239 resultados para performative


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Teletandem is a virtual autonomous VoIP2 technology-based context (webcam images, voice and text). Within this context, two students help each other learn their native (or other) language through intercultural and linguistic collaboration. Performative Theory can shed light on the constitution of these students' national identities, as they engage in linguistic performances of marking and discussing differences between their countries during teletandem. Based on critical approaches to discourse and intercultural communication, my analysis shows that this online intercultural contact opens innovative possibilities for foreign language teachers to promote intercultural contact with the different. However, without teacher mediation, teletandem interactions may fall into shallow performances of sedimented and pre-given representations of self and other. Subsequently, this article concludes with a discussion of relevant pedagogical points for foreign language teachers.

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Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior (CAPES)

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The Riot Grrrl movement started in mid-90s and it consists of girls who use rock as a tool of feminist political struggle. Besides using music as a central element of political identity, this movement is also characterized by the formation of an alternative public sphere (formed by fanzines, blogs and e-zines) that functions both as a way to spread their music and as identification trigger mechanism in relation to their political causes. The aim of this article is to study the instruments that these feminists bands - that deviate from the traditional feminist political movements - use to create identification with their audience, especially from an empirical research of e-zines published by these bands and from the communicative action of their leaders in social networks. It is possible to note that, despite other identification mechanisms, testimonies works as a socialization link which marks the alternative public sphere composed by publications made by Riot Grrrls. The testimony serves as a powerful arranger of collective identities, since it is presupposed in the recognition of a world in common, allocating identity as performative action.

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Assuming that testimony in photojournalism must be understood as a historical and performative act, the aim of this article is to discuss how the testimonial function of journalistic photography was constantly re-signified in Brazilian news magazines during the twentieth century. This redefinition has a relation with the different ways in which testimonial function was hinged to news report (in its broadest elements) and how this imperative appeared on its discursive form in writing narrative. As trustee of a narrative intended to be realistic, photojournalism articulates, from techniques and codes of narration, a series of referential and informational strategies. These strategies, however, have changed over time, based on different modes of narration by image and its accreditation in reality.

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Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior (CAPES)

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A relação de Sophie Calle com dois textos ficcionais, de autoria de Hervé Guibert e Paul Auster, permite discutir um ponto central de sua poética: a atuação como performer, colocada por alguns críticos sob o signo do situacionismo. Como suas performances envolvem uma narrativa, foram analisados seus aspectos fotográficos e verbais, tendo como epicentro Suíte veneziana (1980). Qual o papel da fotografia nas narrativas de Calle, nas quais ela é personagem de si mesma? A fotografia é vestígio de acontecimentos reais e seu aspecto documental corrobora a neutralidade dos relatos escritos. É, ao mesmo tempo, fruto de um gesto performático, o qual, ao designar determinados fatos, converte a realidade em imagem.

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La tesi di Dottorato espone i risultati dell’analisi condotta su alcune tipologie di canto profano a due parti, osservate nella tradizione orale di specifiche aree rurali: le espressioni diafoniche oggetto di indagine sono state individuate in diverse regioni, prevalentemente nell’Italia centro-meridionale e in Sicilia, con alcune propaggini nell’Italia nord-orientale e in alcune aree europee abitate da minoranze italiane (Istria slovena e croata). I documenti analizzati sono stati reperiti grazie alla ricerca sul campo e rintracciati anche nelle pubblicazioni discografiche, nei cataloghi dei più importanti archivi pubblici e privati italiani. Sono stati definiti i caratteri formali dei repertori e l’indagine realizzata ha inoltre condotto a una mappatura attestante la presenza di repertori vocali simili in diverse sub-aree della Penisola, confermando la estesa diffusione di pratiche diafoniche tradizionali in Italia. Sulla base di analogie e ricorrenze è stato rilevato che le espressioni diafoniche italiane possono essere attribuite a una remota tradizione comune: sebbene le peculiarità relative a ciascun repertorio siano in molti casi abbastanza marcate, le connotazioni strutturali e i modi performativi che distinguono tali repertori pare vogliano indicare di essere di fronte a testimonianze di una tradizione musicale arcaica, in cui è possibile individuare procedure e attitudini diafoniche simili e condivise. L’ultima parte dell’indagine espone alcune riflessioni emerse dal confronto tra le forme diafoniche analizzate e repertori polifonici conservati nella tradizione scritta, prendendo come punto di partenza gli studi di Nino Pirrotta: ne emergono considerazioni per l’individuazione e l’analisi di possibili comuni occorrenze all’interno di pratiche performative localmente convergenti, pur se subordinate a modi di trasmissione diversi (tradizione scritta e non scritta della musica).

