993 resultados para Lipoprotéines de faible densité


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La definizione di “benessere animale” e le modalità di determinazione di tale parametro sono ancora ampiamente dibattute. C’è, però, una generale concordanza sul fatto che una condizione di malessere dia origine a variazioni fisiologiche e comportamentali che possono essere rilevate e misurate. Tra i parametri endocrini, il più studiato è, senza dubbio, il cortisolo, in quanto connesso con l’attivazione dell’asse ipotalamico-pituitario-surrenale in condizioni di stress e quindi ritenuto indicatore ideale di benessere, benché debba essere utilizzato con cautela in quanto un aumento dei livelli di questo ormone non si verifica con ogni tipo di stressor. Inoltre, si deve considerare che la raccolta del campione per effettuare le analisi, spesso implica il confinamento ed il contenimento degli animali e può essere, quindi, essa stessa un fattore stressante andando ad alterare i risultati. Alla luce delle suddette conoscenze gli obiettivi scientifici di questa ricerca, condotta sul gatto e sul cane, sono stati innanzitutto validare il metodo di dosaggio di cortisolo dal pelo e stabilire se tale dosaggio può rappresentare un indicatore, non invasivo, di benessere dell’animale (indice di “stress cronico”). In seguito, abbiamo voluto individuare i fattori di stress psico-sociale in gatti che vivono in gattile, in condizioni di alta densità, analizzando i correlati comportamentali ed ormonali dello stress e del benessere in questa condizione socio-ecologica, ricercando, in particolare, l’evidenza ormonale di uno stato di stress prolungato e la messa in atto di strategie comportamentali di contenimento dello stesso e il ruolo della marcatura visivo-feromonale, inoltre abbiamo effettuato un confronto tra oasi feline di diversa estensione spaziale per valutare come varia lo stress in rapporto allo spazio disponibile. Invece, nel cane abbiamo voluto evidenziare eventuali differenze dei livelli ormonali tra cani di proprietà e cani di canili, tra cani ospitati in diversi canili e tra cani che vivono in diverse realtà familiari; abbiamo voluto valutare gli effetti di alcuni arricchimenti sui cani di canile ed, infine, abbiamo analizzato cani sottoposti a specifici programmi si addestramento. Il primo importante ed originale risultato raggiunto, che risponde al primo obiettivo della ricerca, è stato la validazione del dosaggio radioimmunologico di cortisolo in campioni di pelo. Questo risultato, a nostro avviso, apre una nuova finestra sul campo della diagnostica endocrinologica metabolica. Attualmente, infatti, il monitoraggio ormonale viene effettuato su campioni ematici la cui raccolta prevede un elevato stress (stress da prelievo) per l’animale data l'invasività dell'operazione che modifica l’attività di ipotalamo-ipofisi-surrene e, dunque, provoca repentine alterazioni delle concentrazioni ormonali. Questa metodica offre, quindi, il vantaggio dell’estrema semplicità di raccolta del campione e, in più, il bassissimo costo del materiale utilizzato. Dalle ricerche condotte sui gatti di gattile sono scaturite preziose indicazioni per future indagini sullo stress e sul comportamento sociale felino. I risultati dell’analisi congiunta del comportamento e delle concentrazioni ormonali hanno evidenziato che la disponibilità di postazioni di marcatura visivo-feromonale ha un effetto positivo sia sugli indicatori comportamentali, sia su quelli ormonali di stress. I risultati dell’analisi delle concentrazioni di cortisolo, derivanti dal confronto tra sette oasi feline di diversa estensione spaziale hanno permesso di evidenziare un aumento dei livelli dell’ormone inversamente proporzionale allo spazio disponibile. Lo spazio disponibile, però, non è l’unico fattore da prendere in considerazione al fine di assicurare il benessere dell’animale infatti, nelle colonie che presentavano instabilità sociale e variabilità territoriale il cortisolo aveva valori elevati nonostante le notevoli disponibilità di spazio. Infine, si è potuto costatare come anche lo stare appartati, aumenti proporzionalmente con l’aumentare dello spazio. Questo comportamento risulta essere molto importante in quanto mitiga lo stress ed è da prendere in considerazione nell’allestimento di colonie feline. Infatti, nelle colonie di dimensioni ridotte dove lo stress è già alto, l’impossibilità dei soggetti di appartarsi può contribuire a peggiorare la situazione; ecco perché si dovrebbero creare luoghi artificiali per fornire ai gatti la possibilità di appartarsi, magari sfruttando gli spazi sopraelevati (tetti, alberi, ecc.). Per quanto riguarda il confronto tra cani di proprietà e cani di canile non sono state evidenziate differenze significative nei livelli di cortisolo nel pelo mentre abbiamo rilevato che quest’ultimi sono influenzati dalla disponibilità di spazio: infatti sia i cani di proprietà che vivevano in giardino, sia i cani dei canili che praticavano lo sgambamento presentavano livelli di cortisolo nel pelo più bassi rispetto, rispettivamente, ai cani di proprietà che vivevano in appartamento o appartamento/giardino e a quelli di canile che non praticavano lo sgambamento. L’arricchimento ambientale fornito ai cani di canile ha esercitato un’influenza positiva riducendo i livelli di cortisolo e migliorando la docilità dei soggetti, favorendone un’eventuale adozione. Si è inoltre messo in luce che i programmi di addestramento, eseguiti con tecniche “gentili”, non comportano situazioni stressanti per l’animale e aiutano i cani ad esprimere doti di equilibrio che rimarrebbero altrimenti celate dagli aspetti più istintivi del carattere. D’altra parte, l’impegno agonistico prima di una competizione e il livello di addestramento raggiunto dai cani, influenzano le concentrazioni di cortisolo a riposo e durante l’esercizio fisico. Questi risultati possono sicuramente dare utili suggerimenti per la gestione e la cura di gatti e cani al fine di migliorarne le condizioni di benessere.

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SCOPO DELLA RICERCA Aedes albopictus è diventata in pochi anni dalla sua introduzione in Italia la specie di zanzara più nociva e più importante sotto il profilo sanitario. Essendo una zanzara tipicamente urbana e ad attività diurna, limita fortemente la fruizione degli spazi aperti ed incide negativamente su alcune attività economiche. Il recente episodio epidemico di Chikungunya, che ha colpito il nostro Paese, ha allarmato le autorità sanitarie nazionali ed europee che stanno attivando misure di prevenzione e contrasto per fronteggiare il rischio che il virus diventi endemico o che altri virus possano essere introdotti nelle nostre aree. Le misure di lotta contro Aedes albopictus attualmente in essere (lotta larvicida, rimozione dei microfocolai, informazione e coinvolgimento dei cittadini) non danno risultati sufficienti in termini di capacità di contenimento delle densità del vettore. Per questo è stato avviato un progetto di ricerca centrato sull'applicazione del metodo dell'autocidio a questa specie. L’attività di ricerca svolta ha avuto come scopo la messa a punto delle metodiche di allevamento massale e di sterilizzazione in grado di permettere la produzione di maschi di qualità sufficiente a garantire una buona fitness nelle condizioni di campo e competitività coi maschi selvatici nella fase di accoppiamento. Le prove condotte possono essere raggruppate sotto tre principali campi di indagine: Prove di allevamento, Prove di Irraggiamento e Prove di Competizione. 1. Prove di allevamento In questo ambito sono state esaminate nuove diete larvali al fine di ottenere una più elevata produttività in termini di pupe con tempi di impupamento e dimensioni delle pupe più omogenei. È stata inoltre valutata la possibile reazione fagostimolante dell’ATP addizionato al pasto di sangue delle femmine adulte con lo scopo di incrementare la produttività di uova prodotte dai ceppi di Ae.albopictus in allevamento. 2. Prove di irraggiamento Attraverso prove di laboratorio sono stati investigati in gabbia gli effetti sterilizzanti di diverse dosi radianti (20 - 85 Gy) sulle pupe maschio di Ae. albopictus per la valutazione dei livelli di sterilità, fertilità e fecondità indotti sulle femmine. Si sono compiute inoltre indagini per valutare eventuali alterazioni dello stato fisiologico dei maschi irraggiati e dei livelli di sterilità indotti su femmine, in funzione dell’età pupale alla quale venivano sottoposti a radiazioni. Analisi degli effetti delle radiazioni sui tempi di rotazione genitale, sulla velocità ed efficacia degli accoppiamenti e sui tempi di sfarfallamento degli adulti sono state condotte su maschi irraggiati a diverse dosi. Infine su femmine di Ae. albopictus si sono realizzate prove in gabbia per lo studio dei tempi di recettività all'accoppiamento. Prove di competizione L'effetto negativo della colonizzazione in condizioni artificiali e l'irraggiamento sono riconosciuti come i fattori principali che incidono sulla competitività dei maschi sterilizzati nei confronti di quelli fertili. Per la verifica della variazione di fitness dovuta a imbreeding ed eterosi, prove di competizione in serra (7,5 x 5 x 2,80 m) sono state realizzate impiegando ceppi allevati in laboratorio, ceppi selvatici raccolti in campo e ceppi ibridi ottenuti incrociando diversi ceppi di laboratorio. RISULTATI 1. Prove di allevamento Sono state confrontate la dieta standard (DS = 2,5 mg/larva Friskies Adult ® + 0,5 mg/larva lievito di birra) e la nuova dieta integrata addizionata di Tetramin ® (DI = DS + 0,2 mg/larva Tetramin ®) per l’alimentazione delle larve in allevamento. Le prove condotte hanno evidenziato una buona risposta nelle percentuali di impupamento e di produttività in termini di pupe per la nuova dieta senza però evidenziare miglioramenti significativi con la DS. Con la dieta integrata si ottiene un impupamento a 7 giorni del 66,6% delle larve allevate (65% con la DS) e il setacciamento a 1400 μm delle pupe ottenute produce in media il 98,3% di maschi nel setacciato (98,5% con la DS). Con la dieta standard la percentuale di maschi ottenuti sulle larve iniziali è pari a 27,2% (20-25% con la DS). Come riportato da Timmermann e Briegel (1999) la dieta delle larve va strutturata con l’obiettivo di garantire un ampio range di elementi nutritivi evitando così il rischio di carenze o sub-carenze che possano influire negativamente sulla produttività dell’allevamento e sulle condizioni di vigore dei maschi. Secondo Reisen (1980, 1982), l’influenza negativa dell’allevamento sulla competitività dei maschi nella fase di accoppiamento potrebbe essere di maggiore peso rispetto all’influenza dell’irraggiamento dei maschi. Infine le prove di laboratorio condotte per la verifica dell’efficacia fagostimolante di ATP nel pasto di sangue offerto alle femmine dell’allevamento non hanno evidenziato differenze significative in nessuno dei parametri considerati tra il campione nutrito con ATP e il testimone. Nella realizzazione di allevamenti massali per la produzione di maschi da irraggiare, si ritiene quindi opportuno mantenere la nuova dieta testata che garantisce una spettro nutritivo più ampio e completo alle larve in allevamento. L’aggiunta di ATP nel pasto di sangue delle femmine adulte non sarà impiegato in quanto troppo costoso e significativamente poco produttivo nel garantire un aumento del numero di uova prodotte. 2. Prove di irraggiamento Oltre alla sopravvivenza e alla sterilità, la scelta dello stadio di sviluppo più conveniente da irraggiare in un programma SIT dipende dalla possibilità di maneggiare in sicurezza grandi quantità di insetti senza danneggiarli durante tutte le fasi che intercorrono tra l’allevamento massale, l’irraggiamento e il lancio in campo. La fase pupale risulta sicuramente più vantaggiosa per il maggior numero di pupe irraggiabili per unità di volume e per il minimo danneggiamento arrecabile all'insetto che viene mantenuto in acqua durante tutte le procedure. La possibilità di lavorare con la minima dose radiante efficace, significa ridurre lo stress provocato inevitabilmente alle pupe maschio, che si manifesta nell’adulto con una ridotta longevità, una diminuita capacità di accoppiamento o di ricerca del partner e attraverso possibili alterazioni comportamentali che possono rendere il maschio inattivo o inefficace una volta introdotto in campo. I risultati ottenuti sottoponendo pupe maschili a irraggiamento a differenti ore dall’impupamento evidenziano come la maturità del campione influisca sia sulla mortalità delle pupe che sull’efficacia sterilizzante dell’irraggiamento. Come riportato anche da Wijeyaratne (1977) le pupe più vecchie mostrano una minore mortalità e una maggiore sensibilità alle radiazioni rispetto a quelle più giovani. In particolare si è osservato come pupe maschili di età superiore 24h fossero maggiormente sensibili all’irraggiamento riportando minore perdita di competitività rispetto alle pupe irraggiate precocemente. La minore dose impiegata per il raggiungimento della sterilità con minimi effetti sulla longevità dei maschi trattati e con livelli di fecondità e fertilità indotti sulle femmine non differenti dal testimone, corrisponde a 40Gy (Cs 137 - 2,3 Gy/min). Analizzando la sopravvivenza dei maschi, si osserva una tendenza all'aumento della mortalità in funzione dell’aumento della dose fornita per tutte le età pupali di irraggiamento testate. Per trattamenti condotti su pupe di età > 30h la longevità dei maschi non risente dell’irraggiamento fino a dosi di 40Gy. La fecondità delle femmine accoppiatesi con maschi irraggiati con dosi superiori a 40Gy mostra una tendenza alla riduzione del numero di uova prodotte con l’aumentare della dose ricevuta dal maschio. L’irraggiamento delle pupe non determina variazioni significative nei tempi di sfarfallamento degli adulti per le diverse dosi radianti fornite e per le differenti età pupali testate in rapporto al testimone. L’irraggiamento influenza al contrario i tempi di rotazione dei genitali esterni dei maschi evidenziando un ritardo proporzionale alla dose ricevuta. Resta da definire sui maschi irraggiati l’effetto combinato dei due effetti sui tempi di sfarfallamento degli adulti anche se appare chiara l’assenza di variazioni significative per la dose di irraggiamento 40Gy scelta come radiazione utile per la sterilizzazione dei maschi da lanciare in campo. Per quanto riguarda l’analisi dei tempi di accoppiamento dei maschi irraggiati si osserva in generale una minore reattività rispetto ai maschi fertili particolarmente marcata nei maschi irraggiati a dosi superiori i 40 Gy. Gli studi condotti sui tempi di accoppiamento delle femmine evidenziano una buona recettività (>80%) all’accoppiamento solo per femmine di età superiore a 42 - 48 h femmine. Prima di tale periodo la femmina realizza accoppiamenti con normale appaiamento dei due sessi ma non riceve il trasferimento degli spermi. 3. Prove di competizione Prove preliminari di competizione in tunnel svolte nel 2006 su ceppi selvatici e di allevamento avevano mostrato risultati di competitività dei maschi sterili (50 Gy) segnati da forte variabilità. Nel 2007 dopo aver condotto analisi per la verifica dei tempi di sfarfallamento, di accoppiamento e di rotazione genitale nei maschi sterilizzati, e di recettività nelle femmine, sono state realizzate nuove prove. In queste prove maschi adulti di Ae. albopictus irraggiati a 40Gy sono stati posizionati in campo, in ambiente naturale ombreggiato ed isolato, all’interno di serre (8x5x2,8 m) insieme a maschi adulti fertili e femmine vergini di Ae. albopictus con rapporto 1:1:1. Le prove preliminari 2006 erano condotte con le medesime condizioni sperimentali del 2007 ad eccezione dei tempi di inserimento delle femmine vergini passati da 1 giorno nel 2006, a 3 giorni nel 2007 dall’immissione dei maschi in tunnel. Sono state effettuate prove testando la competizione tra esemplari provenienti da ceppi di allevamento (cicli di allevamento in gabbia > 15), ceppi selvatici (da materiale raccolto in campo e con cicli di allevamento in gabbia < 5) e ceppi ibridi (ottenuti dall’incrocio di ceppi italiani di diversa provenienza geografica). I risultati ottenuti mostrano indici di competizioni medi accettabili senza evidenziare differenza fra i ceppi impiegati. L’allevamento massale quindi non deprime i ceppi allevati e gli ibridi realizzati non mostrano una vigoria superiore ne rispetto ai ceppi selvatici ne rispetto agli allevati in laboratorio.

