409 resultados para Catania (Italy) Regia università degli studi. Orto botanico]


Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

In this thesis the use of widefield imaging techniques and VLBI observations with a limited number of antennas are explored. I present techniques to efficiently and accurately image extremely large UV datasets. Very large VLBI datasets must be reduced into multiple, smaller datasets if today’s imaging algorithms are to be used to image them. I present a procedure for accurately shifting the phase centre of a visibility dataset. This procedure has been thoroughly tested and found to be almost two orders of magnitude more accurate than existing techniques. Errors have been found at the level of one part in 1.1 million. These are unlikely to be measurable except in the very largest UV datasets. Results of a four-station VLBI observation of a field containing multiple sources are presented. A 13 gigapixel image was constructed to search for sources across the entire primary beam of the array by generating over 700 smaller UV datasets. The source 1320+299A was detected and its astrometric position with respect to the calibrator J1329+3154 is presented. Various techniques for phase calibration and imaging across this field are explored including using the detected source as an in-beam calibrator and peeling of distant confusing sources from VLBI visibility datasets. A range of issues pertaining to wide-field VLBI have been explored including; parameterising the wide-field performance of VLBI arrays; estimating the sensitivity across the primary beam both for homogeneous and heterogeneous arrays; applying techniques such as mosaicing and primary beam correction to VLBI observations; quantifying the effects of time-average and bandwidth smearing; and calibration and imaging of wide-field VLBI datasets. The performance of a computer cluster at the Istituto di Radioastronomia in Bologna has been characterised with regard to its ability to correlate using the DiFX software correlator. Using existing software it was possible to characterise the network speed particularly for MPI applications. The capabilities of the DiFX software correlator, running on this cluster, were measured for a range of observation parameters and were shown to be commensurate with the generic performance parameters measured. The feasibility of an Italian VLBI array has been explored, with discussion of the infrastructure required, the performance of such an array, possible collaborations, and science which could be achieved. Results from a 22 GHz calibrator survey are also presented. 21 out of 33 sources were detected on a single baseline between two Italian antennas (Medicina to Noto). The results and discussions presented in this thesis suggest that wide-field VLBI is a technique whose time has finally come. Prospects for exciting new science are discussed in the final chapter.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

La catena respiratoria mitocondriale è principalmente costituita da proteine integrali della membrana interna, che hanno la capacità di accoppiare il flusso elettronico, dovuto alle reazioni redox che esse catalizzano, al trasporto di protoni dalla matrice del mitocondrio verso lo spazio intermembrana. Qui i protoni accumulati creano un gradiente elettrochimico utile per la sintesi di ATP ad opera dell’ATP sintasi. Nonostante i notevoli sviluppi della ricerca sulla struttura e sul meccanismo d’azione dei singoli enzimi della catena, la sua organizzazione sovramolecolare, e le implicazioni funzionali che ne derivano, rimangono ancora da chiarire in maniera completa. Da questa problematica trae scopo la presente tesi volta allo studio dell’organizzazione strutturale sovramolecolare della catena respiratoria mediante indagini sia cinetiche che strutturali. Il modello di catena respiratoria più accreditato fino a qualche anno fa si basava sulla teoria delle collisioni casuali (random collision model) che considera i complessi come unità disperse nel doppio strato lipidico, ma collegate funzionalmente tra loro da componenti a basso peso molecolare (Coenzima Q10 e citocromo c). Recenti studi favoriscono invece una organizzazione almeno in parte in stato solido, in cui gli enzimi respiratori si presentano sotto forma di supercomplessi (respirosoma) con indirizzamento diretto (channeling) degli elettroni tra tutti i costituenti, senza distinzione tra fissi e mobili. L’importanza della comprensione delle relazioni che si instaurano tra i complessi , deriva dal fatto che la catena respiratoria gioca un ruolo fondamentale nell’invecchiamento, e nello sviluppo di alcune malattie cronico degenerative attraverso la genesi di specie reattive dell’ossigeno (ROS). E’ noto, infatti, che i ROS aggrediscono, anche i complessi respiratori e che questi, danneggiati, producono più ROS per cui si instaura un circolo vizioso difficile da interrompere. La nostra ipotesi è che, oltre al danno a carico dei singoli complessi, esista una correlazione tra le modificazioni della struttura del supercomplesso, stress ossidativo e deficit energetico. Infatti, la dissociazione del supercomplesso può influenzare la stabilità del Complesso I ed avere ripercussioni sul trasferimento elettronico e protonico; per cui non si può escludere che ciò porti ad un’ulteriore produzione di specie reattive dell’ossigeno. I dati sperimentali prodotti a sostegno del modello del respirosoma si riferiscono principalmente a studi strutturali di elettroforesi su gel di poliacrilammide in condizioni non denaturanti (BN-PAGE) che, però, non danno alcuna informazione sulla funzionalità dei supercomplessi. Pertanto nel nostro laboratorio, abbiamo sviluppato una indagine di tipo cinetico, basata sull’analisi del controllo di flusso metabolico,in grado di distinguere, funzionalmente, tra supercomplessi e complessi respiratori separati. Ciò è possibile in quanto, secondo la teoria del controllo di flusso, in un percorso metabolico lineare composto da una serie di enzimi distinti e connessi da intermedi mobili, ciascun enzima esercita un controllo (percentuale) differente sull’intero flusso metabolico; tale controllo è definito dal coefficiente di controllo di flusso, e la somma di tutti i coefficienti è uguale a 1. In un supercomplesso, invece, gli enzimi sono organizzati come subunità di una entità singola. In questo modo, ognuno di essi controlla in maniera esclusiva l’intero flusso metabolico e mostra un coefficiente di controllo di flusso pari a 1 per cui la somma dei coefficienti di tutti gli elementi del supercomplesso sarà maggiore di 1. In questa tesi sono riportati i risultati dell’analisi cinetica condotta su mitocondri di fegato di ratto (RLM) sia disaccoppiati, che accoppiati in condizioni fosforilanti (stato 3) e non fosforilanti (stato 4). L’analisi ha evidenziato l’associazione preferenziale del Complesso I e Complesso III sia in mitocondri disaccoppiati che accoppiati in stato 3 di respirazione. Quest’ultimo risultato permette per la prima volta di affermare che il supercomplesso I+III è presente anche in mitocondri integri capaci della fosforilazione ossidativa e che il trasferimento elettronico tra i due complessi possa effettivamente realizzarsi anche in condizioni fisiologiche, attraverso un fenomeno di channeling del Coenzima Q10. Sugli stessi campioni è stata eseguita anche un analisi strutturale mediante gel-elettroforesi (2D BN/SDS-PAGE) ed immunoblotting che, oltre a supportare i dati cinetici sullo stato di aggregazione dei complessi respiratori, ci ha permesso di evidenziare il ruolo del citocromo c nel supercomplesso, in particolare per il Complesso IV e di avviare uno studio comparativo esteso ai mitocondri di cuore bovino (BHM), di tubero di patata (POM) e di S. cerevisiae.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

