865 resultados para inibitori, istone, deacetilasi, cellule, neoplastiche, terapia, antitumorale


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L’osteosarcoma (OS) è il tumore primitivo dell’osso più comune in età pediatrica e adolescenziale. L’OS è stato recentemente riconsiderato come una patologia da de-differenziamento, legata all’interruzione del processo cui vanno incontro i precursori osteoblastici, quali le cellule staminali mesenchimali (MSCs), per trasformarsi in osteoblasti maturi. Il sistema IGF è coinvolto nella regolazione della proliferazione e del differenziamento di cellule di OS. IRS-1 è un mediatore critico di tale via di segnalazione e il suo livello di espressione modula il differenziamento di cellule ematopoietiche. Lo scopo di questa tesi è stato quello di definire il ruolo di IRS-1 nel differenziamento osteoblastico di MSCs e cellule di OS. Il potenziale differenziativo di cellule di OS umano e murino e di MSCs derivate da midollo osseo è stato valutato tramite Alizarin Red staining e Real Time-PCR. Dai dati ottenuti è emerso come i livelli di espressione di IRS-1 diminuiscano durante il differenziamento osteoblastico. Conseguentemente, i livelli di espressione di IRS-1 sono stati manipolati utilizzando shRNA per down-regolare l’espressione della proteina o un plasmide per sovra-esprimerla. Sia la down-regolazione sia la sovra-espressione di IRS-1 hanno inibito il differenziamento osteoblastico delle linee cellulari considerate. Allo scopo di valutare il contributo di IRS-1 nella via di segnalazione di IGF-1R è stato utilizzato l’inibitore di tale recettore, αIR-3. Anche in questo caso è stata osservata una riduzione della capacità differenziativa. L’inibitore del proteasoma MG-132 ha portato ad un aumento dei livelli di IRS-1, portando nuovamente all’inibizione del differenziamento osteoblastico e suggerendo che l’ubiquitinazione di questa proteina potrebbe avere un ruolo importante nel mantenimento di appropriati livelli di espressione di IRS-1. I risultati ottenuti indicano la criticità dei livelli di espressione di IRS-1 nella determinazione della capacità differenziativa sia di cellule di OS umano e murino, sia delle MSCs.

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Tanchirasi (TNKS) è un membro della superfamiglia delle PARP (Poli ADP-Ribosio Polimerasi). TNKS è coinvolta nella stabilizzazione della subunità catalitca del complesso proteico DNA-PK (protein chinasi DNA-dipendente), la DNA-PKcs. Questa proteina è fondamentale per il corretto funzionamento del meccanismo di riparo del DNA chiamato "Saldatura Non Omologa delle Estremità" (NHEJ). La deplezione di TNKS induce una degradazione della DNA-PKcs e una maggiore sensibilità alle radiazioni ionizzanti (RI). TNKS è inoltre un regolatore negativo di axina e di conseguenza un attivatore del pathway di WNT; l'inibizione quindi di TNKS induce anche una inibizione del pathway di WNT. Alterazioni in questo signalling si riscontrano frequentemente nel Medulloblastoma (MB), il tumore cerebrale embrionale più comune dell'infanzia. La radioterapia post-operatoria risulta essere molto efficacia in questa neoplasia, ma causa gravi effetti collaterali e un terzo dei pazienti presenta radioresistenza intrinseca. Un'importante sfida per la ricerca è quindi l'aumento della radiosensibilità tumorale. In questo lavoro, abbiamo studiato gli effetti dell'inibizione farmacologica di TNKS in linee cellulari di MB umano, mediante la small molecule XAV939, potente e specifico inibitore di TNKS. Il trattamento con XAV939 induce una consistente inibizione della capacità proliferativa e clonogenica, non correlata ad un aumento della mortalità cellulare, indicando una bassa tossicità legata alla molecola. Il co-trattamento di XAV939 e RI (γ-ray, dose 2 Gy) causa una ulteriore inibizione della proliferazione cellulare e della capacità di formare colonie. Abbiamo inoltre constatato, mediante Neutral Comet Assay, una minore efficacia nel riparo del DNA in cellule irradiate trattate con XAV939, indicando un effettivo aumento della radiosensibilità in cellule di MB trattate con l'inibitore di TNKS. L'aumentata mortalità cellulare in cellule tumorali trattate con XAV939 e RI ha confermato la nostra ipotesi. Il nostro studio in vitro indica come TNKS possa essere un utile target terapeutico per rendere più efficace l'attuale terapia contro il MB.

