911 resultados para Early christian literature Liturgy Critical edition
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Pregnancy establishment, followed by birth of live offspring, is essential to all mammals. The biological processes leading up to pregnancy establishment, maintenance, and birth are complex and dependent on the coordinated timing of a series of events at the molecular, cellular, and physiological level. The ability to ovulate a competent oocyte, which is capable of undergoing fertilization, is only the initial step in achieving a successful pregnancy. Once fertilization has occurred and early embryonic development is initiated, early pregnancy detection is critical to provide proper prenatal care (humans) or appropriate management (domestic livestock). However, the simple presence of an embryo, early in gestation, does not guarantee the birth of a live offspring. Pregnancy loss (embryonic mortality, spontaneous abortions, etc.) has been well documented in all mammals, especially in humans and domestic livestock species, and is a major cause of reproductive loss. It has been estimated that only about 25-30 % of all fertilized oocytes in humans result in birth of a live offspring; however, identifying the embryos that will not survive to parturition has not been an easy task. Therefore, investigators have focused the identification of products in maternal circulation that permit the detection of an embryo and assessment of its well-being. This review will focus on the advances in predicting embryonic presence and viability, in vivo.
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Aureliano Fernandez-Guerra is known especially among Quevedo’s scholars because he published the first complete edition of Quevedo’s works. Few people know his plays and, for this reason, they have never been studied. These plays were written during his youth, when Fernández-Guerra hadn’t decided anything about his career yet. Therefore, these plays were always very important for him and, for this reason, he continued to correct and to revise them. Among them, the unpublished drama La hija de Cervantes (1840) was considered the most important play. In this doctoral thesis I have tried to describe this Spanish author, especially focusing on theatre. In the first part I wrote about the life and the literary works, giving particularly importance to his plays that are La peña de los enamorados (1939), La hija de Cervantes (1840), Alonso Cano (1842) and La Ricahembra (1845), this last one written in collaboration with Manuel Tamayo y Baus, another important and famous playwright. In the second part I deepened the study of La hija de Cervantes because it is a particular interesting drama: Aureliano Fernández-Guerra chose to represent the author of the Quixote as a character of his drama, especially dramatizing the most mysterious moments of his life, such as the Gaspar de Ezpeleta’s murder, his relationship with his daughter Isabel de Saavedra and his supposed love for a woman, whose existence his unknown. Besides, this drama is interesting because it is partially autobiographic: I found several letters and articles where it is emphasized the similarities between Cervantes’ and Aureliano’s life: both feel misunderstood and not appreciated by other people and both had to renounce a big love. In the final part I presented the critical edition of La hija de Cervantes based on the last three manuscripts that are today at the Institut de Teatre in Barcelona. A wide philological note shows the transcription criterions.
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Diego e José de Figueroa y Córdoba furono due fratelli drammaturghi, attivi nella seconda metà del XVII secolo, che praticarono assiduamente la scrittura in collaborazione. Nel tentativo di rivalutare questi autori ingiustamente dimenticati dalla critica odierna, il presente lavoro si propone di offrire uno studio introduttivo alle figure e al teatro dei due fratelli. Nella prima parte, si offre un profilo biografico dei fratelli Figueroa, riunendo le seppur scarse notizie che possediamo sulla loro vita, in modo da inquadrarne le personalità all’interno degli ambienti letterari dell’epoca. Ci si concentra, poi, sul corpus, proponendo una panoramica delle commedie scritte da Diego e José, dando di ciascuna una breve sinossi e un rapido inquadramento all’interno dei generi tipici del teatro aureo, e segnalando gli eventuali problemi di attribuzione. Si accenna, infine, alla collaborazione dei fratelli nella scrittura di molte delle loro commedie, avanzando alcune ipotesi sulla tecnica compositiva. La seconda parte è costituita da un repertorio bibliografico del teatro “maggiore” dei due fratelli, in cui si descrivono analiticamente tutti gli esemplari conosciuti delle comedias dei Figueroa. Ogni descrizione si completa con una lista delle biblioteche in cui l’esemplare è conservato, lista compilata attraverso la consultazione di cataloghi, cartacei e on-line, delle principali biblioteche con fondi di teatro spagnolo del Siglo de Oro. Infine, la terza parte è dedicata all’edizione critica di una delle commedie scritte in collaborazione da Diego e José: Mentir y mudarse a un tiempo, condotta usando come testo base un manoscritto probabilmente autografo. L’edizione si completa di un apparato critico, con analisi dei testimoni, stemma codicum e registro delle varianti. Precede l’edizione uno studio generale introduttivo all’opera.
