129 resultados para Exiles.
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Il lavoro ripercorre le tracce che gli ebrei portoghesi, esuli dopo il biennio 1496-97, lasciarono nel loro cammino attraverso l'Europa. In particolare, l'interesse si concentra sulla breve parentesi italiana, che grazie all'apertura e alla disponibilità di alcuni Signori, come i Gonzaga di Mantova, i Medici, i Dogi della Serenissima e gli Este, risulta ricchissima di avvenimenti e personaggi, decisivi anche per la storia culturale del Portogallo. L'analisi parte evidenziando l'importanza che ebbe la tipografia ebraica in Portogallo all'epoca della sua introduzione nel Paese; in secondo luogo ripercorre la strada che, dal biennio del primo decreto di espulsione e del conseguente battesimo di massa, porta alla nascita dell'Inquisizione in Portogallo. Il secondo capitolo tenta di fare una ricostruzione, il più possibile completa e coerente, dei movimenti degli esuli, bollati come marrani e legati alle due maggiori famiglie, i Mendes e i Bemveniste, delineando poi il primo nucleo di quella che diventerà nel Seicento la comunità sefardita portoghese di Amsterdam, dove nasceranno le personalità dissidenti di Uriel da Costa e del suo allievo Spinoza. Il terzo capitolo introduce il tema delle opere letterarie, effettuando una rassegna dei maggiori volumi editi dalle officine tipografiche ebraiche stanziatesi in Italia fra il 1551 e il 1558, in modo particolare concentrando l'attenzione sull'attività della tipografia Usque, da cui usciranno numerosi testi di precettistica in lingua ebraica, ma soprattutto opere cruciali come la famosa «Bibbia Ferrarese» in castigliano, la «Consolação às Tribulações de Israel», di Samuel Usque e la raccolta composta dal romanzo cavalleresco «Menina e Moça» di Bernardim Ribeiro e dall'ecloga «Crisfal», di un autore ancora non accertato. L'ultimo capitolo, infine, si propone di operare una disamina di queste ultime tre opere, ritenute fondamentali per ricostruire il contesto letterario e culturale in cui la comunità giudaica in esilio agiva e proiettava le proprie speranze di futuro. Per quanto le opere appartengano a generi diversi e mostrino diverso carattere, l'ipotesi è che siano parte di un unicum filosofico e spirituale, che intendeva sostanzialmente indicare ai confratelli sparsi per l'Europa la direzione da prendere, fornendo un sostegno teoretico, psicologico ed emotivo nelle difficili condizioni di sopravvivenza, soprattutto dell'integrità religiosa, di ciascun membro della comunità.
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Utilizzando fonti della più diversa tipologia (liturgiche, agiografiche, storiche, letterarie, archeologiche ed epigrafiche), lo studio condotto sulla Passio s. Prisci e sulla Vita s. Castrensis, entrambe con ogni probabilità composte da monaci benedettini a Capua tra X e XI secolo, si concentra innanzitutto sulle vicende che in quell'arco di tempo resero possibile la permanenza delle comunità di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno nel centro campano e sul riflesso che la loro presenza ebbe sulla vita politica e culturale della città. La Passio s. Prisci acquista una valenza non solo religiosa ma anche politica se messa in relazione con la quasi contemporanea istituzione della metropolia capuana; la Vita s. Castrensis, per la netta prevalenza dell'elemento fantastico e soprannaturale che la caratterizza, appare meno legata alle contingenze storico-politiche e più vicina ai topoi della tradizione agiografica e popolare. I capitoli centrali della tesi sono dedicati alla figura di Quodvultdeus, vescovo cartaginese esiliato dai Vandali nel V secolo, la cui vicenda, narrata da Vittore di Vita nell'Historia persecutionis africanae provinciae ha funto da modello per le agigrafie campane. La ricerca prende dunque in considerazione le fonti letterarie, i ritrovamenti archeologici e le testimonianze epigrafiche che confermerebbero la testimonianza di Vittore, riflettendo inoltre sui rapporti di natura commerciale che nel V secolo intercorsero tra Africa e Campania e sul forte legame esistente, già a partire dal secolo precedente, tra le Chiese delle due regioni, fattori che potrebbero aver facilitato l'arrivo degli esuli cartaginesi a Napoli. L'ultima parte del lavoro è volta a rintracciare le ragioni storiche e letterarie che possono aver spinto gli autori dei testi a trasformare due santi di sicura origine campana in vescovi africani venuti dal mare, favorendo la diffusione del topos nell'agiografia campana medievale.
