133 resultados para Istituto per le opere di religione

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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Le considerazioni sviluppate in questo scritto si pongono come obiettivo quello di fare chiarezza sul delicato tema delle opere di urbanizzazione a scomputo. La normativa concernente la realizzazione delle opere pubbliche a scomputo totale o parziale degli oneri di urbanizzazione è stata oggetto di svariate modifiche e interpretazioni giurisprudenziali, che si sono susseguite dopo l'importante pronuncia della Corte di Giustizia Europea. E' con questa sentenza che i Giudici del Kirchberg introducono un particolare obbligo procedurale a carico dei privati: nel caso in cui singole opere superino i valori di rilevanza europea, esse devono essere affidate, applicando le procedure di gara previste dalla direttiva 37/93/CEE. Va precisato che sino a quel momento l'affidamento diretto delle opere al privato costituiva nell'ottica del Legislatore lo strumento per realizzare le infrastrutture necessarie per consentire gli insediamenti edilizi che la pubblica amministrazione spesso non era in grado di effettuare. In questo panorama legislativo la sentenza della Corte di Giustizia, appare del tutto dirompente. Infatti, introducendo il principio secondo cui anche la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione da parte del privato deve sottostare alle regole delle procedure europee in materia di appalti, mette inevitabilmente a confronto due normative, quella degli appalti pubblici e quella dell'urbanistica, che sino a quel momento erano riuscite a viaggiare in modo parallelo, senza dar luogo a reciproche sovrapposizioni. Il Legislatore nazionale ha, con molta fatica, recepito il principio comunitario ed è stato negli anni quasi costretto, attraverso una serie di modifiche legislative, ad ampliarne la portata. La presente ricerca, dopo aver analizzato i vari correttivi apportati al Codice degli appalti pubblici vuole, quindi, verificare se l'attuale quadro normativo rappresenti un vero punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze di pianificazione del territorio e di rispetto dei principi comunitari di concorrenza nella scelta del contraente.

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La tesi si occupa della traduzione di Measure for Measure di Shakespeare scritta da Cesare Garboli e pubblicata nel 1992 con Einaudi nella collana «Scrittori tradotti da scrittori». La traduzione fu concepita per il Teatro Stabile di Torino diretto da Luca Ronconi, che debuttò al teatro Carignano nel 1992 e venne successivamente ripresa, con alcune varianti, dalla compagnia di Carlo Cecchi nel 1998, per una nuova messinscena al teatro Garibaldi di Palermo. A partire dagli esiti più recenti dei Translation Studies, il lavoro sviluppa uno studio comparato, dal punto di vista linguistico e sotto il profilo ermeneutico, fra la traduzione di Garboli, il testo originale nelle due edizioni Arden e Cambridge e le traduzioni italiane di Measure for Measure pubblicate nel Novecento. La parte finale della tesi è dedicata alle messinscene a Torino e a Palermo: un confronto per evidenziare gli elementi che in entrambe appartengono alla strutturazione del testo tradotto e i caratteri specifici degli universi di finzione raffigurati dai due registi.

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In una situazione caratterizzata dalla scarsità delle risorse finanziare a disposizione degli enti locali, che rende necessario il contributo dei privati alla realizzazione delle opere pubbliche, e dalla scarsità delle risorse ambientali, che impone di perseguire la sostenibilità degli interventi, la tesi si pone l’obiettivo di rendere le realizzazioni di nuove infrastrutture viarie “attive” rispetto al contesto in cui si collocano, garantendo l’impegno di tutte parti coinvolte. Si tratta di ottenere il contributo dei privati oltre che per le opere di urbanizzazione primaria, funzionali all’insediamento stesso, anche per la realizzazione di infrastrutture viarie non esclusivamente dedicate a questo, ma che sono necessarie per garantirne la sostenibilità. Tale principio, che viene anche denominato “contributo di sostenibilità”, comincia oggi a trovare un’applicazione nelle pratiche urbanistiche, sconta ancora alcune criticità, in quanto i casi sviluppati si basano spesso su considerazioni che si prestano a contenziosi tra operatori privati e pubblica amministrazione. Ponendosi come obiettivo la definizione di una metodologia di supporto alla negoziazione per la determinazione univoca e oggettiva del contributo da chiedere agli attuatori delle trasformazioni per la realizzazione di nuove infrastrutture viarie, ci si è concentrati sullo sviluppo di un metodo operativo basato sull’adozione dei modelli di simulazione del traffico a 4 stadi. La metodologia proposta è stata verificata attraverso l’applicazione ad un caso di studio, che riguarda la realizzazione di un nuovo asse viario al confine tra i comuni di Castel Maggiore ed Argelato. L’asse, indispensabile per garantire l’accessibilità alle nuove aree di trasformazione che interessano quel quadrante, permette anche di risolvere alcune criticità viabilistiche attualmente presenti. Il tema affrontato quindi è quello della determinazione del contributo che ciascuno degli utilizzatori del nuovo asse dovrà versare al fine di consentirne la realizzazione. In conclusione, si formulano alcune considerazioni sull’utilità della metodologia proposta e sulla sua applicabilità a casi analoghi.

