96 resultados para Cavezzo, sisma, ricostruzione
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Il dibattito sullo sviluppo delle culture dell’età del Bronzo nel territorio dell’Emilia-Romagna sta portando una rinnovata attenzione sull’area romagnola. Le indagini si sono concentrate sull’area compresa tra il fiume Panaro e il Mare Adriatico, riconoscibile nell’odierna Romagna ed in parte della bassa pianura emiliana. Si trattava un territorio strategico, un vero e proprio crocevia socio-economico fra la cultura terramaricola e quelle centro italiche di Grotta Nuova. La presente ricerca di dottorato ha portato alla ricostruzione dei sistemi di gestione e di sfruttamento delle risorse animali in Emilia-Romagna durante l’Età del Bronzo, con particolare attenzione alla definizione della capacità portante ambientale dei diversi territori indagati e delle loro modalità di sfruttamento in relazione alla razionalizzazione della pratiche di allevamento. Sono state studiate in dettaglio le filiere di trasformazione dei prodotti animali primari e secondari definendo, quindi, i caratteri delle paleoeconomie locali nel processo di evoluzione della Romagna durante l’età del Bronzo. La ricerca si è basata sullo studio archeozoologico completo su 13 siti recentemente indagati, distribuiti nelle provincie di: Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì/Cesena e Rimini, e su una revisione completa delle evidenze archeozoologiche prodotte da studi pregressi. Le analisi non si sono limitate al riconoscimento delle specie, ma hanno teso all’individuazione ed alla valutazione di parametri complessi per ricostruire le strategie di abbattimento e le tecniche di sfruttamento e macellazione dei diversi gruppi animali. E’ stato possibile, quindi, valutare il peso ecologico di mandrie e greggi sul territorio e l’impatto economico ed ecologico di un allevamento sempre più sistematico e razionale, sia dal punto di vista dell’organizzazione territoriale degli insediamenti, sia per quanto riguarda le ripercussioni sulla gestione delle risorse agricole ed ambientali in generale.
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La tesi di dottorato La committenza artistica dei Templari e degli Ospitalieri in Emilia Romagna cerca attraverso un approccio metodologico multidisciplinare di ricostruire il patrimonio artistico delle commende dei due ordini religioso cavallereschi in regione. La tesi è stata concepita per riflettere anche a livello strutturale la metodologia d’indagine, così un primo capitolo è dedicato all’analisi storica dei due ordini, con particolare attenzione alla comprensione del rapporto tra gli ordini e il mondo dell’arte. Una secondo capitolo invece è incentrato sulla storiografia artistica relativa e sulle impegnative indagini d’archivio, che, soprattutto attraverso l’utilizzo di una vasta documentazione inedita, hanno permesso di fornire nuovi elementi alla definizione della rete degli insediamenti e della loro decorazione. Lo studio prosegue con la specifica ricostruzione storica e storico artistica delle commende attraverso l’indagine sui singoli insediamenti, dove si è cercato di dar conto delle vicende artistiche e della storia dei suoi protagonisti. Contestualmente alla redazione di questo capitolo, riconoscendo la storia, il senso e l’importanza della scuola stilistico-filologica, si procede alla redazione delle schede di catalogo delle opere superstiti, sia di quelle ancora nelle ex-commende sia di quelle che oggi hanno altre collocazioni. Successivamente, senza necessariamente trarre conclusioni definitive su un lavoro di ricerca che per sua natura è in divenire, si argomentano alcune riflessioni sulla natura, i limiti, i caratteri e l’evoluzione della committenza dei due ordini cavallereschi in regione. Si è così riscoperto un patrimonio artistico vasto e articolato che coniuga capolavori con opere di cultura assai più corsiva, ma comunque sempre capace di raccontare la storia dei suoi artefici (alcuni - come Aristotele Fioravanti, Girolamo da Treviso, Pietro Bembo o Ranuccio Farnese - veri e propri protagonisti del loro tempo), in continuo e sostanziale dialogo con le culture artistiche che hanno attraversato la regione, e non solo, tra Medioevo e Modernità.
