701 resultados para Philologie orientale


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I viaggi e gli studi compiuti in Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina in occasione della Tesi di Laurea hanno costituito l’occasione per comprendere quanto sia consistente il retaggio di Roma antica sulla sponda orientale dell’Adriatico. Nello stesso tempo si è potuto constatare che, per diversi motivi, dal punto di vista prettamente scientifico, la ricchezza di questo patrimonio archeologico aveva sino allora trovato soltanto poche occasioni di studio. Da qui la necessità di provvedere a un quadro completo e generale relativo alla presenza romana in un territorio come quello della provincia romana di Dalmatia che, pur considerando la sua molteplicità geografica, etnica, economica, culturale, sociale e politica, ha trovato, grazie all’intervento di Roma, una sua dimensione unitaria, un comune denominatore, tanto da farne una provincia che ebbe un ruolo fondamentale nella storia dell’Impero. Il lavoro prende le mosse da una considerazione preliminare e generale, che ne costituisce quasi lo spunto metodologico più determinante: la trasmissione della cultura e dei modelli di vita da parte di Roma alle altre popolazioni ha creato un modello in virtù del quale l’imperialismo romano si è in certo modo adattato alle diverse culture incontrate ed assimilate, dando vita ad una rete di culture unite da elementi comuni, ma anche profondamente diversificate per sintesi originali. Quella che pare essere la chiave di lettura impiegata è la struttura di un impero a forma di “rete” con forti elementi di coesione, ma allo stesso tempo dotato di ampi margini di autonomia. E questo a cominciare dall’analisi dei fattori che aprirono il cammino dell’afflusso romano in Dalmatia e nello stesso tempo permisero i contatti con il territorio italico. La ricerca ne analizza quindi i fattori:il diretto controllo militare, la costruzione di una rete viaria, l’estensione della cittadinanza romana, lo sviluppo della vita locale attraverso la formazione di una rete di municipi, i contatti economici e l’immigrazione di genti romanizzate. L’analisi ha posto in evidenza una provincia caratterizzata da notevoli contraddizioni, che ne condizionarono – presso entrambi i versanti del Velebit e delle Alpi Dinariche – lo sviluppo economico, sociale, culturale e urbanistico. Le profonde differenze strutturali tra questi due territori rimasero sempre presenti: la zona costiera divenne, sotto tutti i punti di vista, una sorta di continuazione dell’Italia, mntre quella continentale non progredì di pari passo. Eppure l’influenza romana si diffuse anche in questa, così che essa si pote conformare, in una certa misura, alla zona litoranea. Come si può dedurre dal fatto che il severo controllo militare divenne superfluo e che anche questa regione fu dotata progressivamente di centri amministrati da un gruppo dirigente compiutamente integrato nella cultura romana. Oltre all’analisi di tutto ciò che rientra nel processo di acculturazione dei nuovi territori, l’obiettivo principale del lavoro è l’analisi di uno degli elementi più importanti che la dominazione romana apportò nei territori conquistati, ovvero la creazione di città. In questo ambito relativamente periferico dell’Impero, qual è il territorio della provincia romana della Dalmatia, è stato dunque possibile analizzare le modalità di creazione di nuovi centri e di adattamento, da parte di Roma, ai caratteri locali dell’insediamento, nonché ai condizionamenti ambientali, evidenziando analogie e differenze tra le città fondate. Prima dell’avvento di Roma, nessuna delle regioni entrate a far parte dei territori della Dalmatia romana, con la sola eccezione della Liburnia, diede origine a centri di vero e proprio potere politico-economico, come ad esempio le città greche del Mediterraneo orientale, tali da continuare un loro sviluppo all’interno della provincia romana. In altri termini: non si hanno testimonianze di insediamenti autoctoni importanti che si siano trasformati in città sul modello dei centri provinciali romani, senza aver subito cambiamenti radicali quali una nuova pianificazione urbana o una riorganizzazione del modello di vita locale. Questo non significa che la struttura politico-sociale delle diverse tribù sia stata cambiata in modo drastico: almeno nelle modeste “città” autoctone, nelle quali le famiglie appaiono con la cittadinanza romana, assieme agli ordinamenti del diritto municipale, esse semplicemente continuarono ad avere il ruolo che i loro antenati mantennero per generazioni all’interno della propria comunità, prima della conquista romana. Il lavoro mette compiutamente in luce come lo sviluppo delle città nella provincia abbia risentito fortemente dello scarso progresso politico, sociale ed economico che conobbero le tribù e le popolazioni durante la fase pre-romana. La colonizzazione greca, troppo modesta, non riuscì a far compiere quel salto qualitativo ai centri autoctoni, che rimasero sostanzialmente privi di concetti basilari di urbanistica, anche se è possibile notare, almeno nei centri costieri, l’adozione