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Il lavoro di ricerca tenta di inquadrare sotto nuove prospettive una problematica ormai classica all’interno della semiotica della pubblicità: l’analisi dello spot. I punti chiave del lavoro – e la pretesa di una certa differenza rispetto a lavori con oggetti affini – consistono sostanzialmente in tre aspetti. Innanzitutto, vi è un ritorno alle origini flochiane nella misura in cui non solo il contesto complessivo e le finalità che la ricerca si propone sono fortemente ancorati all’interno di obiettivi di marketing, ma tutto lo studio nella sua interezza nasce dal dialogo concreto tra metodologia di analisi semiotica e prassi concreta all’interno degli istituti di ricerca di mercato. La tesi non presenta quindi una collezione di analisi di testi pubblicitari condotte in modo autoriferito, quanto piuttosto di “messe alla prova” della metodologia, funzionali alla definizione di disegni di ricerca per la marketing research. Questo comporta un dialogo piuttosto stretto con metodologie affini (sociologia qualitativa e quantitativa, psicologia motivazionale, ecc.) nella convinzione che la priorità accordata all’oggetto di analisi sia sovraordinata rispetto all’ortodossia degli strumenti metodologici. In definitiva, lo spot è sempre e comunque analizzato all’interno di una prospettiva brand-centrica che ha ben in mente la semiotica della situazione di consumo rispetto alla quale lo spot agisce da leva di valorizzazione per l’acquisto. In secondo luogo, gli oggetti analizzati sono piuttosto vari e differenziati: non solo lo spot nella sua versione audiovisiva definitiva (il “girato”), ma anche storyboard, animatic, concept (di prodotto e di comunicazione). La prospettiva generativa greimasiana va a innestarsi su problematiche legate (anche) alla genesi dello spot, alla sua progettazione e riprogettazione/ottimizzazione. La tesi mostra quindi come una semiotica per le consulenze di marketing si diriga sul proprio oggetto ponendogli domande ben circoscritte e finalizzate a un obiettivo specifico, sostanzialmente derivato dal brief contenente le intenzioni comunicazionali del cliente-azienda. Infine, pur rimanendo all’interno di una teoria semiotica generativa (sostanzialmente greimasiana e post greimasiana), la ricerca adotta una prospettiva intrinsecamente multidisciplinare che se da un lato guarda a problematiche legate al marketing, al branding e alla comunicazione pubblicitaria e d’impresa tout court, dall’altro ritorna alle teorie dell’audiovisivo, mostrando affinità e differenze rispetto a forme audiovisive standard (il “film”) e a mutuazioni da nuove estetiche (la neotelevisione, il videoclip, ecc). La tesi si mostra solidamente convinta del fatto che per parlare di efficacia discorsiva sia imprescindibile approfondire le tematiche riguardanti il sincretismo espressivo e le specifiche modalità di manifestazione stilistica. In questo contesto, il lavoro si compone di quattro grandi aree tematiche. Dopo una breve introduzione sull’attualità del tema “spot” e sulla prospettiva analiticometodologica adottata (§ 1.), nel secondo capitolo si assume teoreticamente che i contenuti dello spot derivino da una specifica (e di volta in volta diversa) creolizzazione tra domini tematici derivanti dalla marca, dal prodotto (inteso tanto come concept di prodotto, quanto come prodotto già “vestito” di una confezione) e dalle tendenze socioculturali. Le tre dimensioni vengono valutate in relazione all’opposizione tra heritage, cioè continuità rispetto al passato e ai concorrenti e vision, cioè discontinuità rispetto alla propria storia comunicazionale e a quella dei concorrenti. Si esplorano inoltre altri fattori come il testimonial-endorser che, in quanto elemento già intrinsecamente foriero di elementi di valorizzazione, va a influire in modo rilevante sul complesso tematico e assiologico della pubblicità. Essendo la sezione della tesi che prende in considerazione il piano specificatamente contenutistico dello spot, questa parte diventa quindi anche l’occasione per ritornare sul modello delle assiologie del consumo di Jean-Marie Floch, approntando alcune critiche e difendendo invece un modello che – secondo la prospettiva qui esposta – contiene punti di attualità ineludibili rispetto a schematizzazioni che gli sono successive e in qualche modo debitrici. Segue una sezione (§ 3.) specificatamente dedicata allo svolgimento e dis-implicazione del sincretismo audiovisivo e quindi – specularmente alla precedente, dedicata alle forme e sostanze del contenuto – si concentra sulle dinamiche espressive. Lo spot viene quindi analizzato in quanto “forma testuale” dotata di alcune specificità, tra cui in primis la brevità. Inoltre vengono approfondite le problematiche legate all’apporto di ciascuna specifica sostanza: il rapporto tra visivo e sonoro, lo schermo e la sua multiprospetticità sempre più evidente, il “lavoro” di punteggiatura della musica, ecc. E su tutto il concetto dominante di montaggio, intrinsecamente unito a quello di ritmo. Il quarto capitolo ritorna in modo approfondito sul rapporto tra semiotica e ricerca di mercato, analizzando sia i rapporti di reciproca conoscenza (o non conoscenza), sia i nuovi spazi di intervento dell’analisi semiotica. Dopo aver argomentato contro un certo scetticismo circa l’utilità pragmatica dell’analisi semiotica, lo studio prende in esame i tradizionali modelli di valutazione e misurazione dell’efficacia pubblicitaria (pre- e post- test) cercando