37 resultados para TERAPEUTICA FISIOLOGICA
Resumo:
Background: La paralisi cerebrale infantile (PCI) è una frequente causa di disabilità nei bambini e nei giovani adulti. Consiste in un gruppo di disturbi neurologici permanenti che causano primariamente limitazioni e disfunzioni nello sviluppo motorio; a tali disturbi possono associarsi problematiche sensoriali e cognitive. Una specifica Arrampicata sportiva, mediante una parete adattiva, può essere un’interessante attività terapeutica da associare al tradizionale programma abilitativo per i bambini con PCI. Obiettivo: L’obiettivo di questa Scoping Review è quello di andare a studiare, approfondire e sintetizzare le evidenze della ricerca rispetto al ruolo della parete di arrampicata come attività aggiuntiva e di sostegno all’interno del progetto abilitativo dei bambini affetti da paralisi cerebrale infantile. Metodi: La ricerca sistematica e bibliografica è stata realizzata mediante la consultazione di banche dati, riviste di giornali e grey literature. È stata effettuata un’analisi degli articoli pertinenti rispetto al quesito clinico di partenza: “Cosa ci dice la Letteratura esistente in merito al ruolo dell’attività di Arrampicata nel percorso abilitativo del bambino affetto da Paralisi Cerebrale Infantile?”. Risultati: Dalla selezione sono stati inclusi 8 articoli, eterogenei tra loro rispetto alla tipologia di studio. Il processo di selezioni delle fonti di evidenza è stato riepilogato tramite un diagramma di flusso. I contenuti di ogni articolo sono stati schematizzati in una tabella sinottica e in seguito sintetizzati per ciascuno obiettivo dello studio, partecipanti, intervento e risultati. Conclusioni: I risultati mostrano come nei bambini con PCI un’adattata attività di arrampicata, inserita in un programma fisioterapico, sia uno strumento terapeutico aggiuntivo nel determinare un miglioramento della mobilità e del controllo motorio, principalmente di arti superiori, in funzione di un maggior sviluppo delle abilità nelle ADL.
Resumo:
Background:La gonartrosi è una patologia degenerativa che colpisce l’articolazione del ginocchio. Rappresenta un grave problema di salute pubblica mondiale e comporta dolore e riduzione della funzionalità. Sono presenti studi che confrontano l’uso di iniezioni intra articolari con la fisioterapia per ridurre il dolore, ma ad oggi non vi è ancora un gold standard per la gestione della malattia. Scopo della ricerca:Valutare l’efficacia della fisioterapia rispetto all’uso di iniezioni intra articolari in pazienti affetti da gonartrosi, sul dolore e sulla qualità di vita. Disegno dello studio:Revisione Sistematica della Letteratura effettuata seguendo il PRISMA Statement. Metodi:La ricerca è stata condotta nelle banche dati PubMed, PEDro, Cochrane Library. Sono stati inclusi trial randomizzati controllati (RCT) in lingua inglese e italiana, che confrontavano l’efficacia del trattamento fisioterapico rispetto all’utilizzo di iniezioni intra articolari, con outcome relativi a riduzione del dolore e al miglioramento della qualità di vita. La qualità metodologica e il rischio di bias sono stati valutati utilizzando la PEDro Scale. Risultati:Cinque studi sono stati inclusi in questa Revisione Sistematica. Ci sono stati due studi che hanno dimostrato la maggiore efficacia di altri trattamenti rispetto alla fisioterapia. Altri due trials hanno confrontato il trattamento fisioterapico con l’uso di iniezioni di acido ialuronico e si sono osservati risultati pressoché uguali tra i gruppi. Solo uno studio ha dimostrato la superiorità del trattamento combinato di iniezioni e programma riabilitativo nella gestione della gonartrosi, rispetto al solo utilizzo di iniezioni intra articolari. Conclusioni:I risultati contrastanti che si sono osservati non permettono di affermare con certezza la superiorità della fisioterapia rispetto all’utilizzo di iniezioni intra articolari, sebbene rappresenti una valida scelta terapeutica grazie al suo basso costo e alla sua ridotta invasività.