I viaggi e gli studi compiuti in Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina in occasione della Tesi di Laurea hanno costituito l’occasione per comprendere quanto sia consistente il retaggio di Roma antica sulla sponda orientale dell’Adriatico. Nello stesso tempo si è potuto constatare che, per diversi motivi, dal punto di vista prettamente scientifico, la ricchezza di questo patrimonio archeologico aveva sino allora trovato soltanto poche occasioni di studio. Da qui la necessità di provvedere a un quadro completo e generale relativo alla presenza romana in un territorio come quello della provincia romana di Dalmatia che, pur considerando la sua molteplicità geografica, etnica, economica, culturale, sociale e politica, ha trovato, grazie all’intervento di Roma, una sua dimensione unitaria, un comune denominatore, tanto da farne una provincia che ebbe un ruolo fondamentale nella storia dell’Impero. Il lavoro prende le mosse da una considerazione preliminare e generale, che ne costituisce quasi lo spunto metodologico più determinante: la trasmissione della cultura e dei modelli di vita da parte di Roma alle altre popolazioni ha creato un modello in virtù del quale l’imperialismo romano si è in certo modo adattato alle diverse culture incontrate ed assimilate, dando vita ad una rete di culture unite da elementi comuni, ma anche profondamente diversificate per sintesi originali. Quella che pare essere la chiave di lettura impiegata è la struttura di un impero a forma di “rete” con forti elementi di coesione, ma allo stesso tempo dotato di ampi margini di autonomia. E questo a cominciare dall’analisi dei fattori che aprirono il cammino dell’afflusso romano in Dalmatia e nello stesso tempo permisero i contatti con il territorio italico. La ricerca ne analizza quindi i fattori:il diretto controllo militare, la costruzione di una rete viaria, l’estensione della cittadinanza romana, lo sviluppo della vita locale attraverso la formazione di una rete di municipi, i contatti economici e l’immigrazione di genti romanizzate. L’analisi ha posto in evidenza una provincia caratterizzata da notevoli contraddizioni, che ne condizionarono – presso entrambi i versanti del Velebit e delle Alpi Dinariche – lo sviluppo economico, sociale, culturale e urbanistico. Le profonde differenze strutturali tra questi due territori rimasero sempre presenti: la zona costiera divenne, sotto tutti i punti di vista, una sorta di continuazione dell’Italia, mntre quella continentale non progredì di pari passo. Eppure l’influenza romana si diffuse anche in questa, così che essa si pote conformare, in una certa misura, alla zona litoranea. Come si può dedurre dal fatto che il severo controllo militare divenne superfluo e che anche questa regione fu dotata progressivamente di centri amministrati da un gruppo dirigente compiutamente integrato nella cultura romana. Oltre all’analisi di tutto ciò che rientra nel processo di acculturazione dei nuovi territori, l’obiettivo principale del lavoro è l’analisi di uno degli elementi più importanti che la dominazione romana apportò nei territori conquistati, ovvero la creazione di città. In questo ambito relativamente periferico dell’Impero, qual è il territorio della provincia romana della Dalmatia, è stato dunque possibile analizzare le modalità di creazione di nuovi centri e di adattamento, da parte di Roma, ai caratteri locali dell’insediamento, nonché ai condizionamenti ambientali, evidenziando analogie e differenze tra le città fondate. Prima dell’avvento di Roma, nessuna delle regioni entrate a far parte dei territori della Dalmatia romana, con la sola eccezione della Liburnia, diede origine a centri di vero e proprio potere politico-economico, come ad esempio le città greche del Mediterraneo orientale, tali da continuare un loro sviluppo all’interno della provincia romana. In altri termini: non si hanno testimonianze di insediamenti autoctoni importanti che si siano trasformati in città sul modello dei centri provinciali romani, senza aver subito cambiamenti radicali quali una nuova pianificazione urbana o una riorganizzazione del modello di vita locale. Questo non significa che la struttura politico-sociale delle diverse tribù sia stata cambiata in modo drastico: almeno nelle modeste “città” autoctone, nelle quali le famiglie appaiono con la cittadinanza romana, assieme agli ordinamenti del diritto municipale, esse semplicemente continuarono ad avere il ruolo che i loro antenati mantennero per generazioni all’interno della propria comunità, prima della conquista romana. Il lavoro mette compiutamente in luce come lo sviluppo delle città nella provincia abbia risentito fortemente dello scarso progresso politico, sociale ed economico che conobbero le tribù e le popolazioni durante la fase pre-romana. La colonizzazione greca, troppo modesta, non riuscì a far compiere quel salto qualitativo ai centri autoctoni, che rimasero sostanzialmente privi di concetti basilari di urbanistica, anche se è possibile notare, almeno nei centri costieri, l’adozione di tecniche evolute, ad esempio nella costruzione delle mura. In conclusione questo lavoro chiarisce analiticamente, con la raccolta di un’infinità di dati (archeologici e topografici, materiali ed epigrafici, e desunti dalle fonti storiche), come la formazione della città e l’urbanizzazione della sponda orientale dell’adriatico sia un fenomeno prettamente romano, pur differenziato, nelle sue dinamiche storiche, quasi caso per caso. I dati offerti dalla topografia delle città della Dalmatia, malgrado la scarsità di esempi ben documentati, sembrano confermare il principio della regolarità degli impianti urbani. Una griglia ortogonale severamente applicata la si individua innanzi tutto nelle città pianificate di Iader, Aequum e, probabilmente, anche a Salona. In primis nelle colonie, quindi, ma non esclusivamente. Anche numerosi municipi sviluppatisi da insediamenti di origine autoctona hanno espresso molto presto la tendenza allo sviluppo di un sistema ortogonale regolare, se non in tutta l’area urbana, almeno nei settori di più possibile applicazione. Ne sono un esempio Aenona, Arba, Argiruntum, Doclea, Narona ed altri. La mancanza di un’organizzazione spaziale regolare non ha tuttavia compromesso l’omogeneità di un’attrezzatura urbana tesa alla normalizzazione, in cui i componenti più importanti, forum e suoi annessi, complessi termali, templi dinastici e capitolia, si avviano a diventare canonici. Le differenze più sensibili, che pure non mancano, sembrano dipendere dalle abitudini delle diverse etnie, dai condizionamenti topografici e dalla disponibilità finanziaria dei notabili. Una città romana non può prendere corpo in tutta la sua pienezza solo per la volontà del potere centrale. Un progetto urbanistico resta un fatto teorico finché non si realizzano le condizioni per cui si fondano due fenomeni importantissimi: uno socio-culturale, che consiste nell’emergenza di una classe di notabili “fortunati” desiderosi di dare a Roma dimostrazioni di lealtà, pronti a rispondere a qualsiasi sollecitazione da parte del potere centrale e addirittura ad anticiparlo; l’altro politico-amministrativo, che riguarda il sistema instaurato da Roma, grazie al quale i suddetti notabili possono godere di un certo potere e muoversi in vista della promozione personale nell’ambito della propria città. Aiuti provenienti dagli imperatori o da governatori provinciali, per quanto consistenti, rimangono un fatto non sistematico se non imprevedibile, e rappresentano comunque un episodio circoscritto. Anche se qualche città risulta in grado di costruire pecunia publica alcuni importanti edifici del quadro monumentale, il ruolo del finanziamento pubblico resta relativamente modesto. Quando la documentazione epigrafica esiste, si rivela che sono i notabili locali i maggiori responsabili della costruzione delle opere pubbliche. Sebbene le testimonianze epigrafiche siano scarse e, per la Dalmatia non sia possibile formulare un quadro completo delle committenze che favorirono materialmente lo sviluppo architettonico ed artistico di molti complessi monumentali, tuttavia è possibile osservare e riconoscere alcuni aspetti significativi e peculiari della provincia.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

