nulla nel dopo-guerra, ma piuttosto continua una tradizione di musica urbana, caratterizzata in senso locale, ma influenzata dal modello della canzone europea occidentale, che data almeno dagli inizi del Novecento. Attraverso procedimenti in parte già collaudati da compositori colti che sin dal XIX secolo, in Romania come altrove, si erano cimentati con la creazione di melodie in stile popolare o nell’armonizzazione di musiche di provenienza contadina, le melodie rurali nel bagaglio della cantante venivano trasformate in qualcosa di inedito. Una trasformazione che, come viene dimostrato efficacemente nell’ultimo capitolo, non investe solo il livello superficiale, ma coinvolge in modo profondo la sintassi musicale.

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In base ad una recensione esaustiva dei riferimenti alla musica e al sonoro nella produzione filosofica di Gilles Deleuze e Félix Guattari, la presente ricerca s’incentra sulla posizione che il pensiero musicale di John Cage occupa in alcuni testi deleuziani. Il primo capitolo tratta del periodo creativo di Cage fra il 1939 e il 1952, focalizzandosi su due aspetti principali: la struttura micro-macrocosmica che contraddistingue i suoi primi lavori, e i quattro elementi che in questo momento sintetizzano per Cage la composizione musicale. Questi ultimi sono considerati in riferimento alla teoria della doppia articolazione che Deleuze e Guattari riprendono da Hjelmslev; entrambi gli aspetti rimandano al sistema degli strati e della stratificazione esposta su Mille piani. Il secondo capitolo analizza la musica dei decenni centrali della produzione cagiana alla luce del luogo in Mille piani dove Cage è messo in rapporto al concetto di “piano fisso sonoro”. Un’attenzione particolare è posta al modo in cui Cage concepisce il rapporto fra durata e materiali sonori, e al grado variabile in cui sono presenti il caso e l’indeterminazione. Le composizioni del periodo in questione sono inoltre viste in riferimento al concetto deleuzo-guattariano di cartografia, e nelle loro implicazioni per il tempo musicale. L’ultimo quindicennio della produzione di Cage è considerata attraverso il concetto di rizoma inteso come teoria delle molteplicità. In primo luogo è esaminata la partitura di Sylvano Bussotti che figura all’inizio di Mille piani; in seguito, i lavori testuali e musicali di Cage sono considerati secondo le procedure compositive cagiane del mesostico, delle parentesi di tempo che concorrono a formare una struttura variabile, e dell’armonia anarchica dell’ultimo Cage.

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La dissertazione è uno studio monografico delle cantate dialogiche e delle serenate a più voci e strumenti composte da Händel in Italia negli anni 1706-1710. Insieme ai drammi per musica e agli oratori coevi, le quattro cantate "Aminta e Fillide" HWV 83, "Clori, Tirsi e Fileno" HWV 96, "Il duello amoroso" HWV 82, "Apollo e Dafne" HWV 122 e le due serenate "Aci, Galatea e Polifemo" HWV 72 e "Olinto pastore arcade alle glorie del Tebro" HWV 143 costituiscono le prime importanti affermazioni di Händel come compositore di musica vocale. Le sei composizioni sono state studiate sotto l’aspetto storico-letterario, drammaturgico-musicale e della committenza, con l’obiettivo di individuare intersecazioni fra questi piani. I testi poetici, di cui si è curata l’edizione, sono stati analizzati da un punto di vista storico e stilistico e collocati nel particolare contesto romano del primo Settecento, in cui la proibizione di ogni spettacolo teatrale determinò, sotto la spinta di una raffinata committenza, un ‘drammatizzazione’ dei generi della cantata e della serenata. L’analisi musicale di ciascuna composizione è stata dunque finalizzata a una lettura ‘drammaturgica’, che ha portato alla individuazione dei dispositivi di ascendenza teatrale nella scelte compositive di Händel. Lo studio si conclude con un selettivo confronto con le cantate e le serenate scritte negli stessi anni a Roma da Alessandro Scarlatti.

