201 resultados para Authorial fantasies
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Oggetto di questo lavoro è un’analisi dettagliata di un campione ristretto di riprese televisive della Quinta Sinfonia di Beethoven, con l’obiettivo di far emergere il loro meccanismo costruttivo, in senso sia tecnico sia culturale. Premessa dell’indagine è che ciascuna ripresa sia frutto di un’autorialità specifica che si sovrappone alle due già presenti in ogni esecuzione della Quinta Sinfonia, quella del compositore e quella dell’interprete, definita perciò «terza autorialità» riassumendo nella nozione la somma di contributi specifici che portano alla produzione di una ripresa (consulente musicale, regista, operatori di ripresa). La ricerca esamina i rapporti che volta a volta si stabiliscono fra i tre diversi piani autoriali, ma non mira a una ricostruzione filologica: l’obiettivo non è ricostruire le intenzioni dell’autore materiale quanto di far emergere dall’esame della registrazione della ripresa, così com’è data a noi oggi (spesso in una versione già più volte rimediata, in genere sotto forma di dvd commercializzato), scelte tecniche, musicali e culturali che potevano anche essere inconsapevoli. L’analisi dettagliata delle riprese conferma l’ipotesi di partenza che ci sia una sorta di sistema convenzionale, quasi una «solita forma» o approccio standardizzato, che sottende la gran parte delle riprese; gli elementi che si possono definire convenzionali, sia per la presenza sia per la modalità di trattamento, sono diversi, ma sono soprattutto due gli aspetti che sembrano esserne costitutivi: il legame con il rito del concerto, che viene rispettato e reincarnato televisivamente, con la costruzione di una propria, specifica aura; e la presenza di un paradigma implicito e sostanzialmente ineludibile che pone la maggior parte delle riprese televisive entro l’alveo della concezione della musica classica come musica pura, astratta, che deve essere compresa nei suoi propri termini.
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L'Europe commence à découvrir le désert à la fin du XVIIIe siècle. Ce milieu présente des aspects multiples aux premiers explorateurs, qui le décrivent comme un lieu vivant et varié. La géopolitique constitue le premier approche d'analyse : le désert peut être rendu plus viable si mieux administré, donc libre de la domination ottomane. Au cours du siècle, le tourisme se développe, aussi en raison de la colonisation ; l'expérience du désert devient commune, et les voyageurs partent en quête d'une expérience spirituelle aussi bien que d'une aventure. Le désert devient un écran de projection pour la rêverie et les souvenirs des Européens (la Bible et les topos traditionnels demeurent actifs dans l'imaginaire occidental) ; seules certaines caractéristiques de ce milieu sont dès lors appréciées par les voyageurs. Ensuite, avec l'âge du Réalisme, devient objet d'appréciation de la part des peintres. Grâce à la médiation de l'art, la littérature commence à regarder au désert d'un point de vue esthétique, et elle lui reconnaît un charme de la nudité et du dépouillement. La mort et le minéral caractérisent ce milieu vers la fin du siècle ; le désert se vide, et devient le "désert de sable" que nous tous connaissons aujourd'hui.
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Oggetto di questa tesi è l’analisi delle modalità di rappresentazione del trauma nel romanzo del Novecento e, in particolare, nelle opere di Samuel Beckett, Georges Perec e Agota Kristof. Fondamento dello studio sarà una disamina dei procedimenti linguistici e narrativi di rappresentazione del trauma nelle prose degli autori citati, al fine tracciare le linee di un’estetica in grado di descrivere le caratteristiche peculiari delle narrazioni in cui la dimensione antinarrativa della memoria traumatica assume il ruolo di principio estetico guida. L’analisi si soffermerà sulla cruciale relazione esistente, in tutti e tre gli autori, tra rappresentazione del trauma e sviluppo di strategie narrativi definibili come “denegative”. L’analisi dei testi letterari è condotta sulla base del corpus critico dei Trauma Studies, dell’ermeneutica della narrazione di stampo ricœuriano e della teoria del linguaggio psicoanalitica e affiancata, ove possibile, da uno studio filologico-genetico dei materiali d’autore. Alla luce di tali premesse, intendo rivalutare il carattere rappresentativo e testimoniale della letteratura del secolo scorso, in contrasto con la consuetudine a vedere nel romanzo novecentesco il trionfo dell’antimimesi e il declino del racconto. Dal momento che le narrazioni traumatiche si costruiscono intorno e attraverso i vuoti di linguaggio, la tesi è che siano proprio questi vuoti linguistici e narrativi (amnesie, acronie, afasie, lapsus, omissioni e mancanze ancora più sofisticate come nel caso di Perec) a rappresentare, in modo mimetico, la realtà apparentemente inaccessibile del trauma. Si tenterà di dimostrare come questi nuovi canoni di rappresentazione non denuncino l’impossibilità del racconto, bensì una sfida al silenzio, celata in più sottili e complesse convenzioni narrative, le quali mantengono un rapporto di filiazione indiretto − per una via che potremmo definire denegativa − con quelle del romanzo tradizionale.
