937 resultados para Roa Bastos, Augusto Antonio, 1917-2005 - Crítica e interpretação


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La ricerca ha perseguito l’obiettivo di individuare e definire il potere di un ente territoriale di sostituire, tramite i suoi organi o atti, quelli ordinari degli enti territoriali minori, per assumere ed esercitare compiutamente, in situazioni straordinarie, le funzioni proprie di questi. Dogmaticamente potremmo distinguere due generali categorie di sostituzione: quella amministrativa e quella legislativa, a seconda dell’attività giuridica nella quale il sostituto interviene. Nonostante tale distinzione riguardi in generale il rapporto tra organi o enti della stessa o di differenti amministrazioni, con eguale o diverso grado di autonomia; la ricerca ha mirato ad analizzare le due summenzionate categorie con stretto riferimento agli enti territoriali. I presupposti, l’oggetto e le modalità di esercizio avrebbero consentito ovviamente di sottocatalogare le due generali categorie di sostituzione, ma un’indagine volta a individuare e classificare ogni fattispecie di attività sostitutiva, più che un’attività complessa, è sembrata risultare di scarsa utilità. Più proficuo è parso il tentativo di ricostruire la storia e l’evoluzione del menzionato istituto, al fine di definire e comprendere i meccanismi che consentono l’attività sostitutiva. Nel corso della ricostruzione non si è potuto trascurare che, all’interno dell’ordinamento italiano, l’istituto della sostituzione è nato nel diritto amministrativo tra le fattispecie che regolavano l’esercizio della funzione amministrativa indiretta. La dottrina del tempo collocava la potestà sostitutiva nella generale categoria dei controlli. La sostituzione, infatti, non avrebbe avuto quel valore creativo e propulsivo, nel mondo dell’effettualità giuridica, quell’energia dinamica ed innovatrice delle potestà attive. La sostituzione rappresentava non solo la conseguenza, ma anche la continuazione del controllo. Le fattispecie, che la menzionata dottrina analizzava, rientravano principalmente all’interno di due categorie di sostituzione: quella disposta a favore dello Stato contro gli inadempimenti degli enti autarchici – principalmente il comune – nonché la sostituzione operata all’interno dell’organizzazione amministrativa dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato. Già in epoca unitaria era possibile rinvenire poteri sostitutivi tra enti, la prima vera fattispecie di potestà sostitutiva, era presente nella disciplina disposta da diverse fattispecie dell'allegato A della legge 20 marzo 1856 n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno. Tentativo del candidato è stato quello, quindi, di ricostruire l'evoluzione delle fattispecie sostitutive nella stratificazione normativa che seguì con il T.U. della legge Comunale e Provinciale R.D. 4 febbraio 1915 e le successive variazioni tra cui il R.D.L. 30 dicembre 1923. Gli istituti sostitutivi vennero meno (di fatto) con il consolidarsi del regime fascista. Il fascismo, che in un primo momento aveva agitato la bandiera delle autonomie locali, non tardò, come noto, una volta giunto al potere, a seguire la sua vera vocazione, dichiarandosi ostile a ogni proposito di decentramento e rafforzando, con la moltiplicazione dei controlli e la soppressione del principio elettivo, la già stretta dipendenza delle comunità locali dallo Stato. Vennero meno i consigli liberamente eletti e al loro posto furono insediati nel 1926 i Podestà e i Consultori per le Amministrazioni comunali; nel 1928 i Presidi e i Rettorati per le Amministrazioni Provinciali, tutti organi nominati direttamente o indirettamente dall’Amministrazione centrale. In uno scenario di questo tipo i termini autarchia e autonomia risultano palesemente dissonanti e gli istituti di coordinamento tra Stato ed enti locali furono ad esso adeguati; in tale ordinamento, infatti, la sostituzione (pur essendo ancora presenti istituti disciplinanti fattispecie surrogatorie) si presentò come un semplice rapporto interno tra organi diversi, di uno stesso unico potere e non come esso è in realtà, anello di collegamento tra soggetti differenti con fini comuni (Stato - Enti autarchici); per semplificare, potremmo chiederci, in un sistema totalitario come quello fascista, in cui tutti gli interessi sono affidati all’amministrazione centrale, chi dovrebbe essere il sostituito. Il potere sostitutivo (in senso proprio) ebbe una riviviscenza nella normativa post-bellica, come reazione alla triste parentesi aperta dal fascismo, che mise a nudo i mali e gli abusi dell’accentramento statale. La suddetta normativa iniziò una riforma in favore delle autonomie locali; infatti, come noto, tutti i partiti politici assunsero posizione in favore di una maggiore autonomia degli enti