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La ricerca si propone di definire le linee guida per la stesura di un Piano che si occupi di qualità della vita e di benessere. Il richiamo alla qualità e al benessere è positivamente innovativo, in quanto impone agli organi decisionali di sintonizzarsi con la soggettività attiva dei cittadini e, contemporaneamente, rende evidente la necessità di un approccio più ampio e trasversale al tema della città e di una più stretta relazione dei tecnici/esperti con i responsabili degli organismi politicoamministrativi. La ricerca vuole indagare i limiti dell’urbanistica moderna di fronte alla complessità di bisogni e di nuove necessità espresse dalle popolazioni urbane contemporanee. La domanda dei servizi è notevolmente cambiata rispetto a quella degli anni Sessanta, oltre che sul piano quantitativo anche e soprattutto sul piano qualitativo, a causa degli intervenuti cambiamenti sociali che hanno trasformato la città moderna non solo dal punto di vista strutturale ma anche dal punto di vista culturale: l’intermittenza della cittadinanza, per cui le città sono sempre più vissute e godute da cittadini del mondo (turisti e/o visitatori, temporaneamente presenti) e da cittadini diffusi (suburbani, provinciali, metropolitani); la radicale trasformazione della struttura familiare, per cui la famiglia-tipo costituita da una coppia con figli, solido riferimento per l’economia e la politica, è oggi minoritaria; l’irregolarità e flessibilità dei calendari, delle agende e dei ritmi di vita della popolazione attiva; la mobilità sociale, per cui gli individui hanno traiettorie di vita e pratiche quotidiane meno determinate dalle loro origini sociali di quanto avveniva nel passato; l’elevazione del livello di istruzione e quindi l’incremento della domanda di cultura; la crescita della popolazione anziana e la forte individualizzazione sociale hanno generato una domanda di città espressa dalla gente estremamente variegata ed eterogenea, frammentata e volatile, e per alcuni aspetti assolutamente nuova. Accanto a vecchie e consolidate richieste – la città efficiente, funzionale, produttiva, accessibile a tutti – sorgono nuove domande, ideali e bisogni che hanno come oggetto la bellezza, la varietà, la fruibilità, la sicurezza, la capacità di stupire e divertire, la sostenibilità, la ricerca di nuove identità, domande che esprimono il desiderio di vivere e di godere la città, di stare bene in città, domande che non possono essere più soddisfatte attraverso un’idea di welfare semplicemente basata sull’istruzione, la sanità, il sistema pensionistico e l’assistenza sociale. La città moderna ovvero l’idea moderna della città, organizzata solo sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, uguaglianza e buon governo, è stata consegnata alla storia passata trasformandosi ora in qualcosa di assai diverso che facciamo fatica a rappresentare, a descrivere, a raccontare. La città contemporanea può essere rappresentata in molteplici modi, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale: nella letteratura recente è evidente la difficoltà di definire e di racchiudere entro limiti certi l’oggetto “città” e la mancanza di un convincimento forte nell’interpretazione delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito la società e il mondo nel secolo scorso. La città contemporanea, al di là degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici, delle infrastrutture, della tecnologia, del funzionalismo e dei mercati globali, è anche luogo delle relazioni umane, rappresentazione dei rapporti tra gli individui e dello spazio urbano in cui queste relazioni si muovono. La città è sia concentrazione fisica di persone e di edifici, ma anche varietà di usi e di gruppi, densità di rapporti sociali; è il luogo in cui avvengono i processi di coesione o di esclusione sociale, luogo delle norme culturali che regolano i comportamenti, dell’identità che si esprime materialmente e simbolicamente nello spazio pubblico della vita cittadina. Per studiare la città contemporanea è necessario utilizzare un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline, come la sociologia e le scienze umane, che pure contribuiscono a costruire l’immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. La rappresentazione del sociale urbano varia in base all’idea di cosa è, in un dato momento storico e in un dato contesto, una situazione di benessere delle persone. L’urbanistica moderna mirava al massimo benessere del singolo e della collettività e a modellarsi sulle “effettive necessità delle persone”: nei vecchi manuali di urbanistica compare come appendice al piano regolatore il “Piano dei servizi”, che comprende i servizi distribuiti sul territorio circostante, una sorta di “piano regolatore sociale”, per evitare quartieri separati per fasce di popolazione o per classi. Nella città contemporanea la globalizzazione, le nuove forme di marginalizzazione e di esclusione, l’avvento della cosiddetta “new economy”, la ridefinizione della base produttiva e del mercato del lavoro urbani sono espressione di una complessità sociale che può essere definita sulla base delle transazioni e gli scambi simbolici piuttosto che sui processi di industrializzazione e di modernizzazione verso cui era orientata la città storica, definita moderna. Tutto ciò costituisce quel complesso di questioni che attualmente viene definito “nuovo welfare”, in contrapposizione a quello essenzialmente basato sull’istruzione, sulla sanità, sul sistema pensionistico e sull’assistenza sociale. La ricerca ha quindi analizzato gli strumenti tradizionali della pianificazione e programmazione territoriale, nella loro dimensione operativa e istituzionale: la destinazione principale di tali strumenti consiste nella classificazione e nella sistemazione dei servizi e dei contenitori urbanistici. E’ chiaro, tuttavia, che per poter rispondere alla molteplice complessità di domande, bisogni e desideri espressi dalla società contemporanea le dotazioni effettive per “fare città” devono necessariamente superare i concetti di “standard” e di “zonizzazione”, che risultano essere troppo rigidi e quindi incapaci di adattarsi all’evoluzione di una domanda crescente di qualità e di servizi e allo stesso tempo inadeguati nella gestione del rapporto tra lo spazio domestico e lo spazio collettivo. In questo senso è rilevante il rapporto tra le tipologie abitative e la morfologia urbana e quindi anche l’ambiente intorno alla casa, che stabilisce il rapporto “dalla casa alla città”, perché è in questa dualità che si definisce il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici e si contestualizzano i temi della strada, dei negozi, dei luoghi di incontro, degli accessi. Dopo la convergenza dalla scala urbana alla scala edilizia si passa quindi dalla scala edilizia a quella urbana, dal momento che il criterio del benessere attraversa le diverse scale dello spazio abitabile. Non solo, nei sistemi territoriali in cui si è raggiunto un benessere diffuso ed un alto livello di sviluppo economico è emersa la consapevolezza che il concetto stesso di benessere sia non più legato esclusivamente alla capacità di reddito collettiva e/o individuale: oggi la qualità della vita si misura in termini di qualità ambientale e sociale. Ecco dunque la necessità di uno strumento di conoscenza della città contemporanea, da allegare al Piano, in cui vengano definiti i criteri da osservare nella progettazione dello spazio urbano al fine di determinare la qualità e il benessere dell’ambiente costruito, inteso come benessere generalizzato, nel suo significato di “qualità dello star bene”. E’ evidente che per raggiungere tale livello di qualità e benessere è necessario provvedere al soddisfacimento da una parte degli aspetti macroscopici del funzionamento sociale e del tenore di vita attraverso gli indicatori di reddito, occupazione, povertà, criminalità, abitazione, istruzione, etc.; dall’altra dei bisogni primari, elementari e di base, e di quelli secondari, culturali e quindi mutevoli, trapassando dal welfare state allo star bene o well being personale, alla wellness in senso olistico, tutte espressioni di un desiderio di bellezza mentale e fisica e di un nuovo rapporto del corpo con l’ambiente, quindi manifestazione concreta di un’esigenza di ben-essere individuale e collettivo. Ed è questa esigenza, nuova e difficile, che crea la diffusa sensazione dell’inizio di una nuova stagione urbana, molto più di quanto facciano pensare le stesse modifiche fisiche della città.