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L’infiammazione cronica è un fattore di rischio di insorgenza del cancro, e la citochina infiammatoria IL-6 gioca un ruolo importante nella tumorigenesi. In questo studio abbiamo dimostrato che L’IL-6 down-regola l'espressione e l'attività di p53. In linee cellulari umane, IL-6 stimola la trascrizione dell’rRNA mediante espressione della proteina c-myc a livello post-trascrizionale in un meccanismo p38MAPK-dipendente. L'up-regolazione della biogenesi ribosomiale riduce l'espressione di p53 attraverso l'attivazione della via della proteina ribosomale-MDM2. La down-regolazione di p53 produce l’acquisizione di modifiche fenotipiche e funzionali caratteristiche della epitelio mesenchimale di transizione, un processo associato a trasformazione maligna e progressione tumorale. I nostri dati mostrano che questi cambiamenti avvengono anche nelle cellule epiteliali del colon di pazienti affetti da colite ulcerosa, un esempio rappresentativo di una infiammazione cronica soggetta a trasformazione neoplastica, che scompaiono dopo trattamento con farmaci antinfiammatori. Questi risultati svelano un nuovo effetto oncogenico indotto dall’IL-6 che può contribuire notevolmente ad aumentare il rischio di sviluppare il cancro non solo in pazienti con infiammazioni croniche, ma anche in quei pazienti con condizioni patologiche caratterizzate da elevato livello di IL-6 nel plasma, quali l'obesità e e il diabete mellito di tipo 2.

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L’insufficienza renale acuta(AKI) grave che richiede terapia sostitutiva, è una complicanza frequente nelle unità di terapia intensiva(UTI) e rappresenta un fattore di rischio indipendente di mortalità. Scopo dello studio é stato valutare prospetticamente, in pazienti “critici” sottoposti a terapie sostitutive renali continue(CRRT) per IRA post cardiochirurgia, la prevalenza ed il significato prognostico del recupero della funzione renale(RFR). Pazienti e Metodi:Pazienti(pz) con AKI dopo intervento di cardiochirurgia elettivo o in emergenza con disfunzione di due o più organi trattati con CRRT. Risultati:Dal 1996 al 2011, 266 pz (M 195,F 71, età 65.5±11.3aa) sono stati trattati con CRRT. Tipo di intervento: CABG(27.6%), dissecazione aortica(33%), sostituzione valvolare(21.1%), CABG+sostituzione valvolare(12.6%), altro(5.7%). Parametri all’inizio del trattamento: BUN 86.1±39.4, creatininemia(Cr) 3.96±1.86mg/dL, PAM 72.4±13.6mmHg, APACHE II score 30.7±6.1, SOFAscore 13.7±3. RIFLE: Risk (11%), Injury (31.4%), Failure (57.6%). AKI oligurica (72.2%), ventilazione meccanica (93.2%), inotropi (84.5%). La sopravvivenza a 30 gg ed alla dimissione è stata del 54.2% e del 37.1%. La sopravvivenza per stratificazione APACHE II: <24=85.1 e 66%, 25-29=63.5 e 48.1%, 30-34=51.8 e 31.8%, >34=31.6 e 17.7%. RFR ha consentito l’interruzione della CRRT nel 87.8% (86/98) dei survivors (Cr 1.4±0.6mg/dL) e nel 14.5% (24/166) dei nonsurvivors (Cr 2.2±0.9mg/dL) con un recupero totale del 41.4%. RFR è stato osservato nel 59.5% (44/74) dei pz non oligurici e nel 34.4% dei pz oligurici (66/192). La distribuzione dei pz sulla base dei tempi di RFR è stata:<8=38.2%, 8-14=20.9%, 15-21=11.8%, 22-28=10.9%, >28=18.2%. All’analisi multivariata, l’oliguria, l’età e il CV-SOFA a 7gg dall’inizio della CRRT si sono dimostrati fattori prognostici sfavorevoli su RFR(>21gg). RFR si associa ad una sopravvivenza elevata(78.2%). Conclusioni:RFR significativamente piu frequente nei pz non oligurici si associa ad una sopravvivenza alla dimissione piu elevata. La distribuzione dei pz in rapporto ad APACHE II e SOFAscore dimostra che la sopravvivenza e RFR sono strettamente legati alla gravità della patologia.

