153 resultados para Àsia del sud-est
Resumo:
La mostra è diventata un nuovo paradigma della cultura contemporanea. Sostenuta da proprie regole e da una grammatica complessa produce storie e narrazioni. La presente ricerca di dottorato si struttura come un ragionamento critico sulle strategie del display contemporaneo, tentando di dimostrare, con strumenti investigativi eterogenei, assumendo fonti eclettiche e molteplici approcci disciplinari - dall'arte contemporanea, alla critica d'arte, la museologia, la sociologia, l'architettura e gli studi curatoriali - come il display sia un modello discorsivo di produzione culturale con cui il curatore si esprime. La storia delle esposizioni del XX secolo è piena di tentativi di cambiamento del rapporto tra lo sviluppo di pratiche artistiche e la sperimentazione di un nuovo concetto di mostra. Nei tardi anni Sessanta l’ingresso, nella scena dell’arte, dell’area del concettuale, demolisce, con un azzeramento radicale, tutte le convenzioni della rappresentazione artistica del dopoguerra, ‘teatralizzando’ il medium della mostra come strumento di potere e introducendo un nuovo “stile di presentazione” dei lavori, un display ‘dematerializzato” che rovescia le classiche relazioni tra opera, artista, spazio e istituzione, tra un curatore che sparisce (Siegelaub) e un curatore super-artista (Szeemann), nel superamento del concetto tradizionale di mostra stessa, in cui il lavoro del curatore, in quanto autore creativo, assumeva una propria autonomia strutturale all’interno del sistema dell’arte. Lo studio delle radici di questo cambiamento, ossia l’emergere di due tipi di autorialità: il curatore indipendente e l’artista che produce installazioni, tra il 1968 e il 1972 (le mostre di Siegelaub e Szeemann, la mimesi delle pratiche artistiche e curatoriali di Broodthaers e la tensione tra i due ruoli generata dalla Critica Istituzionale) permette di inquadrare teoricamente il fenomeno. Uno degli obbiettivi della ricerca è stato anche affrontare la letteratura critica attraverso una revisione/costruzione storiografica sul display e la storia delle teorie e pratiche curatoriali - formalizzata in modo non sistematico all'inizio degli anni Novanta, a partire da una rilettura retrospettiva della esperienze delle neoavanguardie – assumendo materiali e metodologie provenienti, come già dichiarato, da ambiti differenti, come richiedeva la composizione sfaccettata e non fissata dell’oggetto di studio, con un atteggiamento che si può definire comparato e post-disciplinare. Il primo capitolo affronta gli anni Sessanta, con la successione sistematica dei primi episodi sperimentali attraverso tre direzioni: l’emergere e l’affermarsi del curatore come autore, la proliferazione di mostre alternative che sovvertivano il formato tradizionale e le innovazioni prodotte dagli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale. Esponendo la smaterializzazione concettuale, Seth Siegelaub, gallerista, critico e impresario del concettuale, ha realizzato una serie di mostre innovative; Harald Szeemann crea la posizione indipendente di exhibition maker a partire When attitudes become forms fino al display anarchico di Documenta V; gli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale, soprattutto Marcel Broodhthears col suo Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles, analizzano la struttura della logica espositiva come opera d’arte. Nel secondo capitolo l’indagine si sposta verso la scena attivista e alternativa americana degli anni Ottanta: Martha Rosler, le pratiche community-based di Group Material, Border Art Workshop/Taller de Arte Fronterizo, Guerrilla Girls, ACT UP, Art Workers' Coalition che, con proposte diverse elaborano un nuovo modello educativo e/o partecipativo di mostra, che diventa anche terreno del confronto sociale. La mostra era uno svincolo cruciale tra l’arte e le opere rese accessibili al pubblico, in particolare le narrazioni, le idee, le storie attivate, attraverso un originale ragionamento sulle implicazioni sociali del ruolo del curatore che suggeriva punti di vista alternativi usando un forum istituzionale. Ogni modalità di display stabiliva relazioni nuove tra artisti, istituzioni e audience generando abitudini e rituali diversi per guardare la mostra. Il potere assegnato all’esposizione, creava contesti e situazioni da agire, che rovesciavano i metodi e i formati culturali tradizionali. Per Group Material, così come nelle reading-room di Martha Rosler, la mostra temporanea era un medium con cui si ‘postulavano’ le strutture di rappresentazione e i