territoriali minori e ripresero le proposte dei primi anni dell’Unità di Italia avanzate dal Minghetti, il quale sentiva l’esigenza dell’istituzione di un ente intermedio tra Stato e Province, a cui affidare interessi territorialmente limitati: la Regione appunto. Emerge piuttosto chiaramente dalla ricerca che la storia politica e l’evoluzione del diritto pubblico documentano come ad una sempre minore autonomia locale nelle politiche accentratrici dello Stato unitario prima, e totalitario poi, corrisponda una proporzionale diminuzione di istituti di raccordo come i poteri sostitutivi; al contrario ad una sempre maggiore ed evoluta autonomia dello Stato regionalista della Costituzione del 1948 prima, e della riforma del titolo V oggi, una contestuale evoluzione e diffusione di potestà sostitutive. Pare insomma che le relazioni stato-regioni, regioni-enti locali che la sostituzione presuppone, sembrano rappresentare (ieri come oggi) uno dei modi migliori per comprendere il sistema delle autonomie nell’evoluzione della stato regionale e soprattutto dopo la riforma apportata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Dalla preliminare indagine storica un altro dato, che pare emergere, sembra essere la constatazione che l'istituto nato e giustificato da esigenze di coerenza e efficienza dell'azione amministrativa sia stato trasferito nell'ambio delle relazioni tra stato e autonomie territoriali. Tale considerazione sembra essere confermata dal proseguo dell’indagine, ed in particolare dai punti di contatto tra presupposti e procedure di sostituzione nell’analisi dell’istituto. Nonostante, infatti, il Costituente non disciplinò poteri sostitutivi dello Stato o delle regioni, al momento di trasferire le competenze amministrative alle regioni la Corte costituzionale rilevò il problema della mancanza di istituti posti a garantire gli interessi pubblici, volti ad ovviare alle eventuali inerzie del nuovo ente territoriale. La presente ricerca ha voluto infatti ricostruire l’ingresso dei poteri sostitutivi nel ordinamento costituzionale, riportando le sentenze del Giudice delle leggi, che a partire dalla sentenza n. 142 del 1972 e dalla connessa pronuncia n. 39 del 1971 sui poteri di indirizzo e coordinamento dello Stato, pur non senza incertezze e difficoltà, ha finito per stabilire un vero e proprio “statuto” della sostituzione con la sentenza n. 177 del 1988, individuando requisiti sostanziali e procedurali, stimolando prima e correggendo successivamente gli interventi del legislatore. Le prime fattispecie sostitutive furono disciplinate con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare con l’art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, la quale disciplina, per il rispetto dell’autonomia regionale, venne legittimata dalla stessa Corte nella sentenza n. 182 del 1976. Sempre con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari intervenne l’art. 6 c. 3°, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616. La stessa norma va segnalata per introdurre (all’art. 4 c. 3°) una disciplina generale di sostituzione in caso di inadempimento regionale nelle materie delegate dallo Stato. Per il particolare interesse si deve segnalare il D.M. 21 settembre 1984, sostanzialmente recepito dal D.L. 27 giugno 1985, n. 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), poi convertito in legge 8 agosto 1985, n. 431 c.d. legge Galasso. Tali disposizioni riaccesero il contenzioso sul potere sostitutivo innanzi la Corte Costituzionale, risolto nelle sentt. n. 151 e 153 del 1986. Tali esempi sembrano dimostrare quello che potremmo definire un dialogo tra legislatore e giudice della costituzionalità nella definizione dei poteri sostitutivi; il quale culminò nella già ricordata sent. n. 177 del 1988, nella quale la Corte rilevò che una legge per prevedere un potere sostitutivo costituzionalmente legittimo deve: essere esercitato da parte di un organo di governo; nei confronti di attività prive di discrezionalità nell’an e presentare idonee garanzie procedimentali in conformità al principio di leale collaborazione. Il modello definito dalla Corte costituzionale sembra poi essere stato recepito definitivamente dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale per prima ha connesso la potestà sostitutiva con il principio di sussidiarietà. Detta legge sembra rappresentare un punto di svolta nell’indagine condotta perché consente di interpretare al meglio la funzione – che già antecedentemente emergeva dallo studio dei rapporti tra enti territoriali – dei poteri sostitutivi quale attuazione del principio di sussidiarietà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha disciplinato all’interno della Costituzione ben due fattispecie di poteri sostitutivi all’art. 117 comma 5 e all’art. 120 comma 2. La “lacuna” del 1948 necessitava di