La crescita normale di un individuo è il risultato dell’azione coordinata di molteplici ormoni e recettori codificati da geni e a tal proposito, discreto interesse è stato dato ai geni tipici dell’asse del GH. Tuttavia altri geni, più a monte di questi e responsabili dello sviluppo dell’ipofisi contribuiscono alla crescita normale o patologica. Alcuni geni studiati sono POU1F1, PROP1, LHX3, LHX4, HESX1, SOX3 e svariate loro mutazioni sono state identificate come causa di panipopituarismo (CPHD=Combined Pituitary Hormone Deficiency). In realtà la ricerca genetica non spiega ancora molte anomalie ipofisarie e molte mutazioni devono ancora essere identificate. Uno degli scopi del dottorato, svoltosi nel laboratorio di Genetica molecolare di Pediatria, è stata l’identificazione di mutazioni geniche da un gruppo di pazienti CPHD considerando in particolare i geni POU1F1, LHX3, SOX3, non ancora messi a punto presso il laboratorio. L’approccio sperimentale si è basato sulle seguenti fasi: prelievo delle informazioni di sequenza da GeneBank, progettazione di primers per amplificare le porzioni esoniche, messa a punto delle fasi della PCR e del sequenziamento, analisi della sequenza e confronto con le informazioni di sequenza depositate allo scopo di rintracciare eventuali mutazioni o varianti. La bassa percentuale di mutazioni in questi geni non ha permesso finora di rintracciare mutazioni nelle porzioni esoniche salvo che in un soggetto, nell’esone 6 di LHX3b (nuova mutazione, recessiva eterozigote, c.1248A>G implicata nella mutazione p.T377A della sequenza proteica). Un metodo di screening di questa mutazione impiegando l’enzima di restrizione SacII è stato usato, senza rilevare nessun altra occorrenza dell’allele mutato in 53 soggetti di controllo. Oltre alla messa a punto del sequenziamento e di alcune tecniche di analisi di singoli SNP o piccoli INDELs per i 3 geni, la ricerca svolta è stata orientata all’impiego di metodi di rilevamento di riarrangiamenti genetici comportanti ampie delezioni e/o variazioni del copy-number di esoni/interi geni detto MLPA (Multiplex Ligation-dependent Probe Amplification) e progettato da MRC-Holland. Il sequenziamento infatti non permette di rilevare tali alterazioni quando sono ampie ed in eterozigosi. Per esempio, in un’ampia delezione in eterozigosi, l’intervallo delimitato dai primers usati per la PCR può non includere totalmente la porzione interessata da delezione su un cromosoma cosicché la PCR ed il sequnziamento si basano solo sulle informazioni dell’altro cromosoma non deleto. Un vantaggio della tecnica MLPA, è l’analisi contemporanea di una quarantina di siti posti su svariati geni. Questa metodo tuttavia può essere affetto da un certo margine di errore spesso dipendente dalla qualità del DNA e dovrebbe essere affiancato e validato da altre tecniche più impegnativa dal punto di vista sperimentale ma più solide, per esempio la Real Time PCR detta anche PCR quantitativa (qPCR). In laboratorio, grazie all’MLPA si è verificata la condizione di delezione eterozigote di un paziente “storico” per il gene GH1 e la stessa mutazione è stata rilevata anche con la qPCR usando lo strumento Corbett Rotor Gene 6000 (Explera). Invece un’analisi solo con la qPCR di variazioni del copy-number (CNV) per SOX3 in pazienti maschili non ha ancora evidenziato anomalie. Entrambe le tecniche hanno aspetti interessanti, il miglior approccio al momento sembra un’analisi iniziale di pazienti con l’MLPA, seguita dalla verifica di un eventuale esito anomalo impiegando la real-time PCR.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

