1000 resultados para Negociação integrativa


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La conoscenza delle esigenze luminose (intensità, spettro, durata minima, massima ed ottimale del fotoperiodo di illuminazione) e della tolleranza alle condizioni degli interni delle piante ad uso decorativo, è di fondamentale importanza per una giusta tecnica di progettazione (dimensionamento e dislocazione dei punti luce) dell’indoor plantscaping. Il lungo periodo di condizionamento al quale queste piante vengono sottoposte, caratterizzato principalmente dalla scarsa disponibilità di luce naturale e dagli alti livelli di concentrazione di CO2 determina una forte influenza sui processi morfo-fisiologici. Il presente studio analizza il fattore luminoso ed è articolato su più punti quali; • caratterizzazione della riposta fotosintetica all’intensità luminosa di 21 delle principali specie a fogliame decorativo comunemente utilizzate nella realizzazione degli spazi verdi indoor, per stabilire quali siano i minimi ed ottimali livelli di PAR tali da garantire una fotosintesi netta positiva e nel complesso le condizioni di maggior benessere per le piante; • quantificazione dell’incremento fotosintetico netto dovuto ad una maggior concentrazione di CO2 negli interni rispetto alla concentrazione CO2 atmosferica esterna, all’aumentare dell’ intensità luminosa artificiale sulle precedenti specie; • monitoraggio dell’andamento delle attività fotosintetiche durante il periodo di illuminazione di 8 ore comunemente utilizzato in un interno ad uso lavorativo, a PAR costante e variabile in Ficus elastica e Dieffenbachia picta, al fine di stabilire quali possano essere le durate e le modalità di somministrazione della luce per rendere massima la fotosintesi netta riducendo al minimo i consumi energetici dovuti all’accensione delle lampade; • valutazione della risposta morfo-fisiologica e fotosintetica a modificazioni dello spettro luminoso mediante l’uso di LED monocromatici colorati ad emissione nel bianco, blu e rosso in Ficus benjamina e Iresine herbistii al fine di stabilire se questo tipo di lampade possano essere utilizzate come fonte integrativa e/o sostitutiva nella realizzazione degli spazi verdi interni. Vengono analizzati il punto si compensazione alla luce (g), il punto di saturazione alla luce (s), l’efficienza quantica (AQE), il punto di respirazione al buio (Rd) e la fotosintesi netta massima (A max) per (Aglaonema commutatum, Asplenium nidus, Anthurium andreanum, Begonia rex, Calathea luoise, Calathea veitchiana, Calathea rufibarba, Calathea zebrina, Codiaeum variegatum, Cthenanthe oppenheimiana, Dieffenbakia picta, Ficus benjamina, Ficus elatica, Ficus longifolia, Fittonia verschaffeltii, Iresine herbistii, Philodendron erubescens, Philodendron pertusum, Potos aureus, Spathiphillum wallisi, Syngonium podophillum ) e classificate le specie in funzione di Amax in quattro categorie; A max < 2 µmol CO2 m-2 s-1, A max compresa tra 2 e 4 µmol CO2 m-2 s-1, Amax cpmpresa tra 4 e 6 µmol CO2 m-2 s-1, Amax > 6 µmol CO2 m-2 s-1, al fine di mettere in risalto la potenzialità fotosintetiche di ogni singola specie. I valori di PAR compresi tra (g) ed (s) forniscono le indicazioni sulle quali basarsi per scegliere una giusta lampada o dimensionare un punto luce per ogni singola specie e/o composizione. È stimata l’influenza di due livelli di concentrazione di CO2 ambientale (400 e 800 ppm) all’incrementare dell’intensità luminosa sul processo fotosintetico delle specie precedenti. Per quasi tutte le specie 800 ppm di CO2 non favoriscono nessun incremento all’attività fotosintetica ad eccezione di