essere sanata – in tal senso erano andati anche i precedenti tentativi di riforma costituzionale, basti ricordare l’art. 58 del progetto di revisione costituzionale presentato dalla commissione D’Alema il 4 novembre 1997 – i disposti introdotti dal riformatore costituzionale, però, non possono certo essere apprezzati per la loro chiarezza e completezza. Le due richiamate disposizioni costituzionali, infatti, hanno prodotto numerose letture. Il dibattito ha riguardato principalmente la natura delle due fattispecie sostitutive. In particolare, si è discusso sulla natura legislativa o amministrativa delle potestà surrogatorie e sulla possibilità da parte del legislatore di introdurre o meno la disciplina di ulteriori fattispecie sostitutive rispetto a quelle previste dalla Costituzione. Con particolare riferimento all’art. 120 c. 2 Cost. sembra semplice capire che le difficoltà definitorie siano state dovute all’indeterminatezza della fattispecie, la quale attribuisce al Governo il potere sostitutivo nei confronti degli organi (tutti) delle regioni, province, comuni e città metropolitane. In particolare, la dottrina, che ha attribuito all’art. 120 capoverso la disciplina di un potere sostitutivo sulle potestà legislative delle Regioni, è partita dalla premessa secondo la quale detta norma ha una funzione fondamentale di limite e controllo statale sulle Regioni. La legge 18 ottobre 2001 n. 3 ha, infatti, variato sensibilmente il sistema dei controlli sulle leggi regionali, con la modificazione degli artt. 117 e 127 della Costituzione; pertanto, il sistema dei controlli dopo la riforma del 2001, troverebbe nel potere sostitutivo ex art. 120 la norma di chiusura. Sul tema è insistito un ampio dibattito, al di là di quello che il riformatore costituzionale avrebbe dovuto prevedere, un’obiezione (più delle altre) pare spingere verso l’accoglimento della tesi che propende per la natura amministrativa della fattispecie in oggetto, ovvero la constatazione che il Governo è il soggetto competente, ex art. 120 capoverso Cost., alla sostituzione; quindi, se si intendesse la sostituzione come avente natura legislativa, si dovrebbe ritenere che il Costituente abbia consentito all’Esecutivo, tosto che al Parlamento, l’adozione di leggi statali in sostituzione di quelle regionali. Suddetta conseguenza sembrerebbe comportare una palese violazione dell’assetto costituzionale vigente. Le difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. si sono riversate sulla normativa di attuazione della riforma costituzionale, legge 5 giugno 2003, n. 131. In particolare nell’art. 8, il quale ha mantenuto un dettato estremamente vago e non ha preso una chiara e netta opzione a favore di una della due interpretazione riportate circa la natura della fattispecie attuata, richiamando genericamente che il potere sostitutivo si adotta “Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120” Cost. Di particolare interesse pare essere, invece, il procedimento disciplinato dal menzionato art. 8, il quale ha riportato una procedura volta ad attuare quelle che sono state le indicazioni della Corte in materia. Analogamente agli anni settanta ed ottanta, le riportate difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. e, più in generale il tema dei poteri sostitutivi dopo la riforma del 2001, sono state risolte e definite dal giudice della costituzionalità. In particolare, la Corte sembra aver palesemente accolto (sent. n. 43 del 2004) la tesi sulla natura amministrativa del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 c. 2 Cost. Il giudice delle leggi ha tra l’altro fugato i dubbi di chi, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, aveva letto nel potere sostitutivo, attribuito dalla riformata Costituzione al Governo, l’illegittimità di tutte quelle previsioni legislative regionali, che disponevano ipotesi di surrogazione (da parte della regione) nei confronti degli enti locali. La Corte costituzionale, infatti, nella già citata sentenza ha definito “straordinario” il potere di surrogazione attribuito dall’art. 120 Cost. allo Stato, considerando “ordinare” tutte quelle fattispecie sostitutive previste dalla legge (statale e regionale). Particolarmente innovativa è la parte dell'indagine in cui la ricerca ha verificato in concreto la prassi di esercizio della sostituzione statale, da cui sono sembrate emergere numerose tendenze. In primo luogo significativo sembra essere il numero esiguo di sostituzioni amministrative statali nei confronti delle amministrazioni regionali; tale dato sembra dimostrare ed essere causa della scarsa “forza” degli esecutivi che avrebbero dovuto esercitare la sostituzione. Tale conclusione sembra trovare conferma nell'ulteriore dato che sembra emergere ovvero i casi in cui sono stati esercitati i poteri sostitutivi sono avvenuti tutti