980 resultados para Arte moderna - Séc. XXI - Séc. XXI


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ACQUE E NAVIGAZIONE UN NUOVO MUSEO DELLE ACQUE E DELLA NAVIGAZIONE A RAVENNA L’immagine dell’acqua a Ravenna fa riscoprire una storia della città fatta di corsi e specchi d’acqua. Questi, a causa del tempo e dell’opera dell’uomo scomparvero o mutarono profondamente la loro conformazione. L’importanza quindi dello studio di come questa città abbia convissuto negli anni con l’acqua e come l’uomo si sia adattato a queste condizioni è notevole. Ora Ravenna è una citta di “terra”, collegata al mare solo tramite il canale Candiano, le attività e la vita dell’uomo si sono staccate dall’acqua e nel tempo il mare è diventato solo una “vicinanza” perdendo tutto quel fascino e quell’importanza che possedeva nei secoli precedenti. Tra i tanti aspetti del legame passato tra l’uomo e l’acqua, l’imbarcazione risulta il mezzo più tipico e caratterizzante. Grazie a tanti studi fino ad ora compiuti è possibile ricostruire una catalogazione delle imbarcazioni che hanno fatto parte della storia acquatica di Ravenna e che quindi hanno composto la sua storia. L’imbarcazione costituisce una memoria storica e tecnica, essa riflette i cambiamenti storici e tecnico-evolutivi della civiltà delle acque. L’evoluzione delle barche è delle navi è progredita di pari passo con i cambiamenti delle esigenze dell’uomo, fin dall’antichità. Una rappresentazione tra imbarcazione, storia dell'uomo e geomorfologia della acque a Ravenna fa sì che l’argomento ricopra ambiti generali sull’intera civiltà che ha popolato il ravennate. Il museo delle acque a Ravenna vuole essere perciò un percorso nel passato della città, alla scoperta dell’antico legame con l’acqua, legame che forse ormai è stato dimenticato e di cui a volte si ignora l’esistenza. Questo non comporta il forzare un legame ormai abbandonato, ma un rivivere i momenti che hanno caratterizzato la crescita della città fino allo stato attuale. Questo museo mira a integrare il cospicuo patrimonio storico museale di Ravenna andando a colmare una mancanza da me ritenuta importante, appunto una memoria storica delle vita acquatica della città e dei propri abitanti nel tempo. Il tema museale studiato e analizzato verterà su un percorso nella storia della navigazione e del legame che Ravenna ebbe con l’acqua fin dalle sue origini. Questo importante tema prevederà l’esposizione di importanti relitti navali e ritrovamenti storici per i quali sarà obbligatoria l’organizzazione di appositi spazi espositivi per un’ottima conservazione. L’edificio appare come un rigido corpo all’esterno, rivestito in pietra basaltica grigia con tonalità diverse, mentre dal lato del canale risulta notevolmente più aperto, con un lungo porticato in affaccio diretto sull’acqua che segue tutta la forma del l’edificio stesso e che si interrompe solo in prossimità della grande hall d’ingresso in vetro e acciaio. Queste caratteristiche permettono di creare due facce completamente diverse, una molto chiusa e una invece molto aperta, per enfatizzare il senso di scoperta del “mondo acqua” al momento dell’ingresso nell’edificio. Due realtà molto diverse tra loro. Il lato, che affaccia sulla nuova piazza creata all’interno dell’area, rivestito in pietra basaltica grigia, rende una sensazione di chiusura fisica, creata appositamente per stimolare la scoperta dell’acqua sul lato opposto. La facciata è rotta in maniera irregolare da feritoie, quasi come una enorme roccia sull’acqua, sul riferimento del MuMok, il Museo di Arte Moderna Fondazione Ludwig di Ortner & Ortner aVienna.