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Complice l'entrata a far parte dell'Unione Europea e del risultante recepimento delle sue normative e sopratutto dei suoi principi, nel nostro Paese si sta verificando un sostanziale incremento delle realtà territoriali attivate sul fronte della raccolta differenziata. L'intercettazione delle frazioni compostabili (umido e scarti verdi) sta assumendo un ruolo di sempre maggior rilevanza quantitativa nella raccolta differenziata. Infatti dal 1997 al 2007 si è passati da circa 604.000 ton di frazioni raccolte a 2.368.000 ton. Questo sistema di recupero degli scarti organici è attualmente il più diffuso nel nostro Paese. Esso presenta indubbi problemi tecnico-gestionali, sopratutto riconducibili alle emissioni odorigene che raramente risultano però nocive o addirittura tossiche per la salute dell'ambiente e delle persone. Nonostante questo dato gli impianti di compostaggio incontrano spesso una diffusa e forte avversione da quella parte di popolazione interessata ad accogliere l'impianto sul proprio territorio rispetto anche ad impianti di indubbia maggior pericolosità. Per via di questo generale atteggiamento in Italia risulta pertanto esistere una normativa particolarmente stringente sulle garanzie ambientali necessarie per la realizzazione di impianti di compostaggio confrontata con quella europea. Questa normativa però lascia inalterata la difficoltà nella diffusione di un'impiantistica adeguata a rispondere alle necessità della raccolta differenziata. Questo problema risulta ancor più rilevante come nel caso dell'impianto oggetto di studio situato in ambiente altamente urbanizzato. In questi territori ad alta densità abitativa spesso si assiste alla degenerazione del sistema dove protratte conflittualità con la popolazione interessata ostacolano l'esercizio o portano alla temporanea cessazione delle attività degli impianti esistenti. Ulteriore problema risulta essere il fatto che anche in impianti nuovi criteri corretti di progettazione e costruzione risultano essere alle volte non sufficienti per evitare le precedenti problematiche, diventa quindi oltremodo difficoltoso ottenere gli stessi risultati intervenendo su impianti già esistenti con misure di riqualificazione adeguate e compatibili con la sostenibilità economica dell'impianto. Per tanto questa tesi si propone di individuare le problematiche esistenti e proporre soluzioni efficaci al rilevante problema delle emissioni odorigene che sembra caratterizzare questo impianto, tramite uno studio dello stato di fatto e l'analisi delle criticità riscontrate, concentrandosi in modo particolare sul biofiltro e sulla biofiltrazione, che sembra essere il problema principale che influenza la qualità delle emissioni. Il caso oggetto di questa tesi riguarda un impianto avviato nel 2004 che, dopo un lungo periodo di esercizio caratterizzato da problematiche ambientali mai pienamente risolte, è stato sottoposto dalla seconda metà del 2008 ad una semplice e sistematica revisione delle procedure gestionali e mirati interventi tecnici ed impiantistici nell'ambito di un percorso di risanamento e riqualificazione. 5

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In questa tesi è stato studiato l’effetto dell’esposizione della diatomea Skeletonema marinoi, una specie molto comune nel Nord Adriatico e importante per il suo annuale contributo alla produzione primaria, agli erbicidi maggiormente utilizzati nella pianura Padana e riscontrati in acque dolci e salmastre di zone limitrofe al mare Adriatico. Gli erbicidi scelti consistono in terbutilazina e metolachlor, i più frequentemente riscontrati sia nelle acque superficiali che in quelle sotterranee dell’area Padana, noti per avere un effetto di inibizione su vie metaboliche dei vegetali; inoltre è stato valutato anche l’effetto di un prodotto di degradazione della terbutilazina, la desetilterbutilazina, presente anch’esso in concentrazioni pari al prodotto di origine e su cui non si avevano informazioni circa la tossicità sul fitoplancton. L’esposizione delle microalghe a questi erbicidi può avere effetti che si ripercuotono su tutto l’ecosistema: le specie fitoplanctoniche, in particolare le diatomee, sono i produttori primari più importanti dell’ecosistema: questi organismi rivestono un ruolo fondamentale nella fissazione del carbonio, rappresentando il primo anello della catena alimentari degli ambienti acquatici e contribuendo al rifornimento di ossigeno nell’atmosfera. L’effetto di diverse concentrazioni di ciascun composto è stato valutato seguendo l’andamento della crescita e dell’efficienza fotosintetica di S. marinoi. Per meglio determinare la sensibilità di questa specie agli erbicidi, l’effetto della terbutilazina è stato valutato anche al variare della temperatura (15, 20 e 25°C). Infine, dal momento che gli organismi acquatici sono solitamente esposti a una miscela di composti, è stato valutato l’effetto sinergico di due erbicidi, entrambi somministrati a bassa concentrazione. Le colture di laboratorio esposte a concentrazioni crescenti di diversi erbicidi e, in un caso, anche a diverse temperature, indicano che l’erbicida al quale la microalga mostra maggiore sensibilità è la Terbutilazina. Infatti a parità di concentrazioni, la sensibilità della microalga alla Terbutilazina è risultata molto più alta rispetto al suo prodotto di degradazione, la Desetilterbutilazina e all’erbicida Metolachlor. Attraverso l’analisi di densità algale, di efficienza fotosintetica, di biovolume e di contenuto intracellulare di Carbonio e Clorofilla, è stato dimostrato l’effetto tossico dell’erbicida Terbutilazina che, agendo come inibitore del trasporto degli elettroni a livello del PS-II, manifesta la sua tossicità nell’inibizione della fotosintesi e di conseguenza sulla crescita e sulle proprietà biometriche delle microalghe. E’ stato visto come la temperatura sia un parametro ambientale fondamentale sulla crescita algale e anche sugli effetti tossici di Terbutilazina; la temperatura ideale per la crescita di S. marinoi è risultata essere 20°C. Crescendo a 15°C la microalga presenta un rallentamento nella crescita, una minore efficienza fotosintetica, variazione nei valori biometrici, mostrando al microscopio forme irregolari e di dimensioni inferiori rispetto alle microalghe cresciute alle temperature maggiori, ed infine incapacità di formare le tipiche congregazioni a catena. A 25° invece si sono rivelate difficoltà nell’acclimatazione: sembra che la microalga si debba abituare a questa alta temperatura ritardando così la divisione cellulare di qualche giorno rispetto agli esperimenti condotti a 15° e a 20°C. Gli effetti della terbutilazina sono stati maggiori per le alghe cresciute a 25°C che hanno mostrato un calo più evidente di efficienza fotosintetica effettiva e una diminuzione di carbonio e clorofilla all’aumentare delle concentrazioni di erbicida. Sono presenti in letteratura studi che attestano gli effetti tossici paragonabili dell’atrazina e del suo principale prodotto di degradazione, la deetilatrazina; nei nostri studi invece non sono stati evidenziati effetti tossici significativi del principale prodotto di degradazione della terbutilazina, la desetilterbutilazina. Si può ipotizzare quindi che la desetilterbutilazina perda la propria capacità di legarsi al sito di legame per il pastochinone (PQ) sulla proteina D1 all’interno del complesso del PSII, permettendo quindi il normale trasporto degli elettroni del PSII e la conseguente sintesi di NADPH e ATP e il ciclo di riduzione del carbonio. Il Metolachlor non evidenzia una tossicità severa come Terbutilazina nei confronti di S. marinoi, probabilmente a causa del suo diverso meccanismo d’azione. Infatti, a differenza degli enzimi triazinici, metolachlor agisce attraverso l’inibizione delle elongasi e del geranilgeranil pirofosfato ciclasi (GGPP). In letteratura sono riportati casi studio degli effetti inibitori di Metolachlor sulla sintesi degli acidi grassi e di conseguenza della divisione cellulare su specie fitoplanctoniche d’acqua dolce. Negli esperimenti da noi condotti sono stati evidenziati lievi effetti inibitori su S. marinoi che non sembrano aumentare all’aumentare della concentrazione dell’erbicida. E’ interessante notare come attraverso la valutazione della sola crescita non sia stato messo in evidenza alcun effetto mentre, tramite l’analisi dell’efficienza fotosintetica, si possa osservare che il metolachlor determina una inibizione della fotosintesi.

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Nel tentativo di rispondere alle esigenze valutate in seguito all’analisi del centro storico in base a differenti profili investigativi, si è formulato un programma di intervento con obiettivi e strategie codificate. In modo particolare viene privilegiata l’indagine effettuata a livello sociale sulla popolazione del centro storico, ambito di ricerca necessario per una buona premessa per un progetto che ha come oggetto l’abitare. Da queste considerazioni nasce l’idea del progetto dove il tema della residenza si inserisce in un contesto urbano in stretta relazione con il tessuto storico della città di Forlì. L’individuazione dell’area di progetto, situata in una posizione di confine tra due realtà differenti, il centro storico e la circonvallazione che lo racchiude, suggerisce la necessità di stabilire attraverso collegamenti perdonali e ciclabili fra l’area in esame e la periferia esterna una configurazione dinamica, dove il vuoto urbano che si presenta è lo scenario ideale per ristabilire una porta moderna alla città, ricomponendo la leggibilità tra la sfera naturale e quella insediativa. Alla scala urbana l’obiettivo è quello di stabilire il ruolo di centralità dell’area, nel suo insieme, restituendo ai fatti urbani della città le funzioni di interesse pubblico generale. La zona oggetto di discussione è un nodo urbano in cui coesistono manufatti di pregio architettonico e storico come quello della Filanda in oggetto e dell’Ex Complesso conventuale della Ripa, in grado di essere potenziali contenitori di funzioni pubbliche di alto livello, e aree verdi da riqualificare, con forte propensione all’uso pubblico, come gli Orti di via Curte. Sotto questo profilo deve essere valutata anche la tematica del rapporto con l’architettura antica, tenendo in considerazione l’effetto di impatto che i nuovi interventi avranno sull’esistente. È dunque il sito di progetto che detta le metodologie di approccio legate alla necessità di un intervento sostenibile e non invasivo. Partendo da queste considerazioni si sviluppano le tematiche legate alla flessibilità e alle sue coniugazioni. La società contemporanea che ci impone ogni giorno modelli di vita sempre nuovi e la necessità di movimento e trasformazione, ci mette di fronte più che mai al bisogno di progettare spazi non rigidi, ma aperti alle molteplici possibilità d’uso e ai cambiamenti nel tempo. La flessibilità viene dunque concepita in relazione ai concetti di complessità e sostenibilità. Se da una parte è necessario riconoscere la molteplicità dei modi d’uso con i quali l’oggetto dovrà confrontarsi ed assumere il carattere aleatorio di qualsiasi previsione relativa ai modelli di comportamento dell’utenza, dall’altra occorre cogliere all’interno del progetto della residenza flessibile la possibilità di pervenire a un costruire capace di riconfigurarsi di volta in volta, adattandosi alle differenti condizioni d’uso, senza dover procedere a drastiche modifiche che impongono la dismissione di materiali e componenti. Il sistema della stratificazione a secco può essere quello che attualmente meglio risponde, per qualità ed economicità, ai concetti della biologia dell’abitare e della casa intelligente, nozioni che acquisiscono sempre più importanza all’interno di una nuova concezione della progettazione. Si sceglie dunque di riportare la Filanda, quanto possibile, alla riconfigurazione originaria, prima che la corte interna fosse completamente saturata di depositi e magazzini come ci si presenta oggi e di concepire una nuova configurazione di quello che diventa un isolato urbano integrato nel tessuto storico, e nodo strutturante per un’area più vasta. Lavorando sulla residenza occorre mettere in primo piano il protagonista dell’architettura che si va a progettare: l’uomo. Per questo la scala urbana e la dimensione umana devono essere concepite parallelamente e la progettazione della cellula di base che si struttura secondo le modalità premesse di flessibilità e sostenibilità si sovrappone all’obiettivo di individuare all’interno del vuoto urbano, una nuova densità, dove il dialogo tra pubblico e privato sia il presupposto per lo sviluppo di un piano integrato e dinamico.