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Joaquín Camaño fu un gesuita della Provincia del Paraguay, vissuto nell' esilio italiano la maggior parte della sua vita dal 1767 al 1820. Il suo lavoro e la sua fama possono essere considerati di minore importanza se paragonati a molti altri gesuiti esiliati per ordine di Carlo III alla fine del XVIII secolo in Emilia-Romagna. Attraverso la mia ricerca approfondisco il ruolo di J. Camaño quale personaggio minore che entra nella vita degli altri espulsi tramite un dinamico network relazionale di cui è stato uno dei principali artefici. Il mio obiettivo è stato quello di studiare l'impatto che ebbero gli esuli gesuiti americani, attraverso la vita di Joaquin Camaño, sul mondo intellettuale italiano, europeo ed americano dopo l'espulsione del 1767. Egli, con i suoi studi, si inserisce nella rinnovata e vivace retorica del “Mondo Nuovo” che in quegli anni assume un grande dinamismo. Nato nella modesta città di La Rioja, in Argentina, si erge come un brillante cartografo, etnografo e linguista nel contesto dell'Illustrazione europea grazie alla sua particolare vita da missionario. Dopo l'espulsione, Joaquin Camaño, insieme ad altri numerosi confratelli americani, arriverà a Faenza, nello Stato Pontificio, dedicandosi allo studio della cartografia, dell'etnografia e delle lingue americane. Le sue ricerche si collocano in un momento nevralgico per la storia del pensiero linguistico-antropologico, quando l'osservazione diretta e la riflessione teorica dei fenomeni si misuravano con la grande varietà umana ormai riscontrata nel mondo.
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Este artículo se propone analizar el universo de prácticas humanitarias en la expatriación catalana republicana en la segunda posguerra mundial haciendo foco en el papel jugado por el intercambio epistolar que se desarrolló entre Francia y la Argentina; y en el modo en que esa correspondencia entre víctimas, familiares, testigos y benefactores localizados a ambos lados del Atlántico permite dar cuenta del funcionamiento de redes de circulación transnacional de ayuda solidaria no exentas de tensiones políticas. El trabajo pretende complejizar el tradicional enfoque estado-nación céntrico de los estudios sobre el exilio republicano español desde el interés por la reconstrucción de los vínculos e interconexiones epistolares entre comunidades de la expatriación (refugiados, evacuados, emigrados, exiliados) en orden a la cimentación de aquellas estrategias y proyectos de ayuda que tuvieron como protagonista al Comité Pro Catalans Refugiats a França del Casal de Catalunya de Buenos Aires. Partimos del supuesto de que la correspondencia constituyó en el mundo disperso de la emigración y el exilio entre la guerra civil española y la segunda posguerra mundial, uno de los instrumentos fundamentales de construcción de puentes, de cimentación de vínculos y de materialización de proyectos colectivos.
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En los últimos años del siglo XVIII y principios del siglo XEK la vigencia del pensamiento éclairé fomenta un clima favorable a la supresión del Santo Oficio; la censura del Santo Tribunal es el eje central de Cornelia Bororquia o la víctima de la Inquisición (1801), novela del ex-trinitario Luis Gutiérrez que narra la indefensión de una muchacha en las cárceles de la Inquisición. La novela argumenta en favor de la tolerancia religiosa y en la línea de un cristianismo ilustrado, pero no alcanza el tono radical de otros españoles expatriados. Mientras que el exilio de José Marchena radicaliza su discurso político y su sueño de una sociedad sin clases, la vía de Luis Gutiérrez es más reformadora y posibilista, pues confía en que los vástagos de la nobleza más culta y enciclopédica sean una pieza clave en la modernización del pensamiento en España.
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El exilio chileno dio lugar a un fenómeno cultural de grandes proporciones y el confinamiento, con todas sus secuelas, inspiró un florecimiento extraordinario de las letras y las artes de vastas proyecciones, tanto así que despertó y sigue motivando el interés de estudiosos de diversas disciplinas. Entre los miles de chilenos que se repartieron por el mundo, un grupo, cualitativamente relevante, estuvo constituido por escritores, artistas plásticos, artesanos, músicos, gente de teatro y de cine, hombres de ciencia y académicos de las más variadas disciplinas. Grupos teatrales funcionaron en muchos países; y los conjuntos musicales chilenos recorrieron el mundo. Las exposiciones de pintores, fotógrafos, y escultores chilenos eran frecuentes en las más importantes ciudades americanas y europeas, a la vez que en el marco de casi todas las manifestaciones de solidaridad las artesanías, obras de artistas profesionales y ocasionales, eran puestas a la venta; muchos refugiados lograron sobrevivir del producto de este tipo de trabajo.
