720 resultados para Paradigme de peinture


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Pós-graduação em Direito - FCHS

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Pós-graduação em Psicologia - FCLAS

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Il presente studio, per ciò che concerne la prima parte della ricerca, si propone di fornire un’analisi che ripercorra il pensiero teorico e la pratica critica di Louis Marin, mettendone in rilievo i caratteri salienti affinché si possa verificare se, nella loro eterogenea interdisciplinarità, non emerga un profilo unitario che consenta di ricomprenderli in un qualche paradigma estetico moderno e/o contemporaneo. Va innanzitutto rilevato che la formazione intellettuale di Marin è avvenuta nell’alveo di quel montante e pervasivo interesse che lo strutturalismo di stampo linguistico seppe suscitare nelle scienze sociali degli anni sessanta. Si è cercato, allora, prima di misurare la distanza che separa l’approccio di Marin ai testi da quello praticato dalla semiotica greimasiana, impostasi in Francia come modello dominante di quella svolta semiotica che ha interessato in quegli anni diverse discipline: dagli studi estetici all’antropologia, dalla psicanalisi alla filosofia. Si è proceduto, quindi, ad un confronto tra l’apparato concettuale elaborato dalla semiotica e alcune celebri analisi del nostro autore – tratte soprattutto da Opacité de la peinture e De la représentation. Seppure Marin non abbia mai articolato sistematicametne i principi teorici che esplicitassero la sua decisa contrapposizione al potente modello greimasiano, tuttavia le reiterate riflessioni intorno ai presupposti epistemologici del proprio modo di interpretare i testi – nonché le analisi di opere pittoriche, narrative e teoriche che ci ha lasciato in centinaia di studi – permettono di definirne una concezione estetica nettamente distinta dalla pratica semio-semantica della scuola di A. J. Greimas. Da questo confronto risulterà, piuttosto, che è il pensiero di un linguista sui generis come E. Benveniste ad avere fecondato le riflessioni di Marin il quale, d’altra parte, ha saputo rielaborare originalmente i contributi fondamentali che Benveniste diede alla costruzione della teoria dell’enunciazione linguistica. Impostando l’equazione: enunciazione linguistica=rappresentazione visiva (in senso lato), Marin diviene l’inventore del dispositivo concettuale e operativo che consentirà di analizzare l’enunciazione visiva: la superficie di rappresentazione, la cornice, lo sguardo, l’iscrizione, il gesto, lo specchio, lo schema prospettico, il trompe-l’oeil, sono solo alcune delle figure in cui Marin vede tradotto – ma in realtà immagina ex novo – quei dispositivi enunciazionali che il linguista aveva individuato alla base della parole come messa in funzione della langue. Marin ha saputo così interpretare, in modo convincente, le opere e i testi della cultura francese del XVII secolo alla quale sono dedicati buona parte dei suoi studi: dai pittori del classicismo (Poussin, Le Brun, de Champaigne, ecc.) agli eruditi della cerchia di Luigi XIV, dai filosofi (soprattutto Pascal), grammatici e logici di Port-Royal alle favole di La Fontaine e Perrault. Ma, come si evince soprattutto da testi come Opacité de la peinture, Marin risulterà anche un grande interprete del rinascimento italiano. In secondo luogo si è cercato di interpretare Le portrait du Roi, il testo forse più celebre dell’autore, sulla scorta dell’ontologia dell’immagine che Gadamer elabora nel suo Verità e metodo, non certo per praticare una riduzione acritica di due concezioni che partono da presupposti divergenti – lo strutturalismo e la critica d’arte da una parte, l’ermeneutica filosofica dall’altra – ma per rilevare che entrambi ricorrono al concetto di rappresentazione intendendolo non tanto come mimesis ma soprattutto, per usare il termine di Gadamer, come repraesentatio. Sia Gadamer che Marin concepiscono la rappresentazione non solo come sostituzione mimetica del rappresentato – cioè nella direzione univoca che dal rappresentato conduce all’immagine – ma anche come originaria duplicazione di esso, la quale conferisce al rappresentato la sua legittimazione, la sua ragione o il suo incremento d’essere. Nella rappresentazione in quanto capace di legittimare il rappresentato – di cui pure è la raffigurazione – abbiamo così rintracciato la cifra comune tra l’estetica di Marin e l’ontologia dell’immagine di Gadamer. Infine, ci è sembrato di poter ricondurre la teoria della rappresentazione di Marin all’interno del paradigma estetico elaborato da Kant nella sua terza Critica. Sebbene manchino in Marin espliciti riferimenti in tal senso, la sua teoria della rappresentazione – in quanto dire che mostra se stesso nel momento in cui dice qualcos’altro – può essere intesa come una riflessione estetica che trova nel sensibile la sua condizione trascendentale di significazione. In particolare, le riflessioni kantiane sul sentimento di sublime – a cui abbiamo dedicato una lunga disamina – ci sono sembrate chiarificatrici della dinamica a cui è sottoposta la relazione tra rappresentazione e rappresentato nella concezione di Marin. L’assolutamente grande e potente come tratti distintivi del sublime discusso da Kant, sono stati da noi considerati solo nella misura in cui ci permettevano di fare emergere la rappresentazione della grandezza e del potere assoluto del monarca (Luigi XIV) come potere conferitogli da una rappresentazione estetico-politica costruita ad arte. Ma sono piuttosto le facoltà in gioco nella nostra più comune esperienza delle grandezze, e che il sublime matematico mette esemplarmente in mostra – la valutazione estetica e l’immaginazione – ad averci fornito la chiave interpretativa per comprendere ciò che Marin ripete in più luoghi citando Pascal: una città, da lontano, è una città ma appena mi avvicino sono case, alberi, erba, insetti, ecc… Così abbiamo applicato i concetti emersi nella discussione sul sublime al rapporto tra la rappresentazione e il visibile rappresentato: rapporto che non smette, per Marin, di riconfigurarsi sempre di nuovo. Nella seconda parte della