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Architettura Alla domanda “cosa fa un architetto?” Non sono mai riuscito a dare una risposta soddisfacente ma leggendo gli scritti dei grandi architetti una cosa mi ha affascinato particolarmente: tutti raccontano di come nel progettare ci sia un equilibrio (scontro?) tra le conoscenze, le regole e la personale visione ed esperienza, in cui tutto si libera. Libeskind afferma di aver disegnato, in preda ad illuminazioni, più su tovagliolini da bar che su carta da disegno; Zumthor parla addirittura di momenti in cui si è come in preda ad un effetto di una droga: intuizioni! L’architetto progetta. Architetto come genio, particolarmente sensibile, quasi illuminato. “L’architettura non è per tutti”; mi chiedo allora non solo se esistono leggi, soluzioni o binari capaci di guidare anche chi è privo di tale estro ma se esiste un’Architettura comprensibile a tutti (anche alle generazioni future). Ancora una volta se penso ad un denominatore comune di benessere, una possibile guida, penso alla natura e ai suoi ritmi, un’Architettura che mantenga i legami con essa può forse ricordarci che siamo tutti ricchi. L’Architettura intesa come scoperta e non come invenzione, dunque onesta. Carcere Lo studio di una realtà come il carcere mi ha permesso di pormi numerose domande sul ruolo dell’Archittura, a partire dalla riflessione su ciò che significa e rappresenta il progetto architettonico. Studiando l’evoluzione delle carceri, legate indissolubilmente all’evoluzione del concetto di pena, è possibile dare molte risposte ai quesiti dovuti alle scelte progettuali. (costantemente stimolato dalle frequenti similitudini tra carcere e metropoli). Una contrapposizione dovuta al significato dell’abitare insieme al concetto di “qualità” rapportati al concetto di pena senza dimenticare le indicazioni delle norme di sicurezza. L’ Architettura intesa come ricerca del maggior benessere abitativo credo che debba comunque essere ricercata, anche nello spazio carcerario. Non vi è nessun paradosso se si pensa che lo scopo ultimo dello Stato è di voler reintegrare il detenuto in modo tale che non rappresenti più un pericolo e di conseguenza non gravi mai più sullo Stato stesso (troppo spesso chi è stato in carcere ci rientra dopo poco e per gli stessi motivi). “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”(art.27 Cost.) è da questa consapevolezza che dipende l’organizzazione della forma dello spazio e di tali strutture. Naturalmente il grande limite è imposto nel non creare situazioni di benessere tale da portare lo sprovveduto più disperato a commettere il crimine per poter godere dei servizi del carcere. Per questo motivo penso che una soluzione possa essere la ricerca di un equilibrio tra libertà degli spazi condivisi e i limiti dello spazio privato. A mio avviso tutte le esperienze positive devono avvenire in spazi collettivi insieme non solo agli altri carcerati ma anche con la società stessa (penso al Giardino degli incontri di Michelucci in cui c’è una attività teatrale gestita dagli enti comunali); mentre i limiti della reclusione penso debbano essere rappresentati dalla cella, da sempre momento di riflessione e di scoperta di sé stessi. Il detenuto impara a conoscere la società, impara a rispettarla ed una volta libero è più logico che sia disposto a ricambiare le attenzioni ricevute. La cella invece, deve rappresentare il momento in cui è forte il distacco con la società, in cui la si può guardare senza poterne fare parte: la cella come momento dell’attesa e non come comodo rifugio(seppur rispettando un livello di comfort ideale). Il disagio percepito non è da considerare una pena psicologica (anch’essa da evitare) o come un momento di purificazione (immaginario cristiano della colpa e dell’espiazione) ma più semplicemente come una fase del processo in grado (si spera) di recuperare il detenuto: è il desiderio e la consapevolezza di poter vivere insieme agli altri che porta al reinserimento. Di conseguenza è possibile dare una ulteriore risposta interessante; il carcere dovrà essere connesso alla città in modo tale che sia possibile l’interazione tra i due, inoltre permetterebbe alle persone in semi-libertà o in attesa di giudizio un più consono trattamento. Mettere in relazione città e carcere significa integrarli e completare le reciproche identità.

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La tesi si articola in tre capitoli. Il primo dà conto del dibattito sorto attorno alla problematica dell’inquadramento della previdenza complementare nel sistema costituzionale dell’art. 38 Cost. che ha diviso la dottrina tra quanti hanno voluto ricondurre tale fenomeno al principio di libertà della previdenza privata di cui all’ art. 38, comma 5, Cost. e quanti lo hanno invece collocato al 2° comma della stessa norma, sulla base di una ritenuta identità di funzioni tra previdenza pubblica e previdenza complementare. Tale ultima ricostruzione in particolare dopo la c.d. Riforma “Amato” è culminata nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione con una serie di pronunce sulla vicenda del c.d. “contributo sul contributo” e su quella della subordinazione dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche complementari alla maturazione dei requisiti previsti dal sistema obbligatorio. Il capitolo successivo si occupa della verifica della attualità e della coerenza dell’impostazione della Corte Costituzionale alla luce dell’evoluzione della disciplina dei fondi pensione. Nel terzo capitolo, infine, vengono affrontate alcune questioni aperte in relazione ai c.d. fondi pensione “preesistenti” suscettibili di sollevare preoccupazioni circa la necessità di garantire le aspettative e i diritti