in materie omogenee (per lo più in materia di tutela ambientale) che rappresentano settori in cui vi sono rilevanti interessi pubblici di particolare risonanza nell'opinione pubblica. Con riferimento alla procedura va enfatizzato il rispetto da parte dell'amministrazione sostituente delle procedure e dei limiti fissati tanto dal legislatore quanto nella giurisprudenza costituzionale al fine di rispettare l'autonomia dell'ente sostituito. Dalla ricerca emerge che non è stato mai esercitato un potere sostitutivo direttamente ex art. 120 Cost., nonostante sia nella quattordicesima (Governo Berlusconi) che nella quindicesima legislatura (Governo Prodi) con decreto sia stata espressamente conferita al Ministro per gli affari regionali la competenza a promuovere l’“esercizio coordinato e coerente dei poteri e rimedi previsti in caso di inerzia o di inadempienza, anche ai fini dell'esercizio del potere sostitutivo del Governo di cui all'art. 120 della Costituzione”. Tale conclusione, però, non lascia perplessi, bensì, piuttosto, sembra rappresentare la conferma della “straordinarietà” della fattispecie sostitutiva costituzionalizzata. Infatti, in via “ordinaria” lo Stato prevede sostituzioni per mezzo di specifiche disposizioni di legge o addirittura per mezzo di decreti legge, come di recente il D.L. 09 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania. Misure per la raccolta differenziata), che ha assegnato al Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri “le funzioni di Commissario delegato per l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania per il periodo necessario al superamento di tale emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2007”. Spesso l’aspetto interessante che sembra emergere da tali sostituzioni, disposte per mezzo della decretazione d’urgenza, è rappresentato dalla mancata previsione di diffide o procedure di dialogo, perché giustificate da casi di estrema urgenza, che spesso spingono la regione stessa a richiedere l’intervento di surrogazione. Del resto è stata la stessa Corte costituzionale a legittimare, nei casi di particolare urgenza e necessità, sostituzioni prive di dialogo e strumenti di diffida nella sent. n. 304 del 1987. Particolare attenzione è stata data allo studio dei poteri sostitutivi regionali. Non solo perché meno approfonditi in letteratura, ma per l’ulteriore ragione che tali fattispecie, disciplinate da leggi regionali, descrivono i modelli più diversi e spingono ad analisi di carattere generale in ordine alla struttura ed alla funzione dei poteri sostitutivi. Esse sembrano rappresentare (in molti casi) modelli da seguire dallo stesso legislatore statale, si vedano ad esempio leggi come quella della regione Toscana 31 ottobre 2001, n. 53, artt. 2, 3, 4, 5, 7; legge regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, art. 30, le quali recepiscono i principi sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale e scandiscono un puntuale procedimento ispirato alla collaborazione ed alla tutela delle attribuzioni degli enti locali. La ricerca di casi di esercizio di poter sostitutivi è stata effettuata anche con riferimento ai poteri sostitutivi regionali. I casi rilevati sono stati numerosi in particolare nella regione Sicilia, ma si segnalano anche casi nelle regioni Basilicata ed Emilia-Romagna. Il dato principale, che sembra emergere, pare essere che alle eterogenee discipline di sostituzione corrispondano eterogenee prassi di esercizio della sostituzione. Infatti, alle puntuali fattispecie di disciplina dei poteri sostitutivi dell’Emilia-Romagna corrispondono prassi volte ad effettuare la sostituzione con un delibera della giunta (organo di governo) motivata, nel rispetto di un ampio termine di diffida, nonché nella ricerca di intese volte ad evitare la sostituzione. Alla generale previsione della regione Sicilia, pare corrispondere un prassi sostitutiva caratterizzata da un provvedimento del dirigente generale all’assessorato per gli enti locali (organo di governo?), per nulla motivato, salvo il richiamo generico alle norme di legge, nonché brevi termini di diffida, che sembrano trovare la loro giustificazione in note o solleciti informati che avvisano l’ente locale della possibile sostituzione. In generale il fatto che in molti casi i poteri sostitutivi siano stimolati per mezzo dell’iniziativa dei privati, sembra dimostrare l’attitudine di tal istituto alla tutela degli interessi dei singoli. I differenti livelli nei quali operano i poteri sostitutivi, il ruolo che la Corte ha assegnato a tali strumenti nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nonché i dati emersi dall’indagine dei casi concreti, spingono ad individuare nel potere sostitutivo uno dei principali strumenti di attuazione del principio di sussidiarietà, principio quest’ultimo che sembra