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Cambiamenti di habitat in ambienti marini: uno studio sperimentale sulla perdita di foreste a Cystoseira barbata (Stackhouse) C. Agardh e sui popolamenti che le sostituiscono La presente tesi affronta il tema scientifico generale di come prevedere e mitigare la perdita di habitat marini naturali causata dalle attività umane. La tesi si è focalizzata sugli habitat subtidali a “canopy” formati da macroalghe brune a tallo eretto dell’ordine Fucales, che per morfologia, ruolo ed importanza ecologica possono essere paragonate alle “foreste” in ambienti terrestri temperati. Questi sistemi sono tra i più produttivi in ambienti marini, e sono coinvolti in importanti processi ecologici, offrendo cibo, protezione, riparo ed ancoraggio a diverse altre specie animali e vegetali, modificando i gradienti naturali di luce, sedimentazione e idrodinamismo, e partecipando al ciclo dei nutrienti. Sulle coste temperate di tutto il mondo, le foreste di macroalghe a canopy sono in forte regressione su scala locale, regionale e globale. Questo fenomeno, che sta accelerando a un ritmo sempre più allarmante, sta sollevando interesse e preoccupazione. Infatti, data la loro importanza, la perdita di questi habitat può avere importanti conseguenze ecologiche ed economiche, tra cui anche il possibile declino della pesca che è stato osservato in alcune aree in seguito alla conseguente riduzione della produttività complessiva dei sistemi marini costieri. Nel Mar Mediterraneo questi tipi di habitat sono originati prevalentemente da alghe appartenenti al genere Cystoseira, che sono segnalate in forte regressione in molte regioni. Gli habitat a Cystoseira che ancora persistono continuano ad essere minacciati da una sineregia di impatti antropici, ed i benefici complessivi delle misure di protezione fin ora attuate sono relativamente scarsi. Scopo della presente tesi era quello di documentare la perdita di habitat a Cystoseira (prevalentemente Cystoseira barbata (Stackhouse) C. Agardh) lungo le coste del Monte Conero (Mar Adriatico centrale, Italia), e chiarire alcuni dei possibili meccanismi alla base di tale perdita. Studi precedentemente condotti nell’area di studio avevano evidenziato importanti cambiamenti nella composizione floristica e della distribuzione di habitat a Cystoseira in quest’area, e avevano suggerito che la scarsa capacità di recupero di questi sistemi potesse essere regolata da interazioni tra Cystoseira e le nuove specie dominanti sui substrati lasciati liberi dalla perdita di Cystoseira. Attraverso ripetute mappature dell’habitat condotte a partire da Luglio 2008 fino a Giugno 2010, ho documentato la perdita progressiva delle poche, e sempre più frammentate, patch di habitat originate da questa specie in due siti chiamati La Vela e Due Sorelle. Attraverso successivi esperimenti, ho poi evidenziato le interazioni ecologiche tra le specie dominanti coinvolte in questi cambiamenti di habitat, al fine di identificare possibili meccanismi di feedback che possano facilitare la persistenza di ciascun habitat o, viceversa, l’insediamento di habitat alternativi. La mappatura dell’habitat ha mostrato un chiaro declino della copertura, della densità e della dimensione degli habitat a Cystoseira (rappresentati soprattutto dalla specie C. barbata e occasionalmente C. compressa che però non è stata inclusa nei successivi esperimenti, d’ora in avanti per semplicità verrà utilizzato unicamente il termine Cystoseira per indicare questo habitat) durante il periodo di studio. Nel sito Due Sorelle le canopy a Cystoseira sono virtualmente scomparse, mentre a La Vela sono rimaste poche, sporadiche ed isolate chiazze di Cystoseira. Questi habitat a canopy sono stati sostituiti da nuovi habitat più semplici, tra cui soprattutto letti di mitili, feltri algali e stand monospecifici di Gracilaira spp.. La mappatura dell’habitat ha inoltre sottolineato una diminuzione del potenziale di recupero del sistema con un chiaro declino del reclutamento di Cystoseira durante tutto il periodo di studio. Successivamente ho testato se: 1) una volta perse, il recupero di Cystoseira (reclutamento) possa essere influenzato dalle interazioni con le nuove specie dominanti, quali mitili e feltri algali; 2) il reclutamento di mitili direttamente sulle fronde di Cystoseira (sia talli allo stadio adulto che giovanili) possa influenzare la sopravvivenza e la crescita della macroalga; 3) la sopravvivenza e la crescita delle nuove specie dominanti, in particolare mitili, possa essere rallentata dalla presenza di canopy di Cystoseira. I risultati dimostrano che le nuove specie dominanti insediatesi (feltri algali e mitili), possono inibire il reclutamento di Cystoseira, accelerandone il conseguente declino. L’effetto diretto dei mitili sulle fronde non è risultato particolarmente significativo né per la sopravvivenza di Cystoseira che finora non è risultata preclusa in nessun stadio di sviluppo, né per la crescita, che nel caso di individui adulti è risultata leggermente, ma non significativamente, più elevata per le fronde pulite dai mitili, mentre è stato osservato il contrario per i giovanili. La presenza di canopy a Cystoseira, anche se di piccole dimensioni, ha limitato la sopravvivenza di mitili. Questi risultati complessivamente suggeriscono che una foresta di macroalghe in buone condizioni può avere un meccanismo di autoregolazione in grado di facilitare la propria persistenza. Quando però il sistema inizia a degradarsi e a frammentarsi progressivamente, i cambiamenti delle condizioni biotiche determinati dall’aumento di nuove specie dominanti contribuiscono alla mancanza di capacità di recupero del sistema. Pertanto le strategie per una gestione sostenibile di questi sistemi dovrebbero focalizzarsi sui primi segnali di cambiamenti in questo habitat e sui possibili fattori che ne mantengono la resilienza.

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Le aree costiere hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, sociale e politico della maggior parte dei paesi; esse supportano infatti diversi ecosistemi produttivi che rendono disponibili beni e servizi. L'importanza economica delle aree costiere è destinata a una considerevole crescita a causa del costante aumento delle popolazioni, delle industrie e delle attività  ricreazionali che si concentrano sempre di più sulle coste e ciò può provocare un'alterazione delle linee di costa, imputabile a più fattori e un deterioramento delle condizioni naturali. E' necessario anche tenere da conto dei processi erosivi, sia imputabili a cause naturali (correnti oceaniche, movimenti di marea; azione del vento) sia a cause antropiche (subsidenza del terreno indotta dall'uomo, dragaggio al largo, riduzione del rifornimento di sedimento dai fiumi, distruzione di letti algali, paludi e dune sabbiose). A questo panorama va poi aggiunto il problema dell'innalzamento del livello del mare e dell'aumento delle frequenze di tempeste, come conseguenza del cambiamento climatico globale. In questo contesto quindi, le strutture rigide di difesa contro l'erosione e le mareggiate sono diventate molto comuni nelle aree costiere, coinvolgendo in alcune regioni più della metà della linea di costa. Il meccanismo di difesa attuato dalle barriere consiste nel provocare una riduzione dell'energia delle onde e conseguentemente in una limitazione della quantità di sedimento che viene da loro rimosso dalla spiaggia. La presenza di strutture rigide di difesa generalmente comporta una perdita di habitat di fondale molle e, a causa delle variazioni idrodinamiche che la loro presenza comporta, anche delle comunità ad esso associate, sia su scala locale, che su scala regionale. Uno dei problemi che tali strutture possono indurre è l'eccessiva deposizione di detrito prodotto dalle specie che si insediano sul substrato duro artificiale, che normalmente non fanno parte delle comunità "naturali" di fondo molle circostanti le strutture. Lo scopo di questo studio è stato quello di cercare di evidenziare gli effetti che la deposizione di tale detrito potesse avere sulle comunita meiobentoniche di fondale molle. A tale fine è stata campionata un'area antistante la località di Lido di Dante (RA), la quale è protetta dal 1996 da una struttura artificiale, per fronteggiare il problema dell'erosione della zona, in aumento negli ultimi decenni. La struttura è costituita da una barriera semisoffolta e tre pennelli, di cui uno completamente collegato alla barriera. A circa 50 m dalla barriera, e alla profondità di 4 m circa, è stato allestito un esperimento manipolativo in cui è stato valutato l'effetto della deposizione delle due specie dominanti colonizzanti la barriera, Ulva sp. e Mitili sp. sull'ambiente bentonico, e in particolare sulla comunità  di meiofauna. Ulva e Mitili sono stati posti in sacche di rete che sono state depositate sul fondo al fine di simulare la deposizione naturale di detrito, e tali sacche hanno costituito i trattamenti dell'esperimento, i quali sono stati confrontati con un Controllo, costituito da sedimento non manipolato, e un Controllo Procedurale, costituito da una sacca vuota. Il campionamento è stato fatto in tre occasioni nel giugno 2009 (dopo 2 giorni, dopo 7 giorni e dopo 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento) per seguire la dinamica temporale degli effetti del detrito. Per ogni combinazione tempo/trattamento sono state prelevate 4 repliche, per un totale di 48 campioni. Successivamente sono stati prelevati ulteriori campioni di meiofauna in condizioni naturali. In particolare sono stati raccolti in due Posizioni diverse, all'Interno e all'Esterno del pennello posto più a Sud, e su due substrati differenti, rispettivamente Ulva proveniente dalle barriere e sedimento privo di detrito. Per ogni combinazione Posizione/Substrato sono state prelevate 3 repliche, ottenendo un totale di 12 campioni. Tutti i campioni prelevati sono stati poi trattati in laboratorio tramite la procedura di filtratura, pulizia e centrifuga indicata dal protocollo. A questa fase è seguito il sorting al microscopio, durante il quale la meiofauna è stata identificata ed enumerata a livello di taxa maggiori. Per quanto riguarda il taxon più abbondante, quello dei Nematodi, si è proceduto anche all'analisi della distribuzione della biomassa per classi di taglia, in quanto descrittore funzionale delle comunità. Per la costruzione degli spettri di biomassa per classi di taglia sono state misurate la lunghezza e larghezza dei primi 100 Nematodi presenti nei campioni. A partire da tali valori dimensionali è stata calcolata la biomassa di ogni individuo, usata poi per la costruzione dei size spectra, tramite tre metodiche messe a confronto: "Nematode Biomass Spectra" (NBS), "Normalised Nematode Biomass Spectra"(NNBS), "Mean Cumulative Biomass Spectra" (MC-NBS). Successivamente la composizione e la struttura della comunità meiobentonica, in termini di consistenza numerica e di rapporti reciproci di densità degli organismi che la compongono e variabili dimensionali, sono state analizzate mediante tecniche di analisi univariate e multivariate. Ciò che emerge generalmente dai risultati dell'esperimento è la mancanza di interazione significativa tra i due fattori, tempi e trattamenti, mentre sono risultati significativi i due fattori principali, considerati singolarmente. Tali esiti sono probabilmente imputabili all'elevata variabilità fra campioni dei trattamenti e delle patches di controllo. Nonostante ciò l'analisi dei risultati ottenuti permette di effettuare alcune considerazioni interessanti. L'analisi univariata ha mostrato che nel confronto tra trattamenti non ci sono differenze significative nel numero medio di taxa rinvenuti, mentre il livello di diversità e di equidistribuzione degli individui nei taxa differisce in maniera significativa, indicando che la struttura delle comunità varia in funzione dei trattamenti e non in funzione del tempo. Nel trattamento Ulva si osservano le densità più elevate della meiofauna totale imputabile prevalentemente alla densità dei Nematodi. Tuttavia, i valori di diversità e di equiripartizione non sono risultati più elevati nei campioni di Ulva, bensì in quelli di Mitili. Tale differenza potrebbe essere imputabile all'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni di Mitili. Questo andamento è stato giustificato dai differenti tempi di degradazione di Mitili e Ulva posti nelle sacche durante l'esperimento, dai quali emerge una più rapida degradazione di Ulva; inoltre la dimensione ridotta della patch analizzata, i limitati tempi di permanenza fanno sì che l'Ulva non rappresenti un fattore di disturbo per la comunità analizzata. Basandosi su questo concetto risulta dunque difficile spiegare l'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni del trattamento Mitili, in quanto i tempi di degradazione durante l'esperimento sono risultati più lenti, ma è anche vero che è nota l'elevata resistenza dei Nematodi ai fenomeni di ipossia/anossia creata da fenomeni di arricchimento organico. E' possibile però ipotizzare che la presenza delle valve dei Mitili aumenti la complessità dell'habitat e favorisca la colonizzazione da parte di più specie, tra cui specie predatrici. Tale effetto di predazione potrebbe provocare la riduzione dell'abbondanza media dei Nematodi rispetto a Ulva e al Controllo, in quanto i Nematodi costituiscono circa l'85% della meiofauna totale rinvenuta nei campioni. A tale riduzione numerica, però, non corrisponde un decremento dei valori medi di biomassa rilevati, probabilmente a causa del fatto che l'arricchimento organico dovuto ai Mitili stessi favorisca la permanenza degli individui più facilmente adattabili a tali condizioni e di dimensioni maggiori, oppure, la colonizzazione in tempi successivi delle patches a Mitili da parte di individui più grandi. Anche i risultati dell'analisi multivariata sono in accordo con quanto rilevato dall'analisi univariata. Oltre alle differenze tra tempi si evidenzia anche un'evoluzione della comunità nel tempo, in particolar modo dopo 7 giorni dall'allestimento dell'esperimento, quando si registrano il maggior numero di individui meiobentonici e il maggior numero di taxa presenti. Il taxon che ha risentito maggiormente dell'influenza dei tempi è quello degli Anfipodi, con densità maggiori nei campioni prelevati al secondo tempo e sul trattamento Ulva. E'importante considerare questo aspetto in quanto gli Anfipodi sono animali che comprendono alcune specie detritivore e altre carnivore; le loro abitudini detritivore potrebbero quindi aumentare il consumo e la degradazione di Ulva, spiegando anche la loro abbondanza maggiore all'interno di questo trattamento, mentre le specie carnivore potrebbero concorrere al decremento del numero medio di Nematodi nei Mitili. Un risultato inatteso della sperimentazione riguarda l'assenza di differenze significative tra trattamenti e controlli, come invece era lecito aspettarsi. Risultati maggiormente significativi sono emersi dall'analisi del confronto tra sedimento privo di detrito e sedimento contenente Ulva provenienti dal contesto naturale. Relativamente all'area esterna alla barriera, sono stati confrontati sedimento privo di detrito e quello sottostante l'Ulva, nelle condizioni sperimentali e naturali. Globalmente notiamo che all'esterno della barriera gli indici univariati, le densità totali di meiofauna, di Nematodi e il numero di taxa, si comportano in maniera analoga nelle condizioni sperimentali e naturali, riportando valori medi maggiori nei campioni prelevati sotto l'Ulva, rispetto a quelli del sedimento privo di detrito. Differente appare invece l'andamento delle variabili e degli indici suddetti riguardanti i campioni prelevati nell'area racchiusa all'interno della barriera, dove invece i valori medi maggiori si rilevano nei campioni prelevati nel sedimento privo di detrito. Tali risultati possono essere spiegati dall'alterazione dell'idrodinamismo esercitato dalla barriera, il quale provoca maggiori tempi di residenza del detrito con conseguente arricchimento di materia organica nell'area interna alla barriera. Le comunità dei sedimenti di quest'area saranno quindi adattate a tale condizioni, ma la deposizione di Ulva in un contesto simile può aggravare la situazione comportando la riduzione delle abbondanze medie dei Nematodi e degli altri organismi meiobentonici sopracitata. Per quel che riguarda i size spectra la tecnica che illustra i risultati in maniera più evidente è quella dei Nematode Biomass Spectra. I risultati statistici fornitici dai campioni dell'esperimento, non evidenziano effetti significativi dei trattamenti, ma a livello visivo, l'osservazione dei grafici evidenzia valori medi di biomassa maggiori nei Nematodi rilevati sui Mitili rispetto a quelli rilevati su Ulva. Differenze significative si rilevano invece a livello dei tempi: a 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento infatti, le biomasse dei Nematodi misurati sono più elevate. Relativamente invece ai size spectra costruiti per l'ambiente naturale, mostrano andamento e forma completamente diversi e con differenze significative tra l'interno e l'esterno della barriera; sembra infatti che la biomassa nella zona interna sia inibita, portando a densità maggiori di Nematodi, ma di dimensioni minori. All'esterno della barriera troviamo invece una situazione differente tra i due substrati. Nel sedimento prelevato sotto l'Ulva sembra infatti che siano prevalenti le classi dimensionali maggiori, probabilmente a causa del fatto che l'Ulva tende a soffocare le specie detritivore, permettendo la sopravvivenza delle specie più grosse, composte da predatori poco specializzati, i quali si cibano degli organismi presenti sull'Ulva stessa. Nel sedimento privo di detrito, invece, la distribuzione all'interno delle classi segue un andamento completamente diverso, mostrando una forma del size spectra più regolare. In base a questo si può ipotizzare che la risposta a questo andamento sia da relazionarsi alla capacità di movimento dei Nematodi: a causa della loro conformazione muscolare i Nematodi interstiziali di dimensioni minori sono facilitati nel movimento in un substrato con spazi interstiziali ridotti, come sono nel sedimento sabbioso, invece Nematodi di dimensioni maggiori sono più facilitati in sedimenti con spazi interstiziali maggiori, come l'Ulva. Globalmente si evidenzia una risposta della comunità  bentonica all'incremento di detrito proveniente dalla struttura rigida artificiale, ma la risposta dipende dal tipo di detrito e dai tempi di residenza del detrito stesso, a loro volta influenzati dal livello di alterazione del regime idrodinamico che la struttura comporta. Si evince inoltre come dal punto di vista metodologico, le analisi univariate, multivariate e dei size spectra riescano a porre l'accento su diverse caratteristiche strutturali e funzionali della comunità. Rimane comunque il fatto che nonostante la comunità scientifica stia studiando metodiche "taxonomic free" emerge che, se da un lato queste possono risultare utili, dall'altro, per meglio comprendere l'evoluzione di comunità, è necessaria un'analisi più specifica che punti all'identificazione almeno delle principali famiglie. E'importante infine considerare che l'effetto riscontrato in questo studio potrebbe diventare particolarmente significativo nel momento in cui venisse esteso alle centinaia di km di strutture artificiali che caratterizzano ormai la maggior parte delle coste, la cui gestione dovrebbe tenere conto non soltanto delle esigenze economico-turistiche, e non dovrebbe prescindere dalla conoscenza del contesto ambientale in cui si inseriscono, in quanto, affiancati a conseguenze generali di tali costruzioni, si incontrano molti effetti sitospecifici.