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Questo lavoro nasce principalmente da un legame affettivo e di parentela che mi lega alla figura di Mario Giacomelli e alla sua grande opera di fotografo che lo ha portato a raggiungere un ruolo fondamentale nella storia della fotografia contemporanea. Ricordo che sin da quando ero bambino rimanevo affascinato dalle sue opere, da quei paesaggi fotografati in bianco e nero, da quelle sagome dei pretini che sembrano danzare nel vuoto, il tutto però senza capire la vera importanza di quello che avevo davanti ai miei occhi e ignorando completamente tutto l’interesse, le critiche e i dibattiti che quegli scatti accendevano in quegli anni, al punto di venire addirittura esposti in quello che si può definire il museo di arte moderna per antonomasia, ovvero il MoMa, in fondo per me non era altro che uno zio. Il ricordo mi porta nella sua piccola e buia Tipografia Marchigiana, in pieno centro storico a Senigallia, proprio dietro il Municipio, dove lo trovavo sempre indaffarato con timbri, foto e oggetti di ogni tipo, sommerso in un caos primordiale. È incredibile pensare come in quel minuscolo negozio siano passati tutti i più grandi personaggi della fotografia italiana, quali Giuseppe Cavalli, Ferruccio Ferroni, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna; dietro quella facciata di piccola bottega si nascondeva un universo parallelo che entrava in contatto con le più importanti gallerie e musei di arte contemporanea del mondo. Oggi al suo posto c’è una Parrucchieria. Molte cose sono cambiate, io ho capito, aimè in ritardo, l’importanza del personaggio che ho avuto la fortuna di conoscere e di avere come parente. La città stessa si è accorta solo dopo la morte, come spesso accade, di quale formidabile artista ha cresciuto, un artista che è sempre rimasto fedele alla sua terra di origine, che ha rappresentato una fonte inesauribile di spunti per la sua opera fotografica. A quel punto si è scatenato un turbinio di conferenze, mostre e pubblicazioni sul lavoro di Giacomelli, tanto che sarebbe rimasto impossibile a chiunque non capire il peso che questa figura ha ancora oggi per la città. Proprio lo scorso Novembre è ricorso il decennale della sua scomparsa e in questa occasione si è dato il via ad una infinita serie di iniziative, mostre, conferenze e pubblicazioni dedicate alla figura del fotografo senigalliese, ribadendo la necessità per la città di dotarsi di uno spazio idoneo ad ospitare questi eventi. In una recente intervista condotta dal quotidiano Il Resto del Carlino, Simone Giacomelli, figlio del fotografo, ha sottolineato l’urgenza della creazione di uno spazio dedicato alle fotografie del padre “Io lavoro molto con l'estero e sono in contatto con appassionati che arrivano da tutto il mondo per ammirare le foto di Giacomelli. C'è un gruppo di studenti che mi ha contattato dall'Australia. Ho dovuto dire di aspettare perché in città c'è una raccolta di foto al Museo mezzadria ed una parte al Museo dell'informazione. Manca un luogo dove si possa invece vedere tutta la produzione.”. Con queste premesse il progetto per un Centro Internazionale della Fotografia non poteva che essere a Senigallia, non tanto per il fatto di essere la mia città, alla quale sono molto legato, quanto per l’essere stata la culla di un grande artista quale Mario Giacomelli, dalla quale non si è mai voluto allontanare e che ha rappresentato per lui la fonte di ispirazione di quasi tutte le sue opere. Possiamo dire che grazie a questo personaggio, Senigallia è diventata la città della Fotografia, in quanto non passa settimana senza che non venga presentata una nuova iniziativa in ambito fotografico e non vengano organizzate mostre di fotografi di calibro internazionale quali Henri Cartier Bresson, Ara Guler, etc… Ecco quindi motivato il titolo di Internazionale attribuito al museo, in quanto da questo cuore pulsante si dovranno creare una serie di diramazioni che andranno a collegare tutti i principali centri di fotografia mondiali, favorendo lo scambio culturale e il dibattito. Senigallia è una città di modeste dimensioni sulla costa adriatica, una città dalle grandi potenzialità e che fa del turismo sia balneare che culturale i suoi punti di forza. La progettazione di questa sede museale mi ha permesso di affrontare e approfondire lo studio storico della città nella sua evoluzione. Da questa analisi è emerso un caso molto particolare ed interessante, quello di Piazza Simoncelli, un vuoto urbano che si presenta come una vera e propria lacerazione del tessuto cittadino. La piazza infatti è stata sede fino al 1894 di uno dei quattro lotti del ghetto ebraico. Cambia quindi il ruolo del sito. Ma la mancata capacità aggregativa di questo vuoto, data anche dal fatto della mancanza di un edificio rappresentativo, ne muta il ruolo in parcheggio. E’ la storia di molti ghetti italiani inseriti in piani di risanamento che vedevano la presenza del costruito antecedente, come anomalia da sanare. E’ la storia del ghetto di Roma o di quello di Firenze, che sorgeva nel luogo dell’attuale Piazza della Repubblica. Tutti sventrati senza motivazioni diverse che non la fatiscenza dell’aggregato. A Senigallia il risultato è stato una vera e propria lacerazione del tessuto urbano, giungendo alla produzione di un vuoto oppositivo al resto della città, che ha portato la perdita della continuità spaziale, se non si vuole poi far riferimento a quella culturale. Il mio intervento quindi vede nel legame con la storia e con l’identità del luogo un punto fondamentale di partenza. Da queste basi ho cercato di sviluppare un progetto che ha come presupposto il forte legame con la memoria del luogo e con le architetture locali. Un progetto che possa rappresentare un polo culturale, un cuore pulsante dove poter sviluppare e approfondire le conoscenze fotografiche, dal quale poter entrare in contatto con tutti i principali centri dedicati alla fotografia e nel quale poter tenere sempre vivo il ricordo di uno dei più importanti artisti che la città ha avuto la fortuna di crescere.