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Negli ultimi vent’anni sono state proposte al livello internazionale alcune analisi dei problemi per le scienze nella scuola e diverse strategie per l’innovazione didattica. Molte ricerche hanno fatto riferimento a una nuova nozione di literacy scientifica, quale sapere fondamentale dell’educazione, indipendente dalle scelte professionali successive alla scuola. L’ipotesi di partenza di questa ricerca sostiene che alcune di queste analisi e l’idea di una nuova literacy scientifica di tipo non-vocazionale mostrino notevoli limiti quando rapportate al contesto italiano. Le specificità di quest’ultimo sono state affrontate, innanzitutto, da un punto di vista comparativo, discutendo alcuni documenti internazionali sull’insegnamento delle scienze. Questo confronto ha messo in luce la difficoltà di ottenere un insieme di evidenze chiare e definitive sui problemi dell’educazione scientifica discussi da questi documenti, in particolare per quanto riguarda i dati sulla crisi delle vocazioni scientifiche e sull’attitudine degli studenti verso le scienze. Le raccomandazioni educative e alcuni progetti curricolari internazionali trovano degli ostacoli decisivi nella scuola superiore italiana anche a causa di specificità istituzionali, come particolari principi di selezione e l’articolazione dei vari indirizzi formativi. Il presente lavoro si è basato soprattutto su una ricostruzione storico-pedagogica del curricolo di fisica, attraverso l’analisi delle linee guida nazionali, dei programmi di studio e di alcuni rappresentativi manuali degli ultimi decenni. Questo esame del curricolo “programmato” ha messo in luce, primo, il carattere accademico della fisica liceale e la sua debole rielaborazione culturale e didattica, secondo, l’impatto di temi e problemi internazionali sui materiali didattici. Tale impatto ha prodotto dei cambiamenti sul piano delle finalità educative e degli strumenti di apprendimento incorporati nei manuali. Nonostante l’evoluzione di queste caratteristiche del curricolo, tuttavia, l’analisi delle conoscenze storico-filosofiche utilizzate dai manuali ha messo in luce la scarsa contestualizzazione culturale della fisica quale uno degli ostacoli principali per l’insegnamento di una scienza più rilevante e formativa.
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In Italia, il processo di de-istituzionalizzazione e di implementazione di modelli di assistenza per la salute mentale sono caratterizzati da carenza di valutazione. In particolare, non sono state intraprese iniziative per monitorare le attività relative all’assistenza dei pazienti con disturbi psichiatrici. Pertanto, l’obiettivo della tesi è effettuare una valutazione comparativa dei percorsi di cura nell’ambito della salute mentale nei Dipartimenti di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche della regione Emilia-Romagna utilizzando indicatori ottenuti dai flussi amministrativi correnti.. I dati necessari alla costruzione degli indicatori sono stati ottenuti attraverso un data linkage dei flussi amministrativi correnti regionali delle schede di dimissione ospedaliera, delle attività territoriali dei Centri di Salute Mentale e delle prescrizioni farmaceutiche, con riferimento all’anno 2010. Gli indicatori sono stati predisposti per tutti i pazienti con diagnosi principale psichiatrica e poi suddivisi per categoria diagnostica in base al ICD9-CM. . Il set di indicatori esaminato comprende i tassi di prevalenza trattata e di incidenza dei disturbi mentali, i tassi di ospedalizzazione, la ri-ospedalizzazione a 7 e 30 giorni dalla dimissione dai reparti psichiatrici, la continuità assistenziale ospedale-territorio, l’adesione ai trattamenti ed il consumo e appropriatezza prescrittiva di farmaci. Sono state rilevate alcune problematiche nella ricostruzione della continuità assistenziale ospedale-territorio ed alcuni limiti degli indicatori relativi alle prescrizioni dei farmaci. Il calcolo degli indicatori basato sui flussi amministrativi correnti si presenta fattibile, pur con i limiti legati alla qualità, completezza ed accuratezza dei dati presenti. L’implementazione di questi indicatori su larga scala (regionale e nazionale) e su base regolare può essere una opportunità per impostare un sistema di sorveglianza, monitoraggio e valutazione dell’assistenza psichiatrica nei DSM.