Ficus benjamina, Ficus elatica e Syngonium podophillum se non accompagnati da una disponibilità luminosa superiore alle 10 µmol m-2 s-1. Viene monitorato l’andamento dell’attività fotosintetica a PAR costante e variabile (intervallando periodi di 8 minuti a PAR 40 e 80) durante 8 ore di illuminazione su Ficus elastica e Dieffenbachia picta al fine di stabilire la miglior modalità di somministrazione della luce. La fotosintesi netta cumulativa per l’intera durata di illuminazione a PAR costante mostra un calo dopo alcune ore dall’attivazione in Dieffenbackia, e un andamento oscillatorio in Ficus. L’illuminazione alternata consente di raggiungere i quantitativi di CO2 organicata a 80 µmol m-2 s-1 di PAR, dopo 5 ore e mezza sia in Ficus che Dieffenbackia sebbene le potenzialità fotosintetiche delle due piante siano molto differenti. È stato valutato l’effetto dell’illuminazione artificiale mediante LED (15W) a luce bianca, blu e rossa monocromatica in rapporto alla luce neon(36W) bianca tradizionale (con differenti abbinamenti tra le lampade) sui principali parametri morfologici e fisiologici, in Ficus benjamin ‘Variegata’ e Iresine herbistii per verificare se tali fonti possono rappresentare una valida alternativa nella sostituzione o integrazione di altre lampade per gli spazi verdi indoor. Tutte le combinazioni LED indagate possono rappresentare un’alternativa di sostituzione alla coltivazione con neon ed un risparmio energetico di oltre il 50%. Una PAR di 20,6 µmol m-2 s-1 della singola lampada LED bianco è sufficiente per mantenere la pianta in condizioni di sopravvivenza con un consumo di 15W a fronte dei 36W necessari per il funzionamento di ogni neon. La combinazione LED bianco + LED blu monocromatico favorisce il contenimento della taglia della pianta, caratteristica gradita nella fase di utilizzo indoor, una maggior produzione di sostanza secca e un’attività fotosintetica più elevata.

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L’elaborato esamina il tema del concorso e del conflitto tra contratti collettivi di diverso livello nel settore privato. Partendo da un’impostazione complessiva del fenomeno della contrattazione collettiva, oltre che da una riflessione sulla natura e sul ruolo della contrattazione integrativa, il lavoro si propone di individuare un criterio di risoluzione del conflitto. In una prima parte della ricerca sono stati individuati e studiati i modelli di rapporti tra livelli definiti negli accordi interconfederali e nei contratti di categoria. Nello studio della regolamentazione interna al sistema sindacale si è considerato la natura delle relative clausole. Queste ultime hanno valenza obbligatoria e, per tale motivo, non sono idonee a risolvere l’eventuale conflitto tra livelli contrattuali. Si è reso quindi necessario considerare i criteri esterni di risoluzione del conflitto elaborati dalla dottrina e della giurisprudenza. Tra i vari criteri elaborati, ci si è soffermati sul criterio di specialità, sulla sua natura e sulla sua funzione. Più nello specifico, si è ritenuto il principio di specialità un principio generale dell’ordinamento giuridico, applicabile anche al conflitto tra contratti di diverso livello. Alla luce del principio di specialità, si è ricostruito il rapporto tra livelli, anche in ipotesi di contrattazione separata e di negoziazione operante su rinvio legislativo. Infine, nell’ultimo capitolo si è esaminato l’art. 8 della L. 148/2011. Ci si è interrogati sulla compatibilità di tale norma con l’impostazione complessiva del tema del rapporto tra contratti di diverso livello e sui suoi riflessi sulla questione del conflitto.