di semiotizzarne il portato. Ne consegue la proposta di disegni di ricerca semiotici modulari: integrabili tra loro e configurabili all’interno di progetti semio-quali-quantitativi. Dopo aver ridefinito le possibilità di un’indagine semiotica sui parametri di efficacia discorsiva, si procede con l’analisi di un caso concreto (§ 5.): dato uno spot che si è dimostrato efficace agli occhi dell’azienda committente, quali possono essere i modi per replicarne i fattori di successo? E come spiegare invece quelli di insuccesso delle campagne successive che – almeno teoricamente – erano pensate per capitalizzare l’efficacia della prima? Non si tratta quindi di una semiotica ingenuamente chiamata a “misurare” l’efficacia pubblicitaria, che evidentemente la marketing research analizza con strumenti quantitativi assodati e fondati su paradigmi di registrazione di determinati parametri sul consumatore (ricordo spontaneo e sollecitato, immagine di marca risultante nella mente di user e prospect consumer, intenzione d’acquisto stimolata). Piuttosto l’intervento qui esposto si preoccupa più funzionalmente a spiegare quali elementi espressivi, discorsivi, narrativi, siano stati responsabili (e quindi prospetticamente potranno condizionare in positivo o in negativo in futuro) la ricezione dello spot. L’analisi evidenzia come elementi apparentemente minimali, ancorati a differenti livelli di pertinenza siano in grado di determinare una notevole diversità negli effetti di senso. Si tratta quindi di un problema di mancata coerenza tra intenzioni comunicative e testo pubblicitario effettivamente realizzato. La risoluzione di tali questioni pragmatiche conduce ad approfondimenti teoricometodologici su alcuni versanti particolarmente interessanti. In primo luogo, ci si interroga sull’apporto della dimensione passionale nella costruzione dell’efficacia e nel coinvolgimento dello spettatore/consumatore. Inoltre – e qui risiede uno dei punti di maggior sintesi del lavoro di tesi – si intraprende una proficua discussione dei modelli di tipizzazione dei generi pubblicitari, intesi come forme discorsive. Si fanno quindi dialogare modelli diversi ma in qualche misura coestensivi e sovrapponibili come quelli di Jean Marie Floch, Guido Ferraro, Cosetta Saba e Chiara Giaccardi. Si perviene così alla costruzione di un nuovo modello sintetico, idealmente onnipervasivo e trasversale alle prospettive analizzate.

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La tesi si pone come obiettivo quello di indagare le mostre di moda contemporanee come macchine testuali. Se consideriamo l’attuale panorama del fashion design come caratterizzato da una complessità costitutiva e da rapidi mutamenti che lo attraversano, e se partiamo dal presupposto che lo spettro di significati che uno stile di abbigliamento e i singoli capi possono assumere è estremamente sfuggente, probabilmente risulta più produttivo interrogarsi su come funziona la moda, su quali sono i suoi meccanismi di produzione di significato. L’analisi delle fashion exhibition si rivela quindi un modo utile per affrontare la questione, dato che gli allestimenti discorsivizzano questi meccanismi e rappresentano delle riflessioni tridimensionali attorno a temi specifici. La mostra di moda mette in scena delle eccezionalità che magnificano aspetti tipici del funzionamento del fashion system, sia se ci rivolgiamo alla moda dal punto di vista della produzione, sia se la consideriamo dal punto di vista della fruizione. L’indagine ha rintracciato nelle mostre curate da Diana Vreeland al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York il modello di riferimento per le mostre di moda contemporanee. Vreeland, che dal 1936 al 1971 è stata prima fashion editor e poi editor-in-chief rispettivamente di “Harper’s Bazaar” e di “Vogue USA”, ha segnato un passaggio fondamentale quando nel 1972 ha deciso di accettare il ruolo di Special Consultant al Costume Institute. È ormai opinione diffusa fra critici e studiosi di moda che le mostre da lei organizzate nel corso di più di un decennio abbiano cambiato il modo di mettere in scena i vestiti nei musei. Al lavoro di Vreeland abbiamo poi accostato una recente mostra di moda che ha fatto molto parlare di sé: Spectres. When Fashion Turns Back, a cura di Judith Clark (2004). Nell’indagare i rapporti fra il fashion design contemporaneo e la storia della moda questa mostra ha utilizzato macchine allestitive abitate dai vestiti, per “costruire idee spaziali” e mettere in scena delle connessioni non immediate fra passato e presente. Questa mostra ci è sembrata centrale per evidenziare lo sguardo semiotico del curatore nel suo interrogarsi sul progetto complessivo dell’exhibition design e non semplicemente sullo studio degli abiti in mostra. In questo modo abbiamo delineato due posizioni: una rappresentata da un approccio object-based all’analisi del vestito, che si lega direttamente alla tradizione dei conservatori museali; l’altra rappresentata da quella che ormai si può considerare una disciplina, il fashion curation, che attribuisce molta importanza a tutti gli aspetti che concorrono a formare il progetto allestitivo di una mostra. Un lavoro comparativo fra alcune delle più importanti mostre di moda recentemente organizzate ci ha permesso di individuare elementi ricorrenti e specificità di questi dispositivi testuali. Utilizzando il contributo di Manar Hammad (2006) abbiamo preso in considerazione i diversi livelli di una mostra di moda: gli abiti e il loro rapporto