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NAVA®, dall’inglese Neurally Adjusted Ventilatory Assist, è una tecnica di monitoraggio e di ventilazione e rappresenta una sofisticata innovazione tecnologica in quanto consente un’assistenza ventilatoria costantemente in armonia con le esigenze del paziente, grazie alla rilevazione diretta dell’attività elettrica del diaframma. Da un punto di vista pratico-operativo, NAVA è un modulo integrativo che si inserisce nelle apparecchiature di ventilazione già esistenti integrandone al meglio le funzionalità. A tale modulo è collegato un sondino nasogastrico nella cui parte distale vi sono elettrodi bipolari. Il sondino viene inserito nell’esofago vicino al diaframma e permette l’acquisizione del segnale Edi (Diaphragmatic Electrical Activity), relativo all’attività elettrica del diaframma. L’attività di quest ultimo è strettamente correlata alla dinamica respiratoria del paziente, in quanto il diaframma, contraendosi, determina il flusso d’aria all’interno delle vie aree. Il segnale Edi acquisito viene usato per interfacciarsi con il ventilatore e grazie speciali algoritmi, il segnale guida il ventilatore permettendo un’assistenza ventilatoria proporzionale e sincrona agli sforzi respiratori del paziente. NAVA è tra le nuove apparecchiature sanitarie ed elettromedicali che la Banca Popolare dell’Emilia Romagna ha recentemente donato al Centro Grandi Ustionati dell’Ospedale Bufalini di Cesena per un valore complessivo di oltre 120.000 euro. NAVA e gli altri strumenti donati sono apparecchiature di ultima generazione destinate a migliorare le possibilità di sopravvivenza dei pazienti più critici, con ustioni e ferite alla cute molto gravi, che necessitano di un’assistenza intensiva. In questo elaborato, nel Capitolo 1, viene presentata la Fisiologia dell’apparato respiratorio e a seguire, nel Capitolo 2, viene descritta la Ventilazione meccanica convenzionale, ancora oggi molto utilizzata. Successivamente, nel Capitolo 3 è illustrata la nuova modalità NAVA. Proseguendo, nel Capitolo 4 si apre un confronto tra le principali differenze tra la NAVA e le precedenti modalità di ventilazione. L’elaborato si conclude con la speranza che NAVA, un’innovazione senza precedenti, non sia limitata ad un investimento potenzialmente utile nel presente della terapia intensiva, ma che la ricerca ad essa correlata possa, in un imminente futuro, aprire la strada a nuove tecnologie ancora più efficienti nella salvaguardia dei pazienti in terapia intensiva.

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L'outcome dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche è fortemente influenzato da graft versus leukemia (GvL) e graft versus host disease (GvHD) che sono mediate, almeno in parte, dagli antigeni minori di istocompatibilità (mHAgs). In letteratura sono stati identificati 26 mHAgs che sono stati correlati a GvHD/GvL con risultati incompleti e in alcuni casi contrastanti; inoltre manca una metodica che sia in grado di genotipizzare contemporaneamente un pannello così ampio. Il lavoro è stato finalizzato alla preparazione di un protocollo di laboratorio che permetta di studiare in modo efficace i 26 mHAgs identificati, per poi correlarli con GvHD/GvL all’interno di uno specifico gruppo di trapiantati. Utilizzando la metodica IPlex Gold Mass Array Sequenom e tecniche di biologia molecolare convenzionale sono stati genotipizzati 26 antigeni minori di istocompatibilità per 46 coppie full-matched. Tutti i pazienti inclusi nel progetto di studio erano stati sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare o volontario full-compatibile per leucemia mieloide cronica (n=46) o leucemia acuta linfoblastica Philadelphia positiva (LAL-Ph+, n=24). Il progetto ha confermato l'efficienza (98.6%) e la fattibilità delle metodiche proposte. Dal lavoro è inoltre emerso che, le differenze tra donatore e ricevente a libello mHAgs ACC-1, ACC-4, ACC-5, LB-MTHFD1-1Q, UGT2B17, DPH1, LRH1 potrebbero essere fattori predittivi di GvHD (p<0.05). La seconda evidenza è legata a un trend secondo cui il mismatch per LB-ADIR1 protegge dalla recidiva di malattia, in particolare nei confronti della LAL-Ph+ che è scarsamente responsiva all'allo-immunoterapia. Questo lavoro pilota, la cui casistica deve quindi essere ampliata, ha dimostrato l’efficacia della genotipizzazione con IPlex Gold Sequenom e l’elevato potenziale degli mHAgs sia come fattori predittivi di GvHD che come driver di GvL.