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En el marco de los procesos de democratización política del Cono Sur, los exiliados políticos argentinos y uruguayos iniciaron gradualmente los retornos hacia sus países de origen. Como parte de ese proceso, y sobre todo entre 1983 y 1986, en Argentina y en Uruguay comenzaron a germinar distintas organizaciones sociales que se preocuparon por responder a esos regresos y ayudar a los exiliados en su reinserción en el país. Este artículo indaga en las respuestas de ambas sociedades en dos claves vinculadas. En primer lugar, recupera en el proceso de formulación de ciertas medidas y programas para la reinserción de retornados un fuerte intercambio de conocimientos, inquietudes y modos de trabajo entre las organizaciones sociales argentinas y las uruguayas. Así, este trabajo rompe con las comparaciones en sentido estricto para detenerse a explorar la formación de una red de trabajo asistencial entre distintos actores de ambas orillas. En segundo lugar, este trabajo se detiene a reflexionar sobre una tensión que se desprende de la red: a pesar de las mutuas influencias, los programas de asistencia tuvieron diferencias importantes entre ambos casos. En consecuencia, este artículo ofrece algunas interpretaciones posibles sobre estas diferencias que se insertan en el marco de las "transiciones democráticas" de cada país y, especialmente, de los lugares que el tema del retorno tuvo en cada agenda posdictadura
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Los rojos de Ultramar (2004) del mexicano Jordi Soler es una novela que sondea la memoria de la guerra civil española y la dictadura franquista, indagando en sus consecuencias a nivel individual y colectivo a partir de la experiencia de los exiliados. El narrador de la novela, trasunto del propio autor, es nieto de un republicano exiliado que se propone investigar a fondo la accidentada biografía de su abuelo. La obra comparte muchos rasgos formales y temáticos con varias novelas de la memoria recientes de autores españoles, tales como Soldados de Salamina de Javier Cercas y Mala gente que camina de Benjamín Prado, en las que la investigación histórica de un narrador-personaje funciona como motor narrativo. Sin embargo, la obra aporta al debate español en torno a la memoria histórica una novedosa visión desde fuera de las fronteras nacionales. Por medio de la voz del narrador, portador de dos culturas (la mexicana y la catalana) y dos lenguas (el castellano y el catalán), la novela de Soler proporciona una perspectiva transnacional y multicultural, que se aproxima a lo que Michael Rothberg ha denominado memoria multidireccional. El objetivo de este artículo es, por un lado, identificar y discutir las características narrativas que Los rojos de ultramar comparte con las novelas-investigación de autores españoles y, por otro lado, profundizar en la aportación particular de esta obra, que reivindica la hibridez cultural y utiliza la memoria de una comunidad cultural específica (la de los republicanos exiliados) de modo ejemplar para crear solidaridad entre diferentes grupos culturales.
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Este trabajo propone reconstruir las redes del exilio aprista en Argentina durante la década de los treinta y analizar de qué manera los exiliados intervinieron en las disputas acerca de qué era el aprismo, con el objetivo de consolidar vínculos con determinados sectores del medio político nacional. Esta aproximación podrá mostrarnos cómo los exiliados buscaron reactivar redes de solidaridad latinoamericanas que provenían de la década anterior. En el marco de ese esfuerzo, oficiaron como "traductores" del movimiento político que impulsaban, frente a otras representaciones sobre el aprismo que circulaban, también, en nuestro país
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El presente artículo se propone explorar y comprender las distintas memorias y representaciones que, quienes vivieron su exilio en México, construyen acerca de lo político y de sus experiencias pasadas de militancia y derrota. Se trata de indagar en tiempo presente cuáles y cómo son las representaciones que elabora un grupo particular de migrantes políticos: aquellos argentinos que, una vez iniciada la apertura democrática en 1983, no regresaron al país de origen y que, actualmente, continúan residiendo en el que fue su país de refugio. Este trabajo parte de diez entrevistas realizadas entre 2009 y 2010 en la ciudad de México, para indagar en los imaginarios y las representaciones subjetivas referidas a un entramado de experiencias políticas particulares en las que se enlazan distintos sentidos del pasado en el presente. Recorriendo esas memorias se profundiza en algunas de las tensiones más significativas que constituyen sus representaciones presentes y las distintas posiciones que asumen frente a la posibilidad de obtener una reparación económica por el exilio vivido