modelli sociali attraverso cui, regole, situazioni e luoghi erano spesso sovvertiti. Si propongono come artisti che stanno ridefinendo il ruolo della curatela (significativamente scartano la parola ‘curatori’ e si propongono come ‘organizzatori’). La situazione cambia nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. Oltre agli sconvolgimenti geopolitici, la fine della guerra fredda e dell’ideologia, l’apertura ai flussi e gli scambi conseguenti al crollo delle frontiere, i profondi e drammatici cambiamenti politici che coinvolgono l’Europa, corrispondono al parallelo mutamento degli scenari culturali e delle pratiche espositive. Nel terzo capitolo si parte dall’analisi del rapporto tra esposizioni e Late Capitalist Museum - secondo la definizione di Rosalind Krauss - con due mostre cruciali: Le Magiciens de la Terre, alle origini del dibattito postcoloniale e attraverso il soggetto ineffabile di un’esposizione: Les Immatériaux, entrambe al Pompidou. Proseguendo nell’analisi dell’ampio corpus di saggi, articoli, approfondimenti dedicati alle grandi manifestazioni internazionali, e allo studio dell’espansione globale delle Biennali, avviene un cambiamento cruciale a partire da Documenta X del 1997: l’inclusione di lavori di natura interdisciplinare e la persistente integrazione di elementi discorsivi (100 days/100 guests). Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi, quello che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. La sfida delle pratiche contemporanee è non essere più conformi alle tre unità classiche della modernità: unità di tempo, di spazio e di narrazione. L’episodio più emblematico viene quindi indagato nel terzo capitolo: la Documenta X di Catherine David, il cui merito maggiore è stato quello di dichiarare la mostra come format ormai insufficiente a rappresentare le nuove istanze contemporanee. Le quali avrebbero richiesto - altrimenti - una pluralità di modelli, di spazi e di tempi eterogenei per poter divenire un dispositivo culturale all’altezza dei tempi. La David decostruisce lo spazio museale come luogo esclusivo dell’estetico: dalla mostra laboratorio alla mostra come archivio, l’evento si svolge nel museo ma anche nella città, con sottili interventi di dissimulazione urbana, nel catalogo e nella piattaforma dei 100 giorni di dibattito. Il quarto capitolo affronta l’ultima declinazione di questa sperimentazione espositiva: il fenomeno della proliferazione delle Biennali nei processi di globalizzazione culturale. Dalla prima mostra postcoloniale, la Documenta 11 di Okwui Enwezor e il modello delle Platforms trans-disciplinari, al dissolvimento dei ruoli in uno scenario post-szeemanniano con gli esperimenti curatoriali su larga scala di Sogni e conflitti, alla 50° Biennale di Venezia. Sono analizzati diversi modelli espositivi (la mostra-arcipelago di Edouard Glissant; il display in crescita di Zone of Urgency come estetizzazione del disordine metropolitano; il format relazionale e performativo di Utopia Station; il modello del bric à brac; la “Scuola” di Manifesta 6). Alcune Biennali sono state sorprendentemente autoriflessive e hanno consentito un coinvolgimento più analitico con questa particolare forma espressiva. Qual è l'impatto sulla storia e il dibattito dei sistemi espositivi? Conclusioni: Cos’è la mostra oggi? Uno spazio sotto controllo, uno spazio del conflitto e del dissenso, un modello educativo e/o partecipativo? Una piattaforma, un dispositivo, un archivio? Uno spazio di negoziazione col mercato o uno spazio di riflessione e trasformazione? L’arte del display: ipotesi critiche, prospettive e sviluppi recenti.
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La ricerca mira ad indagare l’origine della Scuola ingegneristica bolognese ed il ruolo che essa ha avuto durante i suoi primi 50 anni di attività nella diffusione del calcestruzzo armato in Italia, ed in particolare nella città di Bologna, sia dal punto di vista teorico che architettonico. Il processo di sviluppo del cemento armato è stato indagato secondo i percorsi tipici della scienza e della tecnica: teoria e pratica appaiono nel periodo di sperimentazione del materiale assai lontane; soltanto grazie alla comprensione delle sue potenzialità costruttive e del modo di sfruttarle al meglio, esse iniziano a convergere. L’interesse specifico per la Scuola bolognese va quindi a collocarsi all’interno di un panorama assai più ampio, con l’obiettivo di comprendere se, e fino a quando, le due discipline proseguono lungo strade parallele o se, al contrario, esse godono di reciproche influenze.