tesi, quella dedicata all’opera di Bernard Stiegler, il problema della comprensione delle immagini è stato affrontato solo dopo aver posto e discusso la tesi che la tecnica, lungi dall’essere un portato accidentale e sussidiario dell’uomo – solitamente supposto anche da chi ne riconosce la pervasività e ne coglie il cogente condizionamento – deve invece essere compresa proprio come la condizione costitutiva della sua stessa umanità. Tesi che, forse, poteva essere tematizzata in tutta la sua portata solo da un pensatore testimone delle invenzioni tecnico-tecnologiche del nostro tempo e del conseguente e radicale disorientamento a cui esse ci costringono. Per chiarire la propria concezione della tecnica, nel I volume di La technique et le temps – opera alla quale, soprattutto, sarà dedicato il nostro studio – Stiegler decide di riprendere il problema da dove lo aveva lasciato Heidegger con La questione della tecnica: se volgiamo coglierne l’essenza non è più possibile pensarla come un insieme di mezzi prodotti dalla creatività umana secondo un certi fini, cioè strumentalmente, ma come un modo di dis-velamento della verità dell’essere. Posto così il problema, e dopo aver mostrato come i sistemi tecnici tendano ad evolversi in base a tendenze loro proprie che in buona parte prescindono dall’inventività umana (qui il riferimento è ad autori come F. Gille e G. Simondon), Stiegler si impegna a riprendere e discutere i contributi di A. Leroi-Gourhan. È noto come per il paletnologo l’uomo sia cominciato dai piedi, cioè dall’assunzione della posizione eretta, la quale gli avrebbe permesso di liberare le mani prima destinate alla deambulazione e di sviluppare anatomicamente la faccia e la volta cranica quali ondizioni per l’insorgenza di quelle capacità tecniche e linguistiche che lo contraddistinguono. Dei risultati conseguiti da Leroi-Gourhan e consegnati soprattutto in Le geste et la parole, Stiegler accoglie soprattutto l’idea che l’uomo si vada definendo attraverso un processo – ancora in atto – che inizia col primo gesto di esteriorizzazione dell’esperienza umana nell’oggetto tecnico. Col che è già posta, per Stiegler, anche la prima forma di simbolizzazione e di rapporto al tempo che lo caratterizzano ancora oggi. Esteriorità e interiorità dell’uomo sono, per Stiegler, transduttive, cioè si originano ed evolvono insieme. Riprendendo, in seguito, l’anti-antropologia filosofica sviluppata da Heidegger nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, Stiegler dimostra che, se si vuole cogliere l’effettività della condizione dell’esistenza umana, è necessaria un’analisi degli oggetti tecnici che però Heidegger relega nella sfera dell’intramondano e dunque esclude dalla temporalità autentica dell’esser-ci. Se è vero che l’uomo – o il chi, come lo chiama Stiegler per distinguerlo dal che-cosa tecnico – trova nell’essere-nel-mondo la sua prima e più fattiva possibilità d’essere, è altrettanto verò che questo mondo ereditato da altri è già strutturato tecnicamente, è già saturo della temporalità depositata nelle protesi tecniche nelle quali l’uomo si esteriorizza, e nelle quali soltanto, quindi, può trovare quelle possibilità im-proprie e condivise (perché tramandate e impersonali) a partire dalle quali poter progettare la propria individuazione nel tempo. Nel percorso di lettura che abbiamo seguito per il II e III volume de La technique et le temps, l’autore è impegnato innanzitutto in una polemica serrata con le analisi fenomenologiche che Husserl sviluppa intorno alla coscienza interna del tempo. Questa fenomenologia del tempo, prendendo ad esame un oggetto temporale – ad esempio una melodia – giunge ad opporre ricordo primario (ritenzione) e ricordo secondario (rimemorazione) sulla base dell’apporto percettivo e immaginativo della coscienza nella costituzione del fenomeno temporale. In questo modo Husserl si preclude la possibilità di cogliere il contributo che l’oggetto tecnico – ad esempio la registrazione analogica di una melodia – dà alla costituzione del flusso temporale. Anzi, Husserl esclude esplicitamente che una qualsiasi coscienza d’immagine – termine al quale Stiegler fa corrispondere quello di ricordo terziario: un testo scritto, una registrazione, un’immagine, un’opera, un qualsiasi supporto memonico trascendente la coscienza – possa rientrare nella dimensione origianaria e costitutiva di tempo. In essa può trovar posto solo la coscienza con i suo vissuti temporali percepiti, ritenuti o ricordati (rimemorati). Dopo un’attenta rilettura del testo husserliano, abbiamo seguito Stiegler passo a passo nel percorso di legittimazione dell’oggetto tecnico quale condizione costitutiva dell’esperienza temporale, mostrando come le tecniche di registrazione analogica di un oggetto temporale modifichino, in tutta evidenza, il flusso ritentivo della coscienza – che Husserl aveva supposto automatico e necessitante – e con ciò regolino, conseguente, la reciproca permeabilità tra ricordo primario e secondario. L’interpretazione tecnica di alcuni oggetti temporali – una foto, la sequenza di un film – e delle possibilità dispiegate da alcuni dispositivi tecnologici – la programmazione e la diffusione audiovisiva in diretta, l’immagine analogico-digitale – concludono questo lavoro richiamando l’attenzione sia sull’evidenza prodotta da tali esperienze – evidenza tutta tecnica e trascendente la coscienza – sia sul sapere tecnico dell’uomo quale condizione – trascendentale e fattuale al tempo stesso – per la comprensione delle immagini e di ogni oggetto temporale in generale. Prendendo dunque le mosse da una riflessione, quella di Marin, che si muove all’interno di una sostanziale antropologia filosofica preoccupata di reperire, nell’uomo, le condizioni di possibilità per la comprensione delle immagini come rappresentazioni – condizione che verrà reperità nella sensibilità o nell’aisthesis dello spettatore – il presente lavoro passerà, dunque, a considerare la riflessione tecno-logica di Stiegler trovando nelle immagini in quanto oggetti tecnici esterni all’uomo – cioè nelle protesi della sua sensibilità – le condizioni di possibilità per la comprensione del suo rapporto al tempo.