rappresentare – assieme ai corollari di proporzionalità, adeguatezza e leale collaborazione – la chiave di lettura della potestà sostitutiva di funzioni amministrative. In tal senso, come detto, pare emergere dall’analisi di casi concreti come il principio di sussidiarietà per mezzo dei poteri sostitutivi concretizzi quel fine, a cui l’art. 118 cost. sembra mirare, di tutela degli interessi pubblici, consentendo all’ente sovraordinato di intervenire laddove l’ente più vicino ai cittadini non riesca. Il principio di sussidiarietà sembra essere la chiave di lettura anche dell’altra categoria della sostituzione legislativa statale. L’impossibilità di trascurare o eliminare l’interesse nazionale, all’interno di un ordinamento regionale fondato sull’art. 5 Cost., sembra aver spino la Corte costituzionale ad individuare una sorta di “potere sostitutivo legislativo”, attraverso il (seppur criticabile) meccanismo introdotto per mezzo della sent. 303 del 2003 e della cosiddetta “chiamata i sussidiarietà”. Del resto adattare i principi enucleati nella giurisprudenza costituzionale a partire dalla sent. n. 117 del 1988 alla chiamata in sussidiarietà e i limiti che dal principio di leale collaborazione derivano, sembra rappresentare un dei modi (a costituzione invariata) per limitare quello che potrebbe rappresentare un meccanismo di rilettura dell’art. 117 Cost. ed ingerenza dello stato nelle competenze della regioni. Nonostante le sensibili differenze non si può negare che lo strumento ideato dalla Corte abbia assunto le vesti della konkurrierende gesetzgebung e, quindi, di fatto, di un meccanismo che senza limiti e procedure potrebbe rappresentare uno strumento di interferenza e sostituzione della stato nelle competenze regionali. Tali limiti e procedure potrebbero essere rinvenuti come detto nelle procedure di sostituzione scandite nelle pronunce del giudice delle leggi. I risultati che si spera emergeranno dalla descritta riflessione intorno ai poteri sostitutivi e il conseguente risultato circa lo stato del regionalismo italiano, non sembrano, però, rappresentare un punto di arrivo, bensì solo di partenza. I poteri sostitutivi potrebbero infatti essere oggetto di futuri interventi di riforma costituzionale, così come lo sono stati in occasione del tentativo di riforma del 2005. Il legislatore costituzionale nel testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta (recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione” e pubblicato in gazzetta ufficiale n. 269 del 18-11-2005) pareva aver fatto un scelta chiara sostituendo il disposto “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni” con “Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell'esercizio delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118”. Insomma si sarebbe introdotto quello strumento che in altri Paesi prende il nome di Supremacy clause o Konkurrierende Gesetzgebung, ma quali sarebbero state le procedure e limiti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare? Il dettato che rigidamente fissa le competenze di stato e regioni, assieme alla reintroduzione espressa dell’interesse nazionale, non avrebbe ridotto eccessivamente l’autonomia regionale? Tali interrogativi mirano a riflettere non tanto intorno a quelli che potrebbero essere gli sviluppi dell’istituto dei poteri sostitutivi. Piuttosto essi sembrano rappresenterebbe l’ulteriore punto di vista per tentare di comprendere quale percorso avrebbe potuto (o potrebbe domani) prendere il regionalismo italiano.

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Presentación de A. MARTÍNEZ ("Crítica a la utopía, crítica a la realidad...") al profesor Antonio PIZZA ("Barcelona Crítica -escenarios actuales-") dentro del Foro Crítica I (2007): "Construir con palabras".

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Agrobacterium is widely considered to be the only bacterial genus capable of transferring genes to plants. When suitably modified, Agrobacterium has become the most effective vector for gene transfer in plant biotechnology1. However, the complexity of the patent landscape2 has created both real and perceived obstacles to the effective use of this technology for agricultural improvements by many public and private organizations worldwide. Here we show that several species of bacteria outside the Agrobacterium genus can be modified to mediate gene transfer to a number of diverse plants. These plant-associated symbiotic bacteria were made competent for gene transfer by acquisition of both a disarmed Ti plasmid and a suitable binary vector. This alternative to Agrobacterium-mediated technology for crop improvement, in addition to affording a versatile ‘open source’ platform for plant biotechnology, may lead to new uses of natural bacteria– plant interactions to achieve plant transformation.