di tecniche evolute, ad esempio nella costruzione delle mura. In conclusione questo lavoro chiarisce analiticamente, con la raccolta di un’infinità di dati (archeologici e topografici, materiali ed epigrafici, e desunti dalle fonti storiche), come la formazione della città e l’urbanizzazione della sponda orientale dell’adriatico sia un fenomeno prettamente romano, pur differenziato, nelle sue dinamiche storiche, quasi caso per caso. I dati offerti dalla topografia delle città della Dalmatia, malgrado la scarsità di esempi ben documentati, sembrano confermare il principio della regolarità degli impianti urbani. Una griglia ortogonale severamente applicata la si individua innanzi tutto nelle città pianificate di Iader, Aequum e, probabilmente, anche a Salona. In primis nelle colonie, quindi, ma non esclusivamente. Anche numerosi municipi sviluppatisi da insediamenti di origine autoctona hanno espresso molto presto la tendenza allo sviluppo di un sistema ortogonale regolare, se non in tutta l’area urbana, almeno nei settori di più possibile applicazione. Ne sono un esempio Aenona, Arba, Argiruntum, Doclea, Narona ed altri. La mancanza di un’organizzazione spaziale regolare non ha tuttavia compromesso l’omogeneità di un’attrezzatura urbana tesa alla normalizzazione, in cui i componenti più importanti, forum e suoi annessi, complessi termali, templi dinastici e capitolia, si avviano a diventare canonici. Le differenze più sensibili, che pure non mancano, sembrano dipendere dalle abitudini delle diverse etnie, dai condizionamenti topografici e dalla disponibilità finanziaria dei notabili. Una città romana non può prendere corpo in tutta la sua pienezza solo per la volontà del potere centrale. Un progetto urbanistico resta un fatto teorico finché non si realizzano le condizioni per cui si fondano due fenomeni importantissimi: uno socio-culturale, che consiste nell’emergenza di una classe di notabili “fortunati” desiderosi di dare a Roma dimostrazioni di lealtà, pronti a rispondere a qualsiasi sollecitazione da parte del potere centrale e addirittura ad anticiparlo; l’altro politico-amministrativo, che riguarda il sistema instaurato da Roma, grazie al quale i suddetti notabili possono godere di un certo potere e muoversi in vista della promozione personale nell’ambito della propria città. Aiuti provenienti dagli imperatori o da governatori provinciali, per quanto consistenti, rimangono un fatto non sistematico se non imprevedibile, e rappresentano comunque un episodio circoscritto. Anche se qualche città risulta in grado di costruire pecunia publica alcuni importanti edifici del quadro monumentale, il ruolo del finanziamento pubblico resta relativamente modesto. Quando la documentazione epigrafica esiste, si rivela che sono i notabili locali i maggiori responsabili della costruzione delle opere pubbliche. Sebbene le testimonianze epigrafiche siano scarse e, per la Dalmatia non sia possibile formulare un quadro completo delle committenze che favorirono materialmente lo sviluppo architettonico ed artistico di molti complessi monumentali, tuttavia è possibile osservare e riconoscere alcuni aspetti significativi e peculiari della provincia.

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Mit dem Kraftbegriff behandelt die vorliegende Dissertation ein Schlüsselthema der Leibnizschen Philosophie des Individuums. Zwei zentrale und seit jeher weitgehend getrennt geführte Interpretationsdiskurse über Leibniz werden anhand der differenzierten Analyse dieses metaphysischen Kernbegriffs zusammengeführt. Dies ist zum einen der Diskurs über die Leibnizsche Metaphysik und Monadenlehre und zum anderen der über die physikalische Dynamik und die Prinzipien seiner naturwissenschaftlichen Auffassung. Der Begriff der Kraft wird von Leibniz als ein grundlegendes Konstitutivum verwendet, das in den verschiedenen Wirklichkeitsbereichen eine spezifische Auslegung in entsprechende ontologische Charakteristika erfährt. Aus diesem Grund ist dieser Begriff der methodische Ausgangspunkt zur Untersuchung des Leibnizschen Individuums oder der Monade, wo seelische Wirklichkeit, Bewusstsein und Materialität gleichermaßen metaphysisch und ontologisch begründet werden. Das Verhältnis von Körper und Seele bei Leibniz, sein naturwissenschaftlicher Denkansatz und ein spezifischer Begriff von Freiheit erhält von hier aus seinen Sinn. Denn Leibniz versteht die körperhafte Verfasstheit oder die Materialität des Individuums ebenso als dessen essentiellen Bestandteil wie das Seelische in Form von Perzeption und Apperzeption. Die Monade zeichnet sich also sowohl durch eine interne als auch externe Aktivität aus. Dies hat insbesondere die Konsequenz, dass für Leibniz der organische Körper und die mit diesem gegebene Lebendigkeit, einmal geschaffen, so unvergänglich ist wie die mit diesem geschaffene seelische Wirklichkeit. In der Konsequenz führt dies Leibniz darauf, das Universum als eine bis ins Unendliche gehende Verschachtelung von in einem Nexus stehenden organischen Individuen zu interpretieren. Das Universum wird begreifbar als eine unendlich panorganische und panpsychische Welt.

