934 resultados para radioterapia, controlli di qualità, MLC, flat panel, EPID


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Purpose: Electronic Portal Imaging Devices (EPIDs) are available with most linear accelerators (Amonuk, 2002), the current technology being amorphous silicon flat panel imagers. EPIDs are currently used routinely in patient positioning before radiotherapy treatments. There has been an increasing interest in using EPID technology tor dosimetric verification of radiotherapy treatments (van Elmpt, 2008). A straightforward technique involves the EPID panel being used to measure the fluence exiting the patient during a treatment which is then compared to a prediction of the fluence based on the treatment plan. However, there are a number of significant limitations which exist in this Method: Resulting in a limited proliferation ot this technique in a clinical environment. In this paper, we aim to present a technique of simulating IMRT fields using Monte Carlo to predict the dose in an EPID which can then be compared to the measured dose in the EPID. Materials: Measurements were made using an iView GT flat panel a-SI EPfD mounted on an Elekta Synergy linear accelerator. The images from the EPID were acquired using the XIS software (Heimann Imaging Systems). Monte Carlo simulations were performed using the BEAMnrc and DOSXVZnrc user codes. The IMRT fieids to be delivered were taken from the treatment planning system in DICOMRT format and converted into BEAMnrc and DOSXYZnrc input files using an in-house application (Crowe, 2009). Additionally. all image processing and analysis was performed using another in-house application written using the Interactive Data Language (IDL) (In Visual Information Systems). Comparison between the measured and Monte Carlo EPID images was performed using a gamma analysis (Low, 1998) incorporating dose and distance to agreement criteria. Results: The fluence maps recorded by the EPID were found to provide good agreement between measured and simulated data. Figure 1 shows an example of measured and simulated IMRT dose images and profiles in the x and y directions. "A technique for the quantitative evaluation of dose distributions", Med Phys, 25(5) May 1998 S. Crowe, 1. Kairn, A. Fielding, "The Development of a Monte Carlo system to verify Radiotherapy treatment dose calculations", Radiotherapy & Oncology, Volume 92, Supplement 1, August 2009, Pages S71-S71.

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The problem of multiple site damage in aged airplane fuselage is handled in this paper. The analytical and numerical procedures used for the estimation of the strength of a flat panel with such multi-site damage are presented. Further, numerical results are presented on the residual strength of the panel using fracture mechanics-based approach and the stress levels when the leading crack is likely to link up with multiple site damage cracks. The presence of multiple site damage cracks in the vicinity of leading crack significantly decreases the residual strength of the panel. The model is verified using experimental data from the open literature and the predictions are in good agreement with the measured residual strength.

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Con questo studio si è volto effettuare un confronto tra la generazione di energia termica a partire da cippato e da pellet, con particolare riferimento agli aspetti di carattere ambientale ed economico conseguenti la produzione delle due differenti tipologie di combustibile. In particolare, si sono ipotizzate due filire, una di produzione del cippato, una del pellet, e per ciascuna di esse si è condotta un'Analisi del Ciclo di Vita, allo scopo di mettere in luce, da un lato le fasi del processo maggiormente critiche, dall'altro gli impatti sulla salute umana, sugli ecosistemi, sul consumo di energia e risorse. Quest'analisi si è tradotta in un confronto degli impatti generati dalle due filiere al fine di valutare a quale delle due corrisponda il minore. E' stato infine effettuato un breve accenno di valutazione economica per stimare quale tipologia di impianto, a cippato o a pellet, a parità di energia prodotta, risulti più conveniente.

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Nell’ambito dell’analisi computazionale delle strutture il metodo degli elementi finiti è probabilmente uno dei metodi numerici più efficaci ed impiegati. La semplicità dell’idea di base del metodo e la relativa facilità con cui può essere implementato in codici di calcolo hanno reso possibile l’applicazione di questa tecnica computazionale in diversi settori, non solo dell’ingegneria strutturale, ma in generale della matematica applicata. Ma, nonostante il livello raggiunto dalle tecnologie ad elementi finiti sia già abbastanza elevato, per alcune applicazioni tipiche dell’ingegneria strutturale (problemi bidimensionali, analisi di lastre inflesse) le prestazioni fornite dagli elementi usualmente utilizzati, ovvero gli elementi di tipo compatibile, sono in effetti poco soddisfacenti. Vengono in aiuto perciò gli elementi finiti basati su formulazioni miste che da un lato presentano una più complessa formulazione, ma dall’altro consentono di prevenire alcuni problemi ricorrenti quali per esempio il fenomeno dello shear locking. Indipendentemente dai tipi di elementi finiti utilizzati, le quantità di interesse nell’ambito dell’ingegneria non sono gli spostamenti ma gli sforzi o più in generale le quantità derivate dagli spostamenti. Mentre i primi sono molto accurati, i secondi risultano discontinui e di qualità scadente. A valle di un calcolo FEM, negli ultimi anni, hanno preso piede procedure di post-processing in grado, partendo dalla soluzione agli elementi finiti, di ricostruire lo sforzo all’interno di patch di elementi rendendo quest’ultimo più accurato. Tali procedure prendono il nome di Procedure di Ricostruzione (Recovery Based Approaches). Le procedure di ricostruzione qui utilizzate risultano essere la REP (Recovery by Equilibrium in Patches) e la RCP (Recovery by Compatibility in Patches). L’obbiettivo che ci si prefigge in questo lavoro è quello di applicare le procedure di ricostruzione ad un esempio di piastra, discretizzato con vari tipi di elementi finiti, mettendone in luce i vantaggi in termini di migliore accurattezza e di maggiore convergenza.