Il progetto di tesi dottorale qui presentato intende proporsi come il proseguimento e l’approfondimento del progetto di ricerca - svoltosi tra il e il 2006 e il 2008 grazie alla collaborazione tra l’Università di Bologna, la Cineteca del Comune e dalla Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna - dal titolo Analisi e catalogazione dell’Archivio audiovisivo del PCI dell’Emilia-Romagna di proprietà dell’Istituto Gramsci. La ricerca ha indagato la menzionata collezione che costituiva, in un arco temporale che va dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, una sorta di cineteca interna alla Federazione del Partito Comunista Italiano di Bologna, gestita da un gruppo di volontari denominato “Gruppo Audiovisivi della Federazione del PCI”. Il fondo, entrato in possesso dell’Istituto Gramsci nel 1993, è composto, oltre che da documenti cartacei, anche e sopratutto da un nutrito numero di film e documentari in grado di raccontare sia la storia dell’associazione (in particolare, delle sue relazioni con le sezioni e i circoli della regione) sia, in una prospettiva più ampia, di ricostruire il particolare rapporto che la sede centrale del partito intratteneva con una delle sue cellule regionali più importanti e rappresentative. Il lavoro svolto sul fondo Gramsci ha suscitato una serie di riflessioni che hanno costituito la base per il progetto della ricerca presentata in queste pagine: prima fra tutte, l’idea di realizzare un censimento, da effettuarsi su base regionale, per verificare quali e quanti audiovisivi di propaganda comunista fossero ancora conservati sul territorio. La ricerca, i cui esiti sono consultabili nell’appendice di questo scritto, si è concentrata prevalentemente sugli archivi e sui principali istituti di ricerca dell’Emilia-Romagna: sono questi i luoghi in cui, di fatto, le federazioni e le sezioni del PCI depositarono (o alle quali donarono) le proprie realizzazioni o le proprie collezioni audiovisive al momento della loro chiusura. Il risultato dell’indagine è un nutrito gruppo di film e documentari, registrati sui supporti più diversi e dalle provenienze più disparate: produzioni locali, regionali, nazionali (inviati dalla sede centrale del partito e dalle istituzioni addette alla propaganda), si mescolano a pellicole provenienti dall’estero - testimoni della rete di contatti, in particolare con i paesi comunisti, che il PCI aveva intessuto nel tempo - e a documenti realizzati all’interno dell’articolato contesto associazionistico italiano, composto sia da organizzazioni nazionali ben strutturate sul territorio 8 sia da entità più sporadiche, nate sull’onda di particolari avvenimenti di natura politica e sociale (per esempio i movimenti giovanili e studenteschi sorti durante il ’68). L’incontro con questa tipologia di documenti - così ricchi di informazioni differenti e capaci, per loro stessa natura, di offrire stimoli e spunti di ricerca assolutamente variegati - ha fatto sorgere una serie di domande di diversa natura, che fanno riferimento non solo all’audiovisivo in quanto tale (inteso in termini di contenuti, modalità espressive e narrative, contesto di produzione) ma anche e soprattutto alla natura e alle potenzialità dell’oggetto indagato, concepito in questo caso come una fonte. In altri termini, la raccolta e la catalogazione del materiale, insieme alle ricerche volte a ricostruirne le modalità produttive, gli argomenti, i tratti ricorrenti nell’ambito della comunicazione propagandistica, ha dato adito a una riflessione di carattere più generale, che guarda al rapporto tra mezzo cinematografico e storiografia e, più in dettaglio, all’utilizzo dell’immagine filmica come fonte per la ricerca. Il tutto inserito nel contesto della nostra epoca e, più in particolare, delle possibilità offerte dai mezzi di comunicazione contemporanei. Di fatti, il percorso di riflessione compiuto in queste pagine intende concludersi con una disamina del rapporto tra cinema e storia alla luce delle novità introdotte dalla tecnologia moderna, basata sui concetti chiave di riuso e di intermedialità. Processi di integrazione e rielaborazione mediale capaci di fornire nuove potenzialità anche ai documenti audiovisivi oggetto dei questa analisi: sia per ciò che riguarda il loro utilizzo come fonte storica, sia per quanto concerne un loro impiego nella didattica e nell’insegnamento - nel rispetto della necessaria interdisciplinarietà richiesta nell’utilizzo di questi documenti - all’interno di una più generale rivoluzione mediale che mette in discussione anche il classico concetto di “archivio”, di “fonte” e di “documento”. Nel tentativo di bilanciare i differenti aspetti che questa ricerca intende prendere in esame, la struttura del volume è stata pensata, in termini generali, come ad un percorso suddiviso in tre tappe: la prima, che guarda al passato, quando gli audiovisivi oggetto della ricerca vennero prodotti e distribuiti; una seconda sezione, che fa riferimento all’oggi, momento della riflessione e dell’analisi; per concludere in una terza area, dedicata alla disamina delle potenzialità di questi documenti alla luce delle nuove tecnologie multimediali. Un viaggio che è anche il percorso “ideale” condotto dal ricercatore: dalla scoperta all’analisi, fino alla rimessa in circolo (anche sotto un’altra forma) degli oggetti indagati, all’interno di un altrettanto ideale universo culturale capace di valorizzare qualsiasi tipo di fonte e documento. All’interno di questa struttura generale, la ricerca è stata compiuta cercando di conciliare diversi piani d’analisi, necessari per un adeguato studio dei documenti rintracciati i quali, come si è detto, si presentano estremamente articolati e sfaccettati. 9 Dal punto di vista dei contenuti, infatti, il corpus documentale presenta praticamente tutta la storia italiana del tentennio considerato: non solo storia del Partito Comunista e delle sue campagne di propaganda, ma anche storia sociale, culturale ed economica, in un percorso di crescita e di evoluzione che, dagli anni Cinquanta, portò la nazione ad assumere lo status di paese moderno. In secondo luogo, questi documenti audiovisivi sono prodotti di propaganda realizzati da un partito politico con il preciso scopo di convincere e coinvolgere le masse (degli iscritti e non). Osservarne le modalità produttive, il contesto di realizzazione e le dinamiche culturali interne alla compagine oggetto della ricerca assume un valore centrale per comprendere al meglio la natura dei documenti stessi. I quali, in ultima istanza, sono anche e soprattutto dei film, realizzati in un preciso contesto storico, che è anche storia della settima arte: più in particolare, di quella cinematografia che si propone come “alternativa” al circuito commerciale, strettamente collegata a quella “cultura di sinistra” sulla quale il PCI (almeno fino alla fine degli anni Sessanta) poté godere di un dominio incontrastato. Nel tentativo di condurre una ricerca che tenesse conto di questi differenti aspetti, il lavoro è stato suddiviso in tre sezioni distinte. La prima (che comprende i capitoli 1 e 2) sarà interamente dedicata alla ricostruzione del panorama storico all’interno del quale questi audiovisivi nacquero e vennero distribuiti. Una ricostruzione che intende osservare, in parallelo, i principali eventi della storia nazionale (siano essi di natura politica, sociale ed economica), la storia interna del Partito Comunista e, non da ultimo, la storia della cinematografia nazionale (interna ed esterna al partito). Questo non solo per fornire il contesto adeguato all’interno del quale inserire i documenti osservati, ma anche per spiegarne i contenuti: questi audiovisivi, infatti, non solo sono testimoni degli eventi salienti della storia politica nazionale, ma raccontano anche delle crisi e dei “boom” economici; della vita quotidiana della popolazione e dei suoi problemi, dell’emigrazione, della sanità e della speculazione edilizia; delle rivendicazioni sociali, del movimento delle donne, delle lotte dei giovani sessantottini. C’è, all’interno di questi materiali, tutta la storia del paese, che è contesto di produzione ma anche soggetto del racconto. Un racconto che, una volta spiegato nei contenuti, va indagato nella forma. In questo senso, il terzo capitolo di questo scritto si concentrerà sul concetto di “propaganda” e nella sua verifica pratica attraverso l’analisi dei documenti reperiti. Si cercherà quindi di realizzare una mappatura dei temi portanti della comunicazione politica comunista osservata nel suo evolversi e, in secondo luogo, di analizzare come questi stessi temi-chiave vengano di volta in volta declinati e 10 rappresentati tramite le immagini in movimento. L’alterità positiva del partito - concetto cardine che rappresenta il nucleo ideologico fondante la struttura stessa del Partito Comunista Italiano - verrà quindi osservato nelle sue variegate forme di rappresentazione, nel suo incarnare, di volta in volta, a seconda dei temi e degli argomenti rilevanti, la possibilità della pace; il buongoverno; la verità (contro la menzogna democristiana); la libertà (contro il bigottismo cattolico); la possibilità di un generale cambiamento. La realizzazione di alcuni percorsi d’analisi tra le pellicole reperite presso gli archivi della regione viene proposto, in questa sede, come l’ideale conclusione di un excursus storico che, all’interno dei capitoli precedenti, ha preso in considerazione la storia della cinematografia nazionale (in particolare del contesto produttivo alternativo a quello commerciale) e, in parallelo, l’analisi della produzione audiovisiva interna al PCI, dove si sono voluti osservare non solo gli enti e le istituzioni che internamente al partito si occupavano della cultura e della propaganda - in una distinzione terminologica non solo formale - ma anche le reti di relazioni e i contatti con il contesto cinematografico di cui si è detto. L’intenzione è duplice: da un lato, per inserire la storia del PCI e dei suoi prodotti di propaganda in un contesto socio-culturale reale, senza considerare queste produzioni - così come la vita stessa del partito - come avulsa da una realtà con la quale necessariamente entrava in contatto; in secondo luogo, per portare avanti un altro tipo di discorso, di carattere più speculativo, esplicitato all’interno del quarto capitolo. Ciò che si è voluto indagare, di fatto, non è solo la natura e i contenti di questi documenti audiovisivi, ma anche il loro ruolo nel sistema di comunicazione e di propaganda di partito, dove quest’ultima è identificata come il punto di contatto tra l’intellighenzia comunista (la cultura alta, legittima) e la cultura popolare (in termini gramsciani, subalterna). Il PCI, in questi termini, viene osservato come un microcosmo in grado di ripropone su scala ridotta le dinamiche e le problematiche tipiche della società moderna. L’analisi della storia della sua relazione con la società (cfr. capitolo 2) viene qui letta alla luce di alcune delle principali teorie della storia del consumi e delle interpretazioni circa l’avvento della società di massa. Lo scopo ultimo è quello di verificare se, con l’affermazione dell’industria culturale moderna si sia effettivamente verificata la rottura delle tradizionali divisioni di classe, della classica distinzione tra cultura alta e bassa, se esiste realmente una zona intermedia - nel caso del partito, identificata nella propaganda - in cui si attui concretamente questo rimescolamento, in cui si realizzi realmente la nascita di una “terza cultura” effettivamente nuova e dal carattere comunitario. Il quinto e ultimo capitolo di questo scritto fa invece riferimento a un altro ordine di problemi e argomenti, di cui in parte si è già detto. La ricerca, in questo caso, si è indirizzata verso una 11 riflessione circa l’oggetto stesso dello studio: l’audiovisivo come fonte. La rassegna delle diverse problematiche scaturite dal rapporto tra cinema e storia è corredata dall’analisi delle principali teorie che hanno permesso l’evoluzione di questa relazione, evidenziando di volta in volta le diverse potenzialità che essa può esprimere le sue possibilità d’impiego all’interno di ambiti di ricerca differenti. Il capitolo si completa con una panoramica circa le attuali possibilità di impiego e di riuso di queste fonti: la rassegna e l’analisi dei portali on-line aperti dai principali archivi storici nazionali (e la relativa messa a disposizione dei documenti); il progetto per la creazione di un “museo multimediale del lavoro” e, a seguire, il progetto didattico dei Learning Objects intendono fornire degli spunti per un futuro, possibile utilizzo di questi documenti audiovisivi, di cui questo scritto ha voluto porre in rilievo il valore e le numerose potenzialità.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