Resumo:
Dalla letteratura si evince come, in una gravidanza fisiologica, il parto extra ospedaliero sia un’alternativa sicura, al pari dell’assistenza ospedaliera. In Italia avviene in una bassa percentuale di casi, nonostante sul territorio siano presenti strutture per poter attuare questa scelta. Un piccolo aumento è avvenuto negli ultimi due anni probabilmente dovuto anche alla pandemia da Covid. In particolare in Emilia Romagna, sono state indagate le informazioni e le modalità che i servizi territoriali e ospedalieri offrono alle gestanti in merito ai luoghi del parto. Un secondo obiettivo è stato capire, tramite le testimonianze delle donne, come avessero reperito le informazioni e a chi si fossero rivolte per la pianificazione del parto. Si è posta l’attenzione sull’opinione di Ostetric* del SSN circa il parto extra ospedaliero. Sono state effettuate 8 interviste semi-strutturate, e raccolti 27 questionari tra Ostetriche operanti nei Consultori e nei punti nascita ospedalieri. È stata raccolta, inoltre, l’opinione di 62 donne che hanno partorito in ambiente extra ospedaliero. I dati sono stati utilizzati in forma anonima. Dallo studio emerge la necessità di ampliare gli spazi e i tempi dedicati alla scelta del luogo del parto al fine di offrire alle coppie ogni alternativa possibile; le Ostetriche e le donne coinvolte suggeriscono diversi metodi per facilitare la conoscenza e il contatto con la realtà extra ospedaliera: da una più ampia diffusione di informazioni da parte delle strutture del SSN a momenti di formazione condivisa con chi opera a domicilio o in casa di Maternità. Le donne sottolineano la difficoltà di reperire informazioni dettagliate e di come la scelta sia spesso influenzata da pregiudizi. I consultori dovrebbero fornire informazioni dettagliate su tutti i luoghi del parto a tutte le donne per permettere una scelta libera da opinioni soggettive. Dovrebbero essere presi accordi specifici tra chi pratica l’assistenza in ospedale e chi in altri ambiti.
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Ad oggi, l’attuale gold standard per il trattamento di amputazioni transfemorali è rappresentato dall’utilizzo di protesi con invaso (socket). Tuttavia, si rileva un elevato grado di insoddisfazione in questo tipo di protesi, dovuto a numerose complicazioni. Per questo sono state sviluppate le protesi osteointegrate. Queste protesi hanno numerosi vantaggi rispetto alla tipologia socket ma presentano anch’esse dei problemi, in particolare complicazioni meccaniche, di mobilizzazione e di infezione. Per questo, lo scopo di questo elaborato di tesi è stato quello di sviluppare ed ottimizzare un metodo per caratterizzare il comportamento biomeccanico di una protesi osteointegrata per amputati transfemorali, tramite Digital Image Correlation (DIC). In particolare, sono state valutate le condizioni e i metodi sperimentali utili a simulare una reale situazione fisiologica di distribuzione delle deformazioni sulla superficie dell’osso una volta impiantata la protesi. Per le analisi è stato utilizzato un provino di femore in composito nel quale è stata impiantata una protesi osteointegrata. È stata effettuata un’ottimizzazione dei parametri della DIC per consentire una misura precisa e affidabile. In seguito, sono state svolte due tipologie di test di presso-flessione sul provino per valutare la ripetibilità dell’esperimento e l’intensità delle deformazioni superficiali al variare del carico in range fisiologico. Il metodo sviluppato è risultato ripetibile, con un errore al di sotto della soglia stabilita. All’aumentare del carico è stato possibile osservare un aumento lineare delle deformazioni, oltre che un’espansione dell’area sottoposta a deformazioni più elevate. I valori di deformazioni ottenuti rientrano nei range fisiologici e sono confrontabili con quelli ottenuti in letteratura. L’applicazione del metodo sviluppato a provini di femore provenienti da donatore umano permetterà la generalizzazione dei risultati ottenuti in questo studio.
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Background. La percezione di malattia gioca un ruolo importante nei disturbi del comportamento alimentare. Leventhal nel suo modello teorico dell’illness perception spiega che la rappresentazione di malattia si divide in diverse componenti, come la percezione di controllo e le aspettative di durata nel tempo. Obiettivo. L’obiettivo di questo elaborato è quello di realizzare una rassegna sistematica della letteratura sulle caratteristiche e le implicazioni della percezione di malattia nei disturbi del comportamento alimentare. Metodi. Per compiere la revisione sistematica della letteratura si è fatto riferimento a due banche dati: Pubmed e Scopus. Sono stati individuati articoli inerenti all’argomento trattato attraverso l’incrocio di diverse parole chiave, poi, sono stati esclusi diversi articoli non inerenti. Infine, sono stati approfonditi e confrontati tra loro i risultati dei 13 studi inclusi. Risultati. Nell’anoressia nervosa spesso il paziente non riesce a ricondurre i propri sintomi a un disturbo del comportamento alimentare e la malattia viene avvertita come parte integrante della propria vita. Questa percezione di malattia si traduce in una scarsa aderenza terapeutica. Nella bulimia nervosa si ha una scarsa identità di malattia, ma è più probabile che si riconosca di avere un problema e si cerchi un trattamento. Nel disturbo da binge-eating si ha una maggiore percezione di malattia rispetto all’anoressia nervosa. I disturbi del comportamento alimentare inoltre sono caratterizzati da una scarsa consapevolezza emotiva. Conclusioni. Prendere in considerazione questo tema è importante in quanto, in base alla percezione di malattia del paziente, lo specialista, in particolare il dietista, può modificare la terapia per adeguarla alle caratteristiche del caso specifico. Le rappresentazioni di malattia forniscono infatti al dietista informazioni utili sul livello di disagio e sulla fase di motivazione al cambiamento in cui si trova il paziente.