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La ricerca si propone come studio teorico e analitico basato sulla traduzione letteraria e audiovisiva del genere diasporico, esemplificato nel romanzo The Namesake – L’omonimo di J. Lahiri e nel film The Namesake – Il destino nel nome di M. Nair. Si sviluppa, quindi, un doppio percorso di analisi, concentrandosi sulla traduzione interlinguistica di due modalità testuali differenti, quella letteraria (il testo narrativo) e quella audiovisiva (in particolare, il doppiaggio). L’approccio teorico è di stampo interdisciplinare, come risulta sempre più imprescindibile nel campo dei Translation Studies: infatti, si cerca di coniugare prospettive di natura più linguistica, quali i Descriptive Translation Studies (in particolare, Toury 1995) e lo sviluppo degli studi sui cosiddetti ‘universali traduttivi’, con approcci di stampo più culturalista, in particolare gli studi sulla traduzione post-coloniali, con le loro riflessioni sui concetti di ‘alterità’ e ‘ibridismo’. Completa il quadro teorico di riferimento una necessaria definizione e descrizione del genere diasporico relativo alla cultura indiana, in rapporto sia al contesto di partenza (statunitense) sia al contesto di arrivo (italiano) per entrambi i testi presi in considerazione. La metodologia scelta per l’indagine è principalmente di natura linguistica, con l’adozione del modello elaborato dallo studioso J. Malone (1988). L’analisi empirica, accompagnata da una serie di riflessioni teoriche e linguistiche specifiche, si concentra su tre aspetti cruciali per entrambe le tipologie testuali, quali: la resa della naturalezza dei dialoghi nel discorso letterario e in quello filmico, la rappresentazione del multiculturalismo e delle varietà linguistiche caratterizzanti i due testi di partenza e i numerosi riferimenti culturo-specifici delle due opere e la loro traduzione in italiano. Si propongono, infine, alcune considerazioni in ottica intersemiotica in relazione alle tre aree individuate, a integrazione dell’indagine in chiave interlinguistica.
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L’osteoartrite (OA) rappresenta un gruppo di patologie a carico delle articolazioni che si stima colpisca più del 20% dei cani con età superiore a un anno. Si tratta di una condizione dove entrano in gioco fattori biomeccanici e biochimici, che si esprime clinicamente con zoppia e dolore. Le ricerche effettuate negli ultimi decenni hanno dimostrato il coinvolgimento dell’innervazione nocicettiva e simpatica nell’insorgenza e nel mantenimento del dolore e dell’infiammazione che caratterizzano l’OA. In questa, infatti, svolgono un ruolo cruciale i neuropeptidi, quali la sostanza P (SP) ed il peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP), ed i neuromediatori simpatici liberati alla periferia rispettivamente dalle fibre nocicettive e dalle fibre simpatiche postgangliari. Col presente lavoro ci si è posti l’obiettivo di definire il tipo ed il numero di fibre nervose che innervano l’articolazione della spalla e del ginocchio di cane in soggetti esenti da patologia articolare ed affetti da osteoartrite. Campioni di legamenti e capsula articolare della spalla e della parte craniolaterale della capsula articolare del ginocchio sono stati sottoposto a reazione di doppia immunofluorescenza indiretta volta alla identificazione del numero complessivo di fibre nervose presenti e della percentuale di fibre SP, CGRP e simpatiche positive. I risultati testimoniano come in corso di OA nel cane venga ad alterarsi l’equilibrio tra innervazione sensitiva e simpatica. Infatti, lo studio quantitativo ha evidenziato che nei soggetti affetti da OA si assiste ad un incremento della percentuale di fibre SP positive e ad un decremento di quelle simpatiche. Si ritiene che l’integrità di questi due tipi d’innervazione sia necessaria per l’omeostasi tissutale e che un aumento delle fibre nocicettive e una riduzione di quelle simpatiche abbia un effetto proinfiammatorio e iperalgesico. È stata inoltre riscontrata una differente densità di fibre nervose a seconda del tipo di patologia considerata.