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CAPITOLO 1 INTRODUZIONE Il lavoro presentato è relativo all’utilizzo a fini metrici di immagini satellitari storiche a geometria panoramica; in particolare sono state elaborate immagini satellitari acquisite dalla piattaforma statunitense CORONA, progettata ed impiegata essenzialmente a scopi militari tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, e recentemente soggette ad una declassificazione che ne ha consentito l’accesso anche a scopi ed utenti non militari. Il tema del recupero di immagini aeree e satellitari del passato è di grande interesse per un ampio spettro di applicazioni sul territorio, dall’analisi dello sviluppo urbano o in ambito regionale fino ad indagini specifiche locali relative a siti di interesse archeologico, industriale, ambientale. Esiste infatti un grandissimo patrimonio informativo che potrebbe colmare le lacune della documentazione cartografica, di per sé, per ovvi motivi tecnici ed economici, limitata a rappresentare l’evoluzione territoriale in modo asincrono e sporadico, e con “forzature” e limitazioni nel contenuto informativo legate agli scopi ed alle modalità di rappresentazione delle carte nel corso del tempo e per diversi tipi di applicazioni. L’immagine di tipo fotografico offre una rappresentazione completa, ancorché non soggettiva, dell’esistente e può complementare molto efficacemente il dato cartografico o farne le veci laddove questo non esista. La maggior parte del patrimonio di immagini storiche è certamente legata a voli fotogrammetrici che, a partire dai primi decenni del ‘900, hanno interessato vaste aree dei paesi più avanzati, o regioni di interesse a fini bellici. Accanto a queste, ed ovviamente su periodi più vicini a noi, si collocano le immagini acquisite da piattaforma satellitare, tra le quali rivestono un grande interesse quelle realizzate a scopo di spionaggio militare, essendo ad alta risoluzione geometrica e di ottimo dettaglio. Purtroppo, questo ricco patrimonio è ancora oggi in gran parte inaccessibile, anche se recentemente sono state avviate iniziative per permetterne l’accesso a fini civili, in considerazione anche dell’obsolescenza del dato e della disponibilità di altre e migliori fonti di informazione che il moderno telerilevamento ci propone. L’impiego di immagini storiche, siano esse aeree o satellitari, è nella gran parte dei casi di carattere qualitativo, inteso ad investigare sulla presenza o assenza di oggetti o fenomeni, e di rado assume un carattere metrico ed oggettivo, che richiederebbe tra l’altro la conoscenza di dati tecnici (per esempio il certificato di calibrazione nel caso delle camere aerofotogrammetriche) che sono andati perduti o sono inaccessibili. Va ricordato anche che i mezzi di presa dell’epoca erano spesso soggetti a fenomeni di distorsione ottica o altro tipo di degrado delle immagini che ne rendevano difficile un uso metrico. D’altra parte, un utilizzo metrico di queste immagini consentirebbe di conferire all’analisi del territorio e delle modifiche in esso intercorse anche un significato oggettivo che sarebbe essenziale per diversi scopi: per esempio, per potere effettuare misure su oggetti non più esistenti o per potere confrontare con precisione o co-registrare le immagini storiche con quelle attuali opportunamente georeferenziate. Il caso delle immagini Corona è molto interessante, per una serie di specificità che esse presentano: in primo luogo esse associano ad una alta risoluzione (dimensione del pixel a terra fino a 1.80 metri) una ampia copertura a terra (i fotogrammi di alcune missioni coprono strisce lunghe fino a 250 chilometri). Queste due caratteristiche “derivano” dal principio adottato in fase di acquisizione delle immagini stesse, vale a dire la geometria panoramica scelta appunto perché l’unica che consente di associare le due caratteristiche predette e quindi molto indicata ai fini spionaggio. Inoltre, data la numerosità e la frequenza delle missioni all’interno dell’omonimo programma, le serie storiche di questi fotogrammi permettono una ricostruzione “ricca” e “minuziosa” degli assetti territoriali pregressi, data appunto la maggior quantità di informazioni e l’imparzialità associabili ai prodotti fotografici. Va precisato sin dall’inizio come queste immagini, seppur rappresentino una risorsa “storica” notevole (sono datate fra il 1959 ed il 1972 e coprono regioni moto ampie e di grandissimo interesse per analisi territoriali), siano state molto raramente impiegate a scopi metrici. Ciò è probabilmente imputabile al fatto che il loro trattamento a fini metrici non è affatto semplice per tutta una serie di motivi che saranno evidenziati nei capitoli successivi. La sperimentazione condotta nell’ambito della tesi ha avuto due obiettivi primari, uno generale ed uno più particolare: da un lato il tentativo di valutare in senso lato le potenzialità dell’enorme patrimonio rappresentato da tali immagini (reperibili ad un costo basso in confronto a prodotti simili) e dall’altro l’opportunità di indagare la situazione territoriale locale per una zona della Turchia sud orientale (intorno al sito archeologico di Tilmen Höyük) sulla quale è attivo un progetto condotto dall’Università di Bologna (responsabile scientifico il Prof. Nicolò Marchetti del Dipartimento di Archeologia), a cui il DISTART collabora attivamente dal 2005. L’attività è condotta in collaborazione con l’Università di Istanbul ed il Museo Archeologico di Gaziantep. Questo lavoro si inserisce, inoltre, in un’ottica più ampia di quelle esposta, dello studio cioè a carattere regionale della zona in cui si trovano gli scavi archeologici di Tilmen Höyük; la disponibilità di immagini multitemporali su un ampio intervallo temporale, nonché di tipo multi sensore, con dati multispettrali, doterebbe questo studio di strumenti di conoscenza di altissimo interesse per la caratterizzazione dei cambiamenti intercorsi. Per quanto riguarda l’aspetto più generale, mettere a punto una procedura per il trattamento metrico delle immagini CORONA può rivelarsi utile all’intera comunità che ruota attorno al “mondo” dei GIS e del telerilevamento; come prima ricordato tali immagini (che coprono una superficie di quasi due milioni di chilometri quadrati) rappresentano un patrimonio storico fotografico immenso che potrebbe (e dovrebbe) essere utilizzato sia a scopi archeologici, sia come supporto per lo studio, in ambiente GIS, delle dinamiche territoriali di sviluppo di quelle zone in cui sono scarse o addirittura assenti immagini satellitari dati cartografici pregressi. Il lavoro è stato suddiviso in 6 capitoli, di cui il presente costituisce il primo. Il secondo capitolo è stato dedicato alla descrizione sommaria del progetto spaziale CORONA (progetto statunitense condotto a scopo di fotoricognizione del territorio dell’ex Unione Sovietica e delle aree Mediorientali politicamente correlate ad essa); in questa fase vengono riportate notizie in merito alla nascita e all’evoluzione di tale programma, vengono descritti piuttosto dettagliatamente gli aspetti concernenti le ottiche impiegate e le modalità di acquisizione delle immagini, vengono riportati tutti i riferimenti (storici e non) utili a chi volesse approfondire la conoscenza di questo straordinario programma spaziale. Nel terzo capitolo viene presentata una breve discussione in merito alle immagini panoramiche in generale, vale a dire le modalità di acquisizione, gli aspetti geometrici e prospettici alla base del principio panoramico, i pregi ed i difetti di questo tipo di immagini. Vengono inoltre presentati i diversi metodi rintracciabili in bibliografia per la correzione delle immagini panoramiche e quelli impiegati dai diversi autori (pochi per la verità) che hanno scelto di conferire un significato metrico (quindi quantitativo e non solo qualitativo come è accaduto per lungo tempo) alle immagini CORONA. Il quarto capitolo rappresenta una breve descrizione del sito archeologico di Tilmen Höyuk; collocazione geografica, cronologia delle varie campagne di studio che l’hanno riguardato, monumenti e suppellettili rinvenute nell’area e che hanno reso possibili una ricostruzione virtuale dell’aspetto originario della città ed una più profonda comprensione della situazione delle capitali del Mediterraneo durante il periodo del Bronzo Medio. Il quinto capitolo è dedicato allo “scopo” principe del lavoro affrontato, vale a dire la generazione dell’ortofotomosaico relativo alla zona di cui sopra. Dopo un’introduzione teorica in merito alla produzione di questo tipo di prodotto (procedure e trasformazioni utilizzabili, metodi di interpolazione dei pixel, qualità del DEM utilizzato), vengono presentati e commentati i risultati ottenuti, cercando di evidenziare le correlazioni fra gli stessi e le problematiche di diversa natura incontrate nella redazione di questo lavoro di tesi. Nel sesto ed ultimo capitolo sono contenute le conclusioni in merito al lavoro in questa sede presentato. Nell’appendice A vengono riportate le tabelle dei punti di controllo utilizzati in fase di orientamento esterno dei fotogrammi.

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Le reti di distribuzione idrica conservano un ruolo importante ed irrinunciabile nella sicurezza antincendio, ma diversi fattori sul piano normativo e strutturale limitano la loro potenzialità  nelle fasi di estinzione dell'incendio. Ma in che modo si è evoluta in Italia negli ultimi anni la lotta all'incendio? E' ormai noto che non esistono incendi standard, quelli per i quali è possibile definire procedure d'intervento e modalità  di estinzione; non è quindi banale identificare le portate antincendio necessarie (Needed Fire Flow) e il tempo per il quale esse devono essere garantite. In certi contesti è possibile ipotizzare un certo standard d'incendio ma ciò presuppone che edifici, strutture e tutto ciò che è sottoposto ad incendio, possano essere considerati fabbricati a "regola d'arte", ovvero realizzati attraverso procedure esecutive aventi standard di qualità  certificata. Ciò è stato affrontato nei criteri di realizzazione delle nuove costruzioni, ma le vecchie costruzioni, soprattutto gli edifici presenti nei centri storici, sono evidentemente più vulnerabili e sfuggono alla possibilità  di identificare affidabili valori del NFF. Il quadro che si presenta coinvolge quindi carenze normative, contesti urbani con differente vulnerabilità  e una sostanziale disomogeneità  prestazionale delle reti di distribuzione idrica presenti nel territorio nazionale, legata non solo alla disponibilità  idrica ma, anche e soprattutto, alla conformazione della rete, ai livelli di pressione ed alla specifica capacità della rete nel sostenere incrementi di flusso dovuto al prelievo dagli idranti stradali. La scarsa conoscenza di questi aspetti, piuttosto che tradursi in miglioramenti della rete idrica e della sua efficienza ai fini antincendio, ha portato nel tempo ad adottare soluzioni alternative che agiscono principalmente sulle modalità operative di utilizzo dei mezzi dei VV.F. e sul fronte dei dispositivi antincendio privati, quali una migliore protezione passiva, legata all'uso di materiali la cui risposta all'incendio fosse la minore possibile, e protezioni attive alternative, quali impianti sprinkler, di tipo aerosol o misti. Rimangono tutte le problematiche legate alla caratterizzazione nell'area urbanizzata in termini di risposta al prelievo per incendio dagli idranti pubblici sui quali la normativa vigente non impone regole circa le prestazioni e la loro dislocazione sul territorio. Questa incertezza spesso si traduce in un maggiore dispiego di mezzi rispetto all'entità dell'incendio ed ad una scarsa possibilità  di ottimizzare l'allocazione delle unità  operative dei VV.F., con un evidente incremento del rischio nel caso in cui si verifichino più eventi di incendio contemporaneamente. La simulazione numerica avanzata, su modelli opportunamente calibrati delle reti di distribuzione, può consentire una maggiore comprensione quantitativa del livello di sicurezza antincendio offerto da una rete di distribuzione idrica.