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La dissertazione si articola attorno all’idea di tradizione e alla concettualizzazione di genere nella musica di villaggio dei Banyoro e dei Batooro dell’Uganda occidentale. Il lavoro si sviluppa nel complesso in tre parti principali. Nella prima si presentano le trasformazioni storiche intervenute nelle relazioni di genere dal periodo precoloniale al presente e si introduce la musica di villaggio delle popolazioni considerate, ponendola a confronto con la musica di corte e con quella religiosa. La seconda sezione è dedicata allo studio dei repertori vocali e di danza di villaggio, a partire dalla documentazione realizzata con informatori anziani: di queste musiche sono considerate le caratteristiche stilistiche ed è condotta un’analisi che mira a mettere in luce le idee di genere trasmesse attraverso questi repertori. L’ultima parte del lavoro prende in considerazione le trasformazioni intervenute nel panorama musicale ugandese nell’ultimo secolo, a partire dall’influenza di musiche esterne, dall’insegnamento della musica tradizionale nelle scuole e dall’istituzione di festival scolastici e di gruppi folklorici: diverse performance attuali di canti e di danza sotto sottoposte a studio analitico. Nel complesso, si rileva una generale rifunzionalizzazione di musiche e idee di genere che si rifanno al passato, ma hanno valore soprattutto per il recupero della cultura locale nel presente,connotato dal contesto multiculturale dell’Uganda contemporanea e dalle politiche, promosse dal Governo, che favoriscono l’emancipazione femminile.

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Oggetto di questo lavoro è un’analisi dettagliata di un campione ristretto di riprese televisive della Quinta Sinfonia di Beethoven, con l’obiettivo di far emergere il loro meccanismo costruttivo, in senso sia tecnico sia culturale. Premessa dell’indagine è che ciascuna ripresa sia frutto di un’autorialità specifica che si sovrappone alle due già presenti in ogni esecuzione della Quinta Sinfonia, quella del compositore e quella dell’interprete, definita perciò «terza autorialità» riassumendo nella nozione la somma di contributi specifici che portano alla produzione di una ripresa (consulente musicale, regista, operatori di ripresa). La ricerca esamina i rapporti che volta a volta si stabiliscono fra i tre diversi piani autoriali, ma non mira a una ricostruzione filologica: l’obiettivo non è ricostruire le intenzioni dell’autore materiale quanto di far emergere dall’esame della registrazione della ripresa, così com’è data a noi oggi (spesso in una versione già più volte rimediata, in genere sotto forma di dvd commercializzato), scelte tecniche, musicali e culturali che potevano anche essere inconsapevoli. L’analisi dettagliata delle riprese conferma l’ipotesi di partenza che ci sia una sorta di sistema convenzionale, quasi una «solita forma» o approccio standardizzato, che sottende la gran parte delle riprese; gli elementi che si possono definire convenzionali, sia per la presenza sia per la modalità di trattamento, sono diversi, ma sono soprattutto due gli aspetti che sembrano esserne costitutivi: il legame con il rito del concerto, che viene rispettato e reincarnato televisivamente, con la costruzione di una propria, specifica aura; e la presenza di un paradigma implicito e sostanzialmente ineludibile che pone la maggior parte delle riprese televisive entro l’alveo della concezione della musica classica come musica pura, astratta, che deve essere compresa nei suoi propri termini.

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All’ascolto dell’incompiuto Matrimonio di Musorgskij, Borodin aveva sentenziato lapidariamente: «une chose manquée». Uguale commento viene riservato tuttora alla produzione operistica di Sergej Rachmaninov. In questo caso però non ci troviamo di fronte a un teatro rivoluzionario che si trova costretto a fare un passo indietro rispetto ai principi programmatici di cui si vuol far portatore, bensì a un potenziale inespresso, a un profilo drammaturgico mai giunto a piena maturazione. L’evidente eterogeneità della produzione operistica lasciataci in eredità dal compositore non permette infatti di determinarne con chiarezza le ‘linee guida’ e ne rende problematica la collocazione nel contesto musicale a lui coevo. Scopo della presente dissertazione è indagare l’apprendistato e il debutto operistico del compositore russo attraverso l’analisi di materiale documentario, testi letterari, partiture nonché delle fonti critiche in lingua russa, difficilmente accessibili per lo studioso italiano. Il cuore dell’elaborato è un’analisi dettagliata di Aleko, un atto unico presentato nel 1892 dal compositore come prova finale al corso di ‘Libera composizione’ del Conservatorio di Mosca. L’opera viene considerata nel suo complesso come organismo drammatico-musicale autonomo (rapporto fonte/libretto, articolazione interna, sistema delle forme, costellazione dei personaggi, distribuzione delle voci, ecc.), ma inquadrata al contempo nel più ampio contesto del teatro musicale coevo (recezione critica sia da parte della pubblicistica coeva sia da parte della storiografia musicale). Viene fornita in appendice un’edizione del libretto con traduzione a fronte. Incorniciano l’analisi dell’opera un capitolo in cui si offre una rilettura estetica del ‘caso Rachmaninov’ e un aperçu sulla produzione operistica matura del compositore, alla luce delle riflessioni proposte nel corso della dissertazione.