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L’obiettivo primario di questo lavoro è quello di esplorare un insieme di documentari corti italiani di tipo etnografico e sociologico. Questi film hanno ricevuto pochissima attenzione critica, mentre sono essenziali alla comprensione del periodo di storia italiana compreso fra gli ultimi anni del Regime fascista e la fine del “Miracolo economico”. La prima parte della tesi è dedicata alla descrizione del contesto economico, sociologico, politico in cui questi lavori sono stati prodotti. La seconda parte si concentra su circa un centinaio di documentari corti analizzati sulla base di tre diversi criteri. Innanzitutto li abbiamo considerati a partire da un punto di vista autoriale, secondariamente a partire dalle loro caratteristiche produttive e distributive e infine sulla base di un criterio regionale. A partire dalla discussione antropologica coeva riguardante la scomparsa dei mondi contadini e su una precisa ricerca d’archivio focalizzata sullo stesso tema, abbiamo poi comparato il risultato dell’analisi del corpus con altre forme filmiche di rappresentazione dello stesso soggetto. Oltre a far riemergere un gruppo di autori e film quasi dimenticati, questo lavoro intende lanciare uno sguardo sul veloce, conflittuale e sbilanciato cambiamento compreso fra i mondi rurali tradizionali e la modernità, che ha caratterizzato la società italiana degli anni Cinquanta e Sessanta.
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This article focuses on the “social side” of pseudonymity—on how writers and readers compete to influence the critical destiny of a pseudonymous work. By analyzing pseudonymity and attribution in both the specific context of Voltaire’s 1760 staging of the play, Le café ou l’écossaise, and in larger debates in the emerging fields of anonymity, pseudonymity, and attribution studies, I hope to show how literary scholars at present can address the individuality of each pseudonymous case while not letting go of trans-historical, general problems of anonymous strategies. Voltaire’s use of multiple pseudonyms before and after releasing L’Ecossaise, a comédie sérieuse in which Voltaire attacks his enemy Elie-Cathérine Fréron, supports his philosophe friends at a crucial moment in history, and exemplifies his emerging taste for serious comedy and British drama calls into question traditional takes on pseudonymity, anonymity, and attribution by refusing to fit into the binary arguments of anonymous vs. attributed and authorial intent vs. the reader’s control.
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Saint Margaret, as presented in the “Katherine Group” life of the virgin martyr, claims to have Christ’s “marks” and “seals” on her. Bringing together postmodern theories of body modification and Paul Zumthor’s concept of mouvance, this essay reads these marks as tattoos that consist of virtual (tattoo fantasies), oral (tattoo narratives), and written elements (the actual marks on skin). Margaret defends and empowers herself by claiming to possess Christ’s ownership tattoo. Her oppressor Olibrius, in turn, intends to overwrite that mark palimpsestically and hence to empower himself, not unlike slave-owners in antiquity. While the gruesome torture scenes suggest that Olibrius wins the upper hand in this contest, the outcome of the narrative instead proves that Margaret triumphs. She dies a virgin after defiantly appropriating, in her tattoo narrative, the torture marks as her own, divine tattoo.