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Kierkegaard gilt weitgehend als Interpret des einsamen, auf sich selbst zurückgeworfenen Individuums. Aber: Er beschreibt auch einen Existenz-Typus, der eine intensive Kommunikation mit seinen Mitmenschen unterhält, und zwar eine destruktive: den Dämonischen. Diese Kommunikation ist in sich widersprüchlich und paradox. Die gleiche Kommunikationsform entdeckt er bei Massenmedien, Massenorganisationen und Ideologien. Kierkegaard ist damit auch ein Deuter unserer gegenwärtigen Gesellschaft.

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Wie viele andere Sprachen Ost- und Südostasiens ist das Thai eine numerusneutrale Sprache, in der ein Nomen lediglich das Konzept benennt und keinen Hinweis auf die Anzahl der Objekte liefert. Um Nomina im Thai zählen zu können, ist der Klassifikator (Klf) nötig, der die Objekte anhand ihrer semantischen Schlüsseleigenschaft herausgreift und individualisiert. Neben der Klassifikation stellt die Individualisierung die Hauptfunktion des Klf dar. Weitere Kernfunktionen des Klf außerhalb des Zählkontextes sind die Markierung der Definitheit, des Numerus sowie des Kontrasts. Die wichtigsten neuen Ergebnisse dieser Arbeit, die sowohl die Ebenen der Grammatik und Semantik als auch die der Logik und Pragmatik integriert, sind folgende: Im Thai kann der Klf sowohl auf der Element- als auch auf der Mengenebene agieren. In der Verbindung mit einem Demonstrativ kann der Klf auch eine pluralische Interpretation hervorrufen, wenn er auf eine als pluralisch präsupponierte Gesamtmenge referiert oder die Gesamtmenge in einer Teil-Ganzes-Relation individualisiert. In einem Ausdruck, der bereits eine explizite Zahlangabe enthält, bewirkt die Klf-Demonstrativ-Konstruktion eine Kontrastierung von Mengen mit gleichen Eigenschaften. Wie auch der Individualbegriff besitzt der Klf Intension und Extension. Intension und Extension von Thai-Klf verhalten sich umgekehrt proportional, d.h. je spezifischer der Inhalt eines Klf ist, desto kleiner ist sein Umfang. Der Klf signalisiert das Schlüsselmerkmal, das mit der Intension des Nomens der Identifizierung des Objekts dient. Der Klf individualisiert das Nomen, indem er Teilmengen quantifiziert. Er kann sich auf ein Objekt, eine bestimmte Anzahl von Objekten oder auf alle Objekte beziehen. Formal logisch lassen sich diese Funktionen mithilfe des Existenz- und des Allquantors darstellen. Auch die Nullstelle (NST) läßt sich formal logisch darstellen. Auf ihren jeweiligen Informationsgehalt reduziert, ergeben sich für Klf und NST abhängig von ihrer Positionierung verschiedene Informationswerte: Die Opposition von Klf und NST bewirkt in den Fragebögen ausschließlich skalare Q-Implikaturen, die sich durch die Informationsformeln in Form einer Horn-Skala darstellen lassen. In einem sich aufbauenden Kontext transportieren sowohl Klf als auch NST in der Kontextmitte bekannte Informationen, wodurch Implikaturen des M- bzw. I-Prinzips ausgelöst werden. Durch die Verbindung der Informationswerte mit den Implikaturen des Q-, M- und I-Prinzips lässt sich anhand der Positionierung direkt erkennen, wann der Klf die Funktion der Numerus-, der Definitheits- oder der Kontrast-Markierung erfüllt.