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L’ipotesi di fondo su cui si basa l’intero lavoro è che il dolore oncologico debba essere riconosciuto come “malattia nella malattia”: non si può considerare tale dolore mero “sintomo” del cancro ma esperienza totale che coinvolge l’intera persona. Il dolore oncologico è carico di valenze e significati personali, è associato a rappresentazioni sociali e, come ogni malattia, è disease, illness e sickness. Partendo da questo presupposto, la dissertazione si è posta come obiettivo generale quello di studiare il dolore oncologico tra le donne con tumore al seno, le sue componenti sociali, psicologiche, individuali oltre che fisiche; si è voluto inoltre studiare la specificità del vissuto e dei significati associati all’esperienza dolorosa. Il lavoro è articolato in due parti fondamentali, una teorica ed una empirica. La prima presenta un inquadramento dei principali concetti della sociologia della salute riguardanti il dolore. Per quanto riguarda la parte empirica, si è fatto ricorso ad una ricerca mista, fatta di metodi misti e fondata su un approccio metodologico di natura integrativa che si avvale di tecniche quantitative e qualitative. La parte quantitativa si basa su una parte dei dati della ricerca nazionale ESOPO - Epidemiological Study of Pain in Oncology. Dall’intero campione sono state isolate le sole donne con tumore al seno (n=846). Si è proceduto quindi allo studio di tale campione, alle elaborazioni statistiche con il programma SPSS e all’interpretazione dei risultati. Per quanto riguarda la parte qualitativa, invece, è stata condotta un’analisi delle fonti che si è avvalsa di un approccio netnografico: è stata condotta un’osservazione non intrusiva di 12 blog scritti da donne con tumore al seno, con lo scopo di indagare le narrazioni di malattia, i vissuti personali, i significati di dolore e malattia e le loro ripercussioni sulla vita quotidiana.

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L’elaborato descrive il lavoro svolto nella realizzazione di un software in linguaggio Labview, la cui funzione è di controllare, mediante una scheda, l’alimentatore di un fornetto facente parte di un apparato per spettroscopia di desorbimento termico (TDS), in modo che esso generi una “rampa” di temperatura. La spettroscopia di desorbimento termico è una tecnica che consente di rivelare i gas precedentemente adsorbiti su una superficie. Nella prima fase dell’attività ho implementato un codice dedicato al mantenimento di una temperatura costante (“generazione di un’isoterma”) al fine di acquisire dimestichezza col linguaggio Labview e le problematiche relative al controllo PID. A seguito di questo studio ho proceduto alla realizzazione del software richiesto, partendo da un controllo puramente proporzionale, aggiungendo successivamente le parti integrativa e derivativa opportunamente pesate in base alla risposta del sistema. L’algoritmo utilizzato, tuttavia, non è di tipo PID in senso stretto, poiché sono state apportate alcune modifiche al fine di raggiungere il migliore risultato possibile nella generazione della rampa. Nell’elaborato sono esposti i grafici che mostrano i risultati ottenuti. Nel primo capitolo è presente la descrizione del fenomeno oggetto di studio, a cui segue la descrizione dell’apparato. Gli altri due capitoli sono dedicati alla descrizione dell’algoritmo utilizzato e del lavoro svolto.