Géneros discursivos de la memoria en clave literaria : los días iniciales de Joselín Cerda Rodríguez
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Siendo el de las memorias un género legendario, hay que reconocer que su producción y posterior estudio ha cobrado particular auge en las últimas tres décadas. Si bien en el panorama sobre la escritura literaria en Catamarca, se conocen trabajos sobre las posibilidades de este género, están acotados a la poesía o a un texto como Niñez en Catamarca de Gustavo Gabriel Levene. Un aspecto probablemente distintivo de esta comunicación sea el corpus literario constituido por los relatos que integran Los días iniciales (1993) de Joselín Cerda Rodríguez, un escritor cuya obra constituye un caso infrecuente, por su autoafirmación étnica y por la textualización del yo en la reconstrucción de la memoria personal y colectiva. Interesa indagar: cómo el discurso construye las representaciones de la memoria personal; cuáles son las huellas del enunciador y cuáles las relaciones entre el yo autorial y el yo narrador en los enunciados narrativos; cuáles son las diferentes modalidades discursivas del género que exhibe la construcción de los textos. En relación con este último aspecto, importa considerar el plan de escritura de los relatos y la intercalación de recuerdos de infancia y de juventud, retratos físicos y morales, descripción de caracteres, evocación subjetiva y narración propiamente dicha. El abordaje previsto se encuadra en el marco teórico y metodológico provisto por el Análisis del Discurso (AD) y, en particular, sigue las propuestas de la Teoría de la Enunciación, la Lingüística del Texto y la Teoría Literaria, a partir de compatibilidades conceptuales que posibilitan integrar las distintas perspectivas teóricas. A través de este primer acercamiento al universo literario de Joselín Cerda Rodríguez se espera poder demostrar que la recuperación y preservación de la memoria personal, como colectiva constituye un punto de apoyo determinante en la plasmación de una cosmovisión singular e infrecuente.
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Si bien la industria editorial ha atravesado grandes trasformaciones con la incorporación de las tecnologías de la información y la comunicación (TIC) en el ámbito de la producción, tanto editorial como autoral, el presente artículo atiende particularmente a las nuevas características que presentan las prácticas de lectura a partir de dicha inscripción. Se propone aquí un análisis de la cuestión de la lectura en estricta relación al nuevo escenario editorial marcado por un continuo replanteo del “quehacer editorial", del rol del editor y los diversos agentes del campo, de los soportes y formatos válidos para la lectura. La primera sección propone una sintética caracterización del funcionamiento de la industria editorial. El segundo apartado hace foco en las transformaciones puntuales del sector del libro en relación con la llegada de las tecnologías de la comunicación. La tercera parte presenta un breve repaso del estado de la cuestión vinculado a las prácticas de lectura en el entorno digital, y a continuación se desarrollan algunos rasgos y tendencias de la lectura en los soportes electrónicos en Argentina, Estados Unidos y España. El artículo concluye con una serie de reflexiones finales.
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La aparición de la América poética -primera colección de poesía hispanoamericana- entre febrero de 1846 y junio de 1847, constituyó un evento singular para la cultura letrada latinoamericana. En efecto, la antología configuró por primera vez un mapa americanista de la poesía en lengua hispana, encumbrándose como patrimonio cultural y capital simbólico diferenciado de la cultura española. A su vez, la antología marcó un hito en la producción crítica e historiográfica de Juan María Gutiérrez. Las lecturas de la América poética, en general, estuvieron orientadas a indagar en su capacidad representativa. Este trabajo, en cambio, propone una lectura centrada en la figura de redactor (figura autoral, aunque diferida), y una revisión de las prácticas de edición a partir de las anotaciones manuscritas que realizó Gutiérrez al volumen original, que hoy se conserva en la Biblioteca del Congreso de la Nación
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El presente trabajo se propone analizar algunos tópicos recurrentes en la crítica de la obra de Augusto Monterroso, en especial aquél que caracteriza al autor como un renovador de la fábula clásica y un subversor de sus contenidos morales. Nos interesa revisar esos discursos críticos a la luz de una lectura de los aspectos axiológicos de La oveja negra y demás fábulas y de las estrategias autorales desplegadas en otros textos por el propio autor
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A partir de la lectura de una serie de atribuciones erróneas que atraviesa tres ensayos de Ricardo Piglia sobre Macedonio Fernández, este artículo sugiere una hipótesis sobre los alcances de la estrategia de "ficcionalización de la crítica" que caracteriza la ensayística de Piglia y ensaya una evaluación de la reducción, que se opera en ésta, del acontecimiento de la ficción a un efecto de falsificación previsto por una instancia autorial. En el curso de esa tentativa evaluadora, se proponen algunas diferencias entre la ensayística de Piglia y la de Jorge Luis Borges.