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Der Begriff "Kulturbroker" beschreibt Menschen, die eine kulturelle Mittlerrolle einnehmen, und sich um eine Annäherung zwischen verschiedenen aufeinander treffenden Kulturen bemühen. Dabei erscheinen die bestehenden anthropologischen und pädagogischen Ansätze bezüglich kulturellem "brokering" als eine vielversprechende Grundlage für Untersuchungen aus einem literaturwissenschaftlichen Blickwinkel. Die Arbeit plädiert für die Übertragung auf und Anpassung dieser Kulturbroker-Modelle an die Literaturwissenschaft. Hierbei werden zunächst die Konstitutionsmerkmale des Begriffs "Kulturbroker" (culture broker) erhellt. Im Anschluss daran werden die Konturen literarischer Kulturbroker entworfen und deren Arbeit anhand einer Analyse literarischer Texte dargestellt und veranschaulicht. Zur Betrachtung werden Texte von Autorinnen ausgewählt, die durch ihre eigene Biographie mit der Immigrationsgeschichte der USA in Verbindung stehen und ihre Werke zur interkulturellen Vermittlung einsetzen. Die Analyse der Romane und Kurzgeschichten der haitianisch-amerikanischen Autorin Edwidge Danticat (Breath, Eyes, Memory und Krik? Krak!), der koreanisch-amerikanischen Autorin Patti Kim (A Cab Called Reliable), der indisch-amerikanischen Autorin Jhumpa Lahiri (Interpreter of Maladies und The Namesake) und der italo-amerikanischen Autorin Renée Manfredi (Where Love Leaves Us) zeigt, dass die ethnisch-amerikanischen Schriftstellerinnen mit ihren Werken als literarische Kulturbroker fungieren. Ihre Texte dienen als Instrument der kulturellen Vermittlung, das Vorurteile aufbricht und interkulturelle Missverständnisse aufdeckt und ausräumt. Sie stellen eine Begegnungsstätte dar, die es den Lesern ermöglicht, an einer interkulturellen Kommunikation mit den Autoren/Texten teilzunehmen. Die der Arbeit zugrunde gelegten literarischen Texte werden insbesondere im Hinblick auf die Darstellung von Immigration und interkultureller Vermittlung analysiert.

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Il presente lavoro ha come scopo lo studio del fenomeno linguistico dell'apertura vocalica nella parlata della città di Granada. Attraverso un'approfondita analisi fonetica della produzione orale di parlanti granadini, viene proposta un'indagine sulle eventuali implicazioni che il fenomeno dell'apertura vocalica può avere sul sistema grammaticale spagnolo, aggiornando al 2012 gli studi su tale argomento.

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(De)colonization Through Topophilia: Marjorie Kinnan Rawlings’s Life and Work in Florida attempts to reveal the author’s intimate connection to and mental growth through her place, namely the Cross Creek environs, and its subsequent effect on her writing. In 1928, Marjorie Kinnan Rawlings and her first husband Charles Rawlings came to Cross Creek, Florida. They bought the shabby farmhouse on Cross Creek Road, trying to be both, writers and farmers. However, while Charles Rawlings was unable to write in the backwoods of the Florida Interior, Rawlings found her literary voice and entered a symbiotic, reciprocal relationship with the natural world of the Cracker frontier. Her biographical preconditions – a childhood spent in the rural area of Rock Creek, outside of Washington D. C. - and a father who had instilled in her a sense of place or topophilia, enabled her to overcome severe marriage tensions and the hostile climate women writers faced during the Depression era. Nature as a helping ally and as an “undomesticated”(1) space/place is a recurrent motif throughout most of Rawlings’s Florida literature. At a time when writing the American landscape/documentary and the extraction of the self from texts was the prevalent literary genre, Marjorie Kinnan Rawlings inscribed herself into her texts. However, she knew that the American public was not yet ready for a ‘feminist revolt’, but was receptive of the longtime ‘inaudible’ voices from America’s regions, especially with regard to urban poverty and a homeward yearning during the Depression years. Fusing with the dynamic eco-consciousness of her Cracker friends and neighbors, Rawlings wrote in the literary category of regionalism enabling her to pursue three of her major aims: an individuated self, a self that assimilated with the ‘master narratives’ of her time and the recognition of the Florida Cracker and Scrub region. The first part of this dissertation