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In the Nineties year in the German Studies’ area appears a new reflection around the theatrical chorus thank to the activity of theatrical personalities as Heiner Müller, Einar Schleef, Elfriede Jelinek or Christoph Marthaler. So Hans Thies Lehmann, in his compendium about the Postdramatic Theater (Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 1999) advances the new category of the Chortheater (Chor Theatre) to explain e new form of drama and performative event; again in 1999 appear the important essay of Detlev Baur (Detlev Baur, Der Chor im Theater des 20. Jahrhunderts. Typologie des theatralen Mittels Chor, Niemeyer, Tübingen 1999), that gives an important device about this instrument but without giving the reasons of the its modifications in such different historical times. Then in 2004, Erika Fischer-Lichte, (Theatre, Sacrifice, Ritual. Exploring Forms of Political Theatre, Routledge, London-New York 2005), reflects about the connection between ritual and theatre in the 20th Century. Thank to this studies the search aim was to give a new story of the chorus as theatrical and performative tool, in his liminal essence in creating immersive or alienating theatrical relation with the audience and to give specific features to distinguish it from general categories such as choral theatre o ensemble theatre.

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Il fulcro tematico e concettuale della tesi consiste nel rapporto complesso, paradossale e spesso anche controverso esistente fra il teatro e la performance (art) – e cioè il rapporto fra i concetti di “teatralità” e di “performatività”. L’attenzione è posta su quelle correnti nelle arti performative contemporanee che tendono allo scioglimento delle nozioni di genere, disciplina, tecnica e autorialità e che mettono in questione lo status stesso dell’opera performativa (lo spettacolo) in quanto prodotto esclusivamente estetico, cioè spettacolare. Vengono esaminate – prelevando rispettivamente dal campo del teatro, della danza e della performance art – le pratiche di Jerzy Grotowski e Thomas Richards, Jérôme Bel e Marina Abramović. Quello che accomuna queste pratiche ben diverse tra loro non è soltanto la problematica del rapporto fra teatralità e performatività ma soprattutto l’aspetto particolarmente radicale e assiduo (e anche paradossale) del loro doppio sforzo, che consiste nello spingere la propria disciplina oltre ogni confine prestabilito e nello stesso tempo nel cercare di ri-definire i suoi codici fondanti e lo statuto ontologico che la distinguerebbero dalle altre discipline performative. Sono esaminate anche diverse teorizzazioni della performance con particolare attenzione a quei contributi che mettono in luce (e in questione) il delicato rapporto fra il teatro e la performance (art) attraverso una (ri)concettualizzazione e comparazione dei termini di teatralità e di performatività. La tesi esamina l’evoluzione della comprensione di quel rapporto all’interno del campo teorico-storico e artistico che inizialmente riflette la tendenza a percepire il rapporto in termini di opposizione e addirittura esclusione per approdare col tempo a una visione più riconciliante e complementare. Le radicali pratiche contemporanee fra il teatro e la performance rappresentano forse una nuova forma-processo performativa specifica e autonoma – che potrebbe essere definita tout court “performance” – e con cui viene definitivamente superato il progetto teatrale modernista?