con i manichini; l’exhibition design e lo spazio della mostra; il percorso e la sequenza, sia dal punto di vista della strategia di costruzione e dispiegamento testuale, sia dal punto di vista del fruitore modello. Abbiamo così individuato quattro gruppi di mostre di moda: mostre museali-archivistiche; retrospettive monografiche; mostre legate alla figura di un curatore; forme miste che si posizionano trasversalmente rispetto a questi primi tre modelli. Questa sistematizzazione ha evidenziato che una delle dimensione centrali per le mostre di moda contemporanee è proprio la questione della curatorship, che possiamo leggere in termini di autorialità ed enunciazione. Si sono ulteriormente chiariti anche gli orizzonti valoriali di riferimento: alla dimensione dell’accuratezza storica è associata una mostra che predilige il livello degli oggetti (gli abiti) e un coinvolgimento del visitatore puramente visivo; alla dimensione del piacere visivo possiamo invece associare un modello di mostra che assegna all’exhibition design un ruolo centrale e “chiede” al visitatore di giocare un ruolo pienamente interattivo. L’approccio curatoriale più compiuto ci sembra essere quello che cerca di conciliare queste due dimensioni.

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La tesi affronta le problematiche fiscali della riorganizzazione societaria e la soluzione adoperata nell’Unione europea per le operazioni di carattere transfrontaliere. Si parte dalla definizione del termine “riorganizzazione societaria”, evidenziando le sue matici economiche e la varietà del suo contenuto secondo l’ordinamento giuridico e la branca del diritto di riferimento. Si prosegue sulla correlazione fra l’ampliazione del contenuto della libertà di stabilimento, dovuta maggiormente all’attività interpretativa della Corte di giustizia, e l’allargamento del concetto di riorganizzazione societaria nel quadro normativo dell’Unione. Si procede dunque all’analisi del regime fiscale comune della direttiva 2009/133/CE intravedendosi i suoi sviluppi successivi. In sede di conclusioni, si apporta un breve riassunto sullo stato della questione in Brasile e si riflette sull’attendibilità del modello impositivo dell’Unione quale parametro per una futura riforma fiscale in Brasile.

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La traduzione poetica viene affrontata sul piano empirico dell'analisi testuale. Una breve introduzione presenta le riflessioni più importanti sulla traduzione del testo poetico, da Benjamin e Steiner fino alle teorie più recenti di Meschonnic, Apel, Berman e Mattioli. Alla luce di queste teorie vengono analizzate le opere di due coppie di poeti e poeti-traduttori. Nel primo esempio troviamo il poeta svizzero (francofono) Philippe Jaccottet alle prese con l'intera opera di Ungaretti; nel secondo il rapporto travagliato di Vittorio Sereni con la poesia di René Char. Oltre a indagare la natura problematica della traduzione poetica come pratica e come esperienza, questa tesi di Letteratura Comparata vuole presentare la traduzione come strumento ermeneutico e come meccanismo rienunciativo: il suo ruolo nella dialettica delle influenze e dell'evoluzione letteraria è da considerarsi infatti essenziale. La vocazione originariamente etica della traduzione è sfondo costante della trattazione.

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La tesi è dedicata alla personalità artistica dell’Illustratore, tra i protagonisti della miniatura bolognese degli anni trenta e quaranta del Trecento, così felicemente soprannominato da Roberto Longhi. Dopo un capitolo dedicato alla vicenda critica dell’artista, la tesi affronta il percorso artistico dell’Illustratore nell’ambito della decorazione libraria bolognese del secondo quarto del XIV secolo. Ho trattato le opere attribuite al’Illustratore insieme agli esempi contemporanei della miniatura bolognese, in modo da far emergere il ruolo di questo maestro nelle relazioni con il contesto cittadino. Nella successione cronologica dei manoscritti, emerge un nuovo sconvolgimento caotico che scardina l’ordine spaziale e compositivo delle opere iniziali debitrici del giottismo del Maestro del 1328. Il capitolo si conclude con alcune osservazioni sui rapporti tra il maestro e i suoi aiuti e sul rapporto con Buffalmacco. In questo capitolo sono inoltre presentate due nuove attribuzioni. Gli ultimi due capitoli sono un approfondimento sull’interazione tra il linguaggio figurativo dell’artista e la funzione dell’immagine quale forma di comunicazione visiva in stretta relazione con i testi scritti che accompagnano e sui caratteri della committenza, là dove è possibile definirli. La prima parte del terzo capitolo è dedicata all’illustrazione dei libri legales, mentre nella seconda parte si tratta di un caso particolare, le iniziali istoriate dell’Inferno e del Purgatorio di Dante Alighieri della Biblioteca Riccardiana di Firenze (ms. 1005), per molti aspetti riconducibili all’illustrazione giuridica. La mia intenzione in questo capitolo è di verificare come il caratteristico linguaggio narrativo espressivo e diretto dell’Illustratore abbia risposto alla funzione delle immagini dipinte nei codici giuridici di offrire una struttura materiale alla memorizzazione visiva per via di luoghi e figure dei contenuti di studio del diritto comune. In appendice alla tesi si trova un catalogo dei manoscritti decorati da miniature dell’Illustratore, comprensivo anche di una sezione per le opere di dubbia o erronea attribuzione.

