942 resultados para Palazzo, Teoderico, Ravenna, progetto
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The experiments described in the thesis for my PhD were addressed to the study of the anticancer activity of a conjugate of doxorubicin (DOXO) with lactosaminated human albumin (L-HSA) on hepatocellular carcinomas (HCCs) induced in rats by diethylnitrosamine. L-HSA is a neoglycoprotein exposing galactosyl residues. The conjugate was prepared to improve the chemo therapeutic index of DOXO in the treatment of the well differentiated (WD) HCCs whose cells mantain the receptor for galactosyl terminating glycoproteins and consequently can actively internalize L-HSA. In my first experiments I found that L-HSA coupled DOXO produced concentrations of DOXO higher than those raised by an equal dose of free drug, not only in WD HCCs, but also in the poorly differentiated forms (PD) of these tumors which do no express the receptor for galactosyl terminating glycoproteins. Subsequently I provided evidence that penetration of L-HSA-DOXO in PD HCCs was due to a non-specific adsorption mediated by the DOXO residues of the conjugate which interact with the cell surface mainly because at physiological pH they are positively charged and bind to anionic phospholipids of the cell membrane. In subsequent experiments, by ultrasound technique, I studied the action of free and L-HSA coupled DOXO on the growth of rat HCCs. I found that L-HSA coupled DOXO hindered the development of new neoplastic nodules and inhibited the growth of the established tumors. In contrast, the free drug neither inhibited the development of HCCs nor prevented the growth of the established tumors. Moreover, the free drug produced a severe loss of weight of rats, a sign of severe toxicity, which was not caused by the conjugate. In conclusion assuming that the results obtained in rats can be applied to patients, the results of my thesis suggest that the conjugate by increasing the efficacy and tolerability of DOXO could improve the value of this drug in the treatment of human HCCs.
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Questa riflessione sulla città contemporanea nasce dall’esigenza di definire delle pratiche d’intervento utili alla gestione di una realtà urbana. Seguendo il pensiero di studiosi delle varie discipline quali la composizione e l’urbanistica, mi assumo la responsabilità di analizzare una pratica urbana utile alla gestione delle realtà conflittuali, senza voler entrare nel merito di burocrazie, a volte caotiche, ma semplicemente seguendo l’aspetto sociale e urbanistico di un intervento. Un riflessione generale su quelle che sono le pratiche urbane contemporanee, alla ricerca di una soluzione che possa infine risolvere le problematiche delle città: Agopuntura Urbana. Durante lo studio delle dinamiche, che portano alla formazione di un tessuto urbano, spesso veniamo a conoscenza di realtà malate frutto della continua evoluzione della città. Il progresso, in ogni suo campo, ha anche determinato un’evoluzione del comportamento sociale: ci troviamo spesso all’interno di una frenetica rete d’idee e di cambiamenti. La strategia dell’Agopuntura Urbana proposta da Jaime Lerner ci fornisce le soluzioni per risolvere il corpo urbano e la sua visione olistica, le analisi, lo studio e le conseguenti soluzioni, le quali, non sono da ricercare nella complessità ma piuttosto nella semplicità degli interventi: un’oculata riqualificazione che metta in primo piano le necessità della collettività. Nell’incontenibile serie di eventi, che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, ritroviamo una realtà che ricerca soluzioni: la società vuole soluzioni per migliorare le realtà sociali contemporanee all’interno del proprio panorama urbano. ANDREA FALCO
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L’area di progetto, sulla quale convergono parti costruite in tempi e modalità diverse, si confronta con limiti importanti rispetto ai quali il progetto viene declinato in modi differenti: la via Emilia, la ferrovia, l’intervento Gregotti, sull’area dell’ex Zuccherificio, il lungo Savio e la vicinanza con lo svincolo della secante; tramite il progetto si vuole disegnare un ingresso per la città di Cesena, ridefinendone i margini e un fronte per la ferrovia e per la strada. L’intento è di lavorare a un progetto a scala urbana, capace di confrontarsi con la città e di instaurare con essa un rapporto di complementarietà e integrazione. La particolare articolazione dell’area ha comportato uno studio preciso della geometria che regolasse il disegno planimetrico, in modo da chiarire le relazioni fra i diversi edifici e fra essi e gli spazi vuoti; tentando di definire un sistema di gerarchie e allineamenti chiaro e riconoscibile. La rete dei percorsi che collega i nuovi spazi, alcuni pubblici altri privati, tenta di ristabilire quel sistema di relazioni e di riprodurre quella complessità che sono l’elemento fondante della città. L’intero progetto è trattato in modo unitario, perciò se da un lato il campus è un sistema autonomo, con funzioni proprie, allo stesso tempo si relaziona a tutto il resto grazie al parco e ai percorsi accompagnati dal sistema dei portici; si crea in tal modo uno spazio articolato che concilia al suo interno l’elemento naturale, l’urbanizzazione residenziale e gli edifici dell’università; in modo che diventi un complesso riconoscibile e allo stesso tempo integrato nella città e fruibile dai cittadini.