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1.Ricostruzione mandibolare La ricostruzione mandibolare è comunemente eseguita utilizzando un lembo libero perone. Il metodo convenzionale (indiretto) di Computer Aided Design e Computer Aided Manifacturing prevede il modellamento manuale preoperatorio di una placca di osteosintesi standard su un modello stereolitografico della mandibola. Un metodo innovativo CAD CAM diretto comprende 3 fasi: 1) pianificazione virtuale 2) computer aided design della dima di taglio mandibolari, della dima di taglio del perone e della placca di osteosintesi e 3) Computer Aided Manufacturing dei 3 dispositivi chirurgici personalizzati. 7 ricostruzioni mandibolari sono state effettuate con il metodo diretto. I risultati raggiunti e le modalità di pianificazione sono descritte e discusse. La progettazione assistita da computer e la tecnica di fabbricazione assistita da computer facilita un'accurata ricostruzione mandibolare ed apporta un miglioramento statisticamente significativo rispetto al metodo convenzionale. 2. Cavità orale e orofaringe Un metodo ricostruttivo standard per la cavità orale e l'orofaringe viene descritto. 163 pazienti affetti da cancro della cavità orale e dell'orofaringe, sono stati trattati dal 1992 al 2012 eseguendo un totale di 175 lembi liberi. La strategia chirurgica è descritta in termini di scelta del lembo, modellamento ed insetting. I modelli bidimensionali sono utilizzati per pianificare una ricostruzione tridimensionale con il miglior risultato funzionale ed estetico. I modelli, la scelta del lembo e l' insetting sono descritti per ogni regione. Complicazioni e risultati funzionali sono stati valutati sistematicamente. I risultati hanno mostrato un buon recupero funzionale con le tecniche ricostruttive descritte. Viene proposto un algoritmo ricostruttivo basato su template standard.
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La tesi indaga il significato del concetto di “preesistenze ambientali” nel pensiero teorico dell’architetto Ernesto Nathan Rogers. Il tema è scelto come punto di vista privilegiato per indagare il contributo di Rogers al dibattito sull’eredità del Movimento Moderno in un momento, il secondo dopoguerra, in cui si intensifica la necessità di soffermare l’attenzione delle riflessioni teoriche sulle relazioni tra ambiente e progetto. Il problema fu inteso come la ricerca di un linguaggio adeguato all’era macchinista e di un ordine formale per lo sviluppo urbano recente da costruire in funzione del suo rapporto con la città consolidata. Esso fu sviluppato, all’interno dell’opera teorica rogersiana, come riflessione sulla dialettica contrapposizione tra intuizione e trasmissione del sapere, contingenza e universalità. La tesi mostra le ricche connessioni culturali tramite cui tale dialettica è capace di animare un discorso unitario che va dall’insegnamento del Movimento Moderno alle ricerche tipologiche e urbane della cultura italiana degli anni Sessanta. Riportando il concetto di preesistenze ambientali alla sua accezione originale, da un lato attraverso la ricostruzione delle relazioni intellettuali instaurate da Rogers con il Movimento Moderno e i CIAM, dall’altro mediante l’approfondimento del progetto editoriale costruito durante la direzione della rivista “Casabella continuità”, la tesi intende conferire alla nozione il valore di un contributo importante alla teoria della progettazione architettonica urbana. Il concetto di preesistenze ambientali diventa così la chiave analitica per indagare, in particolare, l’influenza del dibattito dell’VIII CIAM su Il Cuore della città e della partecipazione di Rogers al lavoro di redazione dell’Estudio del Plan di Buenos Aires nel 1948-1949 nella maturazione del progetto editoriale di “Casabella continuità” (1954-1965) attraverso l’attribuzione di un preciso valore all’archetipo, alla fenomenologia e alla tradizione nella definizione del rapporto architettura e storia.