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In questa tesi si effettua lo studio di un azionamento elettrico con motore asincrono eptafase. In particolare si realizza un sistema automatico per il controllo della coppia mediante stimatori con encoder. Si ha così la possibilità di effettuare un controllo accurato della macchina asincrona eptafase anche a bassa velocità, cosa che risulterebbe più complessa se eseguita mediante controlli di tipo sensorless. Inoltre, grazie ad opportune strategie di controllo, è possibile assicurare un funzionamento accettabile degli azionamenti con motori multifase durante una condizione di guasto con una fase aperta, senza alcuna necessità di hardware aggiuntivo.

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La ricerca si propone di definire le linee guida per la stesura di un Piano che si occupi di qualità della vita e di benessere. Il richiamo alla qualità e al benessere è positivamente innovativo, in quanto impone agli organi decisionali di sintonizzarsi con la soggettività attiva dei cittadini e, contemporaneamente, rende evidente la necessità di un approccio più ampio e trasversale al tema della città e di una più stretta relazione dei tecnici/esperti con i responsabili degli organismi politicoamministrativi. La ricerca vuole indagare i limiti dell’urbanistica moderna di fronte alla complessità di bisogni e di nuove necessità espresse dalle popolazioni urbane contemporanee. La domanda dei servizi è notevolmente cambiata rispetto a quella degli anni Sessanta, oltre che sul piano quantitativo anche e soprattutto sul piano qualitativo, a causa degli intervenuti cambiamenti sociali che hanno trasformato la città moderna non solo dal punto di vista strutturale ma anche dal punto di vista culturale: l’intermittenza della cittadinanza, per cui le città sono sempre più vissute e godute da cittadini del mondo (turisti e/o visitatori, temporaneamente presenti) e da cittadini diffusi (suburbani, provinciali, metropolitani); la radicale trasformazione della struttura familiare, per cui la famiglia-tipo costituita da una coppia con figli, solido riferimento per l’economia e la politica, è oggi minoritaria; l’irregolarità e flessibilità dei calendari, delle agende e dei ritmi di vita della popolazione attiva; la mobilità sociale, per cui gli individui hanno traiettorie di vita e pratiche quotidiane meno determinate dalle loro origini sociali di quanto avveniva nel passato; l’elevazione del livello di istruzione e quindi l’incremento della domanda di cultura; la crescita della popolazione anziana e la forte individualizzazione sociale hanno generato una domanda di città espressa dalla gente estremamente variegata ed eterogenea, frammentata e volatile, e per alcuni aspetti assolutamente nuova. Accanto a vecchie e consolidate richieste – la città efficiente, funzionale, produttiva, accessibile a tutti – sorgono nuove domande, ideali e bisogni che hanno come oggetto la bellezza, la varietà, la fruibilità, la sicurezza, la capacità di stupire e divertire, la sostenibilità, la ricerca di nuove identità, domande che esprimono il desiderio di vivere e di godere la città, di stare bene in città, domande che non possono essere più soddisfatte attraverso un’idea di welfare semplicemente basata sull’istruzione, la sanità, il sistema pensionistico e l’assistenza sociale. La città moderna ovvero l’idea moderna della città, organizzata solo sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, uguaglianza e buon governo, è stata consegnata alla storia passata trasformandosi ora in qualcosa di assai diverso che facciamo fatica a rappresentare, a descrivere, a raccontare. La città contemporanea può essere rappresentata in molteplici modi, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista sociale: nella letteratura recente è evidente la difficoltà di definire e di racchiudere entro limiti certi l’oggetto “città” e la mancanza di un convincimento forte nell’interpretazione delle trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno investito la società e il mondo nel secolo scorso. La città contemporanea, al di là degli ambiti amministrativi, delle espansioni territoriali e degli assetti urbanistici, delle infrastrutture, della tecnologia, del funzionalismo e dei mercati globali, è anche luogo delle relazioni umane, rappresentazione dei rapporti tra gli individui e dello spazio urbano in cui queste relazioni si muovono. La città è sia concentrazione fisica di persone e di edifici, ma anche varietà di usi e di gruppi, densità di rapporti sociali; è il luogo in cui avvengono i processi di coesione o di esclusione sociale, luogo delle norme culturali che regolano i comportamenti, dell’identità che si esprime materialmente e simbolicamente nello spazio pubblico della vita cittadina. Per studiare la città contemporanea è necessario utilizzare un approccio nuovo, fatto di contaminazioni e saperi trasversali forniti da altre discipline, come la sociologia e le scienze umane, che pure contribuiscono a costruire l’immagine comunemente percepita della città e del territorio, del paesaggio e dell’ambiente. La rappresentazione del sociale urbano varia in base all’idea di cosa è, in un dato momento storico e in un dato contesto, una situazione di benessere delle persone. L’urbanistica moderna mirava al massimo benessere del singolo e della collettività e a modellarsi sulle “effettive necessità delle persone”: nei vecchi manuali di urbanistica compare come appendice al piano regolatore il “Piano dei servizi”, che comprende i servizi distribuiti sul territorio circostante, una sorta di “piano regolatore sociale”, per evitare quartieri separati per fasce di popolazione o per classi. Nella città contemporanea la globalizzazione, le nuove forme di marginalizzazione e di esclusione, l’avvento della cosiddetta “new economy”, la ridefinizione della base produttiva e del mercato del lavoro urbani sono espressione di una complessità sociale che può essere definita sulla base delle transazioni e gli scambi simbolici piuttosto che sui processi di industrializzazione e di modernizzazione verso cui era orientata la città storica, definita moderna. Tutto ciò costituisce quel complesso di questioni che attualmente viene definito “nuovo welfare”, in contrapposizione a quello essenzialmente basato sull’istruzione, sulla sanità, sul sistema pensionistico e sull’assistenza sociale. La ricerca ha quindi analizzato gli strumenti tradizionali della pianificazione e programmazione territoriale, nella loro dimensione operativa e istituzionale: la destinazione principale di tali strumenti consiste nella classificazione e nella sistemazione dei servizi e dei contenitori urbanistici. E’ chiaro, tuttavia, che per poter rispondere alla molteplice complessità di domande, bisogni e desideri espressi dalla società contemporanea le dotazioni effettive per “fare città” devono necessariamente superare i concetti di “standard” e di “zonizzazione”, che risultano essere troppo rigidi e quindi incapaci di adattarsi all’evoluzione di una domanda crescente di qualità e di servizi e allo stesso tempo inadeguati nella gestione del rapporto tra lo spazio domestico e lo spazio collettivo. In questo senso è rilevante il rapporto tra le tipologie abitative e la morfologia urbana e quindi anche l’ambiente intorno alla casa, che stabilisce il rapporto “dalla casa alla città”, perché è in questa dualità che si definisce il rapporto tra spazi privati e spazi pubblici e si contestualizzano i temi della strada, dei negozi, dei luoghi di incontro, degli accessi. Dopo la convergenza dalla scala urbana alla scala edilizia si passa quindi dalla scala edilizia a quella urbana, dal momento che il criterio del benessere attraversa le diverse scale dello spazio abitabile. Non solo, nei sistemi territoriali in cui si è raggiunto un benessere diffuso ed un alto livello di sviluppo economico è emersa la consapevolezza che il concetto stesso di benessere sia non più legato esclusivamente alla capacità di reddito collettiva e/o individuale: oggi la qualità della vita si misura in termini di qualità ambientale e sociale. Ecco dunque la necessità di uno strumento di conoscenza della città contemporanea, da allegare al Piano, in cui vengano definiti i criteri da osservare nella progettazione dello spazio urbano al fine di determinare la qualità e il benessere dell’ambiente costruito, inteso come benessere generalizzato, nel suo significato di “qualità dello star bene”. E’ evidente che per raggiungere tale livello di qualità e benessere è necessario provvedere al soddisfacimento da una parte degli aspetti macroscopici del funzionamento sociale e del tenore di vita attraverso gli indicatori di reddito, occupazione, povertà, criminalità, abitazione, istruzione, etc.; dall’altra dei bisogni primari, elementari e di base, e di quelli secondari, culturali e quindi mutevoli, trapassando dal welfare state allo star bene o well being personale, alla wellness in senso olistico, tutte espressioni di un desiderio di bellezza mentale e fisica e di un nuovo rapporto del corpo con l’ambiente, quindi manifestazione concreta di un’esigenza di ben-essere individuale e collettivo. Ed è questa esigenza, nuova e difficile, che crea la diffusa sensazione dell’inizio di una nuova stagione urbana, molto più di quanto facciano pensare le stesse modifiche fisiche della città.