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La malattia policistica epatorenale autosomica dominante (ADPKD), patologia genetica ereditaria che coinvolge primariamente il rene, è una condizione cronica, caratterizzata dalla crescita lenta, graduale e progressiva di cisti nei reni, in concomitanza a diverse comorbidità renali ed extrarenali. Colpisce 12,5 milioni di persone di ogni etnia nel mondo e causa di più del 10% di tutte le insufficienze renali croniche terminali (ESRD). Lo studio prende in esame dietoterapia, attività fisica e qualità di vita, tre aspetti di fondamentale importanza nella gestione dei pazienti affetti da ADPKD. L’obiettivo è quello di capire quali sono le evidenze più recenti in materia, approfondire le relazioni tra questi differenti ambiti e come questi possano influenzare la gestione clinica e terapeutica dei pazienti affetti dalla patologia. Per raggiungere questo obiettivo molteplici ricerche sono state svolte interrogando i database di Scopus, Pubmed e Google Scholar. I risultati della ricerca ribadiscono l’importanza del trattamento multidisciplinare nell’ADPKD in cui il ruolo del dietista assume una grande importanza poiché emergono interessanti prospettive riguardo alle potenzialità date dall’adozione e dal mantenimento di specifici regimi alimentari e di uno stile di vita attivo in ADPKD nel contrasto dello sviluppo cistico, il tutto senza mai trascurare la condizione psicologica e sociale del paziente, fattore fondamentale per il mantenimento della compliance sia alla terapia medica che ad una corretta alimentazione e stile di vita.
Resumo:
Il Disturbo Evitante/Restrittivo dell’Assunzione di Cibo (ARFID) è un Disturbo della Nutrizione e dell’Alimentazione con tre possibili sottotipi, accomunati dalla persistente insoddisfazione di fabbisogni nutrizionali e/o energetici. Crescenti sono le prove di sovrapposizione con il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), per comuni difficoltà alimentari e sottostanti fattori di sensorialità e rigidità. Lo studio ha caratterizzato un campione di affetti da ARFID e da ASD in età evolutiva; i due gruppi sono stati confrontati per storia clinico-terapeutica e profili indagati ai test: BAMBI-R (Brief Autism Mealtime Behavior Inventory-Revised) per i comportamenti disfunzionali al pasto, SSP-2 (Short Sensory Profile-2) per le alterazioni della sensorialità e RBS-R (Repetitive Behavior Scale-Revised) per i comportamenti stereotipati e ristretti. Il gruppo con ARFID è stato inoltre analizzato per variabili antropometrico-nutrizionali e sottotipi clinici. I soggetti con ARFID presentavano età superiore e più frequenti tratti ansioso-fobici in comorbilità. Ai test sopracitati, gli affetti da ARFID e da ASD convergevano per numerosi aspetti; tuttavia, le difficoltà alimentari (in particolare, la selettività) prevalevano tra i primi, mentre maggiori livelli di sensibilità sensoriale e di comportamenti ristretti, stereotipati e compulsivi caratterizzavano i secondi. Tra i sottotipi clinici di ARFID, spesso co-occorrenti, prevaleva quello selettivo; i tre quadri erano perlopiù comparabili per le variabili indagate e non differivano per aspetti alimentari, comportamentali o sensoriali. In conclusione, gli affetti da ARFID e da ASD si distinguono per alcune peculiari caratteristiche ma collidono per numerose altre. Approfondire lo studio dei fattori implicati nelle difficoltà alimentari condivise, oltre che caratterizzare i fenotipi del DNA in campioni più numerosi, saranno obiettivi da perseguire per un’implementazione di interventi medico-nutrizionali sempre più specifici.