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Oggetto della ricerca è il museo Wilhelm Lehmbruck di Duisburg, un'opera dell'architetto Manfred Lehmbruck, progettata e realizzata tra il 1957 e il 1964. Questa architettura, che ospita la produzione artistica del noto scultore Wilhelm Lehmbruck, padre di Manfred, è tra i primi musei edificati ex novo nella Repubblica Federale Tedesca dopo la seconda guerra mondiale. Il mito di Wilhelm Lehmbruck, costruito negli anni per donare una identità culturale alla città industriale di Duisburg, si rinvigorì nel secondo dopoguerra in seno ad una più generale tendenza sorta nella Repubblica di Bonn verso la rivalutazione dell'arte moderna, dichiarata “degenerata” dal nazionalsocialismo. Ricollegarsi all'arte e all'architettura moderna degli anni venti era in quel momento funzionale al ridisegno di un volto nuovo e democratico del giovane stato tedesco, che cercava legittimazione proclamandosi erede della mitica e gloriosa Repubblica di Weimar. Dopo anni di dibattiti sulla ricostruzione, l'architettura del neues Bauen sembrava l'unico modo in cui la Repubblica Federale potesse presentarsi al mondo, anche se la realtà del paese era assai più complessa e svelava il “doppio volto” che connotò questo stato a partire dal 1945. Le numerose dicotomie che popolarono presto la tabula rasa nata dalle ceneri del conflitto (memoria/oblio, tradizione/modernità, continuità/discontinuità con il recente e infausto passato) trovano espressione nella storia e nella particolare architettura del museo di Duisburg, che può essere quindi interpretato come un'opera paradigmatica per comprendere la nuova identità della Repubblica Federale, un'identità che la rese capace di risorgere dopo l' “anno zero”, ricercando nel miracolo economico uno strumento di redenzione da un passato vergognoso, che doveva essere taciuto, dimenticato, lasciato alle spalle.
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Il presente lavoro di tesi ha riguardato una riformulazione teorica, una modellazione numerica e una serie di applicazioni della Generalized Beam Theory per lo studio dei profili in parete sottile con particolare riguardo ai profili in acciaio formati a freddo. In particolare, in questo lavoro è proposta una riscrittura della cinematica GBT che introduce in una forma originale la deformabilità a taglio della sezione. Tale formulazione consente di conservare il formato della GBT classica e introducendo uno spostamento di warping variabile lungo lo spessore della generica parete della sezione trasversale, garantisce perfetta coerenza tra la componente flessionale e tagliante della trave. E' mostrato, come tale riscrittura consente in maniera agevole di ricondursi alle teorie classiche di trave, anche deformabili a taglio. Inoltre, in tale contesto, è stata messa a punto una procedura di ricostruzione dello sforzo tridimensionale in grado ricostruire la parte reattiva delle componenti di tensioni dovuta al vincolamento interno proprio di un modello a cinematica ridotta. Sulla base di tali strumenti, è stato quindi proposto un approccio progettuale dedicato ai profili in classe 4, definito ESA (Embedded Stability Analysis), in grado di svolgere le verifiche coerentemente con quanto prescritto dalle normative vigenti. Viene infine presentata una procedura numerica per la progettazione di sistemi di copertura formati a freddo. Tale procedura permette di effettuare in pochi semplici passi il progetto dell'arcareccio e dei dettagli costruttivi relativi alla copertura.
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Oggetto della ricerca è la rilevanza nell’ambito del diritto penale del principio di precauzione. Quest’ultimo deve la sua diffusione e popolarità al fatto di presentarsi come criterio guida al problema del rischio e dell’incertezza. L’esigenza di adottare scelte normative in condizioni di incertezza scientifica è infatti oggi ineludibile. Si cercherà in primo luogo di circoscrivere l’oggetto dell’indagine analizzando il rilievo che il principio di precauzione ha a livello legislativo e giurisprudenziale. Quindi si analizzeranno le problematiche che il ricorso allo stesso suscita con riferimento alla struttura classica del reato e legate al contesto di incertezza nel quale viene invocato. Tali problematiche si riferiscono alla possibilità o meno di dare rilevanza al modello del reato di pericolo, alla ricostruzione del nesso causale e all’influenza che il principio di precauzione può determinare nell’accertamento dell’elemento soggettivo delle colpa. Si concluderà l’analisi analizzando le diverse posizioni assunte dalla dottrina italiana circa l’opportunità o meno dell’intervento penale in contesti di incertezza scientifica, individuando, in caso di risposta affermativa, le modalità di intervento.