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O livro Contos de amor rasgados, de Marina Colasanti, foi publicado em 1986, década de consolidação das conquistas do movimento feminista (Pinto, 2003). O feminismo almejava uma mudança de mentalidade, mudança nas práticas sociais e nos discursos sobre a mulher (ibid.). Entretanto, a mulher nos contos é representada de forma peculiar, frustrando as expectativas de uma imagem positiva esperada de uma literatura produzida por uma autora feminista. Este estudo propõe a análise dos contos de Marina Colasanti, destacando algumas questões acerca da representação dos atores sociais em textos-contos que pretendem veicular um discurso de liberação da mulher. Para tanto, dez contos representativos do todo foram selecionados para compor o corpus e utilizou-se o sistema sociossemântico para a representação dos atores sociais proposto por van Leeuwen (1997) e a Linguística Sistêmico Funcional de Halliday (2004) como ferramentas de análise. Nosso enfoque é o da Análise Crítica do Discurso de Fairclough (1995), que tem dedicado seus estudos às mudanças sociais através dos discursos. Consideramos que o movimento feminista se inscreve em algumas mudanças. Nessa perspectiva, Bourdieu (2005) afirma que, apesar do movimento feminista, muito pouco mudou, prevalecendo, ainda, a dominação masculina e a violência simbólica. As categorias de van Leeuwen (op. cit.) da exclusão e inclusão dos atores sociais no discurso servem de instrumental para uma análise mais detalhada das relações homem-mulher, permitindo desvelar algumas questões feministas tematizadas nos contos, questões descritas por Pinto (op. cit.) e apontadas por Bourdieu (op. cit.). Os resultados da análise dos contos demonstram que a mulher ora está totalmente excluída, ora é representada como um pano de fundo (encobrimento), ora é enfraquecida (apassivada) em favor de seu marido/amante. Assim, os conflitos gerados a partir das ações do homem sobre a mulher nos contos confirmam certas preocupações do discurso feminista

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Considerado pela maioria da crítica como uma literatura pútrida (cf. ULBACH, 1868) ou torpe (cf. VERÍSSIMO, 1894), acusado de confundir ingenuamente ciência e literatura, bem como de cientizar a linguagem literária, e em particular no Brasil, além disso, questionado por plágio ou importação de uma moda estrangeira, o naturalismo foi relegado às margens da historiografia literária. Assumindo como ponto de partida esse panorama crítico, a tese propõe uma reavaliação crítica e historiográfica da estética naturalista, começando por descrever e analisar sua origem no decurso da história, a partir do advento do realismo moderno nas obras de Stendhal e de Balzac (cf. AUERBACH, 2004). Enfoca a lenta afirmação dos termos realismo e naturalismo, bem como a importância da contribuição de diferentes romancistas franceses no processo de consolidação da estética realista e de seu prolongamento no naturalismo. Discute-se também o projeto estético proposto por Zola, assim como se desconstroem mitos corroborados pela historiografia literária a respeito da teoria e do movimento naturalistas. Por fim, correlacionando a estética naturalista com o ideal republicano, aborda-se a aclimatação dos princípios naturalistas no Brasil, na obra daquele que foi seu principal representante, Aluísio Azevedo. A partir de uma abordagem comparativa entre o naturalismo na França e no Brasil, busca-se, em síntese, contribuir para o processo de revisão crítica e historiográfica de um período literário muito produtivo nos dois países, não obstante a tendência para sua desvalorização em geral observada nas manifestações da crítica novecentista

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Muito já se disse sobre Clarice Lispector, muito há, no entanto, a se dizer ainda. Com este nosso trabalho, ousamos trilhar um caminho que nos parece duplamente pouco explorado: por um lado, nos debruçamos sobre as pausas, as lacunas, as suspensões do dizer que se materializam em cortes no fio discursivo da literatura clariceana; mais especificamente nas interrupções que comparecem por meio de travessões, parênteses e aí estendemos para a interrogação em A Hora da Estrela. Por outro lado, trazemos, para este nosso objetivo, uma abordagem discursiva, isto é, temos como suporte teórico-metodológico a Análise de Discurso cujos autores basilares são Pêcheux e Orlandi. Esta autora, ao deslocar o estudo da pontuação do campo da gramática para o domínio do discurso, considera a pontuação como o lugar em que o sujeito trabalha seus pontos de subjetivação, o modo como interpreta (Orlandi, 2005). A pontuação, vista discursivamente, abre fendas do não-dizer no dizer, trabalhando sua (in)completude. Os travessões, os parênteses e a interrogação, em Clarice, rompem repetida e sucessivamente a linearidade da língua