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Il lavoro di tesi di dottorato, dal titolo “Turismo religioso: percorsi culturali-religiosi come leva di sviluppo territoriale”, ha preso in esame in particolare il tema dei percorsi culturali/religiosi, considerati “strategici” in una prospettiva di ricomposizione territoriale e di sviluppo locale, e considerati importanti per la promozione di nuovi flussi turistici e valorizzazione delle risorse storiche, artistiche e culturali del Salento leccese. Il lavoro di tesi affronta il tema del turismo culturale legato all’offerta del bene religioso inteso come potenziale fattore di attrazione turistica ed importante risorsa per lo sviluppo sostenibile del territorio. L’attenzione a santuari e luoghi di culto costituisce, infatti, una valida occasione di interesse per le opere d'arte in essi presenti, e rappresenta anche una possibilità di conoscenza del territorio in cui essi insistono, diventando la destinazione di un turismo colto e di qualità. Il lavoro di tesi, si propone di dimostrare come l’attenzione al motivo religioso creando mobilità, flussi di popolazione, di turisti possa diventare occasione di promozione del prodotto locale, mettendo a sistema tutte le risorse economiche presenti nel territorio. Più in dettaglio, dopo un iniziale approccio teorico al concetto di turismo culturale, turismo religioso e marketing territoriale, esso analizza lo stato dell’arte nel territorio provinciale leccese, individuando possibili itinerari turistico-religiosi nel Salento leccese rapportati ai “Cammini d’Europa”. Si propone l’itinerario turistico - e, in particolare, a quello Leucadense, noto come la “via della Perdonanza di Leuca”, che segue la via dei pellegrinaggi medioevali che si suffragavano di luoghi di sosta in chiese e cappelle dedicate alla Vergine Maria - come strumento verso cui si orientano le recenti strategie di competitività territoriale, definibile come uno strumento d’offerta turistica che mira a valorizzare elementi-risorse del territorio. Si tratta di percorsi utili a promuovere un prodotto competitivo, che presuppone l’enucleazione dell’offerta turistica locale integrata e la costruzione intorno ad essi di un territorio dotato di infrastrutture, ricettività, politiche dell’accoglienza, valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale materiale, immateriale ed ambientale. Non mancano nel lavoro preoccupazioni legate alla sostenibilità di un tipo di turismo, che, se di massa (come è il caso delle visite al santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo), produce gravi pressioni sull’ambiente e perciò necessita un forte impegno in termini di pubblicità, pianificazione investimenti e presume un’opportuna programmazione da parte degli enti locali in termini di offerta ricettiva, ristorativa e dotazione di infrastrutture. La coerenza degli interventi che promuovono il prodotto religioso non può prescindere da un’integrazione orizzontale tra il sistema territoriale (ambiente, paesaggio, sistemi socio-produttivi) e gli attori locali coinvolti, ai fini di un processo di valorizzazione del patrimonio culturale che produce sviluppo locale.

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The impact of plasma technologies is growing both in the academic and in the industrial fields. Nowadays, a great interest is focused in plasma applications in aeronautics and astronautics domains. Plasma actuators based on the Magneto-Hydro-Dynamic (MHD) and Electro- Hydro-Dynamic (EHD) interactions are potentially able to suitably modify the fluid-dynamics characteristics around a flying body without utilizing moving parts. This could lead to the control of an aircraft with negligible response time, more reliability and improvements of the performance. In order to study the aforementioned interactions, a series of experiments and a wide number of diagnostic techniques have been utilized. The EHD interaction, realized by means of a Dielectric Barrier Discharge (DBD) actuator, and its impact on the boundary layer have been evaluated by means of two different experiments. In the first one a three phase multi-electrode flat panel actuator is used. Different external flow velocities (from 1 to 20m/s) and different values of the supplied voltage and frequency have been considered. Moreover a change of the phase sequence has been done to verify the influence of the electric field existing between successive phases. Measurements of the induced speed had shown the effect of the supply voltage and the frequency, and the phase order in the momentum transfer phenomenon. Gains in velocity, inside the boundary layer, of about 5m/s have been obtained. Spectroscopic measurements allowed to determine the rotational and the vibrational temperature of the plasma which lie in the range of 320 ÷ 440°K and of 3000 ÷ 3900°K respectively. A deviation from thermodynamic equilibrium had been found. The second EHD experiment is realized on a single electrode pair DBD actuator driven by nano-pulses superimposed to a DC or an AC bias. This new supply system separates the plasma formation mechanism from the acceleration action on the fluid, leading to an higher degree of the control of the process. Both the voltage and the frequency of the nano-pulses and the amplitude and the waveform of the bias have been varied during the experiment. Plasma jets and vortex behavior had been observed by means of fast Schlieren imaging. This allowed a deeper understanding of the EHD interaction process. A velocity increase in the boundary layer of about 2m/s had been measured. Thrust measurements have been performed by means of a scales and compared with experimental data reported in the literature. For similar voltage amplitudes thrust larger than those of the literature, had been observed. Surface charge measurements led to realize a modified DBD actuator able to obtain similar performances when compared with that of other experiments. However in this case a DC bias replacing the AC bias had been used. MHD interaction experiments had been carried out in a hypersonic wind tunnel in argon with a flow of Mach 6. Before the MHD experiments a thermal, fluid-dynamic and plasma characterization of the hypersonic argon plasma flow have been done. The electron temperature and the electron number density had been determined by means of emission spectroscopy and microwave absorption measurements. A deviation from thermodynamic equilibrium had been observed. The electron number density showed to be frozen at the stagnation region condition in the expansion through the nozzle. MHD experiments have been performed using two axial symmetric test bodies. Similar magnetic configurations were used. Permanent magnets inserted into the test body allowed to generate inside the plasma azimuthal currents around the conical shape of the body. These Faraday currents are responsible of the MHD body force which acts against the flow. The MHD interaction process has been observed by means of fast imaging, pressure and electrical measurements. Images showed bright rings due to the Faraday currents heating and exciting the plasma particles. Pressure measurements showed increases of the pressure in the regions where the MHD interaction is large. The pressure is 10 to 15% larger than when the MHD interaction process is silent. Finally by means of electrostatic probes mounted flush on the test body lateral surface Hall fields of about 500V/m had been measured. These results have been used for the validation of a numerical MHD code.