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L’oggetto dell’analisi si situa all’intersezione di diversi ambiti disciplinari: letteratura, scienze dell’educazione, sociologia, psicologia. Nel presente lavoro, viene privilegiata un’analisi tematica della narrativa e la definizione identitaria delle “infanzie migranti” viene declinata seguendo percorsi di lettura che mettano in risalto alcune prospettive ricorrenti nei romanzi. Il corpus letterario selezionato include alcuni romanzi scritti in lingua inglese da sei scrittrici di origine indiana, in particolare Jamila Gavin, Rachna Gilmore, Anjali Banerjee, Rukhsana Khan, Ravinder Randhawa e Meera Syal. Nel primo capitolo si tracciano le premesse teoriche e metodologiche del lavoro, definendo il genere della letteratura per l’infanzia e interrogandoci sulle sue specificità in un contesto postcoloniale qual è quello indiano. Il secondo capitolo è dedicato alla definizione identitaria delle seconde generazioni, in particolar modo di quelle indo-britanniche e indo-canadesi, cui appartengono i protagonisti dei romanzi presi in esame. Nel terzo capitolo viene posta attenzione agli elementi che concorrono alla definizione identitaria dei giovani protagonisti dei romanzi, i quali si interrogano sul loro essere e sull’appartenenza interculturale. I dialoghi intergenerazionali tra i protagonisti e i nonni - o altre figure di guida - permettono alle scrittrici di raccontare la storia dell’India coloniale e della lotta per l’indipendenza dal punto di vista degli esclusi dalla storiografia ufficiale. Nel capitolo conclusivo si argomenta invece come la definizione identitaria si attui per mezzo dello spazio, tramite l’appartenenza ai luoghi, spazi caricati di significato, e per mezzo del viaggio, che può essere reale, immaginario o iniziatico. In tutti i casi, il viaggio porta alla scoperta del Sé, di un’identità ibrida e molteplice da parte dei personaggi.

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I libretti che Pascoli scrisse in forma di abbozzi e che sognò potessero calcare il palcoscenico di un teatro furono davvero un “melodramma senza musica”. In primo luogo, perché non giunsero mai ad essere vestiti di note e ad arrivare in scena; ma anche perché il tentativo di scrivere per il teatro si tinse per Pascoli di toni davvero melodrammatici, nel senso musicale di sconfitta ed annullamento, tanto da fare di quella pagina della sua vita una piccola tragedia lirica, in cui c’erano tante parole e, purtroppo, nessuna musica. Gli abbozzi dei drammi sono abbastanza numerosi; parte di essi è stata pubblicata postuma da Maria Pascoli.1 Il lavoro di pubblicazione è stato poi completato da Antonio De Lorenzi.2 Ho deciso di analizzare solo quattro di questi abbozzi, che io reputo particolarmente significativi per poter cogliere lo sviluppo del pensiero drammatico e della poetica di Pascoli. I drammi che analizzo sono Nell’Anno Mille (con il rifacimento Il ritorno del giullare), Gretchen’s Tochter (con il rifacimento La figlia di Ghita), Elena Azenor la Morta e Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante. La prima ragione della scelta risiede nel fatto che questi abbozzi presentano una lunghezza più consistente dell’appunto di uno scheletro di dramma registrato su un foglietto e, quindi, si può seguire attraverso di essi il percorso della vicenda, delle dinamiche dei personaggi e dei significati dell’opera. Inoltre, questi drammi mostrano cosa Pascoli intendesse comporre per sollevare le vesti del libretto d’opera e sono funzionali all’esemplificazione delle sue concezioni teoriche sulla musica e il melodramma, idee che egli aveva espresso nelle lettere ad amici e compositori. In questi quattro drammi è possibile cogliere bene le motivazioni della scelta dei soggetti, il loro significato entro la concezione melodrammatica del poeta, il sistema simbolico che soggiace alla creazione delle vicende e dei personaggi e i legami con la poetica pascoliana. Compiere un’analisi di questo tipo significa per me, innanzitutto, risalire alle concezioni melodrammatiche di Pascoli e capire esattamente cosa egli intendesse per dramma musicale e per rinnovamento dello stesso. Pascoli parla di musica e dei suoi tentativi di scrivere per il teatro lirico nelle lettere ai compositori e, sporadicamente, ad alcuni amici (Emma Corcos, Luigi Rasi, Alfredo Caselli). La ricostruzione del pensiero e dell’estetica musicale di Pascoli ha dovuto quindi legarsi a ricerche d’archivio e di materiali inediti o editi solo in parte e, nella maggioranza dei casi, in pubblicazioni locali o piuttosto datate (i primi anni del Novecento). Quindi, anche in presenza della pubblicazione di parte del materiale necessario, quest’ultimo non è certo facilmente e velocemente consultabile e molto spesso è semi sconosciuto. Le lettere di Pascoli a molti compositori sono edite solo parzialmente; spesso, dopo quei primi anni del Novecento, in cui chi le pubblicò poté vederle presso i diretti possessori, se ne sono perse le tracce. Ho cercato di ricostruire il percorso delle lettere di Pascoli a Giacomo Puccini, Riccardo Zandonai, Giovanni Zagari, Alfredo Cuscinà e Guglielmo Felice Damiani. Si tratta sempre di contatti che Pascoli tenne per motivi musicali, legati alla realizzazione dei suoi drammi. O per le perdite prodotte dalla storia (è il 1 Giovanni Pascoli, Nell’Anno Mille. Sue notizie e schemi da altri drammi, a c. di Maria Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1924. 