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La tesi ha come oggetto lo studio dei legami culturali posti in essere tra la Russia e l’Italia nel Settecento effettuato a partire dall’analisi del teatro di Arkhangelskoe (nei pressi di Mosca), ideato da Pietro Gonzaga. Ciò ha consentito di inquadrare l’atmosfera culturale del periodo neoclassico a partire da un’angolazione insolita: il monumento in questione, a dispetto della scarsa considerazione di cui gode all’interno degli studi di storia dell’arte, racchiude diverse ed interessanti problematiche artistiche. Queste ultime sono state tenute in debito conto nel processo dell’organizzazione della struttura del lavoro in relazione ai differenti livelli di analisi emersi in riferimento alla tematica scelta. Ogni capitolo rappresenta un punto di partenza che va utilizzato al fine di approfondire problematiche relative all’arte ed al teatro nei due Paesi, il tutto reso possibile grazie all’applicazione di un originale orientamento analitico. All’interno della tesi vengono infatti adoperati approcci e tecniche metodologiche che vanno dalla storia dell’arte all’analisi diretta dei monumenti, dall’interpretazione iconografica alla semiotica, per arrivare agli studi sociologici. Ciò alla fine ha consentito di rielaborare il materiale già noto e ampiamente studiato in modo convincente ed efficace, grazie al ragionamento sintetico adottato e alla possibilità di costruire paralleli letterari e artistici, frutto delle ricerche svolte nei diversi contesti. Il punto focale della tesi è rappresentato dalla figura di Pietro Gonzaga. Tra i decoratori e gli scenografi italiani attivi presso la corte russa tra il Settecento e l’Ottocento, questi è stato senza dubbio la figura più rilevante ed affascinante, in grado di lasciare una ricca eredità culturale e materiale nell’ambito dell’arte scenografica russa. Dimenticata per lungo tempo, l’opera di Pietro Gonzaga è attualmente oggetto di una certa riconsiderazione critica, suscitando curiosità e interesse da più parti. Guidando la ricerca su di un duplice binario, sia artistico che interculturale, si è quindi cercato di trovare alcune risonanze tra l’arte ed il pensiero di Gonzaga ed altre figure di rilievo non solo del suo secolo ma anche del Novecento, periodo in cui la cultura scenografica russa è riuscita ad affrancarsi dai dettami impartiti dalla lezione settecentesca, seguendo nuove ed originali strade espressive. In questo contesto spicca, ad esempio, la figura di Vsevolod Meyerchold, regista teatrale (uno dei protagonisti dell’ultimo capitolo della tesi) che ha instaurato un legame del tutto originale con i principi della visione scenica comunicati da Pietro Gonzaga. Lo sviluppo dell’argomento scelto ha richiesto di assumere una certa responsabilità critica, basandosi sulla personale sicurezza metodologica ed esperienza multidisciplinare al fine di tener conto dall’architettura, della teoria e della pratica teatrale – dalla conoscenza delle fonti fino agli studi del repertorio teatrale, delle specifiche artistiche locali, del contesto sociale dei due paesi a cavallo tra il ‘700 e l’‘800. Le problematiche toccate nella tesi (tra le quali si ricordano il ruolo specifico rivestito dal committente, le caratteristiche proprie della villa neoclassica russa, il fenomeno di ‘spettacoli muti’, la “teatralità” presente nel comportamento dei russi nell’epoca dei Lumi, la risonanza delle teorie italiane all’interno del arte russa) sono di chiara attualità per quanto concerne le ricerche relative al dialogo storico-artistico tra i due Paesi.