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Questo lavoro è imperniato sullo studio di uno dei melodrammi più interessanti della fine del XVII secolo: “Il carceriere di sé medesimo” di Lodovico Adimari (1644-1708) e Alessandro Melani (1639-1703), allestito per la prima volta a Firenze nel 1681, e ripreso nel giro di una ventina d’anni a Reggio (1684), a Bologna (1697) e a Vienna (1702). L’opera vanta un’origine drammatica di spicco: risale infatti alla commedia “Guardarse a sí mismo” di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) mediata dal “Geôlier de soi-mesme” di Thomas Corneille (1625-1709), e presenta qualità poetiche e musicali evidenti, assicurate dai nomi del poeta Lodovico Adimari e del compositore Alessandro Melani. A ciò si aggiungano una tradizione articolata in quattro allestimenti, nonché un elevato numero di testimoni superstiti: cinque edizioni del libretto (testimoniate da numerosi esemplari) e il numero fortunatissimo di tre partiture manoscritte, conservate a Parigi, Bologna e Modena. La tesi contiene l’edizione critica del “Carceriere di sé medesimo” di Adimari con tutte le varianti accumulatesi nella riedizione del libretto e nella copiatura della partitura, l’analisi del dramma, a partire dal confronto tra i testi di Calderón, Corneille e Adimari, e lo studio delle sue componenti drammatiche, formali e contenutistiche. Si aggiunge uno studio sul contesto storico-musicale degli allestimenti di Firenze, Reggio, Bologna e Vienna, nonché l’edizione dei restanti tre drammi di Adimari: la commedia “Le gare dell’amore e dell’amicizia” (1679), e il dramma per musica “L’amante di sua figlia” (1684).

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La ricerca consiste nell’edizione e traduzione del trattato ‘Practica musice’ di Franchino Gaffurio corredata da apparati critici e storico-contestuali. Si inizia con la biografia dell’autore redatta secondo gli ultimi dati disponibili e si presenta una esposizione del contenuto del trattato con proposte di chiarimenti dei passi più oscuri. Segue quindi uno studio dei cambiamenti intercorsi tra le parti del trattato come trasmesse nei manoscritti preparatori e la sua versione finale a stampa, seguito da una indagine sulle edizioni successive all’editio princeps, con tabelle sulle varianti tra le edizioni. Vengono quindi offerte la trascrizione interpretativa del testo latino del trattato (che può essere considerata la più corretta attualmente disponibile ed è l’unica a riportare numeri di partizione testuale) seguita dalla sua traduzione in italiano, con trascrizione degli esempi musicali. Il trattato, diviso in quattro libri, ha per argomenti rispettivamente il cantus planus e le scale modali gregoriane, la musica misurata e le figure della notazione, l’arte del contrappunto e la più ampia casistica disponibile sulle proporzioni ritmiche.

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Lo scopo della dissertazione “Formazione e pratica del pensiero orchestrale di Hector Berlioz. Caratteri poetici e strategie del suono” è quello di indagare i tratti essenziali del pensiero di Berlioz in merito all’orchestra riprendendo in considerazione gli elementi della sua educazione giovanile. In particolare, le nozioni ricavate dai suoi insegnanti di composizione Le Sueur e Reicha e dai corsi di medicina brevemente frequentati a Parigi sono indagate con approccio rinnovato, alla luce di nuovi filoni di studio indagati dalla musicologia negli anni più recenti. Sono analizzate anche le recensioni di Berlioz, alla ricerca di elementi che aiutino a comprendere la sua musica con le argomentazioni destinate a quella altrui. È analizzato anche il percorso della trattatistica che da un iniziale approccio di tipo pratico tipico del XVIII secolo, giunge con il trattato di Berlioz a una forte connotazione poetica delle risorse strumentali e orchestrali. Nella seconda parte della dissertazione sono analizzate invece alcune opere di Berlioz e alcune questioni generali concernenti il suo modo di scrivere per l’orchestra, specialmente in relazione ad altri parametri musicali. Nella dissertazione notevole attenzione è data al rapporto fra questioni tecniche e poetiche, proponendo un approccio leggermente rinnovato.