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Questo studio indaga la tradizione storiografica sulle regine seleucidi di III secolo a.C. - da Laodice I fino all’ascesa al trono di Laodice III - alla luce delle testimonianze documentarie. L’intento è stabilire l’orizzonte politico dell’azione delle regine nel momento meno conosciuto e più buio della storia del regno di Siria. Il III secolo seleucidico è infatti un periodo caratterizzato da incertezza nella ricostruzione evenemenziale e nell’analisi delle dinamiche sociopolitiche, soprattutto a causa dell’interesse relativo e limitato delle fonti storiografiche antiche a noi giunte relativamente alle vicende della monarchia seleucidica precedenti l’avvento di Antioco III il Grande. In questo panorama rappresenta un’eccezione il caso di Laodice I, che è al centro di un rilevante numero di testimonianze. Tenendo conto della differente natura delle fonti e della complessità del contesto evenemenziale, non sempre ricostruibile, è stata studiata la figura di Laodice I nell’intento di comprendere il paradigma di regalità femminile stabilito dalle azioni della regina, e quindi l’influenza di tale paradigma sulla generazione seleucide successiva. La ricerca si articola in tre sezioni, legate agli eventi principali del III secolo seleucide che vedono coinvolta la regina. La prima parte è dedicata all’attività di Laodice I dopo il secondo matrimonio di Antioco II con la tolemaica Berenice. La seconda parte riguarda il ruolo di Laodice nei complessi eventi che seguirono la morte del marito Antioco II nel 246 e nella Terza Guerra Siriaca, che vide la regina a fianco del figlio Seleuco II contrapporsi a Tolemeo III e Berenice Sira. La terza sezione si occupa dell’azione di Laodice I nella Guerra Fraterna al fianco di Antioco Ierace contro Seleuco II e Laodice II. Nella conclusione si riflette sull’influenza delle azioni politiche di Laodice I sulla scelta di Antioco III di sposare la cugina Laodice III, prima principessa del Ponto entrata nella dinastia regnante.
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Oggetto di questo lavoro è un’analisi dettagliata di un campione ristretto di riprese televisive della Quinta Sinfonia di Beethoven, con l’obiettivo di far emergere il loro meccanismo costruttivo, in senso sia tecnico sia culturale. Premessa dell’indagine è che ciascuna ripresa sia frutto di un’autorialità specifica che si sovrappone alle due già presenti in ogni esecuzione della Quinta Sinfonia, quella del compositore e quella dell’interprete, definita perciò «terza autorialità» riassumendo nella nozione la somma di contributi specifici che portano alla produzione di una ripresa (consulente musicale, regista, operatori di ripresa). La ricerca esamina i rapporti che volta a volta si stabiliscono fra i tre diversi piani autoriali, ma non mira a una ricostruzione filologica: l’obiettivo non è ricostruire le intenzioni dell’autore materiale quanto di far emergere dall’esame della registrazione della ripresa, così com’è data a noi oggi (spesso in una versione già più volte rimediata, in genere sotto forma di dvd commercializzato), scelte tecniche, musicali e culturali che potevano anche essere inconsapevoli. L’analisi dettagliata delle riprese conferma l’ipotesi di partenza che ci sia una sorta di sistema convenzionale, quasi una «solita forma» o approccio standardizzato, che sottende la gran parte delle riprese; gli elementi che si possono definire convenzionali, sia per la presenza sia per la modalità di trattamento, sono diversi, ma sono soprattutto due gli aspetti che sembrano esserne costitutivi: il legame con il rito del concerto, che viene rispettato e reincarnato televisivamente, con la costruzione di una propria, specifica aura; e la presenza di un paradigma implicito e sostanzialmente ineludibile che pone la maggior parte delle riprese televisive entro l’alveo della concezione della musica classica come musica pura, astratta, che deve essere compresa nei suoi propri termini.