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Ce travail est une analyse de la représentation du pathétique masculin dans le roman dit sentimental dans la deuxième moitié du dix-huitième siècle en Europe, ou plutôt dans les littératures anglaise, française, allemande et italienne. La thèse soutenue est celle de la dérivation du pathétique romanesque de l’âge des Lumières des pratiques de prédication religieuse du siècle précédent et donc de la valeur normative du roman sentimental à ses débuts : celui-ci aurait relayé le rôle des manuels de conduite des siècles précédents et se serait posé comme un répertoire d’exempla comportementaux adaptés aux différentes situations de la vie. Nous avons suivi les évolutions historiques du genre à travers l’analyse thématique du motif des larmes masculines. Pour ce faire, nous avons examiné la complexe proxémique de représentation de l’émotion et la diégèse qui en résulte, qui peut être nuancée, selon une terminologie récente, en pathétique attendrissant, sentimental et spectaculaire. Cela a entraîne la prise en compte de diverses formes artistiques, de la peinture au théâtre. La méthodologie utilisé conjugue l’histoire des idées et l’étude des formes de l’imaginaire, le pathétique appartenant au domaine de la philosophie autant qu’à celui de la représentation artistique : le concept glisse au dix-huitième siècle du champ rhétorique et stylistique à une dimension esthétique et anthropologique. Le travail a donc été divisé en trois grandes parties qui analysent les trois dimensions anthropologiques fondamentales : l’imaginaire religieux et l’héritage des anciens, c’est–à-dire le rapport que l’époque établit avec la tradition culturelle qui la précède ; l’imaginaire amoureux, qui se concentre sur les rapports entre les deux sexes et sur la « féminisation » du héros romanesque sentimental ; l’imaginaire familial, qui aborde les conséquences de ce changement dans la représentation de la masculinité au sein de la représentation de la famille et des rapports intergénérationnels.