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José Hierro es recordado en la historia de la literatura española por la poetización en sus obras de posguerra de un claro yo autoral, que cobra sentido casi siempre en cuanto englobado en el nosotros de una generación concreta y real: los textos hierrianos dan la impresión de estar hablando siempre en clave personal, si bien las confesiones se quedan muchas veces en el ámbito de lo público, raras veces sumergiéndose en la introspección de lo íntimo, esfera que, como es sabido, el poeta solía respetar con abundante prudencia en todos los aspectos de su vida. Todo ello se construye con las oportunas marcas de realismo o realemas, que conducen al lector en la pista de una lectura más o menos realista, tendente a eliminar todo efecto de ficción, como era canónico en la época. La evolución de José Hierro le lleva a ir dejando de lado esta poética de razón histórica para adentrarse en otros caminos, que serían tan exitosos y productivos en los años subsiguientes. No es sorprendente, por tanto, que encontremos líneas evolutivas en un autor de cuya obra se extiende en tan largo período de tiempo -pensemos que se trata de más de cincuenta años-. Sin embargo, sí llama la atención que en sus últimos libros de poesía encontremos una peculiar manera de resolver el problema del pudor y de la identidad. Encontramos en ellos la imbricación de una creciente confesión íntima y un decreciente correlato autorial. No somos las primeras en advertir esta aparente paradoja, pero lo que queremos demostrar es que las frecuentes máscaras culturalistas ejercen una función múltiple en la obra hierriana; permitiéndole conectar con las jóvenes poéticas, el autor consigue dar cabida a las inquietudes íntimas sin sentirse violentado
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Este trabajo se propone analizar la novela Lata peinada (2008), de Ricardo Zelarayán, texto donde se evidencia una recuperación de los usos de la experimentación narrativa, deudores de la antinovela de Macedonio Fernández y la modalidad de escritura con variaciones, tal como la practicaba Leónidas Lamborghini. Estas filiaciones, eminentemente enraizadas en la historia literaria rioplatense, se articulan con usos lingüísticos que intentan remedar sutilmente formas orales propias del noroeste argentino, donde trascurren las historias del relato. En este sentido, la escritura de Zelarayán permite analizar la curiosa elección de un autor que, durante varios años, luchó por instalarse en el campo literario porteño y articuló, en sus textos, una apuesta escrituraria que entrecruzaba tradiciones metropolitanas fuertes (Macedonio, Cortázar, Lamborghini) con señeras figuras autorales del interior menos reconocidas (Manuel J. Castilla, Jacobo Regen)
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Este trabajo explora la imagen de escritor que Martí construye a través de sus lecturas de los "otros"; en particular, las operaciones que realiza al "traducir" desde Nueva York las figuras de Walt Whitman, Oscar Wilde y Julián del Casal para el público latinoamericano. Leo la construcción de Martí de lo "natural" como una de las variadas máscaras que asumen los modernistas: desde el espacio de la crónica, y ante la necesidad de diferenciación de otros discursos, la lectura crítica del presente cosmopolita promueve la creación de una voz propia mediante la cual se forja una figura de escritor.
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La aparición de la América poética -primera colección de poesía hispanoamericana- entre febrero de 1846 y junio de 1847, constituyó un evento singular para la cultura letrada latinoamericana. En efecto, la antología configuró por primera vez un mapa americanista de la poesía en lengua hispana, encumbrándose como patrimonio cultural y capital simbólico diferenciado de la cultura española. A su vez, la antología marcó un hito en la producción crítica e historiográfica de Juan María Gutiérrez. Las lecturas de la América poética, en general, estuvieron orientadas a indagar en su capacidad representativa. Este trabajo, en cambio, propone una lectura centrada en la figura de redactor (figura autoral, aunque diferida), y una revisión de las prácticas de edición a partir de las anotaciones manuscritas que realizó Gutiérrez al volumen original, que hoy se conserva en la Biblioteca del Congreso de la Nación