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La ricerca è dedicata allo studio propedeutico ad una nuova edizione critica del primo dei Libri medicinales di Aezio Amideno, medico vissuto nel VI secolo e attivo alla corte di Costantinopoli. Sono stati oggetto principale di studio 35 manoscritti contenenti, in parte o integralmente, il primo libro di Aezio; la collazione ha permesso di individuare numerosi codices descripti e soprattutto di procedere ad una nuova classificazione dei codici. Riguardo alla modalità di utilizzo delle fonti da parte di Aezio si è potuto non solo accertare l’uso indiretto del testo galenico ed escludere la mediazione di Oribasio, ma sono state individuate nuove fonti, oltre a quelle tradizionalmente conosciute. Per la prima volta sono stati presi in esame sia il commento di Cristobal de Horozco ai sedici libri di Aezio che la traduzione latina di Giovanbattista Montano. Presente è infine un saggio di edizione dei capitoli 1-10 e 124 dell’edizione Olivieri, il testo proposto presenta significative differenze rispetto a quello edito nel CMG.
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Il presente progetto è incentrato sull’analisi paleografica della scrittura delle carte dei notai bolognesi del secolo XII (dal 1100 al 1164) ed è stata condotta su un totale di circa 730 documenti, quasi totalmente inediti. La ricerca rientra nell’ambito del progetto di edizione critica delle Carte bolognesi del secolo XII, in corso presso la Cattedra di Paleografia e Diplomatica dell’Università di Bologna. Il lavoro ha previsto un’analisi tecnica e puntuale delle abitudini grafiche di ogni notaio, con particolare attenzione al sistema abbreviativo (al fine di fornire una serie di dati di confronto che potranno essere utili al momento dell’edizione). È stata così realizzata una sorta di database delle diverse grafie esistenti sul territorio, organizzate per notaio e in ordine cronologico. Le caratteristiche della documentazione sono state poi prese in esame sul piano sincronico e nel loro sviluppo diacronico, e si è proceduto a un confronto tra la produzione dei diversi notai, verificando la presenza di nessi e parentele “grafiche”, che hanno permesso di ricostruire raggruppamenti di scriventi con caratteristiche affini.L’analisi dei dati ha permesso di indagare a fondo gli sviluppi della minuscola carolina bolognese e di osservare l’organizzazione e le modalità di apprendimento della pratica notarile. È stato così possibile cogliere le dinamiche con cui la carolina, introdotta da alcuni notai “innovatori”, come Angelo e Bonando, si è diffusa dalla città al contado: si è trattato di un processo graduale, in cui accanto a forme già mature, di transizione verso la gotica, sono convissute forme ancora arcaiche. In linea con quanto la storiografia ha evidenziato, anche l’analisi grafica della documentazione privata bolognese conferma che il processo di rinnovamento della corporazione dovette essere successivo all’impresa irneriana, traendo probabilmente alimento anche dai rapporti diretti e documentati tra Irnerio e alcune personalità più avanzate del notariato bolognese.