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Da 25 anni la letteratura scientifica internazionale riporta studi su varie specie di microcrostacei copepodi ciclopoidi dei generi Macrocyclops, Megacyclops e Mesocyclops predatori di larve di 1a e 2a età di culicidi. Si tratta di prove di predazione in laboratorio e in pieno campo, in diverse aree del pianeta nessuna delle quali riguarda l’Italia o il resto d’Europa, contro principalmente Aedes aegypti (L.), Ae. albopictus (Skuse) e altre specie del genere Anopheles e Culex. L’allevamento massale di copepodi ciclopoidi appare praticabile e questo, assieme alle buone prestazioni predatorie, rende tali ausiliari candidati assai interessanti contro le due principali specie di zanzare, Culex pipiens L. e Ae. albpopictus, che nelle aree urbane e periurbane italiane riescono a sfruttare raccolte d’acqua artificiali di volume variabile e a regime idrico periodico o permanente. Pertanto lo scopo dello studio è stato quello di arrivare a selezionare una o più specie di copepodi candidati per la lotta biologica e valutarne la possibilità applicativa nell’ambito dei programmi di controllo delle zanzare nocive dell’ambiente urbano. L’argomento del tutto nuovo per il nostro paese, è stato sviluppato attraverso varie fasi ciascuna delle quali propedeutica a quella successiva. •Indagine faunistica nell’area di pianura e costiera sulle specie di ciclopoidi associate a varie tipologie di raccolte d’acqua naturali e artificiali (fossi, scoline, canali, risaie e pozze temporanee). I campionamenti sono stati condotti con l’obiettivo di ottenere le specie di maggiori dimensioni (≥1 mm) in ristagni con diverse caratteristiche in termini di qualità dell’acqua e complessità biocenotica. •Prove preliminari di predazione in laboratorio con alcune specie rinvenute negli ambienti campionati, nei confronti delle larve di Ae. albopictus e Cx. pipiens. Le prestazioni di predazione sono state testate sottoponendo ai copepodi larve giovani di zanzare provenienti da allevamento e calcolato il numero giornaliero di larve attaccate. •Implementazione di un allevamento pilota della specie valutata più interessante, Macrocyclops albidus (Jurine) (Cyclopoida, Cyclopidae, Eucyclopinae), per i risultati ottenuti in laboratorio in termini di numero di larve predate/giorno e per le caratteristiche biologiche confacenti agli ambienti potenzialmente adatti ai lanci. Questa parte della ricerca è stata guidata dalla finalità di mettere a punto una tecnica di allevamento in scala in modo da disporre di stock di copepodi dalla primavera, nonchè da criteri di economicità nell’impianto e nella sua gestione. •Prove di efficacia in condizioni di semicampo e di campo in raccolte d’acqua normalmente colonizzate dai culicidi in ambito urbano: bidoni per lo stoccaggio di acqua per l’irrigazione degli orti e tombini stradali. In questo caso l’obiettivo principale è stato quello di ottenere dati sull’efficienza del controllo di M. albidus nei confronti della popolazione culicidica selvatica e sulla capacità del copepode di colonizzare stabilmente tali tipologie di focolai larvali. Risultati e conclusioni Indagine faunistica e prove di predazione in laboratorio L’indagine faunistica condotta nell’area costiera ferrarese, in quella ravennate e della pianura bolognese ha portato al rinvenimento di varie specie di ciclopoidi mantenuti in laboratorio per la conduzione delle prove di predazione. Le specie testate sono state: Acanthocyclops robustus (G. O. Sars), Macrocyclops albidus (Jurine), Thermocyclops crassus (Fischer), Megacyclops gigas (Claus). La scelta delle specie da testare è stata basata sulla loro abbondanza e frequenza di ritrovamento nei campionamenti nonché sulle loro dimensioni. Ciascuna prova è stata condotta sottoponendo a un singolo copepode, oppure a gruppi di 3 e di 5 esemplari, 50 larve di 1a età all’interno di contenitori cilindrici in plastica con 40 ml di acqua di acquedotto declorata e una piccola quantità di cibo per le larve di zanzara. Ciascuna combinazione “copepode/i + larve di Ae. albopictus”, è stata replicata 3-4 volte, e confrontata con un testimone (50 larve di Ae. albopictus senza copepodi). A 24 e 48 ore sono state registrate le larve sopravvissute. Soltanto per M. albidus il test di predazione è stato condotto anche verso Cx. pipiens. Messa a punto della tecnica di allevamento La ricerca è proseguita concentrando l’interesse su M. albidus, che oltre ad aver mostrato la capacità di predare a 24 ore quasi 30 larve di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, dalla bibliografia risulta tollerare ampi valori di temperatura, di pH e alte concentrazioni di vari inquinanti. Dalla ricerca bibliografica è risultato che i ciclopoidi sono facilmente allevabili in contenitori di varia dimensione e foggia somministrando agli stadi di preadulto alghe unicellulari (Chlorella, Chilomonas), protozoi ciliati (Paramecium, Euplotes), rotiferi e cladoceri. Ciò presuppone colture e allevamenti in purezza di tali microrganismi mantenuti in parallelo, da utilizzare come inoculo e da aggiungere periodicamente nell’acqua di allevamento dei ciclopoidi. Nel caso di utilizzo di protozoi ciliati, occorre garantirne lo sviluppo che avviene a carico di flora batterica spontanea a sua volta cresciuta su di un substrato organico quale latte, cariossidi bollite di grano o soia, foglie di lattuga, paglia di riso bollita con cibo secco per pesci, lievito di birra. Per evitare il notevole impegno organizzativo e di manodopera nonché il rischio continuo di perdere la purezza della colonia degli organismi da utilizzare come cibo, le prove comparative di allevamento hanno portato ad un protocollo semplice ed sufficientemente efficiente in termini di copepodi ottenibili. Il sistema messo a punto si basa sull’utilizzo di una popolazione mista di ciliati e rotiferi, mantenuti nell'acqua di allevamento dei copepodi mediante la somministrazione periodica di cibo standard e pronto all’uso costituito da cibo secco per gatti. Prova di efficacia in bidoni da 220 l di capacità La predazione è stata studiata nel biennio 2007-2008 in bidoni da 220 l di capacità inoculati una sola volta in aprile 2007 con 100 e 500 esemplari di M. albidus/bidone e disposti all’aperto per la libera ovideposizione della popolazione culicidica selvatica. L’infestazione preimmaginale culicidica veniva campionata ogni due settimane fino ad ottobre, mediante un retino immanicato a maglia fitta e confrontata con quella dei bidoni testimone (senza copepodi). Nel 2007 il tasso di riduzione medio delle infestazioni di Ae. albopictus nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è del 99,90% e del 100,00% rispettivamente alle dosi iniziali di inoculo di 100 e 500 copepodi/bidone; per Cx. pipiens L. tale percentuale media è risultata di 88,69% e di 84,65%. Similmente, nel 2008 si è osservato ad entrambe le dosi iniziali di inoculo una riduzione di Ae. albopictus del 100,00% e di Cx. pipiens del 73,3%. La dose di inoculo di 100 copepodi per contenitore è risultata sufficiente a garantire un rapido incremento numerico della popolazione che ha raggiunto la massima densità in agosto-settembre e un eccellente controllo delle popolazioni di Ae. albopictus. Prova di efficacia in campo in serbatoi per l’acqua irrigua degli orti La prova è stata condotta a partire dalla metà di agosto 2008 interessando 15 serbatoi di varia foggia e capacità, variabile tra 200 e 600 l, utilizzati per stoccare acqua orti famigliari nel comune di Crevalcore (BO). Ai proprietari dei serbatoi era chiesto di gestire il prelievo dell’acqua e i rifornimenti come da abitudine con l’unica raccomandazione di non svuotarli mai completamente. In 8 contenitori sono stati immessi 100 esemplari di M.albidus e una compressa larvicida a base di Bacillus thuringiensis var. israelensis (B.t.i.); nei restanti 7 è stata soltanto immessa la compressa di B.t.i.. Il campionamento larvale è stato settimanale fino agli inizi di ottobre. Dopo l’introduzione in tutti i serbatoi sono stati ritrovati esemplari di copepodi, nonostante il volume di acqua misurato settimanalmente sia variato da pochi litri, in qualche bidone, fino a valori della massima capacità, per effetto del prelievo e dell’apporto dell’acqua da parte dei gestori degli orti. In post-trattamento sono state osservate differenze significative tra le densità larvali nelle due tesi solo al 22 settembre per Ae.albopictus Tuttavia in termini percentuali la riduzione media di larve di 3a-4a età e pupe nei bidoni con copepodi, rispetto al testimone, è stata de 95,86% per Ae. albopictus e del 73,30% per Cx. pipiens. Prova di efficacia in tombini stradali Sono state condotte due prove in due differenti località, interessando 20 tombini (Marano di Castenaso in provincia di Bologna nel 2007) e 145 tombini (San Carlo in provincia di Ferrara nel 2008), quest’ultimi sottoposti a spurgo e pulizia completa nei precedenti 6 mesi l’inizio della prova. L’introduzione dei copepodi nei tombini è stata fatta all’inizio di luglio nella prova di Marano di Castenaso e alla fine di aprile e giugno in quelli di San Carlo, a dosi di 100 e 50 copepodi/tombino. Prima dell’introduzione dei copepodi e successivamente ogni 2 settimane per due mesi, in ogni tombino veniva campionata la presenza culicidica e dei copepodi con dipper immanicato. Nel 2007 dopo l’introduzione dei copepodi e per tutto il periodo di studio, mediamente soltanto nel 77% dei tombini i copepodi sono sopravvissuti. Nel periodo di prova le precipitazioni sono state scarse e la causa della rarefazione dei copepodi fino alla loro scomparsa in parte dei tombini è pertanto da ricercare non nell’eventuale dilavamento da parte della pioggia, quanto dalle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua. Tra queste innanzitutto la concentrazione di ossigeno che è sempre stata molto bassa (0÷1,03 mg/l) per tutta la durata del periodo di studio. Inoltre, a questo fattore probabilmente è da aggiungere l’accumulo, a concentrazioni tossiche per M. albidus, di composti organici e chimici dalla degradazione e fermentazione dell’abbondante materiale vegetale (soprattutto foglie) in condizioni di ipossia o anossia. Nel 2008, dopo il primo inoculo di M. albidus la percentuale di tombini che al campionamento presentano copepodi decresce in modo brusco fino a raggiungere il 6% a 2 mesi dall’introduzione dei copepodi. Dopo 40 giorni dalla seconda introduzione, la percentuale di tombini con copepodi è del 6,7%. Nell’esperienza 2008 è le intense precipitazioni hanno avuto probabilmente un ruolo determinante sul mantenimento dei copepodi nei tombini. Nel periodo della prova infatti le piogge sono state frequenti con rovesci in varie occasioni di forte intensità per un totale di 342 mm. Sotto questi livelli di pioggia i tombini sono stati sottoposti a un continuo e probabilmente completo dilavamento che potrebbe aver impedito la colonizzazione stabile dei copepodi. Tuttavia non si osservano influenze significative della pioggia nella riduzione percentuale dei tombini colonizzati da copepodi e ciò fa propendere all’ipotesi che assieme alla pioggia siano anche le caratteristiche fisico-chimiche dell’acqua a impedire una colonizzazione stabile da parte di M. albidus. In definitiva perciò si è dimostrato che i tombini stradali sono ambienti ostili per la sopravvivenza di M. albidus, anche se, dove il ciclopoide si è stabilito permanentemente, ha dimostrato un certo impatto nei confronti di Ae. albopictus e di Cx. pipiens, che tuttavia è risultato non statisticamente significativo all’analisi della varianza. Nei confronti delle larve di Culex pipiens il copepode non permette livelli di controllo soddisfacente, confermando i dati bibliografici. Nei confronti invece di Ae. albopictus la predazione raggiunge buoni livelli; tuttavia ciò non è compensato dalla percentuale molto alta di tombini che, dopo periodi di pioggia copiosa o singoli episodi temporaleschi o per le condizioni di anossia rimangono senza i copepodi. Ciò costringerebbe a ripetute introduzioni di copepodi i cui costi attualmente non sono inferiori a quelli per trattamenti con prodotti larvicidi. In conclusione la ricerca ha portato a considerare Macrocyclops albidus un interessante ausiliario applicabile anche nelle realtà urbane del nostro paese nell’ambito di programmi integrati di contrasto alle infestazioni di Aedes albopictus. Tuttavia il suo utilizzo non si presta a tutti i focolai larvali ma soltanto a raccolte di acqua artificiali di un certo volume come i bidoni utilizzati per stoccare acqua da impiegare per l’orto e il giardino familiare nelle situazioni in cui non è garantita la copertura ermetica, lo svuotamento completo settimanale o l’utilizzo di sostanze ad azione larvozanzaricida.