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Concepto fundamental en la etapa madura de la obra de Talcott Parsons, la comunidad societal presenta uno de los puntos más interesantes para el análisis del problema de la integración en la sociedad. Subsistema dentro del modelo AGIL, desarrollado por Parsons en la etapa avanzada de su obra, la comunidad societal se conforma dentro de la función integrativa como núcleo estructural de la sociedad, compuesta por valores y normas que hacen posible la vida en la misma. En otras palabras, comunidad societal es el conjunto de referencias simbólicas que comparten los miembros de ese subsistema en la interacción, y que consecuentemente permiten la armonía y unidad de la sociedad. Pero esto abre una problemática crucial. Si bien la obra de Parsons hacia el final de sus días se orienta principalmente al alcance de la mayor integración e inclusión dentro de la sociedad norteamericana, la definición de comunidad societal hace un claro énfasis en las nociones de membrecía y pertenencia, sobre las que se sostiene. De esta manera, podemos afirmar que la comunidad societal es construida como paradigma de la integración, pero sobre la base de un componente excluyente. En este trabajo pretendemos demostrar en qué medida este concepto encierra implícitamente la necesidad intrínseca de la exclusión como componente constitutivo

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Masten y Gewirtz (2006) sostienen que si bien desde siempre las historias que narran el triunfo de una persona frente a la adversidad han ejercido fascinación sobre la gente, el estudio científico de la resiliencia se inició entre los años sesenta y setenta. En 1990 Rutter sostuvo que el interés por conocer las características de aquellas personas que desarrollan 'resiliencia' a pesar de las condiciones adversas de crianza o en circunstancias que aumentan el riesgo de presentar psicopatologías, provenía de tres fuentes: una, el aumento y consistencia de datos empíricos sobre diferencias individuales en poblaciones infantiles de alto riesgo. La segunda se originó en las investigaciones sobre temperamento realizadas en USA en los años setenta. Para comprender la idea anglosajona de temperamento hay que pensar en 'tendencias a desarrollar la personalidad de una cierta manera' (Cyrulnik, 2008: 43). La tercera línea tuvo su origen en la observación de las distintas formas en que las personas enfrentan las experiencias vitales (Becoña, 2006). La primera generación de investigaciones eran consistentes entre sí sugiriendo la poderosa influencia del proceso adaptativo común y el interjuego de genes y experiencia en el desarrollo infantil. (Masten y Gewirtz, 2006) Uno de estos estudios pioneros fue realizado por Werner y Smith con 698 niños nacidos en Kauai (Hawai) en 1955. La totalidad de la población estudiada estaba en condiciones de riesgo pero aproximadamente un tercio estaba sujeto a múltiples factores de alto riesgo, a saber: pobreza, discordia parental, psicopatología parental y estrés perinatal. El seguimiento de la cohorte se realizó hasta los 40 años. Uno de los hallazgos fue que muchos de los jóvenes del subgrupo de alto riesgo que habían desarrollado problemas en la adolescencia se habían convertido en adultos con relaciones estables y satisfactorias en la familia y el trabajo. Solamente uno de cada seis adultos manifestaba problemas de diversa índole: pobreza, conflictos domésticos, violencia, abuso de sustancias, problemas de salud mental y baja autoestima. (Benard, 2004) Otra investigación seminal sobre resiliencia surgió de la búsqueda de las causas de la enfermedad mental. Los investigadores se concentraron en los hijos de padres mentalmente enfermos y advirtieron que muchos de estos niños se desarrollaban bien y no presentaban problemas de salud mental. Siguieron una perspectiva integrativa y de colaboración entre los especialistas clínicos y del desarrollo infantil y elaboraron un programa completo de investigación sobre resiliencia que duró varias décadas. (Masten y Powell, 2003) Estos primeros estudios se centraron en las cualidades de los niños resilientes, consideradas como atributos de los propios niños, solo posteriormente se observó la relación con características de las familias y sus comunidades de pertenencia. (Kotliarenco, Cáceres, y Fontecilla, 1997). Durante bastante tiempo se pensó que resiliencia era equivalente a invulnerabilidad y si bien desde la década