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Questa tesi parte da un evento “minore” della storia del XIX secolo per tendere, poi, ad alcuni obiettivi particolari. L’evento è costituito da uno strano funerale postumo, quello di Piero Maroncelli, carbonaro finito alla Spielberg, graziato, poi emigrato in Francia e in America, il cui corpo viene sepolto a New York nell’estate del 1846. Quarant’anni dopo, nel 1886, i resti di Maroncelli vengono esumati e – attraverso una “trafila” particolare, di cui è protagonista la Massoneria, da una sponda all’altra dell’Atlantico – solennemente trasferiti nella città natale di Forlì, dove vengono collocati nel pantheon del cimitero monumentale, inaugurato per l’occasione. Gli eventi celebrativi che si consumano a New York e a Forlì sono molto diversi fra loro, anche se avvengono quasi in contemporanea e sotto regie politiche ispirate dal medesimo radicalismo anticlericale. E’ chiaro che Maroncelli è un simbolo e un pretesto: simbolo di un’italianità transnazionale, composta di un “corpo” in transito, fuori dello spazio nazionale, ma appartenente alla patria (quella grande e quella piccola); pretesto per acquisire e rafforzare legami politici, mercè mobilitazioni di massa in un caso fondate sul festival, sulla festa en plein air, nell’altro sui rituali del cordoglio per i “martiri” dell’indipendenza. L’opportunità di comparare questi due contesti – l’Italia, colta nella sua periferia radicale e la New York della Tammany Hall -, non sulla base di ipotesi astratte, ma nella concretezza di un “caso di studio” reale e simultaneo, consente di riflettere sulla pervasività dell’ideologia democratica nella sua accezione ottocentesca, standardizzata dalla Massoneria, e, d’altro canto, sui riti del consenso, colti nelle rispettive tipicità locali. Un gioco di similitudini e di dissomiglianze, quindi. Circa gli obiettivi particolari – al di là della ricostruzione del “caso” Maroncelli -, ho cercato di sondare alcuni temi, proponendone una ricostruzione in primo luogo storiografica. Da un lato, il tema dell’esilio e del trapianto delle esperienze di vita e di relazione al di fuori del proprio contesto d’origine. Maroncelli utilizza, come strumento di identitario e di accreditamento, il fourierismo; la generazione appena successiva alla sua, grazie alla Giovine Italia, possiede già un codice interno, autoctono, cui fare riferimento; alla metà degli anni Cinquanta, ad esso si affiancherà, con successo crescente, la lettura “diplomatica” di ascendenza sabauda. Dall’altro, ho riflettuto sull’aspetto legato ai funerali politici, al cordoglio pubblico, al trasferimento postumo dei corpi. La letteratura disponibile, al riguardo, è assai ricca, e tale da consentire una precisa classificazione del “caso” Maroncelli all’interno di una tipologia della morte laica, ben delineata nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento. E poi, ancora, ho preso in esame le dinamiche “festive” e di massa, approfondendo quelle legate al mondo dell’emigrazione italiana a Mew York, così distante nel 1886 dall’élite colta di quarant’anni prima, eppure così centrale per il controllo politico della città. Dinamiche alle quali fa da contrappunto, sul versante forlivese, la visione del mondo radicale e massonico locale, dominato dalla figura di Aurelio Saffi e dal suo tentativo di plasmare un’immagine morale e patriottica della città da lasciare ai posteri. Quasi un’ossessione, per il vecchio triumviro della Repubblica romana (morirà nel 1890), che interviene sulla toponomastica, sull’edilizia cemeteriale, sui pantheon civico, sui “ricordi” patriottici. Ho utilizzato fonti secondarie e di prima mano. Anche sulle prime, quantitativamente assai significative, mi sono misurata con un lavoro di composizione e di lettura comparata prima mai tentato. La giustapposizione di chiavi di lettura apparentemente distanti, ma giustificate dalla natura proteiforme e complicata del nostro “caso”, apre, a mio giudizio, interessanti prospettive di ricerca. Circa le fonti di prima mano, ho attinto ai fondi disponibili su Maroncelli presso la Biblioteca comunale di Forlì, alle raccolte del Grande Oriente d’Italia a Roma, a periodici italoamericani assai rari, sparsi in diverse biblioteche italiane, da Milano a Roma. Mi rendo conto che la quantità dei materiali reperiti, sovente molto eterogenei, avrebbero imposto una lettura delle fonti più accurata di quella che, in questa fase della ricerca, sono riuscita a condurre. E’ vero, però, che le suggestioni già recuperabili ad un’analisi mirata al contenuto principale – le feste, la propaganda, il cordoglio – consentono la tessitura di una narrazione non forzata, nella quale il ricordo della Repubblica romana viaggia da una sponda all’altra dell’Atlantica, insieme ai resti di Maroncelli; nella quale il rituale massonico funge da facilitatore e da “mediatore culturale”; nella quale, infine, il linguaggio patriottico e la koinè democratica trans-nazionale riescono incredibilmente a produrre o a incarnare identità. Per quanto tempo? La risposta, nel caso forlivese, è relativamente facile; in quello della “colonia” italiana di New York, presto alterata nella sua connotazione demografica dalla grande emigrazione transoceanica, le cose appaiono più complesse. E, tuttavia, nel 1911, cinquantesimo dell’Unità, qualcuno, nella grande metropoli americana, si sarebbe ricordato di Maroncelli, sia pure in un contesto e con finalità del tutto diverse rispetto al 1886: segno che qualcosa, sotto traccia, era sopravvissuto.