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La ripresa degli studi sulla manualistica del recupero ha contribuito, attraverso una lettura tecnica vista in prospettiva storica, a diffondere sensibilità conoscitiva e consapevolezza del patrimonio premoderno. Tuttavia l’esigenza di superare il tracciato delineato dall’uso dei manuali di recupero – da molti intesi, semplicisticamente, come cataloghi per soluzioni architettoniche di ripristino e ricostruzione – ha reso indispensabile una riflessione sul reale bisogno di questi strumenti e sulle loro ripercussioni operative. Se i manuali, spesso, esprimono una visione statica e totalizzante dell’edilizia storica, l’atlante dichiara una concezione dinamica e “sempre aperta”, in cui ogni elemento rilevato è caso a sé. L’atlante fa, quindi, riferimento ad una concezione “geografica” in cui la catalogazione non è esaustiva e dogmatica ma, contrariamente, dà luogo ad un repertorio di casi criticamente analizzati nell’ottica della conoscenza e della conservazione. L’obiettivo della ricerca non è consistito, pertanto, nel descrivere la totalità dei caratteri costruttivi e delle loro combinazioni, ma nell’individuare casi singoli che sono letti ed interpretati all’interno del loro contesto storico-costruttivo e che valgono quale monito per un’azione progettuale consapevole, orientata al minimo intervento e alla compatibilità fisico-meccanica, figurativa e filologica. Nello specifico la ricerca, collocata in un riferimento temporale compreso tra il XIII e il XIX secolo, ha approfondito i seguenti caratteri: solai lignei, appartato decorativo in cotto e portali. Attraverso un approccio interdisciplinare lo studio si è proposto di contribuire alla costituzione di una metodologia di ricerca sulle tecniche costruttive storiche, ravvisando nel momento conoscitivo la prima fase del progetto di conservazione. È indiscusso, infatti, il solido legame che esiste tra conoscenza, progetto ed operatività. Solo attraverso la consapevolezza storica e architettonica del manufatto è possibile individuare scelte conservative criticamente vagliate ed operare in funzione della specificità del caso in esame e delle sue reali necessità.
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Il presente progetto di ricerca propone l’esegesi di alcune sezioni delle Grazie di Ugo Foscolo, secondo l’Edizione Nazionale (1985), a cura di Pagliai-Scotti. È stato fornito il commento delle seguenti sezioni: Prima redazione dell’Inno, Seconda redazione dell’Inno e Appendice alla Seconda redazione dell’Inno, Versi del Rito, Quadernone, Stesure milanesi: Viaggio delle api e frammenti sparsi. Tutte le stesure della Prima redazione dell’Inno e alcuni frammenti delle Stesure milanesi non erano mai stati commentati fino ad ora. Il commento offre una ricostruzione dell’intertesto delle Grazie – le fonti letterarie, erudite e figurative –, e punta alla storicizzazione e alla contestualizzazione della poesia di Foscolo. Attraverso lo studio dei frammenti nella loro evoluzione è possibile intendere come i tre inni, diventati uno soltanto nella redazione del Quadernone, rappresentino la sintesi di tutto il sapere e gli interessi foscoliani (eruditi, scientifici, filosofico-estetici e letterari), e come essi, sin dai primi esiti poetici, siano specchio delle esperienze biografiche dell’autore. Il commento proposto nella tesi ribadisce la complessità della poesia delle Grazie, nelle sue componenti civili e didattiche. Esso avanza nuovi e importanti spunti di indagine, ponendosi come viatico indispensabile per un futuro commento integrale.