del setenta dejó de utilizarse este término, aún hoy se considera que resiliencia y vulnerabilidad son los polos opuestos de un mismo continuo. Así encontramos en revisiones recientes que 'La vulnerabilidad se refiere a incrementar la probabilidad de un resultado negativo, típicamente como un resultado de la exposición al riesgo. La resiliencia se refiere a evitar los problemas asociados con ser vulnerable' aunque se admite en forma generalizada que este concepto se utiliza para referirse a 'un positivo y efectivo afrontamiento en respuesta al riesgo o a la adversidad'. (Becoña.2006:131). En sentido amplio, la vulnerabilidad afecta a cualquier sistema con un mínimo de organización sea éste natural, artificial o social. Cualquier análisis epistemológico de este concepto debe comenzar reconociendo que la diversidad de criterios responde a las diferentes unidades de análisis que recortan los investigadores y que sus definiciones dependen de los elementos articuladores que toman en consideración en cada dominio. En nuestro caso, - una investigación epidemiológica sobre salud mental infantil- partimos de dos supuestos básicos: a) la cualidad de vulnerable es una condición de todos los seres humanos pero no alcanza a todos por igual ni de la misma manera y b) toda vulnerabilidad es vulnerabilidad psicosocial dado que impacta de modo directo o indirecto sobre los sujetos en estudio. Sin embargo, el examen sería incompleto sino no se despeja previamente vulnerabilidad psicosocial de los conceptos de resiliencia y trauma con los que se lo relaciona en salud y educación. Algunas lecturas simplificadoras entienden que resiliencia es el resultado de la sumatoria de factores protectores mientras que vulnerabilidad es la sumatoria de los factores de riesgo. Dada la abundancia de investigaciones sobre estas temáticas, nos limitaremos a realizar una breve aproximación conceptual a cada uno de ellos y sus vinculaciones

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Concepto fundamental en la etapa madura de la obra de Talcott Parsons, la comunidad societal presenta uno de los puntos más interesantes para el análisis del problema de la integración en la sociedad. Subsistema dentro del modelo AGIL, desarrollado por Parsons en la etapa avanzada de su obra, la comunidad societal se conforma dentro de la función integrativa como núcleo estructural de la sociedad, compuesta por valores y normas que hacen posible la vida en la misma. En otras palabras, comunidad societal es el conjunto de referencias simbólicas que comparten los miembros de ese subsistema en la interacción, y que consecuentemente permiten la armonía y unidad de la sociedad. Pero esto abre una problemática crucial. Si bien la obra de Parsons hacia el final de sus días se orienta principalmente al alcance de la mayor integración e inclusión dentro de la sociedad norteamericana, la definición de comunidad societal hace un claro énfasis en las nociones de membrecía y pertenencia, sobre las que se sostiene. De esta manera, podemos afirmar que la comunidad societal es construida como paradigma de la integración, pero sobre la base de un componente excluyente. En este trabajo pretendemos demostrar en qué medida este concepto encierra implícitamente la necesidad intrínseca de la exclusión como componente constitutivo

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Masten y Gewirtz (2006) sostienen que si bien desde siempre las historias que narran el triunfo de una persona frente a la adversidad han ejercido fascinación sobre la gente, el estudio científico de la resiliencia se inició entre los años sesenta y setenta. En 1990 Rutter sostuvo que el interés por conocer las características de aquellas personas que desarrollan 'resiliencia' a pesar de las condiciones adversas de crianza o en circunstancias que aumentan el riesgo de presentar psicopatologías, provenía de tres fuentes: una, el aumento y consistencia de datos empíricos sobre diferencias individuales en poblaciones infantiles de alto riesgo. La segunda se originó en las investigaciones sobre temperamento realizadas en USA en los años setenta. Para comprender la idea anglosajona de temperamento hay que pensar en 'tendencias a desarrollar la personalidad de una cierta manera' (Cyrulnik, 2008: 43). La tercera línea tuvo su origen en la observación de las distintas formas en que las personas enfrentan las experiencias vitales (Becoña, 2006). La primera generación de investigaciones eran