briefly introduces the largely unknown and underestimated writer Marjorie Kinnan Rawlings, providing background information on her younger years, the relationship toward her family and other influential persons in her life. Furthermore, it takes a closer look at the literary category of regionalism and Rawlings’s use of ‘place’ in her writings. The second part is concerned with the ‘region’ itself, the state of Florida. It focuses on the natural peculiarities of the state’s Interior, the scrub and hammock land around her Cracker hamlet as well as the unique culture of the Florida Cracker. Part IV is concerned with the analysis of her four Florida books. The author is still widely related to the ever-popular novel The Yearling (1938). South Moon Under (1933) and Golden Apples (1935), her first two novels, have not been frequently republished and have subsequently fallen into oblivion. Cross Creek (1942), Rawlings’s last Florida book, however, has recently gained renewed popularity through its use in classes on nature writers and the non-fiction essay but it requires and is here re-evaluated as the author’s (relational) autobiography. The analysis through place is brought to completion in this work and seems to intentionally close the circle of Rawlings’s Florida writings. It exemplifies once more that detachment from place is impossible for Rawlings and that the intermingling of life and place in literature, is essential for the (re)creation of her identity. Cross Creek is therefore not only one of Rawlings’s greatest achievements; it is more importantly the key to understanding the author’s self and her fiction. Through the ‘natural’ interrelationship of place and self and by looking “mutually outward and inward,”(2) Marjorie Kinnan Rawlings finds her literary voice, a home and ‘a room of her own’ in which to write and come to consciousness. Her Florida literature is not only product but also medium and process in her assessment of her identity and self. _____________ (1) Alaimo, Stacy. Undomesticated Ground: Recasting Nature as Feminist Space (Ithaca: Cornell UP, 2000) 23. (2) Libby, Brooke. “Nature Writing as Refuge: Autobiography in the Natural World” Reading Under the Sign of Nature. New Essays in Ecocriticism. Ed. John Tallmadge and Henry Harrington. (Salt Lake City: The U of Utah P, 2000) 200.

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Die vorliegende Arbeit wurde durch die Erkenntnis motiviert, daß die Theorie der Intentionalität ohne eine Theorie der impliziten Intentionalität unvollständig ist. Die Anlage einer solchen Theorie gründet in der Annahme, daß die impliziten ("ergänzenden oder "mit-bewußten") Erfahrungsinhalte Inhalte intentional wirksam sind: daß sie zur "Konstitution" der intentionalen Objekte – im Sinne vom Husserl und Gurwitsch – beitragen. Die Bedingungen und Umstände dieser Wirksamkeit herauszuarbeiten, ist das Hauptziel der vorliegenden Untersuchungen. Dazu wurde (1) eine phänomenologische Theorie des impliziten Inhalts kritisch expliziert, und (2) diese anhand einiger aktueller Ansätze der analytischen Philosophie auf die Probe gestellt. Im phänomenologischen Teil der Arbeit wurden zuerst die methodologischen Voraussetzungen von Gurwitschs gestalttheoretischer Neuformulierung des Husserlschen Projekts unter Berücksichtigung der sogenannten Konstanzannahme kritisch untersucht. Weiterhin wurden Husserls Noema-Konzeption und seine Horizontlehre aus der Perspektive von Gurwitschs Feldtheorie des Bewußtseins expliziert, und in der Folge Gurwitschs dreifache Gliederung des Bewußtseinsfeldes – das Kopräsenz-Kohärenz-Relevanz-Schema – um die phänomenologischen Begriffe "Potentialität", "Typik" und "Motivation" erweitert. Die Beziehungen, die diesen Begriffen zugrunde liegen, erwiesen sich als "mehr denn bloß kontigent, aber als weniger denn logisch oder notwendig" (Mulligan). An Beispielen aus der analytischen Philosphie der Wahrnehmung (Dretske, Peacocke, Dennett, Kelly) und der Sprache (Sperber, Wilson, Searle) wurde das phänomenologische Konzept des impliziten Inhalts kritisch beurteilt und weiterentwickelt. Hierbei wurde(n) unter anderem (1) der Zusammenhang zwischen dem phänomenologischen Begriff "vorprädikativer Inhalt" und dem analytischen Begriff "nichtkonzeptueller Inhalt" aufgezeigt und (2) Kriterien für die Zuschreibung impliziter Überzeugungen in den typischen Fällen der prädikativen Intentionalität zusammengetragen und systematisiert.