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La ricerca ha come oggetto l’edizione critica di circa tremila regesti di documenti di area bolognese datati al X-XII secolo. I documenti sono stati trascritti tra il XVII e XVIII secolo in undici cartulari ecclesiastici, conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna. Il lavoro s’inserisce nel progetto di edizione delle carte bolognesi di epoca medievale in corso presso la cattedra di Paleografia latina e Diplomatica dell’Università di Bologna, attualmente incentrata sull’edizione delle carte del secolo XII. La ricerca si propone come strumento di supporto a tale progetto e come completamento delle carte già pubblicate: i cartulari, infatti, offrono spesso copie di documenti mancanti dell’originale o in cattivo stato di conservazione, e costituiscono l’unica traccia di una memoria storica altrimenti perduta. Le raccolte esaminate si collocano a ridosso del periodo napoleonico, quando la maggior parte degli enti ecclesiastici venne soppressa e i loro beni incamerati dallo Stato; esse quindi rispecchiano la condizione dei principali archivi ecclesiastici cittadini dei primi secoli del Medioevo bolognese. La ricerca è strutturata in una prima parte volta a definire in termini storico-diplomatistici la tipologia di fonte esaminata: oggi i cartulari non sono più intesi come semplici raccoglitori di documenti, ma come sistema organico di fonti in grado di far luce su aspetti importanti della storia dell’ente che li ha prodotti. L’indagine del loro contesto di produzione permette di comprenderne meglio le finalità, la forma e il valore giuridico. Parte della ricerca è stata poi incentrata sullo studio delle ragioni che hanno portato gli istituti religiosi bolognesi alla redazione dei cartulari: a tal fine è stata esaminata la legislazione ecclesiastica cinque-settecentesca in materia di conservazione della documentazione e il rapporto della legislazione stessa con la prassi archivistica. Infine è stata realizzata l’edizione critica vera e propria dei regesti, mirante a descrivere le caratteristiche principali di ciascun cartulario.
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Questo lavoro è imperniato sullo studio di uno dei melodrammi più interessanti della fine del XVII secolo: “Il carceriere di sé medesimo” di Lodovico Adimari (1644-1708) e Alessandro Melani (1639-1703), allestito per la prima volta a Firenze nel 1681, e ripreso nel giro di una ventina d’anni a Reggio (1684), a Bologna (1697) e a Vienna (1702). L’opera vanta un’origine drammatica di spicco: risale infatti alla commedia “Guardarse a sí mismo” di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) mediata dal “Geôlier de soi-mesme” di Thomas Corneille (1625-1709), e presenta qualità poetiche e musicali evidenti, assicurate dai nomi del poeta Lodovico Adimari e del compositore Alessandro Melani. A ciò si aggiungano una tradizione articolata in quattro allestimenti, nonché un elevato numero di testimoni superstiti: cinque edizioni del libretto (testimoniate da numerosi esemplari) e il numero fortunatissimo di tre partiture manoscritte, conservate a Parigi, Bologna e Modena. La tesi contiene l’edizione critica del “Carceriere di sé medesimo” di Adimari con tutte le varianti accumulatesi nella riedizione del libretto e nella copiatura della partitura, l’analisi del dramma, a partire dal confronto tra i testi di Calderón, Corneille e Adimari, e lo studio delle sue componenti drammatiche, formali e contenutistiche. Si aggiunge uno studio sul contesto storico-musicale degli allestimenti di Firenze, Reggio, Bologna e Vienna, nonché l’edizione dei restanti tre drammi di Adimari: la commedia “Le gare dell’amore e dell’amicizia” (1679), e il dramma per musica “L’amante di sua figlia” (1684).
