257 resultados para Ammophila arenaria
Resumo:
Heterogeneity in the transmission rates of pathogens across hosts or environments may produce disease hotspots, which are defined as specific sites, times or species associations in which the infection rate is consistently elevated. Hotspots for avian influenza virus (AIV) in wild birds are largely unstudied and poorly understood. A striking feature is the existence of a unique but consistent AIV hotspot in shorebirds (Charadriiformes) associated with a single species at a specific location and time (ruddy turnstone Arenaria interpres at Delaware Bay, USA, in May). This unique case, though a valuable reference, limits our capacity to explore and understand the general properties of AIV hotspots in shorebirds. Unfortunately, relatively few shorebirds have been sampled outside Delaware Bay and they belong to only a few shorebird families; there also has been a lack of consistent oropharyngeal sampling as a complement to cloacal sampling. In this study we looked for AIV hotspots associated with other shorebird species and/or with some of the larger congregation sites of shorebirds in the old world. We assembled and analysed a regionally extensive dataset of AIV prevalence from 69 shorebird species sampled in 25 countries across Africa and Western Eurasia. Despite this diverse and extensive coverage we did not detect any new shorebird AIV hotspots. Neither large shorebird congregation sites nor the ruddy turnstone were consistently associated with AIV hotspots. We did, however, find a low but widespread circulation of AIV in shorebirds that contrast with the absence of AIV previously reported in shorebirds in Europe. A very high AIV antibody prevalence coupled to a low infection rate was found in both first-year and adult birds of two migratory sandpiper species, suggesting the potential existence of an AIV hotspot along their migratory flyway that is yet to be discovered.
Resumo:
Lo studio effettuato verte sulla ricerca delle cave storiche di pietra da taglio in provincia di Bologna, facendo partire la ricerca al 1870 circa, data in cui si hanno le prime notizie cartacee di cave bolognesi. Nella ricerca si è potuto contare sull’aiuto dei Dott. Stefano Segadelli e Maria Tersa De Nardo, geologi della regione Emilia-Romagna, che hanno messo a disposizione la propria conoscenza e le pubblicazioni della regione a questo scopo. Si è scoperto quindi che non esiste in bibliografia la localizzazione di tali cave e si è cercato tramite l’utilizzo del software ArcGIS , di georeferenziarle, correlandole di informazioni raccolte durante la ricerca. A Bologna al momento attuale non esistono cave di pietra da taglio attive, così tutte le fonti che si sono incontrate hanno fornito dati parziali, che uniti hanno permesso di ottenere una panoramica soddisfacente della situazione a inizio secolo scorso. Le fonti studiate sono state, in breve: il catasto cave della regione Emilia-Romagna, gli shape preesistenti della localizzazione delle cave, le pubblicazioni “Uso del Suolo”, oltre ai dati forniti dai vari Uffici Tecnici dei comuni nei quali erano attive le cave. I litotipi cavati in provincia sono quattro: arenaria, calcare, gesso e ofiolite. Per l’ofiolite si tratta di coltivazioni sporadiche e difficilmente ripetibili dato il rischio che può esserci di incontrare l’amianto in queste formazioni; è quindi probabile che non verranno più aperte. Il gesso era una grande risorsa a fine ‘800, con molte cave aperte nella Vena del Gesso. Questa zona è diventata il Parco dei Gessi Bolognesi, lasciando alla cava di Borgo Rivola il compito di provvedere al fabbisogno regionale. Il calcare viene per lo più usato come inerte, ma non mancano esempi di formazioni adatte a essere usate come blocchi. La vera protagonista del panorama bolognese rimane l’arenaria, che venne usata da sempre per costruire paesi e città in provincia. Le cave, molte e di ridotte dimensioni, sono molto spesso difficili da trovare a causa della conseguente rinaturalizzazione. Ci sono possibilità però di vedere riaprire cave di questo materiale a Monte Finocchia, tramite la messa in sicurezza di una frana, e forse anche tramite la volontà di sindaci di comunità montane, sensibili a questo argomento. Per avere una descrizione “viva” della situazione attuale, sono stati intervistati il Dott. Maurizio Aiuola, geologo della Provincia di Bologna, e il Geom. Massimo Romagnoli della Regione Emilia-Romagna, che hanno fornito una panoramica esauriente dei problemi che hanno portato ad avere in regione dei poli unici estrattivi anziché più cave di modeste dimensioni, e delle possibilità future. Le grandi cave sono, da parte della regione, più facilmente controllabili, essendo poche, e più facilmente ripristinabili data la disponibilità economica di chi la gestisce. Uno dei problemi emersi che contrastano l’apertura di aree estrattive minori, inoltre, è la spietata concorrenza dei materiali esteri, che costano, a parità di qualità, circa la metà del materiale italiano. Un esempio di ciò lo si è potuto esaminare nel comune di Sestola (MO), dove, grazie all’aiuto e alle spiegazioni del Geom. Edo Giacomelli si è documentato come il granito e la pietra di Luserna esteri utilizzati rispondano ai requisiti di resistenza e non gelività che un paese sottoposto ai rigori dell’inverno richiede ai lapidei, al contrario di alcune arenarie già in opera provenienti dal comune di Bagno di Romagna. Alla luce di questo esempio si è proceduto a calcolare brevemente l’ LCA di questo commercio, utilizzando con l’aiuto dell’ Ing. Cristian Chiavetta il software SimaPRO, in cui si è ipotizzato il trasporto di 1000 m3 di arenaria da Shanghai (Cina) a Bologna e da Karachi (Pakistan) a Bologna, comparandolo con le emissioni che possono esserci nel trasporto della stessa quantità di materiale dal comune di Monghidoro (BO) al centro di Bologna. Come previsto, il trasporto