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Scopo del presente progetto di ricerca è indagare i lineamenti degli studi teatrali in Italia negli anni Novanta e Duemila. La tesi, tuttavia, configura piani di indagine più ampi, sia in senso temporale che geografico: prendendo in considerazione il rapporto fra la teatrologia italiana post-novecentesca e la sua tradizione disciplinare, da un lato, e, dall'altro, le esperienze nel medesimo campo di altre culture teatrali occidentali. La tesi si struttura in tre parti: nella prima vengono analizzati i processi di rifondazione (anni Sessanta e Settanta) e di consolidamento (anni Settanta e Ottanta) degli studi teatrali italiani; nella seconda si presentano i caratteri della teatrologia post-novecentesca (anni Novanta e Duemila); nella terza, essi vengono indagati attraverso la lente di uno specifico aspetto che si propone di assumere per descrivere il paradigma disciplinare a quest'altezza: quello del progetto di ricomposizione che sembra manifestarsi negli studi teatrali come messa in dialogo di alcune coppie di polarità oppositive tradizionalmente determinanti (teoria/storia, teoria/pratica, ecc.). Ciascuna delle parti si articola nella ricostruzione storica delle vicende occorse alla disciplina (tenendo conto anche dei loro rapporti con i coevi accadimenti in altri campi artistici, del sapere e socio-culturali) e nell'analisi della produzione scientifica di un determinato periodo. In ogni capitolo, infine, tali elementi vengono messi in relazione sia con le tendenze in atto sui più ampi scenari teatrologici internazionali, che con la tradizione di studio. Il progetto di ricerca si è sviluppato attraverso un'ampia ricognizione bibliografica della produzione scientifica del settore, all'interno di cui è stato dato ampio rilievo al ruolo di quegli ambienti di lavoro teatrologico coagulatisi intorno alle maggiori riviste del campo di studio; si è avvalso inoltre di un intenso programma di ricerca sul campo, che è consistito in una serie di incontri con alcuni dei protagonisti della rifondazione e dello sviluppo della nuova teatrologia italiana.
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La tesi analizza, nel quadro del secondo dopoguerra, quattro casi studio scelti tra le opere di ricostruzione dell’architetto Josef Wiedemann (1910-2001) nel centro di Monaco di Baviera: Odeon (1951-1952), Alte Akademie (1951-1955), Siegestor (1956-1958) e Glyptothek (1961-1972). L’architetto si occupa di opere simbolo della città di Monaco, affrontando la loro ricostruzione come un tema fondante per la storia e l’identità del popolo bavarese, ma soprattutto come un’occasione per definire un metodo d’intervento sulle rovine della guerra. Il suo lavoro è caratterizzato infatti per la ricerca costante di una sintesi tra interesse per la conservazione dell’antico e apertura al nuovo; ispirandosi all’insegnamento del maestro Hans Döllgast, Wiedemann traccia una nuova originale strada per l’intervento sull’antico, segnata da una profonda capacità tecnico-progettuale e dall'attenzione alle nuove esigenze a cui deve rispondere un’architettura contemporanea. Partendo dai suoi scritti e dalle sue opere, si può rilevare un percorso coerente che, partendo dalla conoscenza della storia dell'edificio, ripercorrendone l’evoluzione dallo stato che potremmo definire “originario” allo stato di rovina, giunge a produrre nel progetto realizzato una sintesi tra il passato e il futuro. L'architetto, nella visione di Wiedemann, è chiamato a un compito di grande responsabilità: conoscere per progettare (o ri-progettare) un edificio che porta impressi su di sé i segni della propria storia. Nel metodo che viene messo progressivamente a punto operando nel corpo vivo dei monumenti feriti dalla guerra, è percepibile fino a distinguerlo chiaramente l’interesse e l’influenza del dibattito italiano sul restauro. La conservazione “viva” dell'esistente, così come viene definita da Wiedemann stesso, si declina in modo diverso per ogni caso particolare, approdando a risultati differenti tra loro, ma che hanno in comune alcuni principi fondamentali: conoscere, ricordare, conservare e innovare.