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Lo studio effettuato verte sulla ricerca delle cave storiche di pietra da taglio in provincia di Bologna, facendo partire la ricerca al 1870 circa, data in cui si hanno le prime notizie cartacee di cave bolognesi. Nella ricerca si è potuto contare sull’aiuto dei Dott. Stefano Segadelli e Maria Tersa De Nardo, geologi della regione Emilia-Romagna, che hanno messo a disposizione la propria conoscenza e le pubblicazioni della regione a questo scopo. Si è scoperto quindi che non esiste in bibliografia la localizzazione di tali cave e si è cercato tramite l’utilizzo del software ArcGIS , di georeferenziarle, correlandole di informazioni raccolte durante la ricerca. A Bologna al momento attuale non esistono cave di pietra da taglio attive, così tutte le fonti che si sono incontrate hanno fornito dati parziali, che uniti hanno permesso di ottenere una panoramica soddisfacente della situazione a inizio secolo scorso. Le fonti studiate sono state, in breve: il catasto cave della regione Emilia-Romagna, gli shape preesistenti della localizzazione delle cave, le pubblicazioni “Uso del Suolo”, oltre ai dati forniti dai vari Uffici Tecnici dei comuni nei quali erano attive le cave. I litotipi cavati in provincia sono quattro: arenaria, calcare, gesso e ofiolite. Per l’ofiolite si tratta di coltivazioni sporadiche e difficilmente ripetibili dato il rischio che può esserci di incontrare l’amianto in queste formazioni; è quindi probabile che non verranno più aperte. Il gesso era una grande risorsa a fine ‘800, con molte cave aperte nella Vena del Gesso. Questa zona è diventata il Parco dei Gessi Bolognesi, lasciando alla cava di Borgo Rivola il compito di provvedere al fabbisogno regionale. Il calcare viene per lo più usato come inerte, ma non mancano esempi di formazioni adatte a essere usate come blocchi. La vera protagonista del panorama bolognese rimane l’arenaria, che venne usata da sempre per costruire paesi e città in provincia. Le cave, molte e di ridotte dimensioni, sono molto spesso difficili da trovare a causa della conseguente rinaturalizzazione. Ci sono possibilità però di vedere riaprire cave di questo materiale a Monte Finocchia, tramite la messa in sicurezza di una frana, e forse anche tramite la volontà di sindaci di comunità montane, sensibili a questo argomento. Per avere una descrizione “viva” della situazione attuale, sono stati intervistati il Dott. Maurizio Aiuola, geologo della Provincia di Bologna, e il Geom. Massimo Romagnoli della Regione Emilia-Romagna, che hanno fornito una panoramica esauriente dei problemi che hanno portato ad avere in regione dei poli unici estrattivi anziché più cave di modeste dimensioni, e delle possibilità future. Le grandi cave sono, da parte della regione, più facilmente controllabili, essendo poche, e più facilmente ripristinabili data la disponibilità economica di chi la gestisce. Uno dei problemi emersi che contrastano l’apertura di aree estrattive minori, inoltre, è la spietata concorrenza dei materiali esteri, che costano, a parità di qualità, circa la metà del materiale italiano. Un esempio di ciò lo si è potuto esaminare nel comune di Sestola (MO), dove, grazie all’aiuto e alle spiegazioni del Geom. Edo Giacomelli si è documentato come il granito e la pietra di Luserna esteri utilizzati rispondano ai requisiti di resistenza e non gelività che un paese sottoposto ai rigori dell’inverno richiede ai lapidei, al contrario di alcune arenarie già in opera provenienti dal comune di Bagno di Romagna. Alla luce di questo esempio si è proceduto a calcolare brevemente l’ LCA di questo commercio, utilizzando con l’aiuto dell’ Ing. Cristian Chiavetta il software SimaPRO, in cui si è ipotizzato il trasporto di 1000 m3 di arenaria da Shanghai (Cina) a Bologna e da Karachi (Pakistan) a Bologna, comparandolo con le emissioni che possono esserci nel trasporto della stessa quantità di materiale dal comune di Monghidoro (BO) al centro di Bologna. Come previsto, il trasporto da paesi lontani comporta un impatto ambientale quasi non comparabile con quello locale, in termini di consumo di risorse organiche e inorganiche e la conseguente emissione di gas serra. Si è ipotizzato allora una riapertura di cave locali a fini non edilizi ma di restauro; esistono infatti molti edifici e monumenti vincolati in provincia, e quando questi devono essere restaurati, dove si sceglie di cavare il materiale necessario e rispondente a quello già in opera? Al riguardo, si è passati attraverso altre due interviste ai Professori Francesco Eleuteri, architetto presso la Soprintendenza dei Beni Culturali a Bologna e Gian Carlo Grillini, geologo-petrografo e esperto di restauro. Ciò che è emerso è che effettivamente non esiste attualmente una panoramica soddisfacente di quello che è il patrimonio lapideo della provincia, mancando, oltre alla georeferenziazione, una caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica adeguata a poter descrivere ciò che veniva anticamente cavato; l’ipotesi di riapertura a fini restaurativi potrebbe esserci, ma non sembra essere la maggiore necessità attualmente, in quanto il restauro viene per lo più fatto senza sostituzioni o integrazioni, tranne rari casi; è pur sempre utile avere una carta alla mano che possa correlare l’edificio storico con la zona di estrazione del materiale, quindi entrambi i professori hanno auspicato una prosecuzione della ricerca. Si può concludere dicendo che la ricerca può proseguire con una migliore e più efficace localizzazione delle cave sul terreno, usando anche come fonte il sapere della popolazione locale, e di procedere con una parte pratica che riguardi la caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica. L’utilità di questi dati può esserci nel momento in cui si facciano ricerche storiche sui beni artistici presenti a Bologna, e qualora si ipotizzi una riapertura di una zona estrattiva.