expondo seus vazios, seus meandros, seus impasses. Analisaremos o funcionamento discursivo desses três sinais de pontuação no dizer do narrador de A Hora da Estrela, assim como investigaremos as posições-sujeito do narrador que se delineiam em cada funcionamento desses sinais: posição-sujeito de narrador onipotente/onisciente, posição-sujeito de narrador impotente e posição-sujeito de narrador vacilante. Para nosso trabalho, apoiamo-nos também nas reflexões teóricas acerca da heterogeneidade da língua, propostas por Authier-Revuz e trazemos o conceito de enunciação vacilante formulado por Paulillo. Podemos dizer que, nas incisas desta novela clariceana, jogam posições-sujeito que se polemizam, que se equivocam. Essas posições refletem uma narrativa que ora descreve a possibilidade de narrar, de descrever o outro, ora confessa a impossibilidade de capturar esse outro pela palavra: narrador vacilante, narrativa vacilante

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A presente tese tem como intuito investigar as relações entre as narrativas de Machado de Assis e de Woody Allen, autores de épocas e culturas bastante distintas. No entanto, através da análise do papel da ironia na obra de ambos tornou-se possível aproximar Memórias póstumas de Brás Cubas, romance de 1881 de Machado, e Stardust Memories, filme lançado em 1980 pelo diretor Woody Allen. A investigação divide-se em três etapas. No primeiro capítulo, analisa-se a aproximação entre os dois autores através de uma mesma visão sobre a ficção presente tanto na obra de Machado quanto na de Allen. Esta visão encontra-se fundamentada através de uma tradição literária burlesca que rompe com o primado realista na narrativa ficcional. No segundo capítulo, procura-se demonstrar como a perspectiva não realista escapa a uma regra moralizante na ficção, para valorizar uma postura ética, isto é, para se definir o ethos da narrativa. A ironia, assim, será a morada da ficção de ambos os autores, que problematizam o mundo incluindo nele a própria narrativa. E no terceiro e último capítulo, analisa-se a relação ficcional nas duas obras com a memória. A memória, elemento constituinte da identidade humana, revela-se uma linguagem própria e opressora aos narradores memorialistas, impondo-lhes a inexorabilidade do tempo. Dessa forma, suas ficções seriam uma luta incessante do homem contra o seu caminhar para a morte

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Este trabalho se propõe a analisar duas obras do escritor português António Lobo Antunes, tendo em vista algumas instâncias narrativas, que, a nosso ver, sobressaem na obra do autor. As obras são Ontem não te vi em Babilónia, romance publicado em 2006, e O arquipélago da insónia, de 2008. Os dois romances compõem o ciclo de produção mais recente do autor, no qual as experimentações formais e estéticas são mais intensas do que nos romances anteriores. Além disso, as obras apresentam convergências temáticas já explicitadas por uma leitura atenta de seus títulos. Ontem não te vi é a representação de um tempo de espera, um tempo de frustração; Babilónia é Babel, símbolo maior da incomunicabilidade para o Ocidente. Já arquipélago é um conjunto de ilhas, reunião marcada pelo isolamento e pela incomunicabilidade; insónia é, igualmente, uma espera frustrada por algo que não vem, no caso, o sono, que nos romances será metáfora para a morte. O trabalho privilegiará, portanto, a análise do espaço, a partir do símbolo da casa; do tempo, insone e de morte; e do texto, que se apresenta, essencialmente, por uma enxurrada discursiva. Assim, pretende-se entrar no universo antuniano e, como parece ser o desejo do autor, desvendar a nós mesmos e a nosso tempo

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A presente dissertação toma como propósito as obras poéticas de Ricardo Reis e de Paul Celan, acentuando a sua tarefa de originar uma poesia de risco, que experiencia a linguagem e a ameaça. Nesse sentido, a pesquisa desenvolvida reconhece a singularidade da leitura imposta pelos poemas. Tal fato estabelece algumas especificidades da leitura, sem pretender com elas decifrar qualquer conteúdo nos poemas escolhidos. Dessa maneira, esse trabalho recolhe, coleciona e elege premissas de compreensão derivadas de outros ambientes literários. Assim, a hipótese fundamental sustentada ao longo da dissertação expõe o próprio desempenho da leitura como exercício de escrita, sem recorrência a qualquer facilidade contextual, historicista ou formalista; ou melhor: o que é ler Ricardo Reis pós Paul Celan, tomando como elemento básico a própria experiência de risco da leitura