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En el marco de los procesos de democratización política del Cono Sur, los exiliados políticos argentinos y uruguayos iniciaron gradualmente los retornos hacia sus países de origen. Como parte de ese proceso, y sobre todo entre 1983 y 1986, en Argentina y en Uruguay comenzaron a germinar distintas organizaciones sociales que se preocuparon por responder a esos regresos y ayudar a los exiliados en su reinserción en el país. Este artículo indaga en las respuestas de ambas sociedades en dos claves vinculadas. En primer lugar, recupera en el proceso de formulación de ciertas medidas y programas para la reinserción de retornados un fuerte intercambio de conocimientos, inquietudes y modos de trabajo entre las organizaciones sociales argentinas y las uruguayas. Así, este trabajo rompe con las comparaciones en sentido estricto para detenerse a explorar la formación de una red de trabajo asistencial entre distintos actores de ambas orillas. En segundo lugar, este trabajo se detiene a reflexionar sobre una tensión que se desprende de la red: a pesar de las mutuas influencias, los programas de asistencia tuvieron diferencias importantes entre ambos casos. En consecuencia, este artículo ofrece algunas interpretaciones posibles sobre estas diferencias que se insertan en el marco de las "transiciones democráticas" de cada país y, especialmente, de los lugares que el tema del retorno tuvo en cada agenda posdictadura
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Los rojos de Ultramar (2004) del mexicano Jordi Soler es una novela que sondea la memoria de la guerra civil española y la dictadura franquista, indagando en sus consecuencias a nivel individual y colectivo a partir de la experiencia de los exiliados. El narrador de la novela, trasunto del propio autor, es nieto de un republicano exiliado que se propone investigar a fondo la accidentada biografía de su abuelo. La obra comparte muchos rasgos formales y temáticos con varias novelas de la memoria recientes de autores españoles, tales como Soldados de Salamina de Javier Cercas y Mala gente que camina de Benjamín Prado, en las que la investigación histórica de un narrador-personaje funciona como motor narrativo. Sin embargo, la obra aporta al debate español en torno a la memoria histórica una novedosa visión desde fuera de las fronteras nacionales. Por medio de la voz del narrador, portador de dos culturas (la mexicana y la catalana) y dos lenguas (el castellano y el catalán), la novela de Soler proporciona una perspectiva transnacional y multicultural, que se aproxima a lo que Michael Rothberg ha denominado memoria multidireccional. El objetivo de este artículo es, por un lado, identificar y discutir las características narrativas que Los rojos de ultramar comparte con las novelas-investigación de autores españoles y, por otro lado, profundizar en la aportación particular de esta obra, que reivindica la hibridez cultural y utiliza la memoria de una comunidad cultural específica (la de los republicanos exiliados) de modo ejemplar para crear solidaridad entre diferentes grupos culturales.
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Este trabajo propone reconstruir las redes del exilio aprista en Argentina durante la década de los treinta y analizar de qué manera los exiliados intervinieron en las disputas acerca de qué era el aprismo, con el objetivo de consolidar vínculos con determinados sectores del medio político nacional. Esta aproximación podrá mostrarnos cómo los exiliados buscaron reactivar redes de solidaridad latinoamericanas que provenían de la década anterior. En el marco de ese esfuerzo, oficiaron como "traductores" del movimiento político que impulsaban, frente a otras representaciones sobre el aprismo que circulaban, también, en nuestro país
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En los últimos años del siglo XVIII y principios del siglo XEK la vigencia del pensamiento éclairé fomenta un clima favorable a la supresión del Santo Oficio; la censura del Santo Tribunal es el eje central de Cornelia Bororquia o la víctima de la Inquisición (1801), novela del ex-trinitario Luis Gutiérrez que narra la indefensión de una muchacha en las cárceles de la Inquisición. La novela argumenta en favor de la tolerancia religiosa y en la línea de un cristianismo ilustrado, pero no alcanza el tono radical de otros españoles expatriados. Mientras que el exilio de José Marchena radicaliza su discurso político y su sueño de una sociedad sin clases, la vía de Luis Gutiérrez es más reformadora y posibilista, pues confía en que los vástagos de la nobleza más culta y enciclopédica sean una pieza clave en la modernización del pensamiento en España.
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El exilio chileno dio lugar a un fenómeno cultural de grandes proporciones y el confinamiento, con todas sus secuelas, inspiró un florecimiento extraordinario de las letras y las artes de vastas proyecciones, tanto así que despertó y sigue motivando el interés de estudiosos de diversas disciplinas. Entre los miles de chilenos que se repartieron por el mundo, un grupo, cualitativamente relevante, estuvo constituido por escritores, artistas plásticos, artesanos, músicos, gente de teatro y de cine, hombres de ciencia y académicos de las más variadas disciplinas. Grupos teatrales funcionaron en muchos países; y los conjuntos musicales chilenos recorrieron el mundo. Las exposiciones de pintores, fotógrafos, y escultores chilenos eran frecuentes en las más importantes ciudades americanas y europeas, a la vez que en el marco de casi todas las manifestaciones de solidaridad las artesanías, obras de artistas profesionales y ocasionales, eran puestas a la venta; muchos refugiados lograron sobrevivir del producto de este tipo de trabajo.