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em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna
Resumo:
We report the synthesis and application of some ion-tagged catalysts in organometallic catalysis and organocatalysis. With the installation of an ionic group on the backbone of a known catalyst, two main effects are generally obtained. i) a modification of the solubility of the catalyst: if judicious choice of the ion pair is made, the ion-tag can confer to the catalyst a solubility profile suitable for catalyst recycling. ii) the ionic group can play a non-innocent role in the process considered: if stabilizing interaction between the ionic group and the developing charges in the transition state are established, the reaction can speed up. We describe the use of ion-tagged diphenylprolinol as Zn ligand. The chiral ligand grafted onto an ionic liquid (IL) was recycled 10 times with no loss of reactivity and selectivity, when it was employed in the first example of enantioselective addition of ZnEt2 to aldehydes in ILs. An ammonium-tagged phosphine displayed the capability to stabilize Pd catalysts for the Suzuki reaction in ILs. The ionic phase was recycled 6 times with no detectable loss of activity and very low Pd leaching in the organic phase. This catalytic system was also employed for the functionalization of the challenging substrate 5,11-dibromotetracene. In the field of organocatalysis, we prepared two ion-tagged derivatives of the McMillan imidazolidinone. The results of the asymmetric Diels-Alder reaction between trans-cinnamaldehyde and cyclopentadiene exhibited great dependence on the position and nature of the ionic group. Finally, when O-TMS-diphenylprolinol was tagged with an imidazolium ion, exploiting a silyl ether linker, an efficient catalyst for the asymmetric addition of aldehydes to nitroolefins was achieved. The catalyst displayed enhanced reactivity and the same high level of selectivity of the untagged parent catalyst and it could be employed in a wide range of reaction conditions, included use of water as solvent.
Resumo:
Le ragioni della delocalizzazione sono molteplici e di differente natura. Si delocalizza, in primo luogo, per ragioni di stampo economico, finanziario eccetera, ma questa spinta naturale alla delocalizzazione è controbilanciata, sul piano strettamente tributario, dall’esigenza di preservare il gettito e da quella di controllare la genuinità della delocalizzazione medesima. E’ dunque sul rapporto tra “spinte delocalizzative” dell’impresa, da un lato, ed esigenze “conservative” del gettito pubblico, dall’altro, che si intende incentrare il presente lavoro. Ciò alla luce del fatto che gli strumenti messi in campo dallo Stato al fine di contrastare la delocalizzazione (più o meno) artificiosa delle attività economiche devono fare i conti con i principi comunitari introdotti con il Trattato di Roma e tratteggiati negli anni dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. In quest’ottica, la disciplina delle CFC costituisce un ottimo punto di partenza per guardare ai fenomeni di produzione transnazionale della ricchezza e agli schemi di ordine normativo preposti alla tassazione di codesta ricchezza. Ed infatti, le norme sulle CFC non fanno altro che omogeneizzare un sistema che, altrimenti, sarebbe lasciato alla libera iniziativa degli uffici fiscali. Tale “normalizzazione”, peraltro, giustifica le esigenze di apertura che sono incanalate nella disciplina degli interpelli disapplicativi. Con specifico riferimento alla normativa CFC, assumono particolare rilievo la libertà di stabilimento ed il principio di proporzionalità anche nella prospettiva del divieto di abuso del diritto. L’analisi dunque verterà sulla normativa CFC italiana con l’intento di comprendere se codesta normativa, nelle sue diverse sfaccettature, possa determinare situazioni di contrasto con i principi comunitari. Ciò anche alla luce delle recenti modifiche introdotte dal legislatore con il d.l. 78/2009 in un quadro normativo sempre più orientato a combattere le delocalizzazioni meramente fittizie.
Resumo:
Il presente lavoro parte dalla constatazione che l’Imposta sul valore aggiunto è stata introdotta con lo scopo specifico di tassare il consumo in modo uniforme a livello europeo. La globalizzazione dell’economia con l’abolizione delle frontiere ha tuttavia favorito la nascita non solo di un mercato unico europeo, ma anche di “un mercato unico delle frodi”. L’esistenza di abusi e frodi in ambito Iva risulta doppiamente dannosa per l’Unione europea: tali condotte incidono quantitativamente sull'ammontare delle risorse proprie dell’Unione e sulle entrate fiscali dei singoli Stati membri nonché violano il principio di concorrenza e producono distorsioni nel mercato unico. È in questo contesto che intervengono i giudici nazionali e la Corte di Giustizia, al fine di porre un freno a tali fenomeni patologici. Quest’ultima, chiamata a far rispettare il diritto comunitario, ha sviluppato una misura antifrode e antiabuso consistente nel diniego del diritto alla detrazione qualora lo stesso venga invocato dal soggetto passivo abusivamente o fraudolentemente. Vedremo però che il problema non può essere facilmente ridotto a formule operative: al di là dello schema, fin troppo scontato, dell’operatore apertamente disonesto e degli operatori con esso dichiaratamente correi, rimane il territorio grigio dei soggetti coinvolti, qualche volta inconsapevolmente qualche volta consapevolmente, ma senza concreta partecipazione nella frode da altri orchestrata. Permane a questo punto la domanda se sia coerente - in un sistema impositivo che privilegia i profili oggettivi, prescindendo, salvo gli aspetti sanzionatori, da quelli soggettivi- negare il diritto alla detrazione Iva per asserita consapevolezza di comportamenti fraudolenti altrui o se non vi siano regole più adatte al fine di porre un freno alle frodi e dunque più conformi al principio di proporzionalità.