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Vengono presentate correzioni agli sviluppi asintotici di Edgeworth per densità di somme di variabili aleatorie stabili. Queste stime sono successivamente implementate in Matlab, con particolare attenzioni agli approssimanti in forma razionale di Padè. Nell'Appendice viene poi fornita la distribuzione di zeri degli approssimanti di Padè per la funzione esponenziale.

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Fenomeni di trasporto ed elettrostatici in membrane da Nanofiltrazione La capacità di predire le prestazioni delle membrane da nanofiltrazione è molto importante per il progetto e la gestione di processi di separazione a membrana. Tali prestazioni sono strettamente legate ai fenomeni di trasporto che regolano il moto dei soluti all’interno della matrice della membrana. Risulta, quindi, di rilevante importanza la conoscenza e lo studio di questi fenomeni; l’obiettivo finale è quello di mettere a punto modelli di trasporto appropriati che meglio descrivano il flusso dei soluti all’interno della membrana. A fianco dei modelli di trasporto ricopre, quindi, una importanza non secondaria la caratterizzazione dei parametri aggiustabili propri della membrana sulla quale si opera. La procedura di caratterizzazione di membrane deve chiarire le modalità di svolgimento delle prove sperimentali e le finalità che esse dovrebbero conseguire. Tuttavia, nonostante i miglioramenti concernenti la modellazione del trasporto di ioni in membrana ottenuti dalla ricerca negli ultimi anni, si è ancora lontani dall’avere a disposizione un modello univoco in grado di descrivere i fenomeni coinvolti in maniera chiara. Oltretutto, la palese incapacità del modello di non riuscire a prevedere gli andamenti sperimentali di reiezione nella gran parte dei casi relativi a miscele multicomponenti e le difficoltà legate alla convergenza numerica degli algoritmi risolutivi hanno fortemente limitato gli sviluppi del processo anche e soprattutto in termini applicativi. Non da ultimo, si avverte la necessità di poter prevedere ed interpretare l’andamento della carica di membrana al variare delle condizioni operative attraverso lo sviluppo di un modello matematico in grado di descrivere correttamente il meccanismo di formazione della carica. Nel caso di soluzioni elettrolitiche, infatti, è stato riconosciuto che la formazione della carica superficiale è tra i fattori che maggiormente caratterizzano le proprietà di separazione delle membrane. Essa gioca un ruolo importante nei processi di trasporto ed influenza la sua selettività nella separazione di molecole caricate; infatti la carica di membrana interagisce elettrostaticamente con gli ioni ed influenza l’efficienza di separazione degli stessi attraverso la partizione degli elettroliti dalla soluzione esterna all’interno dei pori del materiale. In sostanza, la carica delle membrane da NF è indotta dalle caratteristiche acide delle soluzioni elettrolitiche poste in contatto con la membrana stessa, nonché dal tipo e dalla concentrazione delle specie ioniche. Nello svolgimento di questo lavoro sono stati analizzati i principali fenomeni di trasporto ed elettrostatici coinvolti nel processo di nanofiltrazione, in particolare si è focalizzata l’attenzione sugli aspetti relativi alla loro modellazione matematica. La prima parte della tesi è dedicata con la presentazione del problema generale del trasporto di soluti all’interno di membrane da nanofiltrazione con riferimento alle equazioni alla base del modello DSP&DE, che rappresenta una razionalizzazione dei modelli esistenti sviluppati a partire dal modello DSPM, nel quale sono stati integrarti i fenomeni di esclusione dielettrica, per quanto riguarda la separazione di elettroliti nella filtrazione di soluzioni acquose in processi di Nanofiltrazione. Il modello DSP&DE, una volta definita la tipologia di elettroliti presenti nella soluzione alimentata e la loro concentrazione, viene completamente definito da tre parametri aggiustabili, strettamente riconducibili alle proprietà della singola membrana: il raggio medio dei pori all’interno della matrice, lo spessore effettivo e la densità di carica di membrana; in più può essere considerato un ulteriore parametro aggiustabile del modello il valore che la costante dielettrica del solvente assume quando confinato in pori di ridotte dimensioni. L’impostazione generale del modello DSP&DE, prevede la presentazione dei fenomeni di trasporto all’interno della membrana, descritti attraverso l’equazione di Nerst-Planck, e lo studio della ripartizione a ridosso dell’interfaccia membrana/soluzione esterna, che tiene in conto di diversi contributi: l’impedimento sterico, la non idealità della soluzione, l’effetto Donnan e l’esclusione dielettrica. Il capitolo si chiude con la presentazione di una procedura consigliata per la determinazione dei parametri aggiustabili del modello di trasporto. Il lavoro prosegue con una serie di applicazioni del modello a dati sperimentali ottenuti dalla caratterizzazione di membrane organiche CSM NE70 nel caso di soluzioni contenenti elettroliti. In particolare il modello viene applicato quale strumento atto ad ottenere informazioni utili per lo studio dei fenomeni coinvolti nel meccanismo di formazione della carica; dall’elaborazione dei dati sperimentali di reiezione in funzione del flusso è possibile ottenere dei valori di carica di membrana, assunta quale parametro aggiustabile del modello. che permettono di analizzare con affidabilità gli andamenti qualitativi ottenuti per la carica volumetrica di membrana al variare della concentrazione di sale nella corrente in alimentazione, del tipo di elettrolita studiato e del pH della soluzione. La seconda parte della tesi relativa allo studio ed alla modellazione del meccanismo di formazione della carica. Il punto di partenza di questo studio è rappresentato dai valori di carica ottenuti dall’elaborazione dei dati sperimentali di reiezione con il modello di trasporto, e tali valori verranno considerati quali valori “sperimentali” di riferimento con i quali confrontare i risultati ottenuti. Nella sezione di riferimento è contenuta la presentazione del modello teorico “adsorption-amphoteric” sviluppato al fine di descrivere ed interpretare i diversi comportamenti sperimentali ottenuti per la carica di membrana al variare delle condizioni operative. Nel modello la membrana è schematizzata come un insieme di siti attivi di due specie: il gruppo di siti idrofobici e quello de siti idrofilici, in grado di supportare le cariche derivanti da differenti meccanismi chimici e fisici. I principali fenomeni presi in considerazione nel determinare la carica volumetrica di membrana sono: i) la dissociazione acido/base dei siti idrofilici; ii) il site-binding dei contro-ioni sui siti idrofilici dissociati; iii) l’adsorbimento competitivo degli ioni in soluzione sui gruppi funzionali idrofobici. La struttura del modello è del tutto generale ed è in grado di mettere in evidenza quali sono i fenomeni rilevanti che intervengono nel determinare la carica di membrana; per questo motivo il modello permette di indagare il contributo di ciascun meccanismo considerato, in funzione delle condizioni operative. L’applicazione ai valori di carica disponibili per membrane Desal 5-DK nel caso di soluzioni contenenti singoli elettroliti, in particolare NaCl e CaCl2 permette di mettere in evidenza due aspetti fondamentali del modello: in primis la sua capacità di descrivere andamenti molto diversi tra loro per la carica di membrana facendo riferimento agli stessi tre semplici meccanismi, dall’altra parte permette di studiare l’effetto di ciascun meccanismo sull’andamento della carica totale di membrana e il suo peso relativo. Infine vengono verificate le previsioni ottenute con il modello dal suddetto studio attraverso il confronto con dati sperimentali di carica ottenuti dall’elaborazione dei dati sperimentali di reiezione disponibili per il caso di membrane CSM NE70. Tale confronto ha messo in evidenza le buone capacità previsionali del modello soprattutto nel caso di elettroliti non simmetrici quali CaCl2 e Na2SO4. In particolare nel caso un cui lo ione divalente rappresenta il contro-ione rispetto alla carica propria di membrana, la carica di membrana è caratterizzata da un andamento unimodale (contraddistinto da un estremante) con la concentrazione di sale in alimentazione. Il lavoro viene concluso con l’estensione del modello ADS-AMF al caso di soluzioni multicomponenti: è presentata una regola di mescolamento che permette di ottenere la carica per le soluzioni elettrolitiche multicomponenti a partire dai valori disponibili per i singoli ioni componenti la miscela.