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Sulla base delle evidenze della letteratura (Fenaux, 2009; Lyons, JCO 2009), a partire da Settembre 2004 nel Nostro Istituto sono stati trattati 57 pazienti affetti da Sindrome Mielodisplastica (MDS) mediante terapia demetilante con 5-Azacitidina. Sono stati utilizzati differenti regimi terapeutici a seconda della classe di rischio IPSS: i pazienti a rischio basso/intermedio-1 hanno ricevuto Azacitidina 75 mg/mq/die sottocute per 5 giorni/mese (schema 5) per 8 cicli; i pazienti a rischio alto/intermedio-2 hanno ricevuto Azacitidina 50 mg/mq/die sottocute per 10 giorni/mese (schema 5+2+5) o Azacitidina 75 mg/mq/die per 7 giorni/mese (schema 7) fino a perdita della risposta. Su una casistica totale di 57 pazienti (15 a rischio basso/int-1; 41 rischio alto/int-2), l’87.7% (50 pazienti) sono risultati valutabili. Tra questi le risposte osservate sono state del 68% (34 pazienti), di cui il 14% (7 pazienti) ha ottenuto una Remissione Completa (CR) ed il 54% (27 pazienti) ha ottenuto un Hematologic Improvement (HI). La valutazione della risposta è stata eseguita secondo i criteri dell’International Working Group 2006 (IWG, Cheeson 2006). Le principali tossicità osservate sono state rappresentate da reazioni cutanee locali nel sito d’iniezione, tossicità gastrointestinale (stipsi e/o diarrea), mielotossicità, neutropenia febbrile, sepsi (3 pazienti). Tra i pazienti trattati abbiamo osservato la presenza di risposta ematologica prolungata (≥ 20 mesi) in 10 pazienti (20% dei pazienti valutabili). Inoltre, grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Anatomia Umana dell’Università di Bologna (Prof. L. Cocco, Dott.ssa M.Y. Follo), tutti i pazienti trattati sono stati valutati per i livelli di espressione genica e metilazione del gene della fosfolipasi PI-PLC-beta1. I dati biologici così ottenuti sono stati correlati con quelli clinici, evidenziando la presenza di una correlazione tra i livelli di espressione genica e mutilazione della PI-PLC-beta1 e la risposta alla terapia demetilante con 5-Azacitidina.

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Date le sollecitazioni meccaniche alle quali è sottoposta, la cartilagine, soprattutto quella articolare, è facilmente danneggiabile e la mancanza di vascolarizzazione la rende un tessuto incapace di auto-rigenerarsi. Il fallimento della chirurgia tradizionale ha incentivato negli ultimi venti anni lo sviluppo di nuove tecniche di ingegneria tissutale che prevedono la rigenerazione del tessuto cartilagineo in vitro, e il suo successivo impianto nella zona lesionata. Generalmente si preferisce utilizzare cellule staminali mesenchimali adulte (MSCs), e il tessuto adiposo si è rivelata la fonte di estrazione più conveniente.Inoltre le ATSCs (Adipose Tissue Stem Cells) possono essere facilmente isolate dalla componente vasculo-stromale (SVF) del tessuto adiposo prelevata in seguito a un intervento di liposuzione: quindi, a differenza delle MSCs estratte da midollo osseo (BMSCs- Bone Marrow Stem Cells), la loro estrazione dal paziente richiede un intervento meno invasivo e meno rischioso. Il tessuto cartilagineo non è raggiunto dai vasi sanguigni, e la sua formazione nella fase embrionale avviene ad una concentrazione di O2 notevolmente inferiore a quella ambientale. Questo ha indotto gli studiosi a pensare che un ambiente ipossico possa non soltanto favorire il differenziamento condrogenico di cellule staminali in coltura, ma anche facilitare il mantenimento del fenotipo condrocitico, mimando l'ambiente fisiologico avascolare della cartilagine.Lo scopo di questa tesi è stato la messa a punto di un protocollo di coltura cellulare in condizioni di ipossia per indurre differenziamento condrogenico di ATSCs. La metodica standardizzata verrà impiegata in laboratorio per sviluppare la ricerca di base nello studio della rigenerazione della cartilagine.