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La crisi del “teatro come servizio pubblico” degli Stabili, Piccolo Teatro in testa, si manifesta allo stadio di insoddisfazione interna già alla fine degli anni Cinquanta. Se dal punto di vista della pratica scenica, la prima faglia di rottura è pressoché unanimemente ricondotta alla comparsa delle primissime messe in scena –discusse, irritanti e provocatorie- di Carmelo Bene e Quartucci (1959-60) più difficile è individuare il corrispettivo di un critico-intellettuale apportatore di una altrettanto deflagrante rottura. I nomi di Arbasino e di Flaiano sono, in questo caso, i primi che vengono alla mente, ma, seppure portatori di una critica sensibile al “teatro ufficiale”, così come viene ribattezzato dopo il Convegno di Ivrea (1967) il modello attuato dagli Stabili, essi non possono, a ben vedere, essere considerati i veri promotori di una modalità differente di fare critica che, a partire da quel Convegno, si accompagnerà stabilmente alla ricerca scenica del Nuovo Teatro. Ma in cosa consiste, allora, questa nuova “operatività” critica? Si tratta principalmente di una modalità capace di operare alle soglie della scrittura, abbracciando una progressiva, ma costante fuoriuscita dalla redazione di cronache teatrali, per ripensare radicalmente la propria attività in nuovi spazi operativi quali le riviste e l’editoria di settore, un rapporto sempre più stretto con i mass-media quali radio e televisione e la pratica organizzativa di momenti spettacolari e teorici al contempo -festival, convegni, rassegne e premi- per una forma di partecipazione poi identificata come “sporcarsi le mani”. La seconda parte della tesi è una raccolta documentaria sull’oggi. A partire dal Manifesto dei Critici Impuri redatto nel 2003 a Prato da un gruppo di critici dell'ultima generazione, la tesi utilizza quella dichiarazione come punto di partenza per creare un piccolo archivio sull’oggi raccogliendo le elaborazioni di alcune delle esperienze più significative di questi dieci anni. Ricca appendice di materiali.

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Attraverso un excursus storico, teorico e metodologico, questa tesi di dottorato analizza la nascita, gli sviluppi e l’attuale dimensione costitutivo-identitaria dei Performance Studies, un ambito di ricerca accademica che, nato negli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta, ha sempre palesato una natura restia nei confronti di qualunque tentativo definitorio. Se i Performance Studies concepiscono la performance sia come oggetto d’analisi sia come lente metodologica, e se, come evidenziato da Richard Schechner, praticamente tutto può essere “elevato a performance” e quindi indagato secondo le categorie analitiche di questa disciplina, ecco allora che, con uno slittamento transitivo e “meta-metodologico”, questa ricerca dottorale ha scelto come proprio oggetto di studio i Performance Studies stessi, osservandoli “as performance” e avvalendosi degli strumenti metodologici suggeriti dal suo stesso oggetto d’analisi. Questo lavoro indaga come l’oggetto di studio dei Performance Studies sia, seguendo la teoria schechneriana, il “behaved behavior”, e dunque come di conseguenza, il repertorio, prima ancora che l’archivio, possa essere considerato il fedele custode delle “pratiche incorporate”. Soffermandosi su esempi di “reenactment” performativo come quelli messi in atto da Marina Abramović e Clifford Owens, così come sui tentativi condotti dalla sezione dell’Intangible Cultural Heritage dell’UNESCO, suggerisce validi esempi di “archiviazione” della performance. L’elaborato prende poi in esame casi che esemplificano la proficua identificazione tra “studiare performance” e “fare performance”, sottolinea il ruolo cruciale e imprenscindibile determinato dal lavoro di ricerca sul campo inteso come “osservazione partecipante”, ed evidenzia il costante coinvolgimento sociale e politico assunto dai Performance Studies. Questa dissertazione affronta e supporta l’efficacia dei Performance Studies nel proporsi come uno strumento innovativo in grado di analizzare un mondo sempre più performativo nelle sue dinamiche. La loro natura tanto interdisciplinare quanto interculturale sembra farne una lente adeguata attraverso cui promuovere livelli diversi di performance dialogica tra culture localmente distinte ma globalmente assimilabili.

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L'inno dedicato ai sette Amesha Spəṇta è parte della produzione avestica recenziore, e si compone in gran parte di porzioni testuali riprese da altri testi avestici a loro volta di formazione tardiva. Lo Yašt si divide in tre parti principali: le stanze 0-10; 11-14; e infine la stanza 15 che comprende la formula di chiusura tipica degli inni avestici. La prima sezione (2.0-10) è composta dalla formula di apertura, incompleta rispetto a quelle dei restanti inni, seguita dai primi sette capitoli di entrambi i Sīh-rōzag compresi i Gāh. Le stanze centrali (11-14) si caratterizzano per l'assenza di passi gemelli, un elevato numero di hapax e di arcaismi formali e inoltre, una grande variabilità nella tradizione manoscritta. Si tratta di una formula magica per esorcizzare/allontanare demoni e stregoni, che doveva essere recitata per sette volte. Tale formula probabilmente rappresentava in origine un testo autonomo che veniva recitato assieme ad altri testi avestici. La versione a noi pervenuta comprende la recitazione di parte di entrambi i Sīh-rōzag, ma è molto probabile che tale arrangement sia soltanto una sequenza recitativa che doveva coesistere assieme ad altre. Attualmente la formula magica viene recitata principalmente assieme allo Yasna Haptaŋhāiti, senza le restanti stanze dell'inno nella sua versione geldneriana. Il testo sembra nascere come formula magica la quale venne recitata assieme a diversi testi avestici come per esempio parti dello Sīh-rōzag. In un periodo impossibile da stabilire con certezza la versione viene fissata nella forma a noi pervenuta nella maggior parte dei manoscritti e per la sua affinità formale probabilmente interpretato come inno e perciò incluso nell'innario avestico.