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Lo studio condotto si propone l’approfondimento delle conoscenze sui processi di evoluzione spontanea di comunità vegetali erbacee di origine secondaria in cinque siti all’interno di un’area protetta del Parco di Monte Sole (Bologna, Italia), dove, come molte aree rurali marginali in Italia e in Europa, la cessazione o riduzione delle tradizionali pratiche gestionali negli ultimi cinquant’anni, ha determinato lo sviluppo di fitocenosi di ridotto valore floristico e produttivo. Tali siti si trovano in due aree distinte all’interno del parco, denominate Zannini e Stanzano, selezionate in quanto rappresentative di situazioni di comunità del Mesobrometo. Due siti appartenenti alla prima area e uno appartenente alla seconda, sono gestiti con sfalcio annuale, i rimanenti non hanno nessun tipo di gestione. Lo stato delle comunità erbacee di tali siti è stato valutato secondo più punti di vista. E’ stata fatta una caratterizzazione vegetazionale dei siti, mediante rilievo lineare secondo la metodologia Daget-Poissonet, permettendo una prima valutazione relativa al numero di specie presenti e alla loro abbondanza all’interno della comunità vegetale, determinando i Contributi Specifici delle famiglie principali e delle specie dominanti (B. pinnatum, B. erectus e D. glomerata). La produttività è stata calcolata utilizzando un indice di qualità foraggera, il Valore Pastorale, e con la determinazione della produzione di Fitomassa totale, Fitomassa fotosintetizzante e Necromassa. A questo proposito sono state trovate correlazioni negative tra la presenza di Graminacee, in particolare di B. pinnatum, e i Contributi Specifici delle altre specie, soprattutto a causa dello spesso strato di fitomassa e necromassa prodotto dallo stesso B. pinnatum che impedisce meccanicamente l’insediamento e la crescita di altre piante. E’ stata inoltre approfonditamente sviluppata un terza caratterizzazione, che si propone di quantificare la diversità funzionale dei siti medesimi, interpretando le risposte della vegetazione a fattori globali di cambiamento, sia abiotici che biotici, per cogliere gli effetti delle variazioni ambientali in atto sulla comunità, e più in generale, sull’intero ecosistema. In particolare, nello studio condotto, sono stati proposti alcuni caratteri funzionali, cosiddetti functional traits, scelti perché correlati all’acquisizione e alla conservazione delle risorse, e quindi al trade-off dei nutrienti all’interno della pianta, ossia: Superficie Fogliare Specifica, SLA, Tenore di Sostanza Secca, LDMC, Concentrazione di Azoto Fogliare, LNC, Contenuto in Fibra, LFC, separato nelle componenti di Emicellulosa, Cellulosa, Lignina e Ceneri. Questi caratteri sono stati misurati in relazione a tre specie dominanti: B. pinnatum, B. erectus e D. glomerata. Si tratta di specie comunemente presenti nelle praterie semi-mesofile dell’Appennino Settentrionale, ma caratterizzate da differenti proprietà ecologiche e adattative: B. pinnatum e B. erectus sono considerati competitori stress-toleranti, tipicamente di ambienti poveri di risorse, mentre D. glomerata, è una specie più mesofila, caratteristica di ambienti produttivi. Attraverso l’analisi dei traits in riferimento alle diverse strategie di queste specie, sono stati descritti specifici adattamenti alle variazioni delle condizioni ambientali, ed in particolare in risposta al periodo di stress durante l’estate dovuto a deficit idrico e in risposta alla diversa modalità di gestione dei siti, ossia alla pratica o meno dello sfalcio annuale. Tra i caratteri funzionali esaminati, è stato identificato LDMC come il migliore per descrivere le specie, in quanto più facilmente misurabile, meno variabile, e direttamente correlato con altri traits come SLA e le componenti della fibra. E’ stato quindi proposto il calcolo di un indice globale per caratterizzare i siti in esame, che tenesse conto di tutti questi aspetti, riunendo insieme sia i parametri di tipo vegetativo e produttivo, che i parametri funzionali. Tale indice ha permesso di disporre i siti lungo un gradiente e di cogliere differenti risposte in relazione a variazioni stagionali tra primavera o autunno e in relazione al tipo di gestione, valutando le posizioni occupate dai siti stessi e la modalità dei loro eventuali spostamenti lungo questo gradiente. Al fine di chiarire se le variazioni dei traits rilevate fossero dovute ad adattamento fenotipico dei singoli individui alle condizioni ambientali, o piuttosto fossero dovute a differenziazione genotipica tra popolazioni cresciute in siti diversi, è stato proposto un esperimento in condizioni controllate. All’interno di un’area naturale in UK, le Chiltern Hills, sono stati selezionati cinque siti, caratterizzati da diverse età di abbandono: Bradenham Road MaiColtivato e Small Dean MaiColtivato, di cui non si conosce storia di coltivazione, caratterizzati rispettivamente da vegetazione arborea e arbustiva prevalente, Butterfly Bank 1970, non più coltivato dal 1970, oggi prateria seminaturale occasionalmente pascolata, Park Wood 2001, non più coltivato dal 2001, oggi prateria seminaturale mantenuta con sfalcio annuale, e infine Manor Farm Coltivato, attualmente arato e coltivato. L’esperimento è stato condotto facendo crescere i semi delle tre specie più comuni, B. sylvaticum, D. glomerata e H. lanatus provenienti dai primi quattro siti, e semi delle stesse specie acquistati commercialmente, nei cinque differenti tipi di suolo dei medesimi siti. Sono stati misurati quattro caratteri funzionali: Massa Radicale Secca (DRM), Massa Epigea Secca (DBM), Superficie Fogliare Secca (SLA) e Tenore di Sostanza Secca (LDMC). I risultati ottenuti hanno evidenziato che ci sono significative differenze tra le popolazioni di una stessa specie ma con diversa provenienza, e tra individui appartenenti alla stessa popolazione se fatti crescere in suoli diversi. Tuttavia, queste differenze, sembrano essere dovute ad adattamenti locali legati alla presenza di nutrienti, in particolare N e P, nel suolo piuttosto che a sostanziali variazioni genotipiche tra popolazioni. Anche per questi siti è stato costruito un gradiente sulla base dei quattro caratteri funzionali analizzati. La disposizione dei siti lungo il gradiente ha evidenziato tre gruppi distinti: i siti più giovani, Park Wood 2001 e Manor Farm Coltivato, nettamente separati da Butterfly Bank 1970, e seguiti infine da Small Dean MaiColtivato e Bradenham Road MaiColtivato. L’applicazione di un indice così proposto potrebbe rivelarsi un utile strumento per descrivere ed indagare lo stato della prateria e dei processi evolutivi in atto, al fine di meglio comprendere e dominare tali dinamiche per proporre sistemi di gestione che ne consentano la conservazione anche in assenza delle tradizionali cure colturali.