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Lo stabilirsi di nuovi criteri abitativi nella Lombardia di fine Ottocento e dei primi decenni del XX secolo, ha fatto emergere, nel vasto tema dell’abitazione popolare, componenti meritevoli di essere analizzate nelle loro differenti declinazioni. Nella ricerca sono quindi stati analizzati: gli studi tipologici di quel periodo, l’impiego di differenti materiali edili, il linguaggio compositivo, le interrelazioni dei manufatti architettonici con il contesto urbano, l’apporto delle cooperative alla realizzazione degli interventi, lo sviluppo e l’impiego della prefabbricazione e la tutela, valorizzazione e trasformazione del patrimonio edilizio esistente. Presupposto di quest’analisi è stata l’ampia ricostruzione storiografica delle fasi germinali e del dibattito ottocentesco sulla casa operaia e popolare, che hanno condotto (all’inizio del novecento) alla creazione dell’Istituto Autonomo Case Popolari od Economiche di Milano. Sono state enucleate anche le principali caratteristiche formali e tecnologiche dell’edilizia residenziale popolare milanese di quel periodo. La ricerca inoltre è stata finalizzata alla definizione di strategie gestionali del patrimonio storiografico esistente (documentario, iconografico e bibliografico) rivolto a una migliore fruizione dei beni architettonici considerati e a supporto di conoscenza per la sua valorizzazione, tutela, trasformazione e recupero. Per questa ragione l’analisi delle fonti documentarie e archivistiche, si è basata sull’indagine di alcuni progetti originari (quasi mai in possesso dell’Aler e parzialmente dispersi in archivi comunali e privati). La ricostruzione del patrimonio storico-visuale dell’edilizia residenziale d’inizio secolo, ha dedicato attenzione anche agli aspetti architettonici e di vita degli spazi comuni, dello stato di conservazione e delle trasformazioni delle strutture originarie. Accanto a questi filoni di indagine è stata sviluppata un’attenta analisi della letteratura esistente, studiando sia la pubblicistica sia la letteratura scientifica coeva alle costruzione e gli studi, anche di grande portata, compiuti nei decenni successivi. L’indagine propone anche una periodizzazione delle fasi realizzative dell’edilizia popolare, relazionandole a contesti architettonici e storiografici di più ampio respiro. Si sono indagate, ad esempio, le ragioni del costituirsi di una forte interdipendenza delle varie realtà sociali urbane e si sono posti a confronto gli elementi prettamente architettonici con il quadro tematico connesso al concetto di modernità. La ricerca non ha neppure trascurato gli studi chiarificatori delle istanze sociali, che hanno trovato particolari riferimenti nelle analisi scientifiche (pubblicate su riviste specialistiche, in qualche caso di difficile reperibilità) o nelle ricerche commissionate dal Comune di Milano nel primo decennio del XX secolo. Grande importanza è stata riposta anche nell’analisi delle delibere comunali (verificate e documentate in modo organico e complessivo) che, a partire dal 1861, trattano il tema dell’impegno pubblico nella realizzazione di edilizia operaia a basso costo.
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In un arco temporale che copre il decennio settanta, ma che si spinge fino ad analizzare anche il dibattito italiano odierno, la presente ricerca ricostruisce i passaggi attraverso i quali l’aborto, da pratica clandestina, è diventato un “fatto” che ha creato e cambiato l’opinione pubblica italiana. Non si tratta di una ricostruzione cronologica pura e semplice, ma quello che si propone è un percorso che procede per temi, utilizzando una particolare chiave di lettura delle fonti giornalistiche e degli atti parlamentari che documentano la costruzione complessiva del discorso. In tale prospettiva, un particolare rilievo assumono alcuni momenti della storia italiana che, nell’arco del decennio, hanno favorito l’immissione di un argomento così complesso, delicato e inusuale come il corpo riproduttivo delle donne sulla scena pubblica, facendone un tema da agenda politica dei partiti. Tra gli eventi più significativi che la ricerca individua certamente il processo a Gigliola Pierobon, avvenuto a Padova nel 1973, di cui si propone una lettura attraverso la chiave interpretativa dell’affaire. Si tratta di una forma di costruzione discorsiva di un “fatto di legge” codificata da Voltaire nel XVIII secolo e ripresa attraverso gli studi dell’antropologa Elisabeth Claverie e del sociologo Luc Boltanski , che applicano in maniera diacronica il concetto di “affaire” a diverse “situazioni di conflitto”, strutturando in tal modo il concetto di “verità contro la legge” . La ricerca è stata condotta utilizzando sia fonti giornalistiche che da diversi punti di vista, hanno fotografato e “tradotto” per l’opinione pubblica il dibattito culturale e politico sul tema dei diritti riproduttivi, sia utilizzando gli atti parlamentari ufficiali , cioè le trascrizioni delle sedute del dibattito alla Camera e al Senato che tra il 1976 e il 1978 hanno creato i presupposti per la nascita della legge 194.