La ricerca impostata considera campi disciplinari specifici e distinti, verso la loro integrazione, mirando a produrre un avanzamento relativo alla scienza della voce attraverso la pratica e lo studio della sua applicazione in campo artistico. A partire dall’analisi delle teorie novecentesche relative alla fonazione nel mondo della scena (Antonin Artaud, Stanislavskij e altri) per giungere alle acquisizioni prodotte dalle terapie corporee e vocali (Tomatis, Lowen, Wilfart in particolare), Marco Galignano ha sviluppato un percorso originale che è passato inoltre attraverso lo studio della pratica di una serie di artisti contemporanei (tra cui Baliani, Belli, Bergonzoni, Jodorowski, Hera, Lucenti e Manfredini) e di pedagoghi e terapeuti (da Serge Wilfart al maestro Paolo Zedda). Galignano ha inoltre riferito, nel suo lavoro, gli esiti della sua personale esperienza di formatore, sviluppata a Bologna all’interno di diversi Dipartimenti dell’Università Alma Mater, del Conservatorio di Musica G.B. Martini, dell’Accademia di Belle Arti e del Teatro Duse in particolare. L’obiettivo della tesi è dunque quello di fondare le basi teoriche per una rinnovata pedagogia vocale, a partire dalla possibile riscoperta del suono naturale fino a giungere alle potenzialità terapeutiche ed artistiche del linguaggio. Gli obiettivi di questo lavoro contemplano l’istituzione di una nuova modalità pedagogica, la sua diffusione attraverso una presentazione opportunamente composta e la sua inscrizione in diverse occorrenze artistiche e professionali. Molte le personalità di spicco del panorama internazionale della scienza e dell’arte della voce che hanno contribuito, negli anni, alla presente ricerca: Francesca Della Monica, insegnante di canto e performer, Tiziana Fuschini, logopedista, Franco Fussi, foniatra, Silvia Magnani, foniatra ed esperta di teatro, Gianpaolo Mignardi, logopedista, Dimitri Pasquali, pedagogo, Livio Presutti, medico chirurgo otorinolaringoiatra, Simonetta Selva, medico dello sport, Serge Wilfart, terapeuta della voce, Paolo Zedda, professore di canto in diverse realtà e Maestro di dizione al Conservatorio Nazionale di Parigi, e molti altri, oltre agli artisti citati in fondo, con le loro ricerche hanno contribuito direttamente alla redazione dell’elaborato finale, che mira a fondare le basi di una rinnovata pedagogia vocale per il teatro in Italia. La ricerca vuole infatti colmare in parte la penuria di apporti scientifici specificamente rivolti alla formazione vocale dell’attore teatrale. II lavoro vorrebbe inoltre raccogliere l’eredita di quei teorici, maestri e registi-pedagoghi che nel Novecento hanno posto le basi per la formazione dell’attore, e al tempo stesso prolungare la linea genealogica che da Stanislavskji trascorre in Grotowski, senza escludere esperienze fondate su presupposti alternativi alla formazione del repertorio vocale del performer: psicofisicità, terapie olistiche, fisica quantistica. Come accennato, una parte della ricerca è stata condotta in collaborazione col Prof. Franco Fussi, correlatore, e grazie al lavoro di redazione nel gruppo della rivista Culture Teatrali, diretto da Marco De Marinis, relatore. II percorso ha inteso infatti sviluppare alcune delle linee di ricerca aperte da Fussi virandole verso lo specifico dell’attività e del training vocale dell’attore, e ha avuto una tappa di verifica rilevante nel Convegno Internazionale di Foniatria e Logopedia “La Voce Artistica” di cui Fussi è direttore, a cui Galignano ha partecipato in veste di relatore. 1. II concetto guida del lavoro di Galignano risiede nell’idea di vibrazione e nel rapporto che questa intrattiene col suono. Il suono, per l’essere umano, costituisce la base materiale della fonazione, del linguaggio codificato comunitariamente così come dei particolari idioletti in continua evoluzione, basi della comunicazione verbale e paraverbale. Il linguaggio umano è costituito principalmente da sonorità vocale e da articolazione consonantica (rumori), e cioè composto di suoni armonici e di rumori prodotti da apparati articolari del corpo che risultano efficaci solo se integrati nel corpo da cui originano. A partire da un tentativo di definizione di salute corporea e di equilibrio psicofisico, attraverso l’analisi della rigenerazione cellulare e delle dinamiche comportamentali, Galignano definisce scientificamente la lingua parlata come emersione di codici comunicativi che originano da una schematizzazione del mondo intimo-personale del soggetto e si fondano su memorie molecolari, sull’attitudine comportamentale abituale, tra spontaneità, automatismi e capacità episodica di attenzione psicofisica. Ciò costituisce, per Galignano, la “risonanza olistica” alla base dell’efficacia comunicativa in sede pedagogica. L’argomento, che verrà sviluppato per la presentazione editoriale dell’elaborato e di cui la tesi di dottorato è solo una prima tappa in fieri, è stato sviscerato anche sulla base di nozioni di fisica classica e di fisica quantistica. Ciò senza dimenticare gli studi approfonditi sulla vocalità in ambito filosofico, da Bologna a Cavarero, da Napolitano a Zumthor. La tesi è composta attraverso una progressione che, a partire da una dichiarazione di poetica, trascorre poi verso l’analisi della fisiologia e della psicologia della voce, per approdare a una zona di approfondimento scientifico, teorico ed empirico, di una serie di metodi d’avanguardia di abilitazione e riabilitazione. In ultimo, come appendice, vengono riferiti i risultati del percorso laboratoriale condotto nel corso degli anni del dottorato di ricerca. Le esperienze sul campo maturate nell’ambito dell’attività pedagogica e laboratoriale si sono inoltre sviluppate a partire da un Progetto Strategico d’Ateneo dell’Università di Bologna intitolato “La Voce nel Corpo. La Recitazione e il Movimento Coreografico”, di cui Marco Galignano è responsabile scientifico. Un tempo specifico della tesi di dottorato è dunque composto a partire dai risultati maturati attraverso le varie azioni, laboratoriali e artistiche, che fin qui il progetto “La Voce nel Corpo” ha prodotto. In definitiva, attraverso il tessuto composto da esperienze pedagogiche, pratica artistica e ricerca scientifica, la tesi di dottorato di Galignano, work in progress, mira a comporre un sistema integrato, teorico-pratico, per l’insegnamento e la trasmissione di una specifica tecnica vocale calata nella pratica attoriale, ma utile a fini ulteriori, da quello riabilitativo fino alle tecniche di cura del sé su cui s’e appuntata la riflessione filosofica erede della teoresi artaudiana. La parte conclusiva della ricerca riguarda i suoi possibili futuri sviluppi, specifici, impostati attraverso la collaborazione, attuale, passata o in divenire, con artisti quali Marco Baliani, Matteo Belli, Alessandro Bergonzoni, Albert Hera, Michela Lucenti, Danio Manfredini e altri a cui Marco Galignano è particolarmente riconoscente.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