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L'inno dedicato ai sette Amesha Spəṇta è parte della produzione avestica recenziore, e si compone in gran parte di porzioni testuali riprese da altri testi avestici a loro volta di formazione tardiva. Lo Yašt si divide in tre parti principali: le stanze 0-10; 11-14; e infine la stanza 15 che comprende la formula di chiusura tipica degli inni avestici. La prima sezione (2.0-10) è composta dalla formula di apertura, incompleta rispetto a quelle dei restanti inni, seguita dai primi sette capitoli di entrambi i Sīh-rōzag compresi i Gāh. Le stanze centrali (11-14) si caratterizzano per l'assenza di passi gemelli, un elevato numero di hapax e di arcaismi formali e inoltre, una grande variabilità nella tradizione manoscritta. Si tratta di una formula magica per esorcizzare/allontanare demoni e stregoni, che doveva essere recitata per sette volte. Tale formula probabilmente rappresentava in origine un testo autonomo che veniva recitato assieme ad altri testi avestici. La versione a noi pervenuta comprende la recitazione di parte di entrambi i Sīh-rōzag, ma è molto probabile che tale arrangement sia soltanto una sequenza recitativa che doveva coesistere assieme ad altre. Attualmente la formula magica viene recitata principalmente assieme allo Yasna Haptaŋhāiti, senza le restanti stanze dell'inno nella sua versione geldneriana. Il testo sembra nascere come formula magica la quale venne recitata assieme a diversi testi avestici come per esempio parti dello Sīh-rōzag. In un periodo impossibile da stabilire con certezza la versione viene fissata nella forma a noi pervenuta nella maggior parte dei manoscritti e per la sua affinità formale probabilmente interpretato come inno e perciò incluso nell'innario avestico.
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This paper discusses the manuscript transmission of Chrétien’s Roman de Perceval ou le Conte du Graal and Wolfram’s Parzival in terms of their textual tradition and editorial criticism. It shows that the most recent edition of the Old French Perceval (K. Busby 1993) can be viewed as a landmark of the art of conventional editing that appeared at the peak of the discussion of ‘New Philology’ and took its own position in this context. At the same time, the Perceval was subject of critical studies based on the principle of ‘unrooted trees’ that questioned the genealogical concept of traditional ‘Lachmannian’ stemmatology. Conversely, a new edition of Wolfram’s Parzival, based on all known manuscripts, remained a desideratum for decades in German studies. Specific research on the textual tradition played a rather marginal role for a long time, but has been reinforced in the recent years in the context of a new critical edition presenting the totality of manuscripts as well as different textual versions in electronic form. The concept of ‘unrooted trees’ visualizing relationships of manuscript readings can be integrated in this concept. The article gives an overview of these methods, presents examples of editorial techniques, and develops ideas on how to combine the research on the manuscript tradition of both the German text and its French counterpart.
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This article discusses the manuscript transmission of Chrétien’s Roman de Perceval ou le Conte du Graal and Wolfram’s Parzival in terms of their textual tradition and editorial criticism. It shows that the most recent edition of the Old French Perceval (K. Busby 1993) can be viewed as a landmark of the art of conventional editing that appeared at the peak of the discussion of ‘New Philology’ and took its own position in this context. At the same time, the Perceval was subject of critical studies based on the principle of ‘unrooted trees’ that questioned the genealogical concept of traditional ‘Lachmannian’ stemmatology. Conversely, a new edition of Wolfram’s Parzival, based on all known manuscripts, remained a desideratum for decades in German studies. Specific research on the textual tradition played a rather marginal role for a long time, but has been reinforced in the recent years in the context of a new critical edition presenting the totality of manuscripts as well as different textual versions in electronic form. The concept of ‘unrooted trees’ visualizing relationships of manuscript readings can be integrated in this concept. The article gives an overview of these methods, presents examples of editorial techniques, and develops ideas on how to combine the research on the manuscript tradition of both the German text and its French counterpart.
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A discussion of the long-term “Hölderlinism” of Italian poets, starting from Vigolo’s essay on Hölderlin and the music (1966), moving back to Carducci’s translations, with a critical edition of his version of Hölderlin’s Achill (1874, see the leaf reproduced in the appendix), and concluding with a look at later Italian poets up to Pusterla (2004).