consistentes entre sí sugiriendo la poderosa influencia del proceso adaptativo común y el interjuego de genes y experiencia en el desarrollo infantil. (Masten y Gewirtz, 2006) Uno de estos estudios pioneros fue realizado por Werner y Smith con 698 niños nacidos en Kauai (Hawai) en 1955. La totalidad de la población estudiada estaba en condiciones de riesgo pero aproximadamente un tercio estaba sujeto a múltiples factores de alto riesgo, a saber: pobreza, discordia parental, psicopatología parental y estrés perinatal. El seguimiento de la cohorte se realizó hasta los 40 años. Uno de los hallazgos fue que muchos de los jóvenes del subgrupo de alto riesgo que habían desarrollado problemas en la adolescencia se habían convertido en adultos con relaciones estables y satisfactorias en la familia y el trabajo. Solamente uno de cada seis adultos manifestaba problemas de diversa índole: pobreza, conflictos domésticos, violencia, abuso de sustancias, problemas de salud mental y baja autoestima. (Benard, 2004) Otra investigación seminal sobre resiliencia surgió de la búsqueda de las causas de la enfermedad mental. Los investigadores se concentraron en los hijos de padres mentalmente enfermos y advirtieron que muchos de estos niños se desarrollaban bien y no presentaban problemas de salud mental. Siguieron una perspectiva integrativa y de colaboración entre los especialistas clínicos y del desarrollo infantil y elaboraron un programa completo de investigación sobre resiliencia que duró varias décadas. (Masten y Powell, 2003) Estos primeros estudios se centraron en las cualidades de los niños resilientes, consideradas como atributos de los propios niños, solo posteriormente se observó la relación con características de las familias y sus comunidades de pertenencia. (Kotliarenco, Cáceres, y Fontecilla, 1997). Durante bastante tiempo se pensó que resiliencia era equivalente a invulnerabilidad y si bien desde la década del setenta dejó de utilizarse este término, aún hoy se considera que resiliencia y vulnerabilidad son los polos opuestos de un mismo continuo. Así encontramos en revisiones recientes que 'La vulnerabilidad se refiere a incrementar la probabilidad de un resultado negativo, típicamente como un resultado de la exposición al riesgo. La resiliencia se refiere a evitar los problemas asociados con ser vulnerable' aunque se admite en forma generalizada que este concepto se utiliza para referirse a 'un positivo y efectivo afrontamiento en respuesta al riesgo o a la adversidad'. (Becoña.2006:131). En sentido amplio, la vulnerabilidad afecta a cualquier sistema con un mínimo de organización sea éste natural, artificial o social. Cualquier análisis epistemológico de este concepto debe comenzar reconociendo que la diversidad de criterios responde a las diferentes unidades de análisis que recortan los investigadores y que sus definiciones dependen de los elementos articuladores que toman en consideración en cada dominio. En nuestro caso, - una investigación epidemiológica sobre salud mental infantil- partimos de dos supuestos básicos: a) la cualidad de vulnerable es una condición de todos los seres humanos pero no alcanza a todos por igual ni de la misma manera y b) toda vulnerabilidad es vulnerabilidad psicosocial dado que impacta de modo directo o indirecto sobre los sujetos en estudio. Sin embargo, el examen sería incompleto sino no se despeja previamente vulnerabilidad psicosocial de los conceptos de resiliencia y trauma con los que se lo relaciona en salud y educación. Algunas lecturas simplificadoras entienden que resiliencia es el resultado de la sumatoria de factores protectores mientras que vulnerabilidad es la sumatoria de los factores de riesgo. Dada la abundancia de investigaciones sobre estas temáticas, nos limitaremos a realizar una breve aproximación conceptual a cada uno de ellos y sus vinculaciones