2 Giovanni Pascoli, Testi teatrali inediti, a c. di Antonio De Lorenzi, Ravenna, Longo, 1979. caso delle lettere di Pascoli a Zandonai, che andarono disperse durante la seconda guerra mondiale, come ha ricordato la prof.ssa Tarquinia Zandonai, figlia del compositore) o per l’impossibilità di stabilire contatti quando i possessori dei materiali sono privati e, spesso, collezionisti, questa parte delle mie ricerche è stata vana. Mi è stato possibile, però, ritrovare gli interi carteggi di Pascoli e i due Bossi, Marco Enrico e Renzo. Le lettere di Pascoli ai Bossi, di cui do notizie dettagliate nelle pagine relative ai rapporti con i compositori e all’analisi dell’Anno Mille, hanno permesso di cogliere aspetti ulteriori circa il legame forte e meditato che univa il poeta alla musica e al melodramma. Da queste riflessioni è scaturita la prima parte della tesi, Giovanni Pascoli, i musicisti e la musica. I rapporti tra Pascoli e i musicisti sono già noti grazie soprattutto agli studi di De Lorenzi. Ho sentito il bisogno di ripercorrerli e di darne un aggiornamento alla luce proprio dei nuovi materiali emersi, che, quando non sono gli inediti delle lettere di Pascoli ai Bossi, possono essere testi a stampa di scarsa diffusione e quindi poco conosciuti. Il quadro, vista la vastità numerica e la dispersione delle lettere di Pascoli, può subire naturalmente ancora molti aggiornamenti e modifiche. Quello che ho qui voluto fare è stato dare una trattazione storico-biografica, il più possibile completa ed aggiornata, che vedesse i rapporti tra Pascoli e i musicisti nella loro organica articolazione, come premessa per valutare le posizioni del poeta in campo musicale. Le lettere su cui ho lavorato rientrano tutte nel rapporto culturale e professionale di Pascoli con i musicisti e non toccano aspetti privati e puramente biografici della vita del poeta: sono legate al progetto dei drammi teatrali e, per questo, degne di interesse. A volte, nel passato, alcune di queste pagine sono state lette, soprattutto da giornalisti e non da critici letterari, come un breve aneddoto cronachistico da inserire esclusivamente nel quadro dell’insuccesso del Pascoli teatrale o come un piccolo ragguaglio cronologico, utile alla datazione dei drammi. Ricostruire i rapporti con i musicisti equivale nel presente lavoro a capire quanto tenace e meditato fu l’avvicinarsi di Pascoli al mondo del teatro d’opera, quali furono i mezzi da lui perseguiti e le proposte avanzate; sempre ho voluto e cercato di parlare in termini di materiale documentario e archivistico. Da qui il passo ad analizzare le concezioni musicali di Pascoli è stato breve, dato che queste ultime emergono proprio dalle lettere ai musicisti. L’analisi dei rapporti con i compositori e la trattazione del pensiero di Pascoli in materia di musica e melodramma hanno in comune anche il fatto di avvalersi di ricerche collaterali allo studio della letteratura italiana; ricerche che sconfinano, per forza di cose, nella filosofia, estetica e storia della musica. Non sono una musicologa e non è stata mia intenzione affrontare problematiche per le quali non sono provvista di conoscenze approfonditamente adeguate. Comprendere il panorama musicale di quegli anni e i fermenti che si agitavano nel teatro lirico, con esiti vari e contrapposti, era però imprescindibile per procedere in questo cammino. Non sono pertanto entrata negli anfratti della storia della musica e della musicologia, ma ho compiuto un volo in deltaplano sopra quella terra meravigliosa e sconfinata che è l’opera lirica tra Ottocento e Novecento. Molti consigli, per non smarrirmi in questo volo, mi sono venuti da valenti musicologi ed esperti conoscitori della materia, che ho citato nei ringraziamenti e che sempre ricordo con viva gratitudine. Utile per gli studi e fondamentale per questo mio lavoro è stato riunire tutte le dichiarazioni, da me conosciute finora, fornite da Pascoli sulla musica e il melodramma. Ne emerge quella che è la filosofia pascoliana della musica e la base teorica della scrittura dei suoi drammi. Da questo si comprende bene perché Pascoli desiderasse tanto scrivere per il teatro musicale: egli riteneva che questo fosse il genere perfetto, in cui musica e parola si compenetravano. Così, egli era convinto che la sua arte potesse parlare ed arrivare a un pubblico più vasto. Inoltre e soprattutto, egli intese dare, in questo modo, una precisa risposta a un dibattito europeo sul rinnovamento del melodramma, da lui molto sentito. La scrittura teatrale di Pascoli non è tanto un modo per trovare nuove forme espressive, quanto soprattutto un tentativo di dare il suo