Questa tesi ricostruisce la storia della giurisprudenza italiana che ha riguardato la legittimità o meno dell’impiego della diagnosi genetica preimpianto nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, dall’emanazione della legge 40 del 2004 a tutt’oggi. Ed in particolare questa tesi si prefigge due obiettivi: uno, individuare ed illustrare le tipologie di argomenti utilizzati dal giurista-interprete per giudicare della legittimità o meno della pratica della diagnosi preimpianto degli embrioni prodotti, mediante le tecniche relative alla procreazione assistita; l’altro obiettivo, mostrare sia lo scontro fra i differenti argomenti, sia le ragioni per le quali prevalgono gli argomenti usati per legittimare la pratica della diagnosi preimpianto. Per raggiungere questi obiettivi, e per mostrare in maniera fenomenologica come avviene l’interpretazione giuridica in materia di diagnosi preimpianto, si è fatto principalmente riferimento alla visione che ha della detta interpretazione la prospettiva ermeneutica (concepita originariamente sul piano teoretico, quale ermeneutica filosofica, da H.G. Gadamer; divulgata ed approfondita sul piano giusfilosofico e della teoria dell’interpretazione giudica in Italia, fra gli altri, da F. Viola e G. Zaccaria). Così, in considerazione dei vari argomenti utilizzati per valutare la legittimità o meno della pratica della diagnosi preimpianto, i motivi per i quali in ultimo il giurista-interprete per giudicare ragionevolmente, deve ritenere legittima la pratica della diagnosi preimpianto sono i seguenti. I principi superiori dell’ordinamento e talune direttive giuridiche fondamentali dell’ordinamento, elaborate della giurisprudenza, le quali costituiscono la concretizzazione di detti principi e di una serie di disposizioni normative fondamentali per disciplinare il fenomeno procreativo, depongono per la legittimità della diagnosi preimpianto. Le tipologie degli argomenti impiegati per avallare la legittimità della diagnosi preimpianto attengono al tradizionale repertorio argomentativo a cui attinge il giurista, mentre la stessa cosa non si può dire per gli argomenti usati per negare la legittimità della diagnosi. Talune tipologie di argomenti utilizzate per negare la legittimità della diagnosi preimpianto costituiscono delle fallacie logiche, per esempio l’argomento del pendio scivoloso, e soprattutto le tipologie degli argomenti utilizzati per sostenere la legittimità della diagnosi preimpianto sono per lo più caratterizzate dalla ragionevolezza ed applicate per lo più opportunamente. Poi, si può osservare che: determinati argomenti, associati dal giurista-interprete ai principi i quali depongono per l’illegittimità della diagnosi preimpianto, facendo leva sulla categoria della possibilità, ed equiparando attualità e possibilità, privilegiano l’immaginazione alla realtà e portano a risultati interpretativi non razionalmente fondati; mentre gli argomenti associati dal giurista-interprete ai principi i quali depongono per la legittimità della diagnosi preimpianto, facendo leva sulla categoria della attualità, e tenendo ben distinte attualità e possibilità, privilegiano l’osservazione della realtà e portano a risultati razionalmente fondati.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