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The characteristics of aphasics’ speech in various languages have been the core of numerous studies, but Arabic in general, and Palestinian Arabic in particular, is still a virgin field in this respect. However, it is of vital importance to have a clear picture of the specific aspects of Palestinian Arabic that might be affected in the speech of aphasics in order to establish screening, diagnosis and therapy programs based on a clinical linguistic database. Hence the central questions of this study are what are the main neurolinguistic features of the Palestinian aphasics’ speech at the phonetic-acoustic level and to what extent are the results similar or not to those obtained from other languages. In general, this study is a survey of the most prominent features of Palestinian Broca’s aphasics’ speech. The main acoustic parameters of vowels and consonants are analysed such as vowel duration, formant frequency, Voice Onset Time (VOT), intensity and frication duration. The deviant patterns among the Broca’s aphasics are displayed and compared with those of normal speakers. The nature of deficit, whether phonetic or phonological, is also discussed. Moreover, the coarticulatory characteristics and some prosodic patterns of Broca’s aphasics are addressed. Samples were collected from six Broca’s aphasics from the same local region. The acoustic analysis conducted on a range of consonant and vowel parameters displayed differences between the speech patterns of Broca’s aphasics and normal speakers. For example, impairments in voicing contrast between the voiced and voiceless stops were found in Broca’s aphasics. This feature does not exist for the fricatives produced by the Palestinian Broca’s aphasics and hence deviates from data obtained for aphasics’ speech from other languages. The Palestinian Broca’s aphasics displayed particular problems with the emphatic sounds. They exhibited deviant coarticulation patterns, another feature that is inconsistent with data obtained from studies from other languages. However, several other findings are in accordance with those reported from various other languages such as impairments in the VOT. The results are in accordance with the suggestions that speech production deficits in Broca’s aphasics are not related to phoneme selection but rather to articulatory implementation and some speech output impairments are related to timing and planning deficits.

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In vorliegender Dissertation werden die von Albert Schweitzer ersonnene Weltanschauungsphilosophie sowie dessen Ethik der Ehrfurcht vor dem Leben untersucht und auf ihre Kohärenz sowie auf ihre argumentative Tragfähigkeit geprüft. Es zeigt sich dabei, dass dieselben, entgegen der Meinung vieler Kritiker, keineswegs nur weltfremde Gedankenkonstrukte sind, sondern sehr wohl Orientierung hinsichtlich der ethischen Ausrichtung unserer Zeit zu geben vermögen und insbesondere die Schweitzer’sche Ehrfurchtsethik aus diesem Grunde als theoretisch vollwertiges Konzept einer philosophischen Ethik respektiert zu werden verdient. Schweitzer hat als Hintergrund all seiner Ausführungen die Vorstellung vom "Verfall der Kultur", daher sind sämtliche seiner philosophischen Überlegungen als Antwortversuche auf diesen von ihm konstatierten Kulturverfall zu verstehen. Ist der Verfall der Kultur seiner Zeit für Schweitzer bedingt durch das Fehlen einer lebens- und weltbejahenden Weltanschauung, so kann ein entsprechender Wiederaufbau der Kultur für ihn nur über den Weg der Konzeption einer aus tiefstem Denken ersonnenen lebens- und weltbejahenden Weltanschauung führen; das Kernstück dieser gesuchten neuen Weltanschauung ist für Schweitzer schließlich die Ethik der Ehrfurcht vor dem Leben. Es entbehrt indes nicht einer gewissen Tragik, dass diese Ethik der Ehrfurcht vor dem Leben, welche Schweitzer selbst ein Herzensanliegen war und um die sein gesamtes Denken seit Beginn des 20. Jahrhunderts kreiste, weder bei philosophisch interessierten Laien noch bei den Gelehrten dieser Zunft auf reges Interesse stieß. Mit Verweis auf die unsystematische Verfasstheit sowie den unausgereiften bzw. unvollkommenen Zustand dieses Ethikkonzepts schenkte (und schenkt) man demselben in Fachkreisen so gut wie keine Beachtung und auch im Blickpunkt des öffentlichen Interesses standen (und stehen) für gewöhnlich die greif- und sichtbaren Aktivitäten Schweitzers – so etwa sein humanitäres Engagement in Afrika oder seine Rolle als "kritisches Gewissen" seiner Zeit hinsichtlich der damals mehr oder minder akuten Bedrohung der Menschheit durch das atomare Wettrüsten der beiden Supermächte USA und UdSSR – wobei man jedoch verkennt, dass diese letztlich nur verstehbar sind vor dem Hintergrund der Ethik der Ehrfurcht vor dem Leben und nur von dort einen Sinn erhalten. Um diese überragende Bedeutung der Ethik der Ehrfurcht vor dem Leben im Gesamtgefüge des Schweitzer’schen Denkens angemessen einschätzen zu können, werden die tragenden Begriffe dieser Ethikkonzeption aus den Texten Schweitzers heraus so exakt als möglich bestimmt sowie der innere Zusammenhang derselben aufgezeigt, um wiederum die diese Begriffe fundierende Architektonik freizulegen.