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L’elaborato propone una riflessione rispetto all’atto giuridico del consenso informato quale strumento garante dell’esercizio del diritto alla salute per i migranti. Attraverso una riflessione antropologica rispetto alla natura, alla costruzione e alla logica dei diritti universali, verranno analizzate le normative nazionali, europee ed internazionali a tutela del diritto alla salute per i migranti; l’obiettivo della ricerca è indagare l’eventuale scarto tra normative e politiche garantiste nei confronti della salute migrante e l’esistenza di barriere strutturali che impediscono un pieno esercizio del diritto alla salute. L’ipotesi di ricerca si basa sulla reale capacità performativa del consenso informato, proposto solitamente sia come strumento volto ad assicurare la piena professionalità dell’operatore sanitario nell’informare il paziente circa i rischi e i benefici di un determinato trattamento sanitario, sia come garante del principio di autonomia. La ricerca, attraverso un’analisi quanti-qualitativa, ha interrogato il proprio campo, rappresentato da un reparto di ginecologia ed ostetrica, rispetto alle modalità pratiche di porre in essere la firma nei moduli del consenso informato, con particolare attenzione alle specificità proprie delle pazienti migranti. Attraverso l’osservazione partecipante è stato quindi possibile riflettere su aspetti rilevanti, quali le dinamiche quotidiane che vengono a crearsi tra personale sanitario e pazienti, le caratteristiche e i limiti del servizio di mediazione sanitaria, le azioni pratiche della medicina difensiva. In questo senso il tema del “consenso informato”, indagato facendo interagire discipline quali l’antropologia, la bioetica, la filosofia e la sociologia, si è posto sia come lente di lettura privilegiata per comprendere le dinamiche relazionali ad oggi esistenti tra professionisti sanitari e popolazione migrante, ancora vittima di diseguaglianze strutturali, ma altresì come “innesco potenziale” di nuove modalità di intendere la relazione medico-paziente.

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In questa tesi viene presentata una ricerca di campo che si configura come esempio di un’antropologia applicata alle dinamiche lavorative all’interno di un’azienda ICT italiana. Fulcro della trattazione è la riflessione sui diversi aspetti di un’analisi antropologica del clima aziendale, condotta sulla base di una rilevazione dei processi lavorativi presso una società italiana specializzata in progetti di digital marketing. Il lavoro associato alle tecnologie di ultima generazione non è impersonale o dettato soltanto da regole esterne, ma piuttosto un lavoro dal forte carattere rituale, sociale, morale e performativo, dove soggetti, ruoli, idee, scelte e problematiche si intrecciano secondo modalità uniche ed irripetibili, rintracciabili anche attraverso l’etnografia. E’ dunque necessario dare visibilità al ruolo attivo dei lavoratori nel loro essere contemporaneamente individui e soggetti che lavorano. Partendo da una riflessione su lavoro e tecnologia all’interno di un quadro interdisciplinare che vede coinvolte - insieme all’antropologia - la sociologia, l’economia e la storia, ci si sofferma sulle potenzialità dell’antropologia del lavoro. Dopo aver ripercorso tutti i passi della ricerca di campo presso l’azienda, viene condivisa una più ampia considerazione sul ruolo dell’antropologia applicata al lavoro in contesti aziendali. Infine l’esperienza di antropologa in azienda viene posta a confronto con un’altra attività svolta dalla stessa autrice in ambito accademico nel campo dell’antropologia dell’educazione. Gli studi presi in considerazione e le esperienze concrete offrono la possibilità di affrontare il tema dell’antropologia del lavoro all’interno di una più vasta riflessione sulla necessità di sviluppare un’antropologia applicata in Italia. Essa non occupa ancora un posto rilevante nello scenario della vita pubblica, ma molti sono gli sforzi che si stanno compiendo in questa direzione. Uno sguardo positivo verso il futuro e la consapevolezza di un’antropologia che è insieme azione, impegno, partecipazione e sperimentazione etnografica concludono la tesi.