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La presente ricerca si articola idealmente in tre sezioni. La prima sezione ha natura eminentemente tecnica e mira a descrivere le caratteristiche di funzionamento delle principali tecnologie di geolocalizzazione e ad analizzare la questione della tutelabilità mediante diritti di privativa dei dati relativi alla posizione geografica; la seconda sezione introduce in termini generali il tema della compatibilità fra le diverse tecnologie di geolocalizzazione e le norme in materia di tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali; la terza sezione, infine, che si basa su di un case study condotto a livello sia nazionale sia europeo, è volta ad individuare i vantaggi, le utilità in senso ampio, derivanti dall'utilizzo delle tecnologie di geolocalizzazione con particolare riferimento al trasporto locale di persone, valutando le cautele particolari che debbono essere osservate per il rispetto del diritto alla privacy di utenti e lavoratori.
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Il medulloblastoma (MB) è il tumore più comune del sistema nervoso centrale. Attualmente si riesce a curare solo il 50-60% dei pazienti che tuttavia presentano gravi effetti collaterali dovuti alle cure molto aggressive. Una recente classificazione molecolare ha ridistribuito le varianti più comuni di MB in quattro distinti gruppi. In particolare, il gruppo SHH e D sono caratterizzati da un’ alta espressione di MYCN ed associati a prognosi sfavorevole. MYCN è coinvolto nella regolazione della proliferazione cellulare, differenziazione, apoptosi, angiogenesi e metastasi. L’obiettivo di questo lavoro è la valutazione dell’attività antitumorale di oligonucleotidi diretti contro MYCN, sia in vitro su diverse linee cellulari di MB che in vivo in modelli murini xenograft ortotopici di MB. I risultati hanno dimostrato un’ottima inibizione della crescita in linee cellulari di MB, accompagnata da una riduzione della trascrizione genica e dei livelli proteici di MYCN. Inoltre, sono stati confermati tramite RT-PCR alcuni dei geni trovati significativamente variati nell’esperimento di microarray , dopo il trattamento. Molto interessanti sono stati geni quali BIRC5, che risulta down regolato mentre il gene p21 risulta up regolato in tutte le linee cellulari di MB utilizzate. Inoltre, sono stati generati modelli murini di MB utilizzando cellule precedentemente trasfettate per esprimere il gene della luciferasi e valutarne così la crescita tumorale tramite imaging bioluminescente in vivo (BLI), al fine di poter testare l’attività antitumorale data dagli oligonucleotidi. I risultati hanno dimostrato una buona risposta al trattamento come rilevato dalla tecnica di BLI. I dati preliminari prodotti, dimostrano che MYCN potrebbe esser un buon target per la terapia del MB nei casi in cui è overespresso. In particolare, una sua inibizione potrebbe presentare effetti indesiderati moderati in quanto è poco espresso dopo la nascita.
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Lo studio del lato soggettivo del rapporto è centrale nella teoria dell’obbligazione. Ci si chiede se la modificazione di una o anche di entrambe le parti del rapporto determini sempre la sua estinzione o se, invece, si conservi la sua unitarietà oggettiva. La risposta a questo interrogativo è stata diversa a seconda delle diverse epoche storiche. Nel diritto romano si riteneva che la variazione di qualunque soggetto determinasse l’estinzione del rapporto e la costituzione di una nuova obbligazione (novazione soggettiva). Tale soluzione è stata osteggiata dai codificatori moderni per i quali, in caso di modifica delle personae non si ha estinzione del rapporto, ma solo il mutamento di uno dei suoi elementi. Quanto ai diritti di garanzia, in particolare l’ipoteca, i principi generali essenzali sono la specialità e l’accessorietà. Quest’ultima caratteristica è dirimente in caso di modificazione soggettiva del rapporto e ciò emerge in sede di trattazione delle singole fattispecie del Codice Civile che la determinano, sia quanto al creditore sia quanto al debitore. Per velocizzare il subentro nel credito, nel 2007 è stato approvato il decreto Bersani (sulla portabilità del mutuo) che ha consentito di rimuovere vincoli a tale circolazione, nell’ambito dei rapporti bancari. Le caratteristiche della modificazione del rapporto obbligatorio, tuttavia, possono minare l’efficacia della riforma Bersani. Questo è il motivo per il quale taluni studiosi ritengono necessario procedere a un’ampia rivisitazione dell’intero diritto ipotecario, eliminando, sulla scia di quanto accaduto in altri ordinamenti europei, il requisito dell’accessorietà del vincolo. Nonostante ciò, a causa dei rischi connessi a questa riforma, si ritiene preferibile affinare il meccanismo di perfezionamento della portabilità, eliminandone le criticità, senza però pregiudicare le sicurezze dell’attuale sistema giuridico, di cui l’accessorietà dell’ipoteca rispetto al credito costituisce un importante caposaldo.