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Lo studio riportato in questa tesi ha come scopo l’osservazione e la comprensione dei processi molecolari associati alla deposizione di CaCO3 nei polimorfi di calcite e aragonite nel mollusco gasteropode Haliotis rufescens. In particolare l’attenzione si è focalizzata sullo strato glicoproteico (green layer) che si trova inserito all’interno dell’ipostraco o strato madreperlaceo. Studi precedenti suggeriscono l’ipotesi che il green layer sia una struttura polifunzionale che svolge un ruolo attivo nell’induzione di crescita dei cristalli di carbonato di calcio nella conchiglia. All’analisi microscopica il green layer si presenta come un foglietto trilaminato. Sugli strati esterni è depositata aragonite nella forma prismatica da una parte e sferulitica dall’altra. All’interno è racchiuso un core proteico, formato da glicoproteine e ricco di chitina. Questa struttura tripartita conferisce al guscio calcareo nuove proprietà meccaniche, come la resistenza alle fratture molto maggiore rispetto al minerale naturale. Il green layer è stato trattato in ambiente alcalino, l’unico in grado di solubilizzarlo. È stato ottenuto del materiale proteico che è stato caratterizzato utilizzando SDS-PAGE, colorato con Blu Comassie e all’argento per visualizzarne la componente peptidica. Il green layer è fluorescente, sono state quindi eseguite analisi spettroscopiche sull’estratto peptidico per determinarne le proprietà chimo fisiche (dipendenza dal pH dell’intensità di fluorescenza). Sono stati eseguiti esperimenti di crescita dei cristalli di CaCO3 in ambiente saturo di CaCl2 in assenza e presenza del peptide e in assenza e presenza di Mg++. I cristalli sono stati osservati al microscopio elettronico a scansione (SEM) e al microscopio confocale. Da un punto di vista spettroscopico si osserva che, eccitando l’estratto alcalino del green layer a 280 nm e 295 nm, lunghezze d’onda caratteristiche degli aminoacidi aromatici, si ottiene uno spettro di emissione che presenta una forte banda centrata a 440 nm e una spalla a circa 350 nm, quest’ultima da ascrivere all’emissione tipica di aminoacidi aromatici. L’emissione di fluorescenza dell’estratto dal green layer dipende dal pH per tutte le bande di emissione; tale effetto è particolarmente visibile per lo spettro di emissione a 440 nm, la cui lunghezza d’onda di emissione e l’intensità dipendono dalla ionizzazione di aminoacidi acidi (pKa = 4) e dell’istidina (pKa = 6.5 L’emissione a 440 nm proviene invece da un’eccitazione il cui massimo di eccitazione è centrato a 350 nm, tipica di una struttura policiclica aromatica. Poiché nessun colorante estrinseco viene isolato dalla matrice del green layer a seguito dei vari trattamenti, tale emissione potrebbe derivare da una modificazione posttraduzionale di aminoacidi le cui proprietà spettrali suggeriscono la formazione di un prodotto di dimerizzazione della tirosina: la ditirosina. Questa struttura potrebbe essere la causa del cross-link che rende resistente il green layer alla degradazione da parte di agenti chimici ed enzimatici. La formazione di ditirosina come fenomeno post-traduzionale è stato recentemente acquisito come un fenomeno di origine perossidativa attraverso la formazione di un radicale Tyr ed è stato osservato anche in altri organismi caratterizzati da esoscheletro di tipo chitinoso, come gli insetti del genere Manduca sexta. Gli esperimenti di cristallizzazione in presenza di estratto di green layer ne hanno provato l’influenza sulla nucleazione dei cristalli. In presenza di CaCl2 avviene la precipitazione di CaCO3 nella fase calcitica, ma la conformazione romboedrica tipica della calcite viene modificata dalla presenza del peptide. Inoltre aumenta la densità dei cristalli che si aggregano a formare strutture sferiche di cristalli incastrati tra loro. Aumentando la concentrazione di peptide, le sfere a loro volta si uniscono tra loro a formare strutture geometriche sovrapposte. In presenza di Mg++, la deposizione di CaCO3 avviene in forma aragonitica. Anche in questo caso la morfologia e la densità dei cristalli dipendono dalla concentrazione dello ione e dalla presenza del peptide. È interessante osservare che, in tutti i casi nei quali si sono ottenute strutture cristalline in presenza dell’estratto alcalino del green layer, i cristalli sono fluorescenti, a significare che il peptide è incluso nella struttura cristallina e ne induce la modificazione strutturale come discusso in precedenza. Si osserva inoltre che le proprietà spettroscopiche del peptide in cristallo ed in soluzione sono molto diverse. In cristallo non si ha assorbimento alla più corta delle lunghezze d’onda disponibili in microscopia confocale (405 nm) bensì a 488 nm, con emissione estesa addirittura sino al rosso. Questa è un’indicazione, anche se preliminare, del fatto che la sua struttura in soluzione e in cristallo è diversa da quella in soluzione. In soluzione, per un peptide il cui peso molecolare è stimato tra 3500D (cut-off della membrana da dialisi) e 6500 D, la struttura è, presumibilmente, totalmente random-coil. In cristallo, attraverso l’interazione con gli ioni Ca++, Mg++ e CO3 -- la sua conformazione può cambiare portando, per esempio, ad una sovrapposizione delle strutture aromatiche, in modo da formare sistemi coniugati non covalenti (ring stacking) in grado di assorbire ed emettere luce ad energia più bassa (red shift).

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Prima di procedere con il progetto sono state fatte sezioni storiche dell’area, in epoche indicative, per comprendere quelle che sono le invarianti e le caratteristiche di tale tessuto. Da qui si è dedotto lo schema generatore dell’insediamento che parte dall’identificazione degli assi viari (pedonali e carrabili) già presenti nell’area, che fanno diretto riferimento allo schema cardo-decumanico generatore dell’impianto angioino della città. Con il tracciamento si individuano gli isolati base, che con variazioni formali e tipologiche hanno originato gli edifici di progetto. I corpi di fabbrica generatori della planimetria, dialogano e rimangono a stretto contatto con i pochi edifici agibili, per i quali sono previsti consolidamenti e ristrutturazioni, qualora necessari. Inevitabile è stato il confronto con l’orografia, prestando particolare attenzione a non annullare con l’inserimento degli edifici il dislivello presente, ma lasciarlo percepire chiaramente: l’attacco a terra di ogni edificio avviene gradualmente, passando dai due piani fuori terra a monte ai tre, quattro a valle. Ovviamente non tutti gli assi sono stati trattati allo stesso modo, ma conseguentemente alla loro funzione e carattere di utilizzo. Analizzando la struttura viaria dell’intera area, si presentano schematicamente due anelli di circonvallazione del centro urbano: uno più esterno, di più recente costruzione, rappresentato da via XX Settembre, e uno più vecchio, che rimane rasente al centro storico, costituito dal viale Duca Degli Abruzzi, che prosegue in viale Giovanni XXIII e termina nel viadotto Belvedere. Quest’ultimo asse rappresenta sicuramente un importante collegamento cittadino, sia per la vicinanza al centro, sia per le porzioni di città messe in comunicazione; nonostante ciò il viadotto ha subito, all’altezza di viale Nicolò Persichetti, uno smottamento dopo il 6 aprile, ed essendo un elemento di scarso valore architettonico e spaziale, la sua presenza è stata ripensata. Compiendo una deviazione su via XX Settembre al termine di viale Duca Degli Abruzzi, che va a sfruttare la già presente via Fonte Preturo, non si va a rivoluzionante l’odierno assetto, che confluisce comunque, qualche centinaio di metri dopo, in via XX Settembre è si eliminano le connotazioni negative che il viadotto avrebbe sul rinnovato ingresso al centro storico. La vivibilità tende a favorire così collegamento e all’eterogeneità degli spazi più che la separazione fisica e psicologica: il concetto di città fa riferimento alla vita in comune; per favorirla è importante incentivare i luoghi di aggregazione, gli spazi aperti. Dalle testimonianze degli aquilani la vita cittadina vedeva il centro storico come principale luogo d’incontro sociale. Esso era animato dal numeroso “popolo” di studenti, che lo manteneva attivo e vitale. Per questo nelle intenzioni progettuali si pone l’accento su una visione attiva di città con un carattere unitario come sostiene Ungers3. La funzione di collegamento, che crea una struttura di luoghi complementari, può essere costituita dal sistema viario e da quello di piazze (luoghi sociali per eccellenza). Via Fontesecco ha la sua terminazione nell’omonima piazza: questo spazio urbano è sfruttato, nella conformazione attuale, come luogo di passaggio, piuttosto che di sosta, per questo motivo deve essere ricalibrato e messo in relazione ad un sistema più ampio di quello della sola via. In questo sistema di piazze rientra anche la volontà di mettere in relazione le emergenze architettoniche esistenti nell’area e nelle immediate vicinanze, quali la chiesa e convento dell’Addolorata, Palazzo Antonelli e la chiesa di San Domenico (che si attestano tutte su spazi aperti), e la chiesa di San Quinziano su via Buccio di Ranallo. In quest’ottica l’area d’intervento è intesa come appartenente al centro storico, parte del sistema grazie alla struttura di piazze, e allo stesso tempo come zona filtro tra centro e periferia. La struttura di piazze rende l’area complementare alla trama di pieni e vuoti già presente nel tessuto urbano cittadino; la densità pensata nel progetto, vi si accosta con continuità, creando un collegamento con l’esistente; allontanandosi dal centro e avvicinandosi quindi alle più recenti espansioni, il tessuto muta, concedendo più spazio ai vuoti urbani e al verde. Via Fontesecco, il percorso che delimita il lato sud dell’area, oltre ad essere individuata tra due fronti costruiti, è inclusa tra due quinte naturali: il colle dell’Addolorata (con le emergenze già citate) e il colle Belvedere sul quale s’innesta ora il viadotto. Questi due fronti naturali hanno caratteri molto diversi tra loro: il colle dell’Addolorata originariamente occupato da orti, ha un carattere urbano, mentre il secondo si presenta come una porzione di verde incolto e inutilizzato che può essere sfruttato come cerniera di collegamento verticale. Lo stesso declivio naturale del colle d’Addolorata che degrada verso viale Duca Degli Abruzzi, viene trattato nel progetto come una fascia verde di collegamento con il nuovo insediamento universitario. L’idea alla base del progetto dell’edilizia residenziale consiste nel ricostruire insediamenti che appartengano parte della città esistente; si tratta quindi, di una riscoperta del centro urbano e una proposta di maggior densità. Il tessuto esistente è integrato per ottenere isolati ben definiti, in modo da formare un sistema ben inserito nel contesto. Le case popolari su via Fontesecco hanno subito con il sisma notevoli danni, e dovendo essere demolite, hanno fornito l’occasione per ripensare all’assetto del fronte, in modo da integrarlo maggiormente con il tessuto urbano retrostante e antistante. Attualmente la conformazione degli edifici non permette un’integrazione ideale tra i percorsi di risalita pedonale al colle dell’Addolorata e la viabilità. Le scale terminano spesso nella parte retrostante gli edifici, senza sfociare direttamente su via Fontesecco. Si è quindi preferito frammentare il fronte, che rispecchiasse anche l’assetto originario, prima cioè dell’intervento fascista, e che consentisse comunque una percezione prospettica e tipologica unitaria, e un accesso alla grande corte retrostante. Il nuovo carattere di via Fontesecco, risultante dalle sezioni stradali e dalle destinazioni d’uso dei piani terra degli edifici progettuali, è quello di un asse commerciale e di servizio per il quartiere. L’intenzione, cercando di rafforzare l’area di progetto come nuovo possibile ingresso al centro storico, è quella di estendere l’asse commerciale fino a piazza Fontesecco, in modo da rendere tale spazio di aggregazione vitale: “I luoghi sono come monadi, come piccoli microcosmi, mondi autonomi, con tutte le loro caratteristiche, pregi e difetti, inseriti in un macrocosmo urbano più grande, che partendo da questi piccoli mondi compone una metropoli e un paesaggio”.4[...] Arretrando verso l’altura dell’Addolorata è inserita la grande corte del nuovo isolato residenziale, anch’essa con servizi (lavanderie, spazi gioco, palestra) ma con un carattere diverso, legato più agli edifici che si attestano sulla corte, anche per l’assenza di un accesso carrabile diretto; si crea così una gerarchia degli spazi urbani: pubblico sulla via e semi-pubblico nella corte pedonale. La piazza che domina l’intervento (piazza dell’Addolorata) è chiusa da un edificio lineare che funge da “quinta”, il centro civico. Molto flessibile, presenta al suo interno spazi espositivi e un auditorium a diretta disposizione del quartiere. Sempre sulla piazza sono presenti una caffetteria, accessibile anche dal parco, che regge un sistema di scale permettendo di attraversare il dislivello con la “fascia” verde del colle, e la nuova ala dell’Hotel “Duca degli Abruzzi”, ridimensionata rispetto all’originale (in parte distrutto dal terremoto), che si va a collegare in maniera organica all’edificio principale. Il sistema degli edifici pubblici è completo con la ricostruzione del distrutto “Istituto della Dottrina Cristiana”, adiacente alla chiesa di San Quinziano, che va a creare con essa un cortile di cui usufruiscono gli alunni di questa scuola materna ed elementare. Analizzando l’intorno, gran parte dell’abitato è definito da edifici a corte che, all’interno del tessuto compatto storico riescono a sopperire la mancanza di spazi aperti con corti, più o meno private, anche per consentire ai singoli alloggi una giusta illuminazione e areazione. Nel progetto si passa da due edifici a corti semi-private, chiusi in se stessi, a un sistema più grande e complesso che crea un ampio “cortile” urbano, in cui gli edifici che vi si affacciano (case a schiera e edifici in linea) vanno a caratterizzare gli spazi aperti. Vi è in questa differenziazione l’intenzione di favorire l’interazione tra le persone che abitano il luogo, il proposito di realizzare elementi di aggregazione più privati di una piazza pubblica e più pubblici di una corte privata. Le variazioni tipologiche degli alloggi poi, (dalla casa a schiera e i duplex, al monolocale nell’edilizia sociale) comportano un’altrettanta auspicabile mescolanza di utenti, di classi sociali, età e perché no, etnie diverse che permettano una flessibilità nell’utilizzo degli spazi pubblici.