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Die hier vorgelegte Arbeit untersucht das Vorkommen rotwelschen Vokabulars in der deutschen Gegenwartssprache. Der Fragestellung, inwieweit ein bestimmter Wortschatz noch in der aktiven und bzw. oder passiven Sprache benutzt wird, ist auf verschiedenen Wegen nachgegangen worden. Das erste Kapitel beleuchtet den linguistischen Hintergrund, um die Zusammenhänge in der Entwicklung des Rotwelschen zu skizzieren. Die Ergebnisse haben erbracht, dass die Besonderheiten des Rotwelschen außer in dem Wortschatz vor allem in Wortbildung und Morphologie zu erkennen sind. Die Zusammenhänge in Bezug auf das soziale Umfeld der einstigen Rotwelschsprecher und die unterschiedlichen Gruppen, die ihren Teil zum Rotwelschen beigetragen haben, werden in Kapitel zwei skizziert. Die Sprache dieser einstigen Randgruppe kann nur aus dem sozialen Kontext verstanden werden. Aus welchen sprachlichen Quellen man im Einzelnen für die rotwelschen Ausdrücke geschöpft hat, verdeutlicht die etymologische sowie die onomasiologische Auswertung in Kapitel drei. Bei vielen rotwelschen Wörtern sind die ursprünglichen Konnotationen und Funktionen im heutigen Sprachgebrauch durch neue ersetzt worden. Die erarbeiteten Kontexte aus dem Duden Universalwörterbuch, dem Grimmschen Wörterbuch, der Online-Ausgabe der Tageszeitung Die Welt sowie der Literatur erörtern die rotwelschen Begriffe im textlichen Zusammenhang sowie in ihrer oft begrifflichen Differenziertheit und vervollkommnen die etymologische Auswertung. Dem Rotwelschen ist es gelungen, Einzug in die Umgangssprache zu nehmen und sich darin zu verfestigen, obwohl es im allgemeinen Sprachgebrauch nur sparsam Verwendung findet. Das geht aus den Ergebnissen der Fragebogen-Aktion hervor. An der Fragebogen-Aktion haben 33% (35 abs.) der Studierenden des Fachs Deutsche Philologie, 27% (29 abs.) des Fachs BWL, 23% (24 abs.) der Fächer Katholische und Evangelische Theologie und 17% (18 abs.) der Studierenden des Fachs Medizin teilgenommen. Die Testpersonen gaben an, die Wörter überwiegend im privaten Bereich zu verwenden, d. h. die Wörter sind als Bestandteil der Umgangssprache anzusehen. Das Rotwelsche ist heutzutage nicht mehr auf das kriminelle Milieu und die Randgruppen der Gesellschaft beschränkt. Die Auswertungen haben gezeigt, dass einzelne Wörter aus dem Rotwelschen alltäglich in der Umgangssprache sowie in Texten der Massenmedien verwendet werden. Die Ergebnisse der Online-Ausgabe der Tageszeitung Die Welt und der Vergleich der zwei Ausgaben des Duden Universalwörterbuches zeigen auf, dass Ausdrücke rotwelschen Ursprungs nicht nur Bestandteil der Umgangssprache und der Mundarten sind, sondern als lebendiger Bestandteil der deutschen Gegenwartssprache als Gesamtsprache gesehen werden können.

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Der Autor untersucht die Strategien und Konzepte des Göttinger Kulturwissenschaftlers Edmund Ballhaus, der mit seiner Filmarbeit die Entwicklung des wissenschaftlichen Films seit Mitte der achtziger Jahre maßgeblich beeinflußte. Detaillierte Analysen seiner ersten zwölf, in den Jahren 1986 bis 1996 entstandenen Filme verdeutlichen seine Abkehr von überholten inhaltlichen und methodischen Standards und die Entwicklung eines eigenständigen Typus des kulturwissenschaftlichen Films. Dieser rückt den Menschen in den Mittelpunkt der Betrachtung und erteilt den Gefilmten selbst das Wort. Damit wurde sowohl dem klassischen Erklärdokumentarismus des Fernsehens als auch dem distanzierten Dokumentationsstil des Instituts für den Wissenschaftlichen Film (IWF) ein neues Modell gegenübergestellt. Darüber hinaus löste sich Edmund Ballhaus von der traditionellen Arbeitsteilung in Hinblick auf Recherche, Konzeption und Umsetzung und ersetzte sie durch den selbstfilmenden Wissenschaftler, der für alle Arbeitsschritte einer Filmproduktion allein verantwortlich ist. Seine bereits 1987 veröffentlichten Forderungen verwirklichte er nicht nur in seinen Filmen, sondern auch mit der Gründung der Gesellschaft für den kulturwissenschaftlichen Film (GfkF) und der Einrichtung eines Studienganges Visuelle Anthropologie in Göttingen. In die Untersuchung einbezogen wurde eine im Anhang des Buches wiedergegebene Befragung des Filmautors, welche die Analyse um interessante Details sowohl in Hinblick auf die Entstehungsbedingungen einzelner Filme als auch auf seine persönlichen Überzeugungen und Beweggründe ergänzt.