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El propósito que orienta la investigación es estudiar los giros fundamentales de la teoría literaria en el siglo XX y sus posibles funcionalizaciones en una obra literaria particular. Para esto se selecciona un modelo de sistematización de las corrientes teóricas y un autor, Italo Calvino, cuyas resoluciones estéticas abarcan gran parte del tiempo puesto en cuestión y contienen las variaciones que en él se suceden. El recorrido demuestra que los cambios operados en los postulados de la teoría literaria del siglo XX y los entramados en la producción ensayística y literaria contemporánea de Italo Calvino guardan estrecha correspondencia en sus constantes y alternancias. Esto se confirma desde distintos ángulos de abordaje: la primera parte de la tesis focaliza la consideración de la obra asumida con el compromiso de dar cuenta de un contexto y de la problemática social; la segunda analiza propuestas e intentos teóricos y prácticos de desvincularla de cualquier aspecto exterior a sí misma, y considerarla en su inmanencia; y la tercera parte examina el rol del lector como instancia definitoria en que la obra se concreta. Esta demostración, a su vez, pone al descubierto gran parte de las mutaciones en la concepción de la literatura acontecidas en el pasado siglo, desde la perspectiva de la reflexión sobre la literatura, la práctica crítica y la resolución estética. Además, reconfirma las razones por las que hay que ocuparse de la literatura, y de la teoría literaria que analiza y da cuenta de los pormenores de su historia, de los accidentes de su dimensión ontológica, y de sus posicionamientos en el ámbito de las humanidades y de la enseñanza en general.
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La Patrística cristiana recibió la noción veterotestamentaria de asthéneia de la versión griega de los LXX. Entendida como “debilidad" y “falta de fuerza", se la asoció con “enfermedad" o “estado general de debilidad", significado que se conservó tanto en los libros históricos como en los poéticos. El término aparece con frecuencia también en los Evangelios y en los escritos de Pablo, posibilitando así una comprensión de la enfermedad en clave filosófico-teológica por parte de los Padres, entre los que se destaca el Patriarca de Constantinopla San Juan Crisóstomo, quien recurriendo a una exégesis literal de la Escritura según los principios de la escuela antioquena, analiza el concepto en sus comentarios a las Epístolas llamadas “Mayores" de San Pablo y, particularmente, a la Segunda Carta a los Corintios. De esta lectura se desprende la necesidad de considerar la asthéneia de manera inseparable de la antropología cristiana. En los orígenes del cristianismo la concepción de hombre resultaba extremadamente compleja, oscilando desde la antropología tripartita de San Pablo (I Tes. 5, 23) a la quíntuple presentada por ciertos textos gnósticos (Carta esotérica de Santiago 11, 36-12, 17; 14, 24-36) y a la década de Clemente de Alejandría (Strómata VI, 16, 135, 1-2). El estudio de la aplicación del concepto de asthéneia a los distintos componentes del hombre en la polifacética literatura cristiana primitiva, permite comprender la importancia asignada a cada uno de ellos según las distintas corrientes interpretativas.
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Juan Cruz Varela es el poeta argentino más importante de la primera generación revolucionaria. Su abundante producción tiene como eje principal el tópico de defender la libertad, en contra de toda tiranía. Sin embargo, y de acuerdo con la política del momento, ese reclamo de libertad no beneficia a todos los habitantes de la pampa. Varela elogia tanto las medidas de Bernardino Rivadavia sobre la cuestión india, como al brazo ejecutor, el coronel Federico Rauch, a través de un comentario periodístico y de un poema, textos de 1827 cuya estructura semántica es casi idéntica. Sin embargo, la posterior corrección del poema (1831) permite apreciar que la conciencia poética de Varela se impone sobre la circunstancia política eventual. Este artículo se complementa con la edición crítica de “En el regreso de la expedición contra los indios bárbaros, mandada por el Coronel D. Federico Rauch", incluida en la sección “Documentos" de esta misma revista.
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Se propone un repaso de algunas cuestiones relacionadas con la edición crítica del Poema de Mio Cid, algunas de carácter general, como la discusión sobre la pertinencia de tener en cuenta la labor de los editores anteriores y el actual debate planteado por los partidarios de ediciones ultra-conservadoras, otras de carácter más puntual, referidas a criterios concretos de edición y casos ilustrativos de enmiendas realizadas. Todas estas consideraciones surgen de la propia experiencia de editar el poema