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Il confronto in corso tra gli esperti di management sanitario sui dipartimenti ospedalieri, la crescente attenzione sui modelli di organizzazione a rete e le indagini sui servizi sanitari condotte con strumenti di analisi dei network hanno rappresentato la base su cui sviluppare il disegno dello studio. La prospettiva relazionale e le tecniche di social network analysis (Sna) sono state impiegate in un indagine empirica effettuata presso tre Dipartimenti Ospedalieri dell’Azienda USL di Bologna per osservare la struttura delle relazioni che intercorrono nell’ambito dei dipartimenti, tra le unità operative e tra i clinici, al fine di assicurare il quotidiano svolgersi dei processi clinico assistenziali dei pazienti. L’indagine si è posta tre obiettivi. Il primo è quello di confrontare la rete delle relazioni “reali” che intercorrono tra unità operative e tra clinici con le relazioni “progettate” attraverso l’afferenza delle unità operative nei dipartimenti e dei singoli clinici nelle unità operative. In sostanza si tratta di confrontare, con intenti esclusivamente conoscitivi, la struttura organizzativa formale – istituzionale con quella “informale”, che emerge dalle relazioni giornaliere tra i professionisti. In secondo luogo si intende comprendere se e come i fattori di natura attributiva che caratterizzano i singoli rispondenti, (es. età, sesso, laurea, anni di permanenza in azienda, ecc.) incidano sulla natura e sull’intensità delle relazioni e delle collaborazioni intrattenute con i colleghi all’interno dell’azienda. L’analisi ha un intento “esplicativo”, in quanto si cerca di indagare come le similitudini nelle caratteristiche individuali possano o meno incidere sull’intensità degli scambi e quindi delle collaborazioni tra professionisti. Il terzo obiettivo è volto a comprendere se e come i fattori attributivi e/o relazionali siamo in grado di spiegare l’attitudine mostrata dai singoli professionisti rispetto l’adozione di un approccio alla pratica clinica ispirato all’Evidence based medicine. Lo scopo è quello di verificare se la disponibilità / orientamento ad operare in una prospettiva evidence based sia più legata ad elementi e caratteristiche personali piuttosto che all’influenza esercitata da coloro con i quali si entra in contatto per motivi lavorativi. La relativa semplicità della fase di indagine ha indotto ad arricchire i contenuti e gli obiettivi originari del lavoro allo scopo di correlare indicatori relazionali e attributivi con indicatori di “performance”, in particolare di efficienza e appropriatezza. Le relazioni sono state rilevate attraverso un questionario sociometrico inserito in uno spazio web accessibile dalla rete ospedaliera e compilato online da parte dei medici. Il questionario è stato organizzato in tre sezioni: la prima per la raccolta di informazioni anagrafiche e dati attributivi dei clinici; la seconda volta a raccogliere i dati relazionali, funzionali e di consulenza, verso le equipe di professionisti (unità operative) e verso i singoli colleghi clinici; la terza sezione è dedicata alla raccolta di informazioni sull’utilizzo delle evidenze scientifiche a supporto della propria pratica clinica (consultazione di riviste, banche dati, rapporti di HTA, etc,) e sulla effettiva possibilità di accesso a tali strumenti. L’azienda ha fornito i dati di struttura e la base dati degli indicatori di attività delle UO arruolate nello studio. La compliance complessiva per i tre dipartimenti è stata pari a circa il 92% (302 rispondenti su un campione di 329 medici.). Non si sono rilevate differenze significative sulla compliance per i tre dipartimenti considerati. L’elaborazione dei dati è stata effettuata mediante specifici software per l’analisi delle reti sociali, UCINET 6 per il calcolo degli indicatori relazionali (centralità, densità, structural holes etc.), e Pajek per l’analisi grafica dei network. L’ultima fase è stata realizzata con l’ausilio del software statistico STATA vers. 10. L’analisi dei risultati è distinta in due 2 fasi principali. In primis è stato descritto il network di relazioni professionali rilevate, sono stai calcolati i relativi indicatori di centralità relazionale e verificato il grado di sovrapposizione tra struttura formale dei dipartimenti in studio con le relazioni informali che si stabiliscono tra di essi nell’ambito clinico. Successivamente è stato analizzato l’impatto che le relazioni esercitano sulla propensione da parte dei singoli medici a utilizzare nuove evidenze scientifiche I primi risultati emersi dallo studio forniscono interessanti evidenze, con particolare riguardo al dato di un discreto grado di “sovrapposizione” tra struttura formale e informale delle unità organizzative in studio e a correlazioni significative tra fattori relazionali e attitudine dei medici verso l’utilizzo dell’approccio EBM. Altre evidenze, in specie la correlazione tra “centralità” degli attori organizzativi e alcuni indicatori di performance /appropriatezza, meritano ulteriori approfondimenti e una definitiva validazione. In conclusione lo studio dimostra che la prospettiva relazionale e la Sna consentono di porre in evidenza caratteristiche dei dipartimenti, dei suoi attori e delle loro reti di reciproche relazioni, in grado di favorire la comprensione di alcune dinamiche ricercate proprio attraverso l’organizzazione dipartimentale e quindi di specifico interesse per il management, i clinici e quanti altri impegnati nella gestione e nello sviluppo di questo modello di organizzazione dell’ospedale.

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Da 25 anni la letteratura scientifica internazionale riporta studi su varie specie di microcrostacei copepodi ciclopoidi dei generi Macrocyclops, Megacyclops e Mesocyclops predatori di larve di 1a e 2a età di culicidi. Si tratta di prove di predazione in laboratorio e in pieno campo, in diverse aree del pianeta nessuna delle quali riguarda l’Italia o il resto d’Europa, contro principalmente Aedes aegypti (L.), Ae. albopictus (Skuse) e altre specie del genere Anopheles e Culex. L’allevamento massale di copepodi ciclopoidi appare praticabile e questo, assieme alle buone prestazioni predatorie, rende tali ausiliari candidati assai interessanti contro le due principali specie di zanzare, Culex pipiens L. e Ae. albpopictus, che nelle aree urbane e periurbane italiane riescono a sfruttare raccolte d’acqua artificiali di volume variabile e a regime idrico periodico o permanente. Pertanto lo scopo dello studio è stato quello di arrivare a selezionare una o più specie di copepodi candidati per la lotta biologica e valutarne la possibilità applicativa nell’ambito dei programmi di controllo delle zanzare nocive dell’ambiente urbano. L’argomento del tutto nuovo per il nostro paese, è stato sviluppato attraverso varie fasi ciascuna delle quali propedeutica a quella successiva. •Indagine faunistica nell’area di pianura e costiera sulle specie di ciclopoidi associate a varie tipologie di raccolte d’acqua naturali e artificiali (fossi, scoline, canali, risaie e pozze temporanee). I campionamenti sono stati condotti con l’obiettivo di ottenere le specie di maggiori dimensioni (≥1 mm) in ristagni con diverse caratteristiche in termini di qualità dell’acqua e complessità biocenotica. •Prove preliminari di predazione in laboratorio con alcune specie rinvenute negli ambienti campionati, nei confronti delle larve di Ae. albopictus e Cx. pipiens. Le prestazioni di predazione sono state testate sottoponendo ai copepodi larve giovani di zanzare provenienti da allevamento e calcolato il numero giornaliero di larve attaccate. •Implementazione di un allevamento pilota della specie valutata più interessante, Macrocyclops albidus (Jurine) (Cyclopoida, Cyclopidae, Eucyclopinae), per i risultati ottenuti in laboratorio in termini di numero di larve predate/giorno e per le caratteristiche biologiche confacenti agli ambienti potenzialmente adatti ai lanci. Questa parte della ricerca è stata guidata dalla finalità di mettere a punto una tecnica di allevamento in scala in modo da disporre di stock di copepodi dalla primavera, nonchè da criteri di economicità nell’impianto e nella sua gestione. •Prove di efficacia in condizioni di semicampo e di campo in raccolte d’acqua normalmente colonizzate dai culicidi in ambito urbano: bidoni per lo stoccaggio di acqua per l’irrigazione degli orti e tombini stradali. In questo caso l’obiettivo principale è stato quello di ottenere dati sull’efficienza del controllo di M. albidus nei confronti della popolazione culicidica selvatica e sulla capacità del copepode di colonizzare stabilmente tali tipologie di focolai larvali. Risultati e conclusioni Indagine faunistica e prove di predazione in laboratorio L’indagine faunistica condotta nell’area costiera ferrarese, in quella ravennate e della pianura bolognese ha portato al rinvenimento di varie specie di ciclopoidi mantenuti in laboratorio per la conduzione delle prove di predazione. Le specie testate sono state: Acanthocyclops robustus (G. O. Sars), Macrocyclops albidus (Jurine), Thermocyclops crassus (Fischer), Megacyclops gigas (Claus). La scelta delle specie da testare è stata basata sulla loro abbondanza e frequenza di ritrovamento nei campionamenti nonché sulle loro dimensioni. Ciascuna prova è stata condotta sottoponendo a un singolo copepode, oppure a gruppi di 3 e di 5 esemplari, 50 larve di 1a età all’interno di contenitori cilindrici in plastica con 40 ml di acqua di acquedotto declorata e una piccola quantità di cibo per le larve di zanzara. Ciascuna combinazione “copepode/i + larve di Ae. albopictus”, è stata replicata 3-4 volte, e confrontata con un testimone (50 larve di Ae. albopictus senza copepodi). A 24 e 48 ore sono state registrate le larve sopravvissute. Soltanto per M. albidus il test di predazione è stato condotto anche verso Cx. pipiens. Messa a punto della tecnica di allevamento La ricerca è proseguita concentrando l’interesse su M. albidus, che oltre ad aver mostrato la capacità di predare a 24 ore quasi 30 larve di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, dalla bibliografia risulta tollerare ampi valori di temperatura, di pH e alte concentrazioni di vari inquinanti. Dalla ricerca bibliografica è risultato che i ciclopoidi sono facilmente allevabili in contenitori di varia dimensione e foggia somministrando agli stadi di preadulto alghe unicellulari (Chlorella, Chilomonas), protozoi ciliati (Paramecium, Euplotes), rotiferi e cladoceri. Ciò presuppone colture e allevamenti in purezza di tali microrganismi mantenuti in parallelo, da utilizzare come inoculo e da aggiungere periodicamente nell’acqua di allevamento dei ciclopoidi. Nel caso di utilizzo di protozoi ciliati, occorre garantirne lo sviluppo che avviene a carico di flora batterica spontanea a sua volta cresciuta su di un substrato organico quale latte, cariossidi bollite di grano o soia, foglie di lattuga, paglia di riso bollita con cibo secco per pesci, lievito di birra. Per evitare il notevole impegno organizzativo e di manodopera nonché il rischio continuo di perdere la purezza della colonia degli organismi da utilizzare come cibo, le prove comparative di allevamento hanno portato ad un protocollo semplice ed sufficientemente efficiente in termini di copepodi ottenibili. Il sistema messo a punto si basa sull’utilizzo di una popolazione mista di ciliati e rotiferi, mantenuti nell'acqua di allevamento dei copepodi mediante la somministrazione periodica di cibo standard e pronto all’uso costituito da cibo secco per gatti. Prova di efficacia in bidoni da 220 l di capacità La predazione è stata studiata nel biennio 2007-2008 in bidoni da 220 l di capacità inoculati una sola volta in aprile 2007 con 100 e 500 esemplari di M. albidus/bidone e disposti all’aperto per la libera ovideposizione della popolazione culicidica selvatica. L’infestazione preimmaginale culicidica veniva campionata ogni due settimane fino ad ottobre, mediante un retino immanicato a maglia fitta e confrontata con quella dei bidoni testimone (senza copepodi). Nel 2007 il tasso di riduzione medio delle infestazioni di Ae. albopictus nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è del 99,90% e del 100,00% rispettivamente alle dosi iniziali di inoculo di 100 e 500 copepodi/bidone; per Cx. pipiens L. tale percentuale media è risultata di 88,69% e di 84,65%. Similmente, nel 2008 si è osservato ad entrambe le dosi iniziali di inoculo una riduzione di Ae. albopictus del 100,00% e di Cx. pipiens del 73,3%. La dose di inoculo di 100 copepodi per contenitore è risultata sufficiente a garantire un rapido incremento numerico della popolazione che ha raggiunto la massima densità in agosto-settembre e un eccellente controllo delle popolazioni di Ae. albopictus. Prova di efficacia in campo in serbatoi per l’acqua irrigua degli orti La prova è stata condotta a partire dalla metà di agosto 2008 interessando 15 serbatoi di varia foggia e capacità, variabile tra 200 e 600 l, utilizzati per stoccare acqua orti famigliari nel comune di Crevalcore (BO). Ai proprietari dei serbatoi era chiesto di gestire il prelievo dell’acqua e i rifornimenti come da abitudine con l’unica raccomandazione di non svuotarli mai completamente. In 8 contenitori sono stati immessi 100 esemplari di M.albidus e una compressa larvicida a base di Bacillus thuringiensis var. israelensis (B.t.i.); nei restanti 7 è stata soltanto immessa la compressa di B.t.i.. Il campionamento larvale è stato settimanale fino agli inizi di ottobre. Dopo l’introduzione in tutti i serbatoi sono stati ritrovati esemplari di copepodi, nonostante il volume di acqua misurato settimanalmente sia variato da pochi litri, in qualche bidone, fino a valori della massima capacità, per effetto del prelievo e dell’apporto dell’acqua da parte dei gestori degli orti. In post-trattamento sono state osservate differenze significative tra le densità larvali nelle due tesi solo al 22 settembre per Ae.albopictus Tuttavia in termini percentuali la riduzione media di larve di 3a-4a età e pupe nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è stata de 95,86% per Ae. albopictus e del 73,30% per Cx. pipiens. Prova di efficacia in tombini stradali Sono state condotte due prove in due differenti località, interessando 20 tombini (Marano di Castenaso in provincia di Bologna nel 2007) e 145 tombini (San Carlo in provincia di Ferrara nel 2008), quest’ultimi sottoposti a spurgo e pulizia completa nei precedenti 6 mesi l’inizio della prova. L’introduzione dei copepodi nei tombini è stata fatta all’inizio di luglio nella prova di Marano di Castenaso e alla fine di aprile e giugno in quelli di San Carlo, a dosi di 100 e 50 copepodi/tombino. Prima dell’introduzione dei copepodi e successivamente ogni 2 settimane per due mesi, in ogni tombino veniva campionata la presenza culicidica e dei copepodi con dipper immanicato. Nel 2007 dopo l’introduzione dei copepodi e per tutto il periodo di studio, mediamente soltanto nel 77% dei tombini i copepodi sono sopravvissuti. Nel periodo di prova le precipitazioni sono state scarse e la causa della rarefazione dei copepodi fino alla loro scomparsa in parte dei tombini è pertanto da ricercare non nell’eventuale dilavamento da parte della pioggia, quanto dalle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua. Tra queste innanzitutto la concentrazione di ossigeno che è sempre stata molto bassa (0÷1,03 mg/l) per tutta la durata del periodo di studio. Inoltre, a questo fattore probabilmente è da aggiungere l’accumulo, a concentrazioni tossiche per M. albidus, di composti organici e chimici dalla degradazione e fermentazione dell’abbondante materiale vegetale (soprattutto foglie) in condizioni di ipossia o anossia. Nel 2008, dopo il primo inoculo di M. albidus la percentuale di tombini che al campionamento presentano copepodi decresce in modo brusco fino a raggiungere il 6% a 2 mesi dall’introduzione dei copepodi. Dopo 40 giorni dalla seconda introduzione, la percentuale di tombini con copepodi è del 6,7%. Nell’esperienza 2008 è le intense precipitazioni hanno avuto probabilmente un ruolo determinante sul mantenimento dei copepodi nei tombini. Nel periodo della prova infatti le piogge sono state frequenti con rovesci in varie occasioni di forte intensità per un totale di 342 mm. Sotto questi livelli di pioggia i tombini sono stati sottoposti a un continuo e probabilmente completo dilavamento che potrebbe aver impedito la colonizzazione stabile dei copepodi. Tuttavia non si osservano influenze significative della pioggia nella riduzione percentuale dei tombini colonizzati da copepodi e ciò fa propendere all’ipotesi che assieme alla pioggia siano anche le caratteristiche fisico-chimiche dell’acqua a impedire una colonizzazione stabile da parte di M. albidus. In definitiva perciò si è dimostrato che i tombini stradali sono ambienti ostili per la sopravvivenza di M. albidus, anche se, dove il ciclopoide si è stabilito permanentemente, ha dimostrato un certo impatto nei confronti di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, che tuttavia è risultato non statisticamente significativo all’analisi della varianza. Nei confronti delle larve di Culex pipiens il copepode non permette livelli di controllo soddisfacente, confermando i dati bibliografici. Nei confronti invece di Ae. albopictus la predazione raggiunge buoni livelli; tuttavia ciò non è compensato dalla percentuale molto alta di tombini che, dopo periodi di pioggia copiosa o singoli episodi temporaleschi o per le condizioni di anossia rimangono senza i copepodi. Ciò costringerebbe a ripetute introduzioni di copepodi i cui costi attualmente non sono inferiori a quelli per trattamenti con prodotti larvicidi. In conclusione la ricerca ha portato a considerare Macrocyclops albidus un interessante ausiliario applicabile anche nelle realtà urbane del nostro paese nell’ambito di programmi integrati di contrasto alle infestazioni di Aedes albopictus. Tuttavia il suo utilizzo non si presta a tutti i focolai larvali ma soltanto a raccolte di acqua artificiali di un certo volume come i bidoni utilizzati per stoccare acqua da impiegare per l’orto e il giardino familiare nelle situazioni in cui non è garantita la copertura ermetica, lo svuotamento completo settimanale o l’utilizzo di sostanze ad azione larvozanzaricida.