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Este trabalho se propõe investigar o homem humano rosiano através do personagem figural Diadorim. Seguindo pelas veredas Bakhtinianas e Ricoeurianas chegaremos ao palco polifônico por excelência, o grande sertão. Nele, analisaremos as vozes da paixão em Diadorim: o corpo, a religio e a proclamação do homem humano rosiano no Grande Sertão: Veredas. Investigaremos as travessias desde o menino, Reinaldo, Diadorim, Deodorina da fé até o nascimento do homem humano: a efetiva travessia nonada. Logo, Diadorim é coincidentia oppositorum, a reunião dos contrários, que está determinada a eliminar aquele que não é. Apresentaremos a síntese da modernidade rosiana: Nem Deus, nem demo: Diadorim - o homem humano no palco polifônico do grande sertão, espaço onde o diabo não há, existe é homem humano

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Esta tese visa a analisar três perspectivas nacionalistas oferecidas pela obra crítica de Machado de Assis. Buscamos, inicialmente, a feição intelectual do jovem Machado no interior do projeto romântico-nacionalista, com o qual estava alinhado e do qual se afastaria paulatinamente. Para tanto, foi cotejado, inicialmente, com dois militantes daquele nacionalismo defensivo: Santiago Nunes Ribeiro e Joaquim Norberto de Sousa Silva. Esse lugar de onde falava Machado ganha em definição num segundo momento, quando empreendemos a análise comparativa de seus textos com os de Macedo Soares e José de Alencar. Sobretudo entre 1859 e 1872, Machado de Assis construiria sua crítica teatral, tornando-se um paladino da comédia realista francesa. A primeira face nacionalista de sua crítica afirma-se nesse profundo envolvimento de Machado com o projeto de um teatro brasileiro pautado no potencial pedagógico da alta comédia. A segunda perspectiva nacionalista define-se à medida que se define o classicismo moderno de Machado, uma articulação muito pessoal de sua visão universalista com a já instaurada modernidade literária. Para a análise desse viés, usamos o corpus de sua crítica literária construída como gênero autônomo, oferecida convencionalmente ao público, por via da qual escritores e leitores se habilitariam a intervir na sociedade, cumprindo, patrioticamente, a missão para a qual a literatura os preparara. A partir de 1883, depois de quase cinco anos afastado da crônica, Machado a retoma, usando-a para exercitar, mais franca e assiduamente, uma particular teoria da cultura brasileira e, paralelamente, uma espécie de busca de nosso caráter nacional. Dessa forma, seu nacionalismo, numa terceira angulação, orienta-se para a experiência humana, que, entre incorporar o fundamento externo e resistir a ele, acaba por formar algo irremediavelmente brasileiro; essa crônica, portanto, carrega uma crítica de feição cultural, no sentido de Machado ter-se comprometido com significações e valores de nossa vida social. Ao examiná-lo como escritor que, inicialmente, se postou contra o colonialismo cultural; que, a seguir, se engajou num projeto civilizatório conduzido pelo teatro e pela literatura e que, por fim, investigou a sensibilidade coletiva brasileira a partir de suas representações culturais, esta tese faculta uma apreensão mais criteriosa das interseções entre os temas nacionalismo e Machado de Assis

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A presente dissertação pretende analisar a visão do autor irlandês Oscar Wilde sobre diferentes expressões artísticas, e discutir como ele relacionava tais formas de arte com a vida cotidiana. Para tanto, o primeiro capítulo é dedicado à vida de Wilde por entendermos que a sua vida foi, igualmente com os seus textos, uma obra de arte. No segundo capítulo, foram analisadas as conferências proferidas pelo escritor em uma turnê que ele fez pelos Estados Unidos e Canadá no ano de 1882. No terceiro, e último capítulo, foram selecionados três ensaios nos quais os temas debatidos sempre convergem para a discussão sobre a arte e sua relação com a vida

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Esta tese tem como objetivo analisar o folhado textual da crônica jornalística de Antônio Maria e de Joaquim Ferreira dos Santos, investigando os operadores que agem na produção de sentido, sobretudo os aspectos enunciativos, como as vozes presentes na situação discursiva e os contextos em que se dão tais relações, e ainda atentar para a importância da palavra que desperta a paixão pelo texto, que leva a uma reflexão crítica sobre o seu tempo e sua história.Por meio da crônica desses dois autores, investigar a importância deste gênero textual nos atuais veículos midiáticos, reconhecendo neste gênero um importante papel de identidade cultural da sociedade brasileira. Perceber que, de certa forma, a função catártica da crônica jornalística de Antônio Maria e de Joaquim Ferreira dos Santos pode levar o leitor a sua própria identificação com o mundo que o cerca e com o espaço em que está inserido papel, afinal, da leitura de um texto, mais ainda, de um texto com traços literários. Sabendo, certamente, que é a língua, a palavra, a sustentação de todo esse processo