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I linfomi a cellule T periferiche rappresentano circa il 12% di tutte le neoplasie linfoidi.In questo studio, abbiamo effettuato un’analisi di miRNA profiling (TaqMan Array MicroRNA Cards A) su 60 campioni FFPE suddivisi in: PTCLs/NOS (N=25), AITLs (N=10), ALCLs (N=12) e cellule T normali (N=13). Abbiamo identificato 4 miRNA differenzialmente espressi tra PTCLs e cellule T normali. Inoltre, abbiamo identificato tre set di mirna che discriminano le tre entita di PTCLs nodali

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Con il termine IPC (precondizionamento ischemico) si indica un fenomeno per il quale, esponendo il cuore a brevi cicli di ischemie subletali prima di un danno ischemico prolungato, si conferisce una profonda resistenza all’infarto, una delle principali cause di invalidità e mortalità a livello mondiale. Studi recenti hanno suggerito che l’IPC sia in grado di migliorare la sopravvivenza, la mobilizzazione e l’integrazione di cellule staminali in aree ischemiche e che possa fornire una nuova strategia per potenziare l’efficacia della terapia cellulare cardiaca, un’area della ricerca in continuo sviluppo. L’IPC è difficilmente trasferibile nella pratica clinica ma, da anni, è ben documentato che gli oppioidi e i loro recettori hanno un ruolo cardioprotettivo e che attivano le vie di segnale coinvolte nell’IPC: sono quindi candidati ideali per una possibile terapia farmacologica alternativa all’IPC. Il trattamento di cardiomiociti con gli agonisti dei recettori oppioidi Dinorfina B, DADLE e Met-Encefalina potrebbe proteggere, quindi, le cellule dall’apoptosi causata da un ambiente ischemico ma potrebbe anche indurle a produrre fattori che richiamino elementi staminali. Per testare quest’ipotesi è stato messo a punto un modello di “microambiente ischemico” in vitro sui cardiomioblasti di ratto H9c2 ed è stato dimostrato che precondizionando le cellule in modo “continuativo” (ventiquattro ore di precondizionamento con oppioidi e successivamente ventiquattro ore di induzione del danno, continuando a somministrare i peptidi oppioidi) con Dinorfina B e DADLE si verifica una protezione diretta dall’apoptosi. Successivamente, saggi di migrazione e adesione hanno mostrato che DADLE agisce sulle H9c2 “ischemiche” spronandole a creare un microambiente capace di attirare cellule staminali mesenchimali umane (FMhMSC) e di potenziare le capacità adesive delle FMhMSC. I dati ottenuti suggeriscono, inoltre, che la capacità del microambiente ischemico trattato con DADLE di attirare le cellule staminali possa essere imputabile alla maggiore espressione di chemochine da parte delle H9c2.

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Numerose evidenze sperimentali hanno dimostrato il contributo delle cellule staminali di derivazione midollare nei processi di rigenerazione epatica dopo danno tissutale. E’ cresciuto pertanto l’interesse sul loro potenziale impiego in pazienti con cirrosi. Questo studio si propone di valutare la fattibilità e la sicurezza della reinfusione intraepatica di cellule staminali midollari autologhe CD133+ in 12 pazienti con insufficienza epatica terminale definita da un punteggio di Model for End Stage of Liver Disease (MELD) compreso tra 17 e 25. L’efficacia in termini di funzionalità epatica rappresenta un obiettivo secondario. Previa mobilizzazione nel sangue periferico mediante somministrazione di granulocyte-colony stimulating factor (G-CSF) alla dose di 7,5 mcg/Kg/b.i.d. e raccolta per leucoaferesi, le cellule CD133+ altamente purificate vengono reinfuse in arteria epatica a partire da 5x104/Kg fino a 1x106/kg. Nei tre giorni successivi si somministra G-CSF per favorire l’espansione e l’attecchimento delle cellule. Durante la mobilizzazione, la reinfusione e nei 12 mesi successivi i pazienti sono sottoposti a periodici controlli clinici, laboratoristici e strumentali e ad attenta valutazione di effetti collaterali. Lo studio è tuttora in corso e ad oggi, 11 pazienti sono stati sottoposti a reinfusione e 4 hanno completato i 12 mesi di follow-up. Il G-CSF è stato ben tollerato e ha consentito di ottenere una buona espansione cellulare. Dopo la reinfusione sono stati documentati un ematoma inguinale e due episodi transitori di encefalopatia portosistemica. Durante il follow-up 4 pazienti sono stati trapiantati e 2 sono morti. Non è stata osservata alcuna modificazione significativa degli indici di funzione epatica. Questi risultati preliminari confermano la possibilità di mobilizzare e reinfondere un numero adeguato di cellule staminali di derivazione midollare in pazienti con malattia epatica in stadio terminale.