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Il presente lavoro di tesi si colloca nell’ambito della valutazione del rischio di incidente rilevante. Ai sensi della normativa europea (direttive Seveso) e del loro recepimento nella legislazione nazionale (D.Lgs. 334/99 e s.m.i.) un incidente rilevante è costituito da un evento incidentale connesso al rilascio di sostanze pericolose in grado di causare rilevanti danni all’uomo e/o all’ambiente. Ora, se da un lato esistono indici di rischio quantitativi per il bersaglio ”uomo” da tempo definiti e universalmente adottati nonché metodologie standardizzate e condivise per il loro calcolo, dall’altro non vi sono analoghi indici di rischio per il bersaglio “ambiente” comunemente accettati né, conseguentemente, procedure per il loro calcolo. Mancano pertanto anche definizioni e metodologie di calcolo di indici di rischio complessivo, che tengano conto di entrambi i bersagli citati dalla normativa. Al fine di colmare questa lacuna metodologica, che di fatto non consente di dare pieno adempimento alle stesse disposizioni legislative, è stata sviluppata all’interno del Dipartimento di Ingegneria Chimica, Mineraria e delle Tecnologie Ambientali dell’Università degli Studi di Bologna una ricerca che ha portato alla definizione di indici di rischio per il bersaglio “ambiente” e alla messa a punto di una procedura per la loro stima. L’attenzione è stata rivolta in modo specifico al comparto ambientale del suolo e delle acque sotterranee (falda freatica) ed ai rilasci accidentali da condotte di sostanze idrocarburiche immiscibili e più leggere dell’acqua, ovvero alle sostanze cosiddette NAPL – Non Acqueous Phase Liquid, con proprietà di infiammabilità e tossicità. Nello specifico si sono definiti per il bersaglio “ambiente” un indice di rischio ambientale locale rappresentato, punto per punto lungo il percorso della condotta, dai volumi di suolo e di acqua contaminata, nonché indici di rischio ambientale sociale rappresentati da curve F/Vsuolo e F/Sacque, essendo F la frequenza con cui si hanno incidenti in grado di provocare contaminazioni di volumi di suolo e di superfici di falda uguali o superiori a Vsuolo e Sacque. Tramite i costi unitari di decontaminazione del suolo e delle acque gli indici di rischio ambientale sociale possono essere trasformati in indici di rischio ambientale sociale monetizzato, ovvero in curve F/Msuolo e F/Macque, essendo F la frequenza con cui si hanno incidenti in grado di provocare inquinamento di suolo e di acque la cui decontaminazione ha costi uguali o superiori a Msuolo ed Macque. Dalla combinazione delle curve F/Msuolo e F/Macque è possibile ottenere la curva F/Mambiente, che esprime la frequenza degli eventi incidentali in grado di causare un danno ambientale di costo uguale o superiore a Mambiente. Dalla curva di rischio sociale per l’uomo ovvero dalla curva F/Nmorti, essendo F la frequenza con cui si verificano incidenti in grado di determinare un numero di morti maggiore o uguale ad Nmorti, tramite il costo unitario della vita umana VSL (Value of a Statistical Life), è possibile ottenete la curva F/Mmorti, essendo F la frequenza con cui si verificano incidenti in grado di determinare un danno monetizzato all’uomo uguale o superiore ad Mmorti. Dalla combinazione delle curve F/Mambiente ed F/Mmorti è possibile ottenere un indice di rischio sociale complessivo F/Mtotale, essendo F la frequenza con cui si verifica un danno economico complessivo uguale o superiore ad Mtotale. La procedura ora descritta è stata implementata in un apposito software ad interfaccia GIS denominato TRAT-GIS 4.1, al fine di facilitare gli onerosi calcoli richiesti nella fase di ricomposizione degli indici di rischio. La metodologia è stata fino ad ora applicata ad alcuni semplici casi di studio fittizi di modeste dimensioni e, limitatamente al calcolo del rischio per il bersaglio “ambiente”, ad un solo caso reale comunque descritto in modo semplificato. Il presente lavoro di tesi rappresenta la sua prima applicazione ad un caso di studio reale, per il quale sono stati calcolati gli indici di rischio per l’uomo, per l’ambiente e complessivi. Tale caso di studio è costituito dalla condotta che si estende, su un tracciato di 124 km, da Porto Marghera (VE) a Mantova e che trasporta greggi petroliferi. La prima parte del lavoro di tesi è consistita nella raccolta e sistematizzazione dei dati necessari alla stima delle frequenze di accadimento e delle conseguenze per l’uomo e per l’ambiente degli eventi dannosi che dalla condotta possono avere origine. In una seconda fase si è proceduto al calcolo di tali frequenze e conseguenze. I dati reperiti hanno riguardato innanzitutto il sistema “condotta”, del quale sono stati reperiti da un lato dati costruttivi (quali il diametro, la profondità di interramento, la posizione delle valvole sezionamento) e operativi (quali la portata, il profilo di pressione, le caratteristiche del greggio), dall’altro informazioni relative alle misure di emergenza automatiche e procedurali in caso di rilascio, al fine di stimare le frequenze di accadimento ed i termini “sorgente” (ovvero le portate di rilascio) in caso di rotture accidentali per ogni punto della condotta. In considerazione delle particolarità della condotta in esame è stata sviluppata una procedura specifica per il calcolo dei termini sorgente, fortemente dipendenti dai tempi degli interventi di emergenza in caso di rilascio. Una ulteriore fase di raccolta e sistematizzazione dei dati ha riguardato le informazioni relative all’ambiente nel quale è posta la condotta. Ai fini del calcolo del rischio per il bersaglio “uomo” si sono elaborati i dati di densità abitativa nei 41 comuni attraversati dall’oleodotto. Il calcolo dell’estensione degli scenari incidentali dannosi per l’uomo è stato poi effettuato tramite il software commerciale PHAST. Allo scopo della stima del rischio per il bersaglio “ambiente” è stata invece effettuata la caratterizzazione tessiturale dei suoli sui quali corre l’oleodotto (tramite l’individuazione di 5 categorie di terreno caratterizzate da diversi parametri podologici) e la determinazione della profondità della falda freatica, al fine di poter calcolare l’estensione della contaminazione punto per punto lungo la condotta, effettuando in tal modo l’analisi delle conseguenze per gli scenari incidentali dannosi per l’ambiente. Tale calcolo è stato effettuato con il software HSSM - Hydrocarbon Spill Screening Model gratuitamente distribuito da US-EPA. La ricomposizione del rischio, basata sui risultati ottenuti con i software PHAST e HSSM, ha occupato la terza ed ultima fase del lavoro di tesi; essa è stata effettuata tramite il software TRAT-GIS 4.1, ottenendo in forma sia grafica che alfanumerica gli indici di rischio precedentemente definiti. L’applicazione della procedura di valutazione del rischio al caso dell’oleodotto ha dimostrato come sia possibile un’analisi quantificata del rischio per l’uomo, per l’ambiente e complessivo anche per complessi casi reali di grandi dimensioni. Gli indici rischio ottenuti consentono infatti di individuare i punti più critici della condotta e la procedura messa a punto per il loro calcolo permette di testare l’efficacia di misure preventive e protettive adottabili per la riduzione del rischio stesso, fornendo al tempo gli elementi per un’analisi costi/benefici connessa all’implementazione di tali misure. Lo studio effettuato per la condotta esaminata ha inoltre fornito suggerimenti per introdurre in alcuni punti della metodologia delle modifiche migliorative, nonché per facilitare l’analisi tramite il software TRAT-GIS 4.1 di casi di studio di grandi dimensioni.