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Il presente elaborato ha per oggetto la tematica del Sé, in particolar modo il Sé corporeo. Il primo capitolo illustrerà la cornice teorica degli studi sul riconoscimento del Sé corporeo, affrontando come avviene l’elaborazione del proprio corpo e del proprio volto rispetto alle parti corporee delle altre persone. Il secondo capitolo descriverà uno studio su soggetti sani che indaga l’eccitabilità della corteccia motoria nei processi di riconoscimento sé/altro. I risultati mostrano un incremento dell’eccitabilità corticospinale dell’emisfero destro in seguito alla presentazione di stimoli propri (mano e cellulare), a 600 e 900 ms dopo la presentazione dello stimolo, fornendo informazioni sulla specializzazione emisferica substrati neurali e sulla temporalità dei processi che sottendono all’elaborazione del sé. Il terzo capitolo indagherà il contributo del movimento nel riconoscimento del Sé corporeo in soggetti sani ed in pazienti con lesione cerebrale destra. Le evidenze mostrano come i pazienti, che avevano perso la facilitazione nell’elaborare le parti del proprio corpo statiche, presentano tale facilitazione in seguito alla presentazione di parti del proprio corpo in movimento. Il quarto capitolo si occuperà dello sviluppo del sé corporeo in bambini con sviluppo atipico, affetti da autismo, con riferimento al riconoscimento di posture emotive proprie ed altrui. Questo studio mostra come alcuni processi legati al sé possono essere preservati anche in bambini affetti da autismo. Inoltre i dati mostrano che il riconoscimento del sé corporeo è modulato dalle emozioni espresse dalle posture corporee sia in bambini con sviluppo tipico che in bambini affetti da autismo. Il quinto capitolo sarà dedicato al ruolo dei gesti nel riconoscimento del corpo proprio ed altrui. I dati di questo studio evidenziano come il contenuto comunicativo dei gesti possa facilitare l’elaborazione di parti del corpo altrui. Nella discussione generale i risultati dei diversi studi verranno considerati all’interno della loro cornice teorica.
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La realizzazione di questa ricerca ha come obiettivo principe lo studio approfondito dell’istituto della riabilitazione penale all’interno del panorama legislativo italiano, con riferimento al contesto bolognese, e nella legislazione belga; inoltre si pone come scopo l’analisi dell’interazione autore-vittima del reato, con una particolare attenzione al risarcimento elargito alla persona offesa dal reato e alla figura della vittima prima nel sistema penale, poi nel procedimento specifico che porta alla riabilitazione del condannato. Il punto di partenza del lavoro di ricerca intrapreso è costituito da un’accurata ricerca bibliografica inerente agli argomenti trattati, al fine di poter approfondire una buona parte della letteratura italiana e belga esistente in materia. La fase successiva della ricerca è stata quella di reperire informazioni riguardanti l’ambito di studio da approfondire, cioè la riabilitazione, secondo una direttrice empirica. Pertanto, per quanto concerne la realtà italiana, sono stati analizzati, tramite una griglia di rilevazione costruita ad hoc, i fascicoli processuali relativi alla riabilitazione presenti negli archivi del Tribunale di Sorveglianza di Bologna (2004-2009); la situazione belga è invece stata studiata reperendo dati, riferiti alla réhabilitation pénal, rintracciati presso il “Service Public Fédéral Justice - Bureau Permanent Statistiques et Mesure de la charge de travail (BPSM)” (2008-2009), sia livello nazionale che delle cinque Corti di appello. Inoltre, al fine di ottenere un ulteriore punto di vista empirico riguardante l’istituto della riabilitazione penale, sono state effettuate delle interviste semi-strutturate al Presidente del Tribunale di Sorveglianza Dott. Francesco Maisto e al Sostituto Procuratore Generale di Liège Mr. Nicolas Banneux. Infatti l’esperienza lavorativa e il particolare ruolo ricoperto da questi “osservatori privilegiati”, competenti di riabilitazione e particolarmente sensibili alle tematiche criminologiche e vittimologiche, li pone direttamente in contatto con l’istituto e la procedura della riabilitazione, determinando in loro una profonda padronanza dell’oggetto di ricerca.