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La tesi si pone come obiettivo quello di indagare le mostre di moda contemporanee come macchine testuali. Se consideriamo l’attuale panorama del fashion design come caratterizzato da una complessità costitutiva e da rapidi mutamenti che lo attraversano, e se partiamo dal presupposto che lo spettro di significati che uno stile di abbigliamento e i singoli capi possono assumere è estremamente sfuggente, probabilmente risulta più produttivo interrogarsi su come funziona la moda, su quali sono i suoi meccanismi di produzione di significato. L’analisi delle fashion exhibition si rivela quindi un modo utile per affrontare la questione, dato che gli allestimenti discorsivizzano questi meccanismi e rappresentano delle riflessioni tridimensionali attorno a temi specifici. La mostra di moda mette in scena delle eccezionalità che magnificano aspetti tipici del funzionamento del fashion system, sia se ci rivolgiamo alla moda dal punto di vista della produzione, sia se la consideriamo dal punto di vista della fruizione. L’indagine ha rintracciato nelle mostre curate da Diana Vreeland al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York il modello di riferimento per le mostre di moda contemporanee. Vreeland, che dal 1936 al 1971 è stata prima fashion editor e poi editor-in-chief rispettivamente di “Harper’s Bazaar” e di “Vogue USA”, ha segnato un passaggio fondamentale quando nel 1972 ha deciso di accettare il ruolo di Special Consultant al Costume Institute. È ormai opinione diffusa fra critici e studiosi di moda che le mostre da lei organizzate nel corso di più di un decennio abbiano cambiato il modo di mettere in scena i vestiti nei musei. Al lavoro di Vreeland abbiamo poi accostato una recente mostra di moda che ha fatto molto parlare di sé: Spectres. When Fashion Turns Back, a cura di Judith Clark (2004). Nell’indagare i rapporti fra il fashion design contemporaneo e la storia della moda questa mostra ha utilizzato macchine allestitive abitate dai vestiti, per “costruire idee spaziali” e mettere in scena delle connessioni non immediate fra passato e presente. Questa mostra ci è sembrata centrale per evidenziare lo sguardo semiotico del curatore nel suo interrogarsi sul progetto complessivo dell’exhibition design e non semplicemente sullo studio degli abiti in mostra. In questo modo abbiamo delineato due posizioni: una rappresentata da un approccio object-based all’analisi del vestito, che si lega direttamente alla tradizione dei conservatori museali; l’altra rappresentata da quella che ormai si può considerare una disciplina, il fashion curation, che attribuisce molta importanza a tutti gli aspetti che concorrono a formare il progetto allestitivo di una mostra. Un lavoro comparativo fra alcune delle più importanti mostre di moda recentemente organizzate ci ha permesso di individuare elementi ricorrenti e specificità di questi dispositivi testuali. Utilizzando il contributo di Manar Hammad (2006) abbiamo preso in considerazione i diversi livelli di una mostra di moda: gli abiti e il loro rapporto con i manichini; l’exhibition design e lo spazio della mostra; il percorso e la sequenza, sia dal punto di vista della strategia di costruzione e dispiegamento testuale, sia dal punto di vista del fruitore modello. Abbiamo così individuato quattro gruppi di mostre di moda: mostre museali-archivistiche; retrospettive monografiche; mostre legate alla figura di un curatore; forme miste che si posizionano trasversalmente rispetto a questi primi tre modelli. Questa sistematizzazione ha evidenziato che una delle dimensione centrali per le mostre di moda contemporanee è proprio la questione della curatorship, che possiamo leggere in termini di autorialità ed enunciazione. Si sono ulteriormente chiariti anche gli orizzonti valoriali di riferimento: alla dimensione dell’accuratezza storica è associata una mostra che predilige il livello degli oggetti (gli abiti) e un coinvolgimento del visitatore puramente visivo; alla dimensione del piacere visivo possiamo invece associare un modello di mostra che assegna all’exhibition design un ruolo centrale e “chiede” al visitatore di giocare un ruolo pienamente interattivo. L’approccio curatoriale più compiuto ci sembra essere quello che cerca di conciliare queste due dimensioni.