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Analysis and description of the furniture shown on Italian portraits from the late eighteenth century to the period of the Restoration. We have studied real examples of environments still exist with their furniture, chairs, mirrors, lamps, etc. in different areas of Italy. All this to explain the refined taste and cosmopolitan of the characters painted in the portraits, that for this reason they were considered fashionable

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La tesi si occupa del rapporto tra il Maestro di Ozieri e la produzione figurativa in Sardegna nella prima metà del Cinquecento. Studia l'uso delle incisioni. Valuta l'influenza della pittura romana e meridionale. Riflette sulla possibile identità straniera del pittore, sulla base delle molte somiglianze con artisti tedeschi e fiamminghi. Si occupa di comprendere quali possano essere considerate le opere autografe e quali quelle eseguite da seguaci e imitatori. Riformula alla luce dei confronti stilistici e delle ricerche in archivio la personalità dell'artista e la sua collocazione cronologica.

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La maiolica di Castelli d’Abruzzo si distingue per aspetti di forte originalità e per l’alta qualità dei manufatti realizzati. Le ricerche che qui vengono presentate sono state condotte su differenti aspetti della produzione ceramica di Castelli e sono rivolte a completare le conoscenze su alcuni aspetti specifici, cercando di superare la visione settoriale che ha caratterizzato talvolta gli studi sull’argomento. L’indagine è orientata a far emergere alcuni tratti distintivi della produzione in maiolica istoriata, un genere in cui le manifatture castellane guadagnarono un primato assoluto in Italia nel corso dei secoli XVII e XVIII.

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Oggetto della ricerca è il museo Wilhelm Lehmbruck di Duisburg, un'opera dell'architetto Manfred Lehmbruck, progettata e realizzata tra il 1957 e il 1964. Questa architettura, che ospita la produzione artistica del noto scultore Wilhelm Lehmbruck, padre di Manfred, è tra i primi musei edificati ex novo nella Repubblica Federale Tedesca dopo la seconda guerra mondiale. Il mito di Wilhelm Lehmbruck, costruito negli anni per donare una identità culturale alla città industriale di Duisburg, si rinvigorì nel secondo dopoguerra in seno ad una più generale tendenza sorta nella Repubblica di Bonn verso la rivalutazione dell'arte moderna, dichiarata “degenerata” dal nazionalsocialismo. Ricollegarsi all'arte e all'architettura moderna degli anni venti era in quel momento funzionale al ridisegno di un volto nuovo e democratico del giovane stato tedesco, che cercava legittimazione proclamandosi erede della mitica e gloriosa Repubblica di Weimar. Dopo anni di dibattiti sulla ricostruzione, l'architettura del neues Bauen sembrava l'unico modo in cui la Repubblica Federale potesse presentarsi al mondo, anche se la realtà del paese era assai più complessa e svelava il “doppio volto” che connotò questo stato a partire dal 1945. Le numerose dicotomie che popolarono presto la tabula rasa nata dalle ceneri del conflitto (memoria/oblio, tradizione/modernità, continuità/discontinuità con il recente e infausto passato) trovano espressione nella storia e nella particolare architettura del museo di Duisburg, che può essere quindi interpretato come un'opera paradigmatica per comprendere la nuova identità della Repubblica Federale, un'identità che la rese capace di risorgere dopo l' “anno zero”, ricercando nel miracolo economico uno strumento di redenzione da un passato vergognoso, che doveva essere taciuto, dimenticato, lasciato alle spalle.