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Il lavoro tratta l’applicazione di un progetto di Certificazione del Sistema di Gestione della Qualità di un’innovativa linea di Business nel settore delle macchine per il confezionamento delle bevande. Questo lavoro è stato preparato durante un periodo di Stage della durata di sei mesi effettuato presso SACMI IMOLA S.C. (Imola, BOLOGNA) a seguito della necessità, riscontrata dal management, di allineare il sistema gestione qualità della nuova linea di business alla normativa ISO 9001:2008, come per le altre linee di business dell’azienda. Tutto questo mediante l’implementazione di un sistema di Business Process Management (BPM) e di tutti i sistemi informatici ad esso collegati. La tesi si struttura in tre parti. Nella prima parte, attraverso un’indagine della letteratura di riferimento, si sono indagati l’evoluzione storica, la struttura attuale e i possibili scenari evolutivi inerenti il concetto di qualità, il sistema gestione qualità e la normativa di riferimento. La seconda parte è dedicata all’approfondimento delle tematiche del BPM, i cui principi hanno guidato l’intervento effettuato. La ricerca è stata condotta allo scopo di evidenziare le radici e gli elementi innovativi che contraddistinguono questo approccio di “management”, descrivere gli aspetti che ne hanno determinato la diffusione e l’evoluzione ed evidenziare, inoltre, il collegamento tra l’approccio per processi che sta alla base di questa filosofia di management e lo stesso approccio previsto nella normativa ISO 9001:2008 e, più specificatamente nella cosiddetta Vision 2000. Tale sezione si conclude con la formalizzazione delle metodologia e degli strumenti effettivamente utilizzati per la gestione del progetto. La terza ed ultima parte del lavoro consiste nella descrizione del caso. Vengono presentate le varie fasi dell’implementazione del progetto, dall’analisi dell’attuale situazione alla costruzione dell’infrastruttura informatica per l’attuazione del BPM ottenuta attraverso l’applicazione dei “criteri di progettazione” trattati dalla letteratura di riferimento, passando per la mappatura dei processi attualmente in vigore e per l’analisi delle performance del processo attuale, misurate attraverso indicatori sviluppati “ad hoc”. Il lavoro è arricchito dall’analisi di un’innovativa metodologia per la creazione di un sistema di gestione integrato delle certificazioni (ISO 9001, ISO 14001, OHSAS 18001) fondato sull’infrastruttura informatica creata.

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La tesi individua alcune strategie di rigenerazione urbana e di riqualificazione edilizia, al fine di ottenere una serie di linee guida per l’intervento sul patrimonio di edilizia abitativa situata nelle periferie urbane. Tali principi sono stati poi applicati ad un edificio ACER collocato nella prima periferia di Forlì, per sperimentare l’efficacia delle strategie individuate. Dalla ricerca svolta sulle strategie di intervento volte alla riqualificazione sociale delle periferie, in particolare la teoria del “Defencible space” di Jacobs, si evidenzia l’importanza di accentuare nei residenti il sentimento di territorialità, ovvero la consapevolezza di far parte di una comunità specifica insediata in un particolare spazio, alimentata attraverso la frequentazione e l’appropriazione percettivo-funzionale degli spazi pubblici. Si è deciso quindi di allargare il campo di intervento alla rigenerazione dell’interno comparto, attraverso la riorganizzazione degli spazi verdi e la dotazione di attrezzature sportive e ricreative, in modo da offrire spazi specifici per le diverse utenze (anziani, giovani, bambini) e la definizione di un programma funzionale di servizi ricreativi e spazi destinati a piccolo commercio per integrare le dotazioni carenti dell’area. Dall’analisi approfondita dell’edificio sono emerse le criticità maggiori su cui intervenire: - l’intersezione dei percorsi di accesso all’edificio - la struttura portante rigida, non modificabile - la scarsa varietà tipologica degli alloggi - l’elevato fabbisogno energetico. La riqualificazione dell’edificio ha toccato quindi differenti campi: tecnologico, funzionale, energetico e sociale; il progetto è stato strutturato come una serie di fasi successive di intervento, eventualmente realizzabili in tempi diversi, in modo da consentire il raggiungimento di diversi obiettivi di qualità, in funzione della priorità data alle diverse esigenze. Secondo quest’ottica, il primo grado di intervento, la fase 1 - riqualificazione energetica, si limita all’adeguamento dello stato attuale alle prestazioni energetiche richieste dalla normativa vigente, in assenza di adeguamenti tipologici e spaziali. La fase 2 propone la sostituzione degli impianti di riscaldamento a caldaie autonome presenti attualmente con un impianto centralizzato con pompa di calore, un intervento invasivo che rende necessaria la realizzazione di un “involucro polifunzionale” che avvolge completamente l’edificio. Questo intervento nasce da tre necessità fondamentali : - architettonica: poter ampliare verso l’esterno le superfici degli alloggi, così da intervenire sulle unità abitative rendendole più rispondenti alle necessità odierne; - statica: non dover gravare in ciò sull’edificio esistente apportando ulteriori carichi, difficilmente sopportabili dalla struttura esistente, assicurando il rispetto della normativa antisismica in vigore; - impiantistica/tecnologica: alloggiare i condotti del nuovo impianto centralizzato per il riscaldamento, raffrescamento e acs; La fase 3 è invece incentrata sull’ampliamento dell’offerta abitativa, in modo da rispondere anche a necessità legate ad utenze speciali, come utenti disabili o anziani. L’addizione di nuovi volumi si sviluppa in tre direzioni: - un volume parassita, che aderisce all’edificio nel fronte sud/est, indipendente dal punto di vista strutturale, ruotato per sfruttare al meglio l’orientamento ottimale. - un volume satellite, indipendente, connesso all’edificio esistente tramite un elemento di raccordo, e nel quale sono collocati alcuni alloggi speciali. - un’addizione in copertura, che non appoggia direttamente sul solaio di copertura esistente, ma grava sull’elemento di chiusura del’involucro realizzato nella fase 2 Completano il progetto le addizioni volumetriche a piano terra, destinate a servizi quali un centro diurno, un micronido e un bar, i quali costituiscono la traduzione alla scala dell’edificio delle strategie applicate nel progetto di comparto. Questi interventi hanno consentito di trasformare un edificio costruito negli anni ’80 in un complesso residenziale moderno, dotato spazi accessori di grande qualità, tecnologie moderne che ne garantiscono il comfort abitativo, servizi alla persona disponibili in prossimità dell’edificio.