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Mit dem vorliegenden Buch verfolgt der Autor vor allem drei Ziele: Das erste besteht darin, die anthropologischen Überlegungen, die sich in konzentrierter Form vor allem in den frühen Hauptwerken von Martin Heidegger und Jean-Paul Sartre finden, herauszulösen, zu systematisieren und zu einem einheitlichen anthropologischen Gedankengefüge zu vernetzen. In einem zweiten Schritt soll dieses Gefüge durch eigene Überlegungen ergänzt und in Auseinandersetzung mit Helmuth Plessner und Karl Jaspers weiterentwickelt werden. Drittens schließlich sollen vor diesem Hintergrund Grundlagen einer »strukturhermeneutischen Anthropologie« ausgearbeitet werden, die ein hermeneutisches Instrumentarium für die Aufklärung der unbedingten persönlichen Geltung kultureller Bindung bereitstellen können und von eigenen identitätstheoretischen Grundüberlegungen getragen werden. Da im fokussierten Zusammenhang kultureller Bindung und interkultureller Auseinandersetzung die Fragen nach dem menschlichen Selbstverhältnis und den Möglichkeiten sowie Bedingungen des Fremdverstehens eine wichtige Rolle spielen, sollen dabei nicht nur die hermeneutischen Aspekte der erörterten anthropologischen Positionen in den Blick genommen werden, sondern auch die damit unmittelbar verknüpften Fragen der Sinn- und Identitätsbildung. In kulturphilosophischer Hinsicht soll ein zentrales Ergebnis der Arbeit sein, anthropologische Eckpunkte menschlichen Entwerfens und Mechanismen der kulturellen Sinn- und Identitätsstiftung herauszuarbeiten, um der Analyse kultureller Bindung sowohl ein anthropologisches als auch ein hermeneutisches Fundament zu geben.

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Welche Literatur liegt im Trend? Welche Aktionen und Instrumente bietet der Markt, um Bücher an den Leser zu vermitteln? Wie lässt sich das gegenwärtige Literaturverständnis beschreiben – auch in Abgrenzung und im Vergleich zu den etablierten Literaturtheorien? Diese allgemeinen Fragen wurden in der vorliegenden Arbeit spezialisiert und auf Schwerpunkte konzentriert. In den Vordergrund rückte – unter dem Aspekt des Zeitgeistphänomens – die junge deutsche Literatur, auf die bei diesem Projekt aus persönlichem Interesse heraus der Fokus gelegt wurde. Erforscht wurde, welche Bücher, Themen und Autoren zeitweise populär waren, wie es um Status und Selbstpräsentation letztgenannter bestellt war und ist. Als Beispiele zu nennen sind Benjamin von Stuckrad-Barre und Florian Illies, beide sich ihres (Markt-)Wertes wohl bewusste Vertreter der Pop- und Generationsliteratur, die in den letzten Jahren einen Boom erlebte. Beide Schriftsteller wurden mit ihren Werken einer detailgenauen Analyse unterzogen. Spricht man über Literatur, ist es unumgänglich, das – vorherrschende – nicht unproblematische Literaturverständnis zu durchleuchten. Galten Bücher einst als Status- und Bildungssymbol, ist von dieser Wertschätzung und von solch hohem Prestige heute nicht mehr allzu viel vorhanden. Das Erarbeiten eines Literaturbegriffs bot sich in der Auseinandersetzung mit in der Germanistik gängigen Theorien an (z. B. Empirische Theorie der Literatur nach S. J. Schmidt). Reduzierte man (als ein Ergebnis) Leistung und Wert von Literatur tatsächlich nur noch auf reine, unkomplizierte und schnelllebige Unterhaltung, führte dies zwangsweise zur Frage nach einer Medienkonkurrenz in erster Linie mit dem Fernsehen, dann mit dem Computer und seinen Möglichkeiten. Im dritten und letzten Abschnitt der Arbeit wurde anhand von ausgewählten Beispielen dargestellt, wie das gegenwärtige Literaturverständnis mit dem Markt konform geht, sprich welche Aktionen an der Schnittstelle Markt – Leser stattfinden, mit denen letztere auf Literatur aufmerksam gemacht und zum Lesen animiert werden sollen. In diesem Rahmen wurde u. a. das System der Literaturkritik knapp beschrieben und anhand von drei aktuellen Rezensionsbeispielen veranschaulicht.