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Questa ricerca ha l’obiettivo di dare nuovi contributi alla conoscenza della pittura di paesaggio francese nell’Ottocento attraverso lo studio dell’opera di Paul Flandrin (1811-1902). Flandrin si colloca al crocevia di esperienze fondamentali nella ricerca artistica di metà Ottocento: l’eredità di Camille Corot, l’insegnamento di Jean-Auguste Dominique Ingres, la pratica del lavoro en plein air, la tradizione del paesaggio neoclassico. Il corpus di opere del pittore lionese Paul Flandrin (1811-1902) ricostruito in questa tesi è frutto di una sistematica operazione di ricerca sul campo e viene in seguito analizzato alla luce dei recenti studi sulla pittura di paesaggio neoclassico in Francia nel XIX secolo. La ricerca si fonda su una grande quantità di materiale inedito: dipinti, disegni, taccuini di studio en plein air, corrispondenza con colleghi e amici. Da questa ricerca la fisionomia artistica di Paul Flandrin emerge ben individuata singolarmente e al tempo stesso ancorata al contesto storico-artistico attraverso le relazioni con i colleghi, l’utilizzo di determinate tecniche, la frequentazione di mete comuni ai paesaggisti suoi contemporanei, la decisa presa di posizione a favore del paesaggio neoclassico.

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La tesi riguarda il miniatore Giulio Clovio (Grižane, Croazia, 1498 – Roma, 1578), considerandolo come il fulcro di una rete di relazioni tra committenti, artisti e letterati. È divisa in tre parti, seguendo la vita dell’artista: giovinezza (1498-1534), maturità (1534-1561) e vecchiaia (1561-1578). Tra i committenti più significativi: Domenico e Marino Grimani e il cardinale Alessandro Farnese. Tra gli artisti italiani: Giulio Romano, Girolamo dai Libri, Valerio Belli, Sofonisba Anguissola. Tra gli artisti europei: Francisco de Hollanda, Pieter Brueghel il Vecchio, Bartholomeus Sprangher, El Greco e Lampsonio.

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Agostino Mitelli (1609-1660) è una figura centrale nella vicenda artistica bolognese. Rinnova profondamente la quadratura, genere in cui opera maggiormente, e diventa il principale riferimento per le generazioni successive. Infatti ha un grande numero di allievi che si fanno interpreti del suo stile e le sue opere continuano ad essere studiate fino a Settecento inoltrato. Nel suo lavoro accorda una grande importanza al mezzo grafico, in cui eccelle e che considera strumento di verifica ed esercizio. Questa predilezione influenza anche i suoi seguaci: dopo la sua morte i suoi disegni diventano molto ricercati e vengono impiegati come repertori di soluzioni di quadratura ed elementi decorativi. Sono essi stessi strumento di studio e infatti ci è pervenuto un grande numero di copie ed esercizi in stile mitelliano. L'analisi sistematica di questo materiale anonimo e poco studiato mi ha permesso di individuare alcune delle personalità di maggiore spicco tra i suoi seguaci, quali Domenico Santi, Giacomo Antonio Mannini e Marc'Antonio Chiarini. Per valutare l'influenza dell'opera di Agostino presso le generazioni successive è centrale anche la produzione calcografica che analizzo a partire dalle quattro serie di elementi di ornato che egli stesso dà alle stampe e che riscuotono molto successo, come provano le numerose ristampe, anche francesi. Dopo la sua morte vengono incise diverse imprese che si riallacciano al suo operato: la prima è quella del figlio Giuseppe Maria Mitelli che pubblica alcuni suoi disegni. Seguono le serie di Santi, Buffagnotti, Mannini, Chiarini e diversi altri che comprendono anche quadratura e veduta e che spesso sono state riassemblate da editori e collezionisti. Anche le fonti affrontano la questione della dipendenza delle successive generazioni dagli stilemi di Agostino Mitelli, oltre a quelle a stampa ho studiato approfonditamente i manoscritti inediti dell'altro figlio di Agostino, Giovanni Mitelli, che forniscono molte nuove notizie.