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Numerose evidenze sperimentali hanno dimostrato il contributo delle cellule staminali (SC) di derivazione midollare nei processi di rigenerazione epatica dopo danno tissutale. E’ cresciuto pertanto l’interesse sul loro potenziale impiego in pazienti con cirrosi. Questo studio si proponeva di valutare la fattibilità e la sicurezza della reinfusione intraepatica di cellule staminali midollari autologhe CD133+ in 12 pazienti con insufficienza epatica terminale. Previa mobilizzazione nel sangue periferico mediante somministrazione di granulocyte-colony stimulating factor (G-CSF) alla dose di 7,5 mcg/Kg/b.i.d. e raccolta per leucoaferesi (solo se la concentrazione di CD133 + SC era > 8/μL), le cellule CD133+ altamente purificate sono state reinfuse in arteria epatica a partire da 5x104/Kg fino a 1x106/kg. Nei tre giorni successivi è stato somministrato G-CSF per favorire l’espansione e l’attecchimento delle cellule. Durante la fase della mobilizzazione e quella della reinfusione sono stati eseguiti saggi biologici quali: caratterizzazione fenotipica delle SC circolanti, saggi clonogenici, valutazione della concentrazione sierica del Hepatocyte Growth Factor (HGF), Stromal-Derived Factor-1 (SDF-1) ed il Vascular-Endotelial Growth Factor (VEGF) e caratterizzazione fenotipica delle CD133+SC purificate. Fino ad oggi sono stati reinfusi 12 pazienti. Questi dati preliminari suggeriscono che è possibile mobilizzare e reinfondere un numero considerevole di SC autologhe CD133+ altamente purificate in pazienti con ESLD . Gli studi biologici mostrano che: il numero di progenitori ematopoietici ed endoteliali circolanti è aumentato dopo il trattamento con G–CSF; le SCs CD133+ altamente purificato esprimono marcatori emopoietici ed endoteliali; la concentrazione sierica di HGF, SDF-1, VEGF e la capacità clonogenica di progenitori emopoietici sono aumentati durante la mobilitazione e nelle fasi di reinfusione; il potenziale clonogenico dei progenitori endoteliali mostra espressione variabile.