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Masten y Gewirtz (2006) sostienen que si bien desde siempre las historias que narran el triunfo de una persona frente a la adversidad han ejercido fascinación sobre la gente, el estudio científico de la resiliencia se inició entre los años sesenta y setenta. En 1990 Rutter sostuvo que el interés por conocer las características de aquellas personas que desarrollan 'resiliencia' a pesar de las condiciones adversas de crianza o en circunstancias que aumentan el riesgo de presentar psicopatologías, provenía de tres fuentes: una, el aumento y consistencia de datos empíricos sobre diferencias individuales en poblaciones infantiles de alto riesgo. La segunda se originó en las investigaciones sobre temperamento realizadas en USA en los años setenta. Para comprender la idea anglosajona de temperamento hay que pensar en 'tendencias a desarrollar la personalidad de una cierta manera' (Cyrulnik, 2008: 43). La tercera línea tuvo su origen en la observación de las distintas formas en que las personas enfrentan las experiencias vitales (Becoña, 2006). La primera generación de investigaciones eran consistentes entre sí sugiriendo la poderosa influencia del proceso adaptativo común y el interjuego de genes y experiencia en el desarrollo infantil. (Masten y Gewirtz, 2006) Uno de estos estudios pioneros fue realizado por Werner y Smith con 698 niños nacidos en Kauai (Hawai) en 1955. La totalidad de la población estudiada estaba en condiciones de riesgo pero aproximadamente un tercio estaba sujeto a múltiples factores de alto riesgo, a saber: pobreza, discordia parental, psicopatología parental y estrés perinatal. El seguimiento de la cohorte se realizó hasta los 40 años. Uno de los hallazgos fue que muchos de los jóvenes del subgrupo de alto riesgo que habían desarrollado problemas en la adolescencia se habían convertido en adultos con relaciones estables y satisfactorias en la familia y el trabajo. Solamente uno de cada seis adultos manifestaba problemas de diversa índole: pobreza, conflictos domésticos, violencia, abuso de sustancias, problemas de salud mental y baja autoestima. (Benard, 2004) Otra investigación seminal sobre resiliencia surgió de la búsqueda de las causas de la enfermedad mental. Los investigadores se concentraron en los hijos de padres mentalmente enfermos y advirtieron que muchos de estos niños se desarrollaban bien y no presentaban problemas de salud mental. Siguieron una perspectiva integrativa y de colaboración entre los especialistas clínicos y del desarrollo infantil y elaboraron un programa completo de investigación sobre resiliencia que duró varias décadas. (Masten y Powell, 2003) Estos primeros estudios se centraron en las cualidades de los niños resilientes, consideradas como atributos de los propios niños, solo posteriormente se observó la relación con características de las familias y sus comunidades de pertenencia. (Kotliarenco, Cáceres, y Fontecilla, 1997). Durante bastante tiempo se pensó que resiliencia era equivalente a invulnerabilidad y si bien desde la década del setenta dejó de utilizarse este término, aún hoy se considera que resiliencia y vulnerabilidad son los polos opuestos de un mismo continuo. Así encontramos en revisiones recientes que 'La vulnerabilidad se refiere a incrementar la probabilidad de un resultado negativo, típicamente como un resultado de la exposición al riesgo. La resiliencia se refiere a evitar los problemas asociados con ser vulnerable' aunque se admite en forma generalizada que este concepto se utiliza para referirse a 'un positivo y efectivo afrontamiento en respuesta al riesgo o a la adversidad'. (Becoña.2006:131). En sentido amplio, la vulnerabilidad afecta a cualquier sistema con un mínimo de organización sea éste natural, artificial o social. Cualquier análisis epistemológico de este concepto debe comenzar reconociendo que la diversidad de criterios responde a las diferentes unidades de análisis que recortan los investigadores y que sus definiciones dependen de los elementos articuladores que toman en consideración en cada dominio. En nuestro caso, - una investigación epidemiológica sobre salud mental infantil- partimos de dos supuestos básicos: a) la cualidad de vulnerable es una condición de todos los seres humanos pero no alcanza a todos por igual ni de la misma manera y b) toda vulnerabilidad es vulnerabilidad psicosocial dado que impacta de modo directo o indirecto sobre los sujetos en estudio. Sin embargo, el examen sería incompleto sino no se despeja previamente vulnerabilidad psicosocial de los conceptos de resiliencia y trauma con los que se lo relaciona en salud y educación. Algunas lecturas simplificadoras entienden que resiliencia es el resultado de la sumatoria de factores protectores mientras que vulnerabilidad es la sumatoria de los factores de riesgo. Dada la abundancia de investigaciones sobre estas temáticas, nos limitaremos a realizar una breve aproximación conceptual a cada uno de ellos y sus vinculaciones

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