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This article brings to light a debate on tragic fiction in eighteenth-century France, and more specifically, on whether or not tragedy has the power to transform individuals intellectually and emotionally. Through analysis of abbé Dubos’s Reflexions critiques sur la poésie et sur la peinture and Jean-Jacques Rousseau’s Lettre à d’Alembert sur les spectacles, I contend that Dubos’s overwhelmingly positive conception of fiction—and especially his contention that we learn through the emotions when we engage with tragic fiction—can serve as an admirable pedagogical model for today’s fiction-focused foreign language classrooms.

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Das schweizerische Kartellrecht hat mit der Totalrevision des Kartellgesetzes im Jahr 1995 einen Paradigmawechsel erlebt. Der vorliegende Band enthält die Vorträge, die am 19. September 2008 an der vom Institut für Recht und Wirtschaft der Universität Freiburg durchgeführten Tagung gehalten wurden. Die Themen umfassen eine wettbewerbspolitische Lagebeurteilung 13 Jahre nach der Totalrevision des KG, Grundsatzfragen im Bereich der marktbeherrschenden Unternehmen, Stand und Zukunft der schweizerischen Zusammenschlusskontrolle, spezifische Fragen zu Sanktionen und zum Kartellverwaltungsverfahren, die Praxis des Sekretariats der Wettbewerbskommission (WEKO) sowie eine Paneldiskussion zu wettbewerbsrechtlichen Fragestellungen im Lichte der Ökonomie.