la ricerca ha avuto per oggetto la ricostruzione della storia e del patrimonio della biblioteca privata specializzata di San Genesio fondata nel 1931 presso la Casa "Lyda Borelli" per artisti drammatici di Bologna. La biblioteca si presenta oggi come uno dei centri di documentazione teatrale più antichi e significativi del panorama italiano: oltre 10.000 monografie, per la maggior parte concernenti testi e studi specialistici, un fondo antico (pre 1831) di oltre 2.000 volumi, una ricca collezione di periodici sul mondo dello spettacolo in collezione completa, una raccolta di copioni teatrali manoscritti e dattiloscritti di oltre 1.000 unità. La biblioteca, inoltre, comprende l'archivio storico della Casa che conserva la documentazione riguardante la vita dell'Istituto dalla sua nascita, nel 1917, numerosi fondi aggregati appartenuti a rilevanti personaggi dello spettacolo e un patrimonio fotografico unico in Italia. La tesi sintetizza i due principali filoni di ricerca seguiti durante il percorso dottorale. Il primo è quello della ricognizione delle fonti archivistiche, sia interne sia esterne all'istituto, al fine di dettagliare la lunga storia della biblioteca San Genesio, mai oggetto di altra ricostruzione complessiva. Questo obiettivo è stato raggiunto mediante la consultazione dell'intero patrimonio documentario conservato presso l'Archivio storico di Casa "Lyda Borelli" e di numerosi fondi archivistici, concernenti attori e personaggi in rapporto con la Casa, presenti in altri istituti pubblici e privati. I documenti interni alla Casa sono stati intrecciati con altri con cui sono speculari, conservati in altre istituzioni. La seconda parte della ricerca si è concentrata sull'analisi del fondo librario antico. La ricchezza della collezione, costituita da oltre trecento testi teatrali pubblicati nel XVI e XVII secolo, ha offerto un ampio campione d'indagine per ricostruire l'evoluzione dell'editoria specializzata nei primi secoli della stampa tipografica. A tal fine è stato redatto un catalogo, in cui la descrizione bibliografica è accompagnata dall'analitica registrazione degli elementi paratestuali presenti, quali dediche, avvisi ai lettori, indici, errata corrige, marginalia, note di possesso ed ex libris, elementi oggetto di forte interesse nei più accreditati e moderni studi bibliologici e di storia del libro sia italiani sia stranieri. A completamento del catalogo sono stati compilati numerosi indici al fine di moltiplicare le chiavi d'accesso e di lettura del fondo (per autori secondari, luoghi di stampa, editori e tipografi, marche tipografiche e possessori), dotando il catalogo di un apparato fotografico dei frontespizi. Questi elementi aggiuntivi rendono l'elaborato un repertorio unico per le edizioni teatrali e una fonte importante per gli studiosi della stampa in antico regime tipografico.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

Inizialmente teorizzato a partire dall’osservazione degli animali negli studi di etologia di fine Ottocento, il mimetismo si è sviluppato come tekné in una interessante sinergia fra pratica artistica e necessità militare in occasione dei due conflitti mondiali. Attraverso una lettura critica dei testi di Roger Caillois e di Georges Bataille, questa ricerca posiziona il mimetismo nell’ambito della teoria della antivisione e lo inserisce all’interno del discorso anti-oculocentrico che scorre nei canali sotterranei dell’arte del Novecento. Il mimetismo destabilizza il dogma modernista della visualità pura operando un oltrepassamento dei confini identitari e il collasso della logica binaria dell’estetica occidentale fondata sulla opposizione fra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, corpo e ambiente. Articolato in tre diverse declinazioni del fare artistico - il paradigma spaziale, il paradigma aptico e il paradigma performativo – il mimetismo veicola un tipo di “presenza” che mette in gioco il corpo ed il contesto extracorporeo in un recupero estetico del valore fenomenologico dell’essere al mondo.

Relevância:

30.00% 30.00%

Publicador:

Resumo:

La mostra è diventata un nuovo paradigma della cultura contemporanea. Sostenuta da proprie regole e da una grammatica complessa produce storie e narrazioni. La presente ricerca di dottorato si struttura come un ragionamento critico sulle strategie del display contemporaneo, tentando di dimostrare, con strumenti investigativi eterogenei, assumendo fonti eclettiche e molteplici approcci disciplinari - dall'arte contemporanea, alla critica d'arte, la museologia, la sociologia, l'architettura e gli studi curatoriali - come il display sia un modello discorsivo di produzione culturale con cui il curatore si esprime. La storia delle esposizioni del XX secolo è piena di tentativi di cambiamento del rapporto tra lo sviluppo di pratiche artistiche e la sperimentazione di un nuovo concetto di mostra. Nei tardi anni Sessanta l’ingresso, nella scena dell’arte, dell’area del concettuale, demolisce, con un azzeramento radicale, tutte le convenzioni della rappresentazione artistica del dopoguerra, ‘teatralizzando’ il medium della mostra come strumento di potere e introducendo un nuovo “stile di presentazione” dei lavori, un display ‘dematerializzato” che rovescia le classiche relazioni tra opera, artista, spazio e istituzione, tra un curatore che sparisce (Siegelaub) e un curatore super-artista (Szeemann), nel superamento del concetto tradizionale di mostra stessa, in cui il lavoro del curatore, in quanto autore creativo, assumeva una propria autonomia strutturale all’interno del sistema dell’arte. Lo studio delle radici di questo cambiamento, ossia l’emergere di due tipi di autorialità: il curatore indipendente e l’artista che produce installazioni, tra il 1968 e il 1972 (le mostre di Siegelaub e Szeemann, la mimesi delle pratiche artistiche e curatoriali di Broodthaers e la tensione tra i due ruoli generata dalla Critica Istituzionale) permette di inquadrare teoricamente il fenomeno. Uno degli obbiettivi della ricerca è stato anche affrontare la letteratura critica attraverso una revisione/costruzione storiografica sul display e la storia delle teorie e pratiche curatoriali - formalizzata in modo non sistematico all'inizio degli anni Novanta, a partire da una rilettura retrospettiva della esperienze delle neoavanguardie – assumendo materiali e metodologie provenienti, come già dichiarato, da ambiti differenti, come richiedeva la composizione sfaccettata e non fissata dell’oggetto di studio, con un atteggiamento che si può definire comparato e post-disciplinare. Il primo capitolo affronta gli anni Sessanta, con la successione sistematica dei primi episodi sperimentali attraverso tre direzioni: l’emergere e l’affermarsi del curatore come autore, la proliferazione di mostre alternative che sovvertivano il formato tradizionale e le innovazioni prodotte dagli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale. Esponendo la smaterializzazione concettuale, Seth Siegelaub, gallerista, critico e impresario del concettuale, ha realizzato una serie di mostre innovative; Harald Szeemann crea la posizione indipendente di exhibition maker a partire When attitudes become forms fino al display anarchico di Documenta V; gli artisti organizzatori di mostre della Critica Istituzionale, soprattutto Marcel Broodhthears col suo Musée d’Art Moderne, Départment des Aigles, analizzano la struttura della logica espositiva come opera d’arte. Nel secondo capitolo l’indagine si sposta verso la scena attivista e alternativa americana degli anni Ottanta: Martha Rosler, le pratiche community-based di Group Material, Border Art Workshop/Taller de Arte Fronterizo, Guerrilla Girls, ACT UP, Art Workers' Coalition che, con proposte diverse elaborano un nuovo modello educativo e/o partecipativo di mostra, che diventa anche terreno del confronto sociale. La mostra era uno svincolo cruciale tra l’arte e le opere rese accessibili al pubblico, in particolare le narrazioni, le idee, le storie attivate, attraverso un originale ragionamento sulle implicazioni sociali del ruolo del curatore che suggeriva punti di vista alternativi usando un forum istituzionale. Ogni modalità di display stabiliva relazioni nuove tra artisti, istituzioni e audience generando abitudini e rituali diversi per guardare la mostra. Il potere assegnato all’esposizione, creava contesti e situazioni da agire, che rovesciavano i metodi e i formati culturali tradizionali. Per Group Material, così come nelle reading-room di Martha Rosler, la mostra temporanea era un medium con cui si ‘postulavano’ le strutture di rappresentazione e i modelli sociali attraverso cui, regole, situazioni e luoghi erano spesso sovvertiti. Si propongono come artisti che stanno ridefinendo il ruolo della curatela (significativamente scartano la parola ‘curatori’ e si propongono come ‘organizzatori’). La situazione cambia nel 1989 con la caduta del muro di Berlino. Oltre agli sconvolgimenti geopolitici, la fine della guerra fredda e dell’ideologia, l’apertura ai flussi e gli scambi conseguenti al crollo delle frontiere, i profondi e drammatici cambiamenti politici che coinvolgono l’Europa, corrispondono al parallelo mutamento degli scenari culturali e delle pratiche espositive. Nel terzo capitolo si parte dall’analisi del rapporto tra esposizioni e Late Capitalist Museum - secondo la definizione di Rosalind Krauss - con due mostre cruciali: Le Magiciens de la Terre, alle origini del dibattito postcoloniale e attraverso il soggetto ineffabile di un’esposizione: Les Immatériaux, entrambe al Pompidou. Proseguendo nell’analisi dell’ampio corpus di saggi, articoli, approfondimenti dedicati alle grandi manifestazioni internazionali, e allo studio dell’espansione globale delle Biennali, avviene un cambiamento cruciale a partire da Documenta X del 1997: l’inclusione di lavori di natura interdisciplinare e la persistente integrazione di elementi discorsivi (100 days/100 guests). Nella maggior parte degli interventi in materia di esposizioni su scala globale oggi, quello che viene implicitamente o esplicitamente messo in discussione è il limite del concetto e della forma tradizionale di mostra. La sfida delle pratiche contemporanee è non essere più conformi alle tre unità classiche della modernità: unità di tempo, di spazio e di narrazione. L’episodio più emblematico viene quindi indagato nel terzo capitolo: la Documenta X di Catherine David, il cui merito maggiore è stato quello di dichiarare la mostra come format ormai insufficiente a rappresentare le nuove istanze contemporanee. Le quali avrebbero richiesto - altrimenti - una pluralità di modelli, di spazi e di tempi eterogenei per poter divenire un dispositivo culturale all’altezza dei tempi. La David decostruisce lo spazio museale come luogo esclusivo dell’estetico: dalla mostra laboratorio alla mostra come archivio, l’evento si svolge nel museo ma anche nella città, con sottili interventi di dissimulazione urbana, nel catalogo e nella piattaforma dei 100 giorni di dibattito. Il quarto capitolo affronta l’ultima declinazione di questa sperimentazione espositiva: il fenomeno della proliferazione delle Biennali nei processi di globalizzazione culturale. Dalla prima mostra postcoloniale, la Documenta 11 di Okwui Enwezor e il modello delle Platforms trans-disciplinari, al dissolvimento dei ruoli in uno scenario post-szeemanniano con gli esperimenti curatoriali su larga scala di Sogni e conflitti, alla 50° Biennale di Venezia. Sono analizzati diversi modelli espositivi (la mostra-arcipelago di Edouard Glissant; il display in crescita di Zone of Urgency come estetizzazione del disordine metropolitano; il format relazionale e performativo di Utopia Station; il modello del bric à brac; la “Scuola” di Manifesta 6). Alcune Biennali sono state sorprendentemente autoriflessive e hanno consentito un coinvolgimento più analitico con questa particolare forma espressiva. Qual è l'impatto sulla storia e il dibattito dei sistemi espositivi? Conclusioni: Cos’è la mostra oggi? Uno spazio sotto controllo, uno spazio del conflitto e del dissenso, un modello educativo e/o partecipativo? Una piattaforma, un dispositivo, un archivio? Uno spazio di negoziazione col mercato o uno spazio di riflessione e trasformazione? L’arte del display: ipotesi critiche, prospettive e sviluppi recenti.