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La tesi di laurea che verrà qui di seguito presentata, ha l’obiettivo di far vedere come interventi di consolidamento attuati al fine di mettere in sicurezza una struttura esistente possano essere utilizzati come presidi per il riuso, occasioni in cui far fondere in progetto architettonico di recupero di un manufatto con interventi tecnologici-strutturali atti a salvaguardarlo. Si cercherà perciò di far andare di pari passo questi due elementi evitando che uno di essi prevalga sull’altro e considerandoli in modo unitario e non come due progetti separati. L’edificio preso in esame è il Castello di Zocco. Risalente al XII secolo, è situato su una piccola collina lungo le sponde del Lago Trasimeno in Provincia di Perugia. Esso è costituito da una cinta muraria al cui interno sono presenti pochi edifici in pessimo stato di conservazione, è attualmente in disuso e presenta notevoli dissesti strutturali. Il castello è stato studiato da tutti i punti di vista al fine di formulare un’ipotesi di riutilizzo. Ne è stata inizialmente analizzata la posizione geografica-territoriale elemento significativo sia per la sua storia che per la sua organizzazione insediativa. Successivamente, dallo studio storico, si è intrapresa un’analisi dei sistemi costruttivi e della consistenza indispensabili per una migliore comprensione del complesso. Uno studio approfondito di tutto ciò, unito ad un’analisi dettagliata dei dissesti statici e dei meccanismi di danno e collasso, è stato il punto di partenza per l’elaborazione di un progetto architettonico che andasse di pari passo con il consolidamento strutturale compatibile con l’edificio stesso.
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La ricerca approfondisce gli studi iniziati dalla dott.ssa Baldini in occasione della tesi di laurea e amplia le indagini critiche avviate per la mostra sull’Aemilia Ars (2001). La ricerca si è interessata alle aree di Bologna e di Faenza individuando le connessioni che tra Otto e Novecento intercorrono tra la cultura artistica locale e quella nazionale ed europea. Nasce infatti in questo periodo Aemilia Ars, uno dei più innovativi movimenti del contesto nazionale nel campo delle arti decorative. I membri del gruppo, raccoltisi intorno alla carismatica figura di Alfonso Rubbiani nei primi anni Ottanta, sono attratti da influenze nordeuropee e sin dall’inizio si mostrano orientati a seguire precetti ruskiniani e preraffaelliti. Molto importante in entrambe le città, per l’evoluzione dello scenario artistico e artigianale – in questi anni più che mai unite in un rapporto di strettissima correlazione – è l’apporto e il sostegno offerto dai salotti, dai circoli, dai caffè e dai cenacoli locali. Dal punto di vista dello stile, forme lineari con una marcata tendenza all’astrazione caratterizzano la produzione dei principali interpreti faentini e bolognesi dell’ultimo ventennio dell’Ottocento allineandoli con le ricerche dei loro contemporanei nel resto d’Europa. I settori produttivi che si sono indagati sono quelli della ceramica, dell’ebanisteria, dei ferri battuti, dell’oreficeria, delle arti tessili e dei cuoi. Gran parte di queste lavorazioni – attardatesi nella realizzazione di oggetti dalle forme di ispirazione seicentesca, certamente poco adatte alla produzione industriale – subiscono ora una decisa accelerazione verso forme più svelte che, adeguandosi alla possibilità di riproduzione seriale degli oggetti, si diffonderanno quasi capillarmente tra l’aristocrazia e la borghesia, faticando tuttavia a raggiungere le classi meno abbienti a causa degli elevati costi di produzione. Nell’ultima parte viene tracciato sinteticamente il quadro delle attività artistiche e artigianali faentine del periodo indicato, con una particolare attenzione all’opera delle personalità afferenti al Cenacolo baccariniano.