da paesi lontani comporta un impatto ambientale quasi non comparabile con quello locale, in termini di consumo di risorse organiche e inorganiche e la conseguente emissione di gas serra. Si è ipotizzato allora una riapertura di cave locali a fini non edilizi ma di restauro; esistono infatti molti edifici e monumenti vincolati in provincia, e quando questi devono essere restaurati, dove si sceglie di cavare il materiale necessario e rispondente a quello già in opera? Al riguardo, si è passati attraverso altre due interviste ai Professori Francesco Eleuteri, architetto presso la Soprintendenza dei Beni Culturali a Bologna e Gian Carlo Grillini, geologo-petrografo e esperto di restauro. Ciò che è emerso è che effettivamente non esiste attualmente una panoramica soddisfacente di quello che è il patrimonio lapideo della provincia, mancando, oltre alla georeferenziazione, una caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica adeguata a poter descrivere ciò che veniva anticamente cavato; l’ipotesi di riapertura a fini restaurativi potrebbe esserci, ma non sembra essere la maggiore necessità attualmente, in quanto il restauro viene per lo più fatto senza sostituzioni o integrazioni, tranne rari casi; è pur sempre utile avere una carta alla mano che possa correlare l’edificio storico con la zona di estrazione del materiale, quindi entrambi i professori hanno auspicato una prosecuzione della ricerca. Si può concludere dicendo che la ricerca può proseguire con una migliore e più efficace localizzazione delle cave sul terreno, usando anche come fonte il sapere della popolazione locale, e di procedere con una parte pratica che riguardi la caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica. L’utilità di questi dati può esserci nel momento in cui si facciano ricerche storiche sui beni artistici presenti a Bologna, e qualora si ipotizzi una riapertura di una zona estrattiva.
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Cancers of the reproductive system are among the leading causes of mortality in women in the United States. While both genetic and environmental factors have been implicated in their etiology, the extent of the contribution of environmental factors to human diseases remains controversial. To better address the role of environmental exposures in cancer etiology, there has been an increasing focus on the development of nontraditional, environmentally relevant models. Our research involves the development of one such model, Gonadal tumors have been described in the softshell clam (Mya arenaria) in Maine and the hardshell clam (Mercenaria spp.) from Florida. Prevalence of these tumors is as high as 40% in some populations in eastern Maine and 60% in Some areas along the Indian River in Florida. The average tumor prevalence in Maine and Florida is approximately 20 and 11%, respectively. An association has been suggested between the use of herbicides and the incidence of gonadal tumors in the softshell clam in Maine. The role of environmental exposures in the development of the tumors in Mercenaria in Florida is unknown, however, there is evidence that genetic factors may contribute to its etiology. Epidemiologic studies of human populations in these same areas show a higher than average mortality rate due to cancers of the reproductive system in women, including both ovarian and breast career. The relationship, if any, among these observations is unknown, Our studies on the molecular basis of this disease in clams may provide additional information on environmental exposures and their possible link to cancer in clams and other organisms, including humans.
Resumo:
In der Nordsee wurden auf der Forschungsplattform FINO 1 Felduntersuchungen durchgeführt, um spezielle Fragen zu möglichen Auswirkungen von Offshore-Windenergieparks auf die marine Umwelt zu beantworten. Der Fokus war dabei auf die Konsequenzen für die Lebensgemeinschaft am Meeresboden gerichtet. Es wurden die benthosökologischen Prozesse im Nahbereich der Piles sowie die mittelfristige Entwicklung der Aufwuchsfauna auf der künstlichen Unterwasserstruktur dokumentiert. Die Ansammlung pelagischer Fischen um die Plattform und der Export organischen Materials von der Plattform wurden quantifiziert. Die räumliche Ausdehnung und die Erheblichkeit von Auswirkungen auf die Lebensgemeinschaften des Meeresbodens wurden anhand mathematischer Modellierung abgeschätzt. Zusätzlich wurde die Anwendbarkeit der elektrochemischen Akretionstechnologie zur Schaffung naturnaher Kalksubstrate in der Nordsee getestet und geeignete Parameter für eine erfolgreiche Umsetzung unter Nordseebedingungen ermittelt. Die auch 4,5 Jahre nach Errichtung der Plattform noch ansteigende Artenzahl der Aufwuchsfauna lässt darauf schließen, dass der Sukzessionsprozess noch nicht abgeschlossen ist. Die stark vertikal zonierte Aufwuchsfauna auf der Unterwasserkonstruktion erreicht eine Masse von ca. 5 Tonnen mit ausgeprägten saisonalen Schwankungen. Anhand von echoakustischen Untersuchungen wurden saisonal auftretende Ansammlungen pelagischer Fische um die Plattform dokumentiert. Der Nahbereich der Plattform unterschied sich durch eine Schillauflage und eine räumlich und zeitlich sehr variable Sediment- und Bodenfaunazusammensetzung deutlich von einem Referenzgebiet in 200-400 m Abstand von der Plattform. Eine konzentrische Zonierung mit unterschiedlich stark ausgeprägten Veränderungen der Bodenfauna lässt auf komplexe Veränderung des gesamten lokalen Nahrungsgefüges im Nahbereich der Plattform schließen. Anhand einer Modellierung konnte der Materialexport in die umgebenden Weichbodenbereiche für einzelne Piles und einen hypothetischen Windpark abgeschätzt werden. Die lokale Ausbildung einer hohen Biomasse auf der Unterwasserkonstruktion von WEA sowie der Export mit anschließender Sedimentation lassen zumindest lokal einen erheblichen Einfluss auf Stoff- und Energieflüsse erwarten.