contributo personale a un nuovo teatro musicale, di cui, a suo dire, l’umanità aveva bisogno. Era quasi un’urgenza impellente. Le risposte che egli trovò sono in linea con svariate concezioni di quegli anni, sviluppate in particolare dalla Scapigliatura. Il fatto poi che il poeta non riuscisse a trovare un compositore disposto a rischiare fino in fondo, seguendolo nelle sue creazioni di drammi tutti interiori, con scarso peso dato all’azione, non significa che egli fosse una voce isolata o bizzarra nel contesto culturale a lui contemporaneo. Si potranno, anche in futuro, affrontare studi sugli elementi di vicinanza tra Pascoli e alcuni compositori o possibili influenze tra sue poesie e libretti d’opera, ma penso non si potrà mai prescindere da cosa egli effettivamente avesse ascoltato e avesse visto rappresentato. Il che, documenti alla mano, non è molto. Solo ciò a cui possiamo effettivamente risalire come dato certo e provato è valido per dire che Pascoli subì il fascino di questa o di quell’opera. Per questo motivo, si trova qui (al termine del secondo capitolo), per la prima volta, un elenco di quali opere siamo certi Pascoli avesse ascoltato o visto: lo studio è stato possibile grazie ai rulli di cartone perforato per il pianoforte Racca di Pascoli, alle testimonianze della sorella Maria circa le opere liriche che il poeta aveva ascoltato a teatro e alle lettere del poeta. Tutto questo è stato utile per l’interpretazione del pensiero musicale di Pascoli e dei suoi drammi. I quattro abbozzi che ho scelto di analizzare mostrano nel concreto come Pascoli pensasse di attuare la sua idea di dramma e sono quindi interpretati attraverso le sue dichiarazioni di carattere musicale. Mi sono inoltre avvalsa degli autografi dei drammi, conservati a Castelvecchio. In questi abbozzi hanno un ruolo rilevante i modelli che Pascoli stesso aveva citato nelle sue lettere ai compositori: Wagner, Dante, Debussy. Soprattutto, Nell’Anno Mille, il dramma medievale sull’ultima notte del Mille, vede la significativa presenza del dantismo pascoliano, come emerge dai lavori di esegesi della Commedia. Da questo non è immune nemmeno Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante, che è il compimento della figura di Asvero, già apparsa nella poesia di Pascoli e portatrice di un messaggio di rinascita sociale. I due drammi presentano anche una specifica simbologia, connessa alla figura e al ruolo del poeta. Predominano, invece, in Gretchen’s Tochter e in Elena Azenor la Morta le tematiche legate all’archetipo femminile, elemento ambiguo, materno e infero, ma sempre incaricato di tenere vivo il legame con l’aldilà e con quanto non è direttamente visibile e tangibile. Per Gretchen’s Tochter la visione pascoliana del femminile si innesta sulle fonti del dramma: il Faust di Marlowe, il Faust di Goethe e il Mefistofele di Boito. I quattro abbozzi qui analizzati sono la prova di come Pascoli volesse personificare nel teatro musicale i concetti cardine e i temi dominanti della sua poesia, che sarebbero così giunti al grande pubblico e avrebbero avuto il merito di traghettare l’opera italiana verso le novità già percorse da Wagner. Nel 1906 Pascoli aveva chiaramente compreso che i suoi drammi non sarebbero mai arrivati sulle scene. Molti studi e molti spunti poetici realizzati per gli abbozzi gli restavano inutilizzati tra le mani. Ecco, allora, che buona parte di essi veniva fatta confluire nel poema medievale, in cui si cantano la storia e la cultura italiane attraverso la celebrazione di Bologna, città in cui egli era appena rientrato come professore universitario, dopo avervi già trascorso gli anni della giovinezza da studente. Le Canzoni di Re Enzio possono quindi essere lette come il punto di approdo dell’elaborazione teatrale, come il “melodramma senza musica” che dà il titolo a questo lavoro sul pensiero e l’opera del Pascoli teatrale. Già Cesare Garboli aveva collegato il manierismo con cui sono scritte le Canzoni al teatro musicale europeo e soprattutto a Puccini. Alcuni precisi parallelismi testuali e metrici e l’uso di fonti comuni provano che il legame tra l’abbozzo dell’Anno Mille e le Canzoni di Re Enzio è realmente attivo. Le due opere sono avvicinate anche dalla presenza del sostrato dantesco, tenendo presente che Dante era per Pascoli uno dei modelli a cui guardare proprio per creare il nuovo e perfetto dramma musicale. Importantissimo, infine, è il piccolo schema di un dramma su Ruth, che egli tracciò in una lettera della fine del 1906, a Marco Enrico Bossi. La vicinanza di questo dramma e di alcuni degli episodi principali della Canzone del Paradiso è tanto forte ed evidente da rendere questo abbozzo quasi un cartone preparatorio della Canzone stessa. Il Medioevo bolognese, con il suo re prigioniero, la schiava affrancata e ancella del Sole e il giullare che sulla piazza intona la Chanson de Roland, costituisce il ritorno del dramma nella poesia e l’avvento della poesia nel dramma o, meglio, in quel continuo melodramma senza musica che fu il lungo cammino del Pascoli librettista.