Resumo:
Il presupposto della ricerca consiste nel riconosciuto valore storico-testimoniale e identitario e in un significativo potenziale d’indicazione pianificatoria e progettuale che detengono in sé i segni del paesaggio rurale tradizionale. Allo stato attuale, sebbene tali valori vengano ampiamente affermati sia nell’ambiente normativo-amministrativo che in quello scientifico, è tuttora riscontrabile una carenza di appropriati metodi e tecniche idonei a creare opportuni quadri conoscitivi per il riconoscimento, la catalogazione e il monitoraggio dei paesaggi rurali tradizionali a supporto di politiche, di piani e di progetti che interessano il territorio extraurbano. La ricerca si prefigge l’obiettivo generale della messa a punto di un set articolato ed originale di strumenti analitici e interpretativi di carattere quantitativo idonei per lo studio delle trasformazioni fisiche dei segni del paesaggio rurale tradizionale e per la valutazione del loro grado di integrità e rilevanza alla scala dell’azienda agricola. Tale obiettivo primario si è tradotto in obiettivi specifici, il cui conseguimento implica il ricorso ad un caso studio territoriale. A tal proposito è stato individuato un campione di 11 aziende agricole assunte quali aree studio, per una superficie complessiva pari all’incirca 200 ha, localizzate nel territorio dell’alta pianura imolese (Emilia-Romagna). L’analisi e l’interpretazione quantitativa delle trasformazioni fisiche avvenute a carico dei sopraccitati segni sono state condotte a decorrere da prima dell’industrializzazione all’attualità e per numerosi istanti temporali. Lo studio si presenta sia come contributo di metodo concernente la lettura diacronica dei caratteri tradizionali spaziali e compositivi del territorio rurale, sia come contributo conoscitivo relativo alle dinamiche evolutive dei paesaggi tradizionali rurali dell’area indagata.
Resumo:
La micosi fungoide (MF) è un linfoma a cellule T primitivo della cute usualmente indolente negli stadi iniziali, ma con prognosi decisamente peggiore nelle fasi avanzate, ove attualmente non sono presenti strategie terapeutiche tali da indurre remissioni durature. Recenti osservazioni indicano che alti livelli di espressione del vascular endothelial growth factor (VEGF) nelle cellule della MF sembrano correlare con una prognosi peggiore. Nel presente studio, sono state vagliate le eventuali differenze di espressione di VEGF nella MF e nei linfociti T normali. In primo luogo sono stati raffrontati 63 casi di MF con 20 campioni corrispondenti alle diverse sottopopolazioni di linfociti T normali, per stabilire quale fra questi esprimesse maggiori livelli di VEGF. Tale esperimento ha dimostrato che il gene è notevolmente più espresso nella MF. Si è provveduto a stabilire se tale dato sia da correlarsi ad un fenomeno patologico o fisiologico. Quindi sono state eseguite indagini di gene expression profiling (GEP) allo scopo di vagliare i livelli di VEGF nella popolazione linfocitaria T normale (CD4+, CD8+, HLA-DR+ e HLA-DR-): da ciò è risultato che i linfociti T attivati esprimono maggiormente VEGF e che il loro GEP è globalmente paragonabile a quello della MF. Pertanto, i linfociti T attivati sono stati considerati la controparte normale delle cellule della MF. Successivamente si è confrontata l’espressione quantitativa di VEGF nei linfociti T attivati e nelle cellule della MF, evidenziando come questa sia maggiore nella popolazione neoplastica indipendentemente dallo stadio della malattia. Le indagini immunoistochimiche condotte su 18 casi di MF, hanno confermato quanto evidenziato attraverso il GEP. Concludendo, la ricerca ha dimostrato per la prima volta l’espressione di VEGF negli elementi della MF. Ciò porta a supporre che la de-regolazione genica della via di VEGF sia correlata nella patogenesi della MF e che tale molecola possa considerarsi un potenziale bersaglio terapeutico.
Resumo:
Il lavoro di ricerca descrive il percorso che ha portato alla redazione del Piano Strutturale del Verde del Comune di Senigallia (AN), quale strumento capace di migliorare la qualità di vita ed il benessere della città, intesa come ecosistema, e dei cittadini, quali parte integrante e, al tempo stesso, fruitori di suddetto ecosistema. Lo studio ha pertanto previsto dapprima un'analisi approfondita e dettagliata dell’intero territorio comunale e, successivamente, la stesura di linee guida e la definizione di soluzioni progettuali tipo indirizzate ad una pianificazione e gestione sostenibile del territorio. Il lavoro svolto non si limita alla descrizione del Piano Strutturale del Verde, ma illustra anche un caso studio francese, quale modello di analisi dell'iter successivo, che è consigliabile seguire dopo l'approvazione di questo tipo di Piani, al fine di renderli concreti ed operativi ed attuare, quindi, le linee guida da essi definite. L’obiettivo risulta dunque quello di evitare che questo importante strumento di pianificazione e gestione del territorio sia dimenticato in un cassetto degli Uffici Comunali.