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Il progetto si concentra sull’analisi ed il commento del libro dei conti di Lorenzo Lotto. Esso viene conservato nell’Archivio storico della Santa Casa di Loreto, ed è meglio conosciuto con il nome apocrifo di Libro di spese diverse. Possiamo considerarlo uno dei più significativi documenti del Rinascimento italiano: infatti esso ci parla dei rapporti che l’artista ha intessuto con committenti, colleghi ed amici, rivelando tanto la sua condotta di vita che la sua attività. È una ricerca che tenta di concentrarsi sull’artista attraverso una lettura più corretta di questa fonte: infatti in passato il Libro di spese diverse era considerato un diario e studiato attraverso una visione non consona al genere di riferimento.

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Neste artigo procuro apresentar o poeta, escritor e pensador brasileiro Oswald de Andrade e a influência deste no nascimento e desenvolvimento do pensamento antropofágico. Pensamento teórico que tendo raiz na cultura indígena e no ritual de deglutição dos inimigos pela tribo dos Tupinambás, extrapola as fronteiras da sua acção prática para desaguar, após sucessivos desenvolvimentos teóricos, no ano de 1922, na irreverência do movimento modernista da Semana de Arte Moderna de São Paulo. Nascida sob a tónica do pensamento crítico e da reflexão social e cultural, propõe a metamorfose da cultura estrangeira e a reestruturação dos processos artísticos. Ao estudo da antropofagia, enquanto pensamento/conceito teórico optei por acoplar o conceito de tradução cultural. Duas estruturas de análise socioculturais que em comunhão funcionam como contributo efectivo ao reconhecimento e compreensão das particularidades que definem o (re)posicionamento multi e intercultural das sociedades pós-colonialistas e pós-modernas. Apreender o sentido teórico combinado de antropofagia e tradução cultural é pois reverenciar a figura, pensamento e vivência de Oswald de Andrade. Mais do que aprofundar a biografia do autor, este artigo visa apresentar um encontro teórico: antropofagia, tradução cultural e (re)posicionamento multi e intercultural – conceitos indispensáveis ao reconhecimento das sociedades contemporâneas.

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David Santos é cara conhecida de muitos de nós, tendo feito notícia a sua demissão do Museu do Chiado em Julho de 2015, cargo que ocupava desde 2013. Foi ainda director do Museu do Neo-Realismo (Vila Franca de Xira). É Historiador de arte e curador de arte moderna e contemporânea, sendo doutorado em Arte Contemporânea pela Universidade de Coimbra, mestre em História Política e Social, pela Universidade Lusófona, pós-graduado em História da Arte e licenciado em História, na variante de História de Arte, pela Universidade Nova de Lisboa. Mas é como subdirector da Direcção-Geral do Património Cultural (DGPC), com responsabilidades atribuídas na área dos museus, cargo que ocupa desde Fevereiro de 2016, que nos concedeu esta entrevista. Ainda sem uma estratégia tornada pública que estabeleça orientações e metas para a política museológica a ser seguida, David Santos destaca, no entanto, uma das prioridades da DGPC para o campo dos museus e do património: uma “verdadeira” democratização do acesso. Como? No investimento na comunicação das colecções através do digital, na valorização das actividades por via de maior divulgação, nomeadamente publicidade, no estímulo às parcerias e na procura de mais apoios mecenáticos. É de realçar um dado positivo para 2017: a possibilidade de entrarem 37 assistentes técnicos para os museus, palácios e monumentos tutelados pela DGPC, com a abertura prevista de novos concursos públicos.