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In the recent years, consumers became more aware and sensible in respect to environment and food safety matters. They are more and more interested in organic agriculture and markets and tend to prefer ‘organic’ products more than their traditional counterparts. To increase the quality and reduce the cost of production in organic and low-input agriculture, the 6FP-European “QLIF” project investigated the use of natural products such as bio-inoculants. They are mostly composed by arbuscular mycorrhizal fungi and other microorganisms, so-called “plant probiotic” microorganisms (PPM), because they help keeping an high yield, even under abiotic and biotic stressful conditions. Italian laws (DLgs 217, 2006) have recently included them as “special fertilizers”. This thesis focuses on the use of special fertilizers when growing tomatoes with organic methods in open field conditions, and the effects they induce on yield, quality and microbial rhizospheric communities. The primary objective was to achieve a better understanding of how plant-probiotic micro-flora management could buffer future reduction of external inputs, while keeping tomato fruit yield, quality and system sustainability. We studied microbial rhizospheric communities with statistical, molecular and histological methods. This work have demonstrated that long-lasting introduction of inoculum positively affected micorrhizal colonization and resistance against pathogens. Instead repeated introduction of compost negatively affected tomato quality, likely because it destabilized the ripening process, leading to over-ripening and increasing the amount of not-marketable product. Instead. After two years without any significant difference, the third year extreme combinations of inoculum and compost inputs (low inoculum with high amounts of compost, or vice versa) increased mycorrhizal colonization. As a result, in order to reduce production costs, we recommend using only inoculum rather than compost. Secondly, this thesis analyses how mycorrhizal colonization varies in respect to different tomato cultivars and experimental field locations. We found statistically significant differences between locations and between arbuscular colonization patterns per variety. To confirm these histological findings, we started a set of molecular experiments. The thesis discusses preliminary results and recommends their continuation and refinement to gather the complete results.

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Le Leucemie Acute Mieloidi di sottotipo FAB M4 e M5, le Leucemie Acute Linfoblastiche e le Leucemie Bifenotipiche sono frequentemente caratterizzate da traslocazioni del gene 11q23/MLL con formazione di oncogeni di fusione e produzione di oncoproteine che inducono la trasformazione neoplastica. Tali leucemie con riarrangiamenti di 11q23/MLL sono caratterizzate da prognosi infausta e scarsa responsività alle terapie convenzionali. Data la necessità di trovare terapie efficaci per le leucemie con traslocazione di MLL, in questo lavoro di ricerca sono stati progettati, caratterizzati e validati siRNA per il silenziamento genico degli oncogeni di fusione di MLL, con lo scopo di valutare il ripristino delle normali funzionalità di differenziamento cellulare e l’arresto della proliferazione neoplastica. Sono stati progettati siRNA specifici per gli oncogeni di fusione di MLL, sia per le regioni conservate nei diversi oncogeni di fusione, sia a livello del punto di fusione (breakpoint), sia per le regioni sui geni partner. I siRNA sono stati valutati su linee cellulari contenenti diverse traslocazioni del gene MLL. Il silenziamento è stato valutato sia a livello cellulare in termini di riduzione della capacità proliferativa e del numero delle cellule leucemiche, sia a livello molecolare tramite l’analisi della diminuzione dell’mRNA degli oncogeni di fusione di MLL. E’ stata valutata la diminuzione delle oncoproteine di fusione di MLL in seguito a trattamento con siRNA. E’ stata analizzata la variazione dell’espressione di geni dipendenti da MLL in seguito a trattamento con siRNA. Sono stati messi a punto modelli murini bioluminescenti di leucemie acute con traslocazioni di MLL innanzitutto per studiare il trafficking in vivo e la progressione leucemica delle leucemie acute con traslocazione di MLL. Successivamente sono stati utilizzati i modelli murini per lo studio in vivo dell’efficienza e della tossicità dei siRNA progettati e validati in vitro, valutando diversi sistemi di delivery per i siRNA in vivo.