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This study seeks to address a gap in the study of nonviolent action. The gap relates to the question of how nonviolence is performed, as opposed to the meaning or impact of nonviolent politics. The dissertation approaches the history of nonviolent protest in South Asia through the lens of performance studies. Such a shift allows for concepts such as performativity and theatricality to be tested in terms of their applicability and relevance to contemporary political and philosophical questions. It also allows for a different perspective on the historiography of nonviolent protest. Using concepts, modes of analysis and tropes of thinking from the emerging field of performance studies, the dissertation analyses two different cases of nonviolent protest, asking how politics is performatively constituted. The first two sections of this study set out the parameters of the key terms of the dissertation: nonviolence and performativity, by tracing their genealogies and legacies as terms. These histories are then located as an intersection in the founding of the nonviolent. The case studies at the analytical core of the dissertation are: fasting as a method in Gandhi's political arsenal, and the army of nonviolent soldiers in the North-West Frontier Province, known as the Khudai Khidmatgar. The study begins with an overview of current theorisations of nonviolence. The approach to the subject is through an investigation of commonly held misconceptions about nonviolent action, such as its supposed passivity, the absence of violence, its ineffectiveness and its spiritual basis. This section addresses the lacunae within existing theories of nonviolence and points to possible fertile spaces for further exploration. Section 3 offers an overview of the different shades of the concept of performativity, asking how it is used in various contexts and how these different nuances can be viewed in relation to each other. The dissertation explores how a theory of performativity may be correlated to the theorisation of nonviolence. The correlations are established in four boundary areas: action/inaction, violence/absence of violence, the actor/opponent and the body/spirit. These boundary areas allow for a theorising of nonviolent action as a performative process. The first case study is Gandhi's use of the fast as a method of nonviolent protest. Using a close reading of his own writings, speeches and letters, as well as a reading of responses to his fast in British newspapers and within India, the dissertation asks what made fasting into Gandhi's most favoured mode of protest and political action. The study reconstructs his unique praxis of the fast from a performative perspective, demonstrating how display and ostentation are vital to the political economy of the fast. It also unveils the cultural context and historical reservoir of body practices, which Gandhi drew from and adapted into 'weapons' of political action. The relationship of Gandhian nonviolence to the body forms a crucial part of the analysis. The second case study is the nonviolent army of the Pashtuns, Khudai Khidmatgar (KK), literally Servants of God. This anti-imperialist movement in the North-West Frontier Province of what is today the border between Pakistan and Afghanistan existed between 1929 and 1948. The movement adopted the organisational form of an army. It conducted protest activities against colonial rule, as well as social reform activities for the Pashtuns. This group was connected to the Congress party of Gandhi, but the dissertation argues that their conceptualisation and praxis of nonviolence emerged from a very different tradition and worldview. Following a brief introduction to the socio-political background of this Pashtun movement, the dissertation explores the activities that this nonviolent army engaged in, looking at their unique understanding of the militancy of an unarmed force, and their mode of combat and confrontation. Of particular interest to the analysis is the way the KK re-combined and mixed what appear to be contradictory ideologies and acts. In doing so, they reframed cultural and historical stereotypes of the Pashtuns as a martial race, juxtaposing the institutional form of the army with a nonviolent praxis based on Islamic principles and social reform. The example of the Khudai Khidmatgar is used to explore the idea that nonviolence is not the opposite of violent conflict, but in fact a dialectical engagement and response to violence. Section 5, in conclusion, returns to the boundary areas of nonviolence: action, violence, the opponent and the body, and re-visits these areas on a comparative note, bringing together elements from Gandhi's fasts and the practices of the KK. The similarities and differences in the two examples are assessed and contextualised in relation to the guiding question of this study, namely the question of the performativity of nonviolent action.