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I nucleotidi trifosfato sono, dal punto di vista evoluzionistico, tra le molecole più antiche e conservate tra le specie. Oltre al ruolo che ricoprono nella sintesi degli acidi nucleici e nel metabolismo energetico della cellula, negli ultimi anni è emerso sempre di più il loro coinvolgimento nella regolazione di numerose funzioni cellulari. Questi importanti mediatori cellulari sono presenti nel microambiente e cambiamenti nella loro concentrazione extracellulare possono modulare la funzionalità cellulare. I nucleotidi trifosfato ATP e UTP, presenti nel microambiente midollare, sono dei potenti stimolatori dei progenitori emopoietici. Essi stimolano la proliferazione e l’attecchimento delle cellule staminali emopoietiche, così come la loro capacità migratoria, attraverso l’attivazione di specifici recettori di membrana, i recettori purinergici (P2R). In questo studio abbiamo dimostrato che ATP e UTP esercitano un effetto opposto sul compartimento staminale leucemico di leucemia acuta mieloide (LAM). Abbiamo dimostrato che le cellule leucemiche esprimono i recettori P2 funzionalmente attivi. Studi di microarray hanno evidenziato che, a differenza di ciò che avviene nelle CD34+, la stimolazione di cellule leucemiche con ATP induce la down-regolazione dei geni coinvolti nella proliferazione e nella migrazione, mentre up-regola geni inibitori del ciclo cellulare. Abbiamo poi confermato a livello funzionale, mediante test in vitro, gli effetti osservati a livello molecolare. Studi di inibizione farmacologica, ci hanno permesso di capire che l’attività inibitoria dell’ATP sulla proliferazione si esplica attraverso l’attivazione del recettore P2X7, mentre i sottotipi recettoriali P2 prevalentemente coinvolti nella regolazione della migrazione sono i recettori P2Y2 e P2Y4. Esperimenti di xenotrapianto, hanno evidenziato che l’esposizione ad ATP e UTP sia dei blasti leucemici sia delle cellule staminali leucemiche CD38-CD34+ diminuisce la loro capacità di homing e di engraftment in vivo. Inoltre, il trattamento farmacologico con ATP, di topi ai quali è stata indotta una leucemia umana, ha diminuito lo sviluppo della leucemia in vivo.

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Il Tumore a Cellule Giganti dell’osso (TCG) è una rara neoplasia che rappresenta il 5% dei tumori di natura ossea; sebbene venga considerato un tumore a decorso benigno può manifestare caratteri di aggressività locale dando origine a recidive locali nel 10-25% dei casi, e nel 2-4% dei casi metastatizza a livello polmonare. In questo studio è stata valutata l’espressione dei miRNA mediante miRNA microarray in 10 pazienti affetti da TCG, 5 con metastasi e 5 liberi da malattia; sono stati riscontrati miRNA differenzialmente espressi tra i 2 gruppi di pazienti e la successiva validazione mediante Real Time PCR ha confermato una differenza significativa per il miR-136 (p=0.04). Mediante analisi bioinformatica con il software TargetScan abbiamo identificato RANK e NF1B come target del miR-136 e ne abbiamo studiato l’espressione mediante Real Time PCR su una più ampia casistica di pazienti affetti da TCG, metastatico e non, evidenziando una maggior espressione di NF1B nel gruppo di pazienti metastatici, mentre RANK non ha dimostrato una differenza significativa. L’analisi di Western Blot ha rilevato una maggiore espressione di entrambe le proteine nei pazienti metastatici rispetto ai non metastatici. Successivamente è stato condotto uno studio di immunoistochimica su TMA di 163 campioni di pazienti affetti da TCG a diverso decorso clinico che ha dimostrato una maggiore e significativa espressione di entrambe i target nei pazienti con metastasi rispetto ai non metastatici; le analisi di popolazione mediante Kaplan-Meier hanno confermato la correlazione tra over-espressione di RANK, NF1B e ricaduta con metastasi (p=0.001 e p<0.0005 rispettivamente). Lo studio di immunoistochimica è stato ampliato alle proteine maggiormente coinvolte nell’osteolisi che risultano avere un significato prognostico; tuttavia mediante analisi di ROC, la co-over-espressione di RANK, RANKL e NF1B rappresenta il migliore modello per predire la comparsa di metastasi (AUC=0.782, p<0.0005).

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Lo studio ha posto l'attenzione sul rapporto costo-efficacia tra le metodiche più utilizzate per la rimozione di carcinomi basocellulari: l'asportazione chirurgica e la terapia fotodinamica. Dai dati si evince che la rimozione chirurgica è la metodica più efficace per la minore frequenza di recidive (4.7%) rispetto alla terapia fotodinamica (6%). Questo dato è valido unicamente per i carcinomi superficiali; per i carcinomi nodulari la frequenza di recidiva con la terapia fotodinamica risulta essere più elevata (35%). La chirurgia è una metodica più costosa rispetto alla fotodinamica. La variabile dolore risulta essere minore per la chirurgia rispetto alla fotodinamica. Il risultato estetico invece è migliore per la fotodinamica rispetto alla terapia chirurgica. I costi invece sono più elevati per la terapia chirurgica. Rimane un'ultima considerazione: la terapia fotodinamica richiede talvolta un nuovo intervento a distanza di mesi o anni e pertanto questa scelta comporta costi aggiuntivi.