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Cet article s’intéresse aux différentes fonctions que l’on peut attribuer aux éléments fabuleux dans les œuvres du marquis de Sade. Il s’agit en particulier d’éclaircir les liens intertextuels entre Barbe-Bleue et un conte allégorique que le marquis publie, en 1800, dans la série de ses Crimes de l’amour, sous le titre de Rodrigue ou la tour enchantée. Dans ce texte, la chambre interdite renvoie aussi à un passé criminel, mais elle ne réveille pas la mauvaise conscience et ne suscite aucun remords. Sade semble vouloir faire du conte de Barbe-Bleue le paradigme d’un refoulement manqué, la figure d’une rechute malencontreuse dans un passé archaïque et indigne d’être examiné moralement. Or, les œuvres de Sade ne peuvent plus admettre l’univers surnaturel des contes de fées, considéré comme tout aussi révolu que cette conscience morale qui s’exprime par le remords.

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L’objectif de cette thèse est de réfléchir aux enjeux d’une histoire du jeu de stratégie en temps réel (STR). Il s’agit de mieux comprendre les contextes dans lesquels le genre prend sens pour historiciser son émergence et sa période classique. Cette thèse cherche à documenter, d’une part, la cristallisation du STR en tant qu’objet ayant une forme relativement stable et en tant que corpus précis et identifié et, d’autre part, l’émergence des formes de jouabilité classiques des STR. La première partie est consacrée à décrire l’objet de cette recherche, pour mieux comprendre la complexité du terme « stratégie » et de la catégorisation « jeu de stratégie ». La seconde partie met en place la réflexion épistémologique en montrant comment on peut tenir compte de la jouabilité dans un travail historien. Elle définit le concept de paradigme de jouabilité en tant que formation discursive pour regrouper différents énoncés actionnels en une unité logique qui n’est pas nécessairement l’équivalent du genre. La troisième partie cartographie l’émergence du genre entre les wargames des années 1970 et les jeux en multijoueur de la décennie suivante. Deux paradigmes de jouabilité se distinguent pour former le STR classique : le paradigme de décryptage et le paradigme de prévision. La quatrième partie explique et contextualise le STR classique en montrant qu’il comporte ces deux paradigmes de jouabilité dans deux modes de jeu qui offrent des expériences fondamentalement différentes l’une de l’autre.

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Travail dirigé présenté à la Faculté des études supérieures en vue de l'obtention du grade Maîtrise (M.Sc.) en criminologie option sécurité intérieure

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L’objectif de cette thèse est de réfléchir aux enjeux d’une histoire du jeu de stratégie en temps réel (STR). Il s’agit de mieux comprendre les contextes dans lesquels le genre prend sens pour historiciser son émergence et sa période classique. Cette thèse cherche à documenter, d’une part, la cristallisation du STR en tant qu’objet ayant une forme relativement stable et en tant que corpus précis et identifié et, d’autre part, l’émergence des formes de jouabilité classiques des STR. La première partie est consacrée à décrire l’objet de cette recherche, pour mieux comprendre la complexité du terme « stratégie » et de la catégorisation « jeu de stratégie ». La seconde partie met en place la réflexion épistémologique en montrant comment on peut tenir compte de la jouabilité dans un travail historien. Elle définit le concept de paradigme de jouabilité en tant que formation discursive pour regrouper différents énoncés actionnels en une unité logique qui n’est pas nécessairement l’équivalent du genre. La troisième partie cartographie l’émergence du genre entre les wargames des années 1970 et les jeux en multijoueur de la décennie suivante. Deux paradigmes de jouabilité se distinguent pour former le STR classique : le paradigme de décryptage et le paradigme de prévision. La quatrième partie explique et contextualise le STR classique en montrant qu’il comporte ces deux paradigmes de jouabilité dans deux modes de jeu qui offrent des expériences fondamentalement différentes l’une de l’autre.

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Travail dirigé présenté à la Faculté des études supérieures en vue de l'obtention du grade Maîtrise (M.Sc.) en criminologie option sécurité intérieure

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"Dédiée a S. M. l'Empereur Napoloéon I.er."