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Questo progetto nasce dalla volontà di creare un oasi verde, dove poter studiare, fare ricerca e anche rilassarsi, distogliendo l’attenzione dalla distesa di fabbriche ceramiche che si stagliano per chilometri quadrati su tutto il territorio del comparto ceramico reggiano-modenese. Lo scenario che si presenta a chi fruisce di questi luoghi è, infatti, di straniamento. Si è pervasi da un forte senso di alienazione ed inadeguatezza a causa delle dimensioni di alcuni fabbricati e dalla bicromia che ne caratterizzano gli spazi. Tali caratteristiche ambientali cozzano prepotentemente con la presenza di verde molto intenso, quasi boschivo, che compone il parco delle Salse di Nirano e gli spazi circostanti il Castello di Spezzano, distante solo qualche centinaia di metri dal complesso fioranese della Ferrari e quindi dal sito in esame. Fra gli obiettivi progettuali non è mai stato prioritario salvaguardare le strutture industriali presenti sull’area, non tanto a causa dello scarso interesse architettonico dei manufatti, quanto conseguentemente alla considerazione che la tipicità di tali strutture è ben rappresentata anche dalle fabbriche dell’intorno. L’obiettivo prefissato è proprio quello di infrangere questa monotonia, di organizzare spazi e, soprattutto, servizi, fino ad ora, totalmente assenti. Questa mancanza può essere spiegata ricordando l’indirizzo prettamente industriale dell’area, ma, analizzando attentamente le emergenze limitrofe all’area in questione, è facile notare come la cittadella Ferrari, ad esempio, abbia cominciato a dare al problema una risposta molto forte dal punto di vista architettonico. Nonostante questa parziale risignificazione del territorio, la separazione fra topos urbano - residenziale e industriale all’interno del Distretto è fin troppo marcata. Va detto anche che la totale carenza di luoghi per poter camminare, magari riflettendo sui temi oggetto di ricerca, e per poter vivere all’aria aperta, induce a progettare una soluzione destinata a ovviare al problema. Ne consegue quindi una forte deficienza di infrastrutture, come i parcheggi, di luoghi dedicati al divertimento o anche solo al tempo libero. Proprio per questo motivo, fra i propositi c’è anche quello di integrare il progetto con qualche soluzione in favore di questa problematica, come un polo sportivo che comprenda palestre e piscine. Il contesto, caratterizzato dalla presenza del circuito, che ha risonanza internazionale, suggerisce di optare per una struttura planimetrica lineare: ciò va a massimizzare il contatto fra superficie degli edifici e l’intorno. Sviluppando questa linearità, prende corpo la problematica di creare una rotazione circa a metà della linea d’asse; in primo luogo per assecondare la morfologia dell’area e del contesto, mantenendo inalterati gli edifici situati a nord, e, non meno importante, assegnare il giusto orientamento all’ambito residenziale, che per la sua architettura dovrà essere rivolto perfettamente verso sud. Spostando poi lo sguardo verso gli stabilimenti della Rossa, la via Giardini offre numerosi spunti progettuali. Porta a essere ripensata, lungo i suoi margini, per rapportarla meglio al contesto Ferrari, che è, a sua volta, legato indissolubilmente a quello che si trova al di là di tale asse viario; il Circuito di Fiorano e il progetto del centro ricerca. Per questo motivo risulta una priorità anche la progettazione di percorsi pedonali che colleghino il centro degli stabilimenti Ferrari con l’area del circuito, in modo da favorire la fruibilità di questo luogo di indubbio fascino e carico di storia. In conclusione, il progetto dovrà sviluppare un articolazione che consenta di percepire l’architettura in movimento. La volontà progettuale è chiaramente scenografica e si occuperà anche del rapporto fra tecnica e uomo (macchina/natura). La necessità percepita è quella, dunque, di creare un impianto di forte espressività per sanare una situazione urbana lacerata e caotica. La vastità dell’area in esame permette di incrementare la presenza di entità naturali ad esempio con l’aggiunta dell’enorme vasca d’acqua che può essere utilizzata direttamente anche per scopi funzionali al centro ricerca. L’articolazione progettuale si rivela perciò molto sfaccettata e ricca di spunti.
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La ricerca è collocata nell’ambito del progetto europeo “GREEN AIR” (7FP – Transport) che è finalizzato alla produzione di idrogeno a bordo di aerei mediante deidrogenazione catalitica di cherosene avio. La deidrogenazione di molecole organiche volta alla produzione di idrogeno è una reazione poco studiata; in letteratura sono presenti solo esempi di deidrogenazione di molecole singole, tipicamente a basso peso molecolare, per la produzione di olefine. Già per questi substrati la conduzione della reazione risulta molto complessa, quindi l’impiego di frazioni di combustibili reali rende ancora più problematica le gestione del processo. L’individuazione dei parametri operativi e della corretta formulazione del catalizzatore possono essere definiti accuratamente solo dopo un approfondito studio dei meccanismi di reazione e di disattivazione. Pertanto questo lavoro ha come obiettivo lo studio di questi meccanismi partendo da molecole modello per giungere poi a definire la reattività di miscele complesse. Le problematiche principali che si presentano nella conduzione di questa reazione sono la disattivazione da coke e da zolfo. Quindi è evidente che la comprensione dei meccanismi di reazione, di formazione dei depositi carboniosi e dell’avvelenamento da zolfo è uno stadio fondamentale per delineare quali siano i requisiti necessari alla realizzazione del processo. Il fine ultimo della ricerca è quello di utilizzare le informazioni acquisite dallo studio dei meccanismi coinvolti per arrivare a formulare un catalizzatore capace di soddisfare i requisiti del progetto, sia in termini di produttività di idrogeno sia in termini di tempo di vita, unitamente alla definizione di accorgimenti utili al miglioramento della conduzione della reazione.
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Il progetto di tesi specialistica svolto durante questo anno accademico si è suddiviso in due parti: un primo periodo, da settembre 2010 a gennaio 2011, presso il dipartimento di Chimica Organica “A. Mangini” della Facoltà di Chimica Industriale dell’Università di Bologna e un secondo periodo in Spagna, da marzo ad agosto 2011, presso la Unitat de Química Farmacèutica de la Facultat de Farmàcia de la Universitat de Barcelona. Nel primo periodo a Bologna mi sono occupato della sintesi di 4-bromo-pirazoli da utilizzare come precursori di composti eterociclici condensati. Inizialmente è stato sintetizzato un pirazolo 1,3,5-trisostituito tramite cicloaddizione 1,3-dipolare tra un acetilene e una nitril immina generata in situ da un idrazonoil cloruro. Il pirazolo è stato poi bromurato facendo uno screening di diversi agenti bromuranti e condizioni di reazione per ottenere la migliore resa e chemoselettività. Infine è stata studiata la ciclizzazione intramolecolare del prodotto bromurato tramite reazione di cross-coupling catalizzata da metalli di transizione. Nel secondo periodo a Barcellona mi sono occupato della sintesi di dicarbossimmidi tricicliche con struttura a gabbia con il fine di creare alcheni altamente piramidalizzati e di studiarne la dimerizzazione ad un derivato del dodecaedrano. La strategia sintetica è stata impostata utilizzando come reagente di partenza una semplice succinimmide per giungere, dopo numerosi passaggi, al precursore del prodotto triciclico, del quale è stata studiata la ciclizzazione tramite reazione Diels-Alder intramolecolare.
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Background. One of the phenomena observed in human aging is the progressive increase of a systemic inflammatory state, a condition referred to as “inflammaging”, negatively correlated with longevity. A prominent mediator of inflammation is the transcription factor NF-kB, that acts as key transcriptional regulator of many genes coding for pro-inflammatory cytokines. Many different signaling pathways activated by very diverse stimuli converge on NF-kB, resulting in a regulatory network characterized by high complexity. NF-kB signaling has been proposed to be responsible of inflammaging. Scope of this analysis is to provide a wider, systemic picture of such intricate signaling and interaction network: the NF-kB pathway interactome. Methods. The study has been carried out following a workflow for gathering information from literature as well as from several pathway and protein interactions databases, and for integrating and analyzing existing data and the relative reconstructed representations by using the available computational tools. Strong manual intervention has been necessarily used to integrate data from multiple sources into mathematically analyzable networks. The reconstruction of the NF-kB interactome pursued with this approach provides a starting point for a general view of the architecture and for a deeper analysis and understanding of this complex regulatory system. Results. A “core” and a “wider” NF-kB pathway interactome, consisting of 140 and 3146 proteins respectively, were reconstructed and analyzed through a mathematical, graph-theoretical approach. Among other interesting features, the topological characterization of the interactomes shows that a relevant number of interacting proteins are in turn products of genes that are controlled and regulated in their expression exactly by NF-kB transcription factors. These “feedback loops”, not always well-known, deserve deeper investigation since they may have a role in tuning the response and the output consequent to NF-kB pathway initiation, in regulating the intensity of the response, or its homeostasis and balance in order to make the functioning of such critical system more robust and reliable. This integrated view allows to shed light on the functional structure and on some of the crucial nodes of thet NF-kB transcription factors interactome. Conclusion. Framing structure and dynamics of the NF-kB interactome into a wider, systemic picture would be a significant step toward a better understanding of how NF-kB globally regulates diverse gene programs and phenotypes. This study represents a step towards a more complete and integrated view of the NF-kB signaling system.
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The hydrogen production in the green microalga Chlamydomonas reinhardtii was evaluated by means of a detailed physiological and biotechnological study. First, a wide screening of the hydrogen productivity was done on 22 strains of C. reinhardtii, most of which mutated at the level of the D1 protein. The screening revealed for the first time that mutations upon the D1 protein may result on an increased hydrogen production. Indeed, productions ranged between 0 and more than 500 mL hydrogen per liter of culture (Torzillo, Scoma et al., 2007a), the highest producer (L159I-N230Y) being up to 5 times more performant than the strain cc124 widely adopted in literature (Torzillo, Scoma, et al., 2007b). Improved productivities by D1 protein mutants were generally a result of high photosynthetic capabilities counteracted by high respiration rates. Optimization of culture conditions were addressed according to the results of the physiological study of selected strains. In a first step, the photobioreactor (PBR) was provided with a multiple-impeller stirring system designed, developed and tested by us, using the strain cc124. It was found that the impeller system was effectively able to induce regular and turbulent mixing, which led to improved photosynthetic yields by means of light/dark cycles. Moreover, improved mixing regime sustained higher respiration rates, compared to what obtained with the commonly used stir bar mixing system. As far as the results of the initial screening phase are considered, both these factors are relevant to the hydrogen production. Indeed, very high energy conversion efficiencies (light to hydrogen) were obtained with the impeller device, prooving that our PBR was a good tool to both improve and study photosynthetic processes (Giannelli, Scoma et al., 2009). In the second part of the optimization, an accurate analysis of all the positive features of the high performance strain L159I-N230Y pointed out, respect to the WT, it has: (1) a larger chlorophyll optical cross-section; (2) a higher electron transfer rate by PSII; (3) a higher respiration rate; (4) a higher efficiency of utilization of the hydrogenase; (5) a higher starch synthesis capability; (6) a higher per cell D1 protein amount; (7) a higher zeaxanthin synthesis capability (Torzillo, Scoma et al., 2009). These information were gathered with those obtained with the impeller mixing device to find out the best culture conditions to optimize productivity with strain L159I-N230Y. The main aim was to sustain as long as possible the direct PSII contribution, which leads to hydrogen production without net CO2 release. Finally, an outstanding maximum rate of 11.1 ± 1.0 mL/L/h was reached and maintained for 21.8 ± 7.7 hours, when the effective photochemical efficiency of PSII (ΔF/F'm) underwent a last drop to zero. If expressed in terms of chl (24.0 ± 2.2 µmoles/mg chl/h), these rates of production are 4 times higher than what reported in literature to date (Scoma et al., 2010a submitted). DCMU addition experiments confirmed the key role played by PSII in sustaining such rates. On the other hand, experiments carried out in similar conditions with the control strain cc124 showed an improved final productivity, but no constant PSII direct contribution. These results showed that, aside from fermentation processes, if proper conditions are supplied to selected strains, hydrogen production can be substantially enhanced by means of biophotolysis. A last study on the physiology of the process was carried out with the mutant IL. Although able to express and very efficiently utilize the hydrogenase enzyme, this strain was unable to produce hydrogen when sulfur deprived. However, in a specific set of experiments this goal was finally reached, pointing out that other than (1) a state 1-2 transition of the photosynthetic apparatus, (2) starch storage and (3) anaerobiosis establishment, a timely transition to the hydrogen production is also needed in sulfur deprivation to induce the process before energy reserves are driven towards other processes necessary for the survival of the cell. This information turned out to be crucial when moving outdoor for the hydrogen production in a tubular horizontal 50-liter PBR under sunlight radiation. First attempts with laboratory grown cultures showed that no hydrogen production under sulfur starvation can be induced if a previous adaptation of the culture is not pursued outdoor. Indeed, in these conditions the hydrogen production under direct sunlight radiation with C. reinhardtii was finally achieved for the first time in literature (Scoma et al., 2010b submitted). Experiments were also made to optimize productivity in outdoor conditions, with respect to the light dilution within the culture layers. Finally, a brief study of the anaerobic metabolism of C. reinhardtii during hydrogen oxidation has been carried out. This study represents a good integration to the understanding of the complex interplay of pathways that operate concomitantly in this microalga.
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The present dissertation focuses on the two basic dimensions of social judgment, i.e., warmth and competence. Previous research has shown that warmth and competence emerge as fundamental dimensions both at the interpersonal level and at the group level. Moreover, warmth judgments appear to be primary, reflecting the importance of first assessing others’ intentions before determining the other’s ability to carry out those intentions. Finally, it has been shown that warmth and competence judgments are predicted by perceived economic competition and status, respectively (for a review, see Cuddy, Fiske, & Glick, 2008). Building on this evidence, the present work intends to further explore the role of warmth and competence in social judgment, adopting a finer-grained level of analysis. Specifically, we consider warmth to be a dimension of evaluation that encompasses two distinct characteristics (i.e., sociability and morality) rather than as an undifferentiated dimension (see Leach, Ellemers, & Barreto, 2007). In a similar vein, both economic competition and symbolic competition are taken into account (see Stephan, Ybarra, & Morrison, 2009). In order to highlight the relevance of our empirical research, the first chapter reviews the literature in social psychology that has studied the warmth and competence dimensions. In the second chapter, across two studies, we examine the role of realistic and symbolic threats (akin economic and symbolic competition, respectively) in predicting the perception of sociability and morality of social groups. In study 1, we measure perceived realistic threat, symbolic threat, sociability, and morality with respect to 8 social groups. In study 2, we manipulate the level and type of threat of a fictitious group and measure perceived sociability and morality. The findings show that realistic threat and symbolic threat are differentially related to the sociability and morality components of warmth. Specifically, whereas realistic threat seems to be a stronger predictor of sociability than symbolic threat, symbolic threat emerges as better predictor of morality than realistic threat. Thus, extending prior research, we show that the types of threat are linked to different warmth stereotypes. In the third and the fourth chapter, we examine whether the sociability and morality components of warmth play distinct roles at different stages of group impression formation. More specifically, the third chapter focuses on the information-gathering process. Two studies experimentally investigate which traits are mostly selected when forming impressions about either ingroup or outgroup members. The results clearly show that perceivers are more interested in obtaining information about morality than about sociability when asked to form a global impression about others. The fourth chapter considers more properly the formulation of an evaluative impression. Thus, in the first study participants rate real groups on sociability, morality, and competence. In the second study, participants read an immigration scenario depicting an unfamiliar social group in terms of high (vs. low) morality, sociability, and competence. In both studies, participants are also asked to report their global impression of the group. The results show that global evaluations are better predicted by morality than by sociability and competence trait ascriptions. Taken together the third and the fourth chapters show that the dominance of warmth suggested by previous studies on impression formation might be better explained in terms of a greater effect of one of the two subcomponents (i.e., morality) over the other (i.e., sociability). In the general discussion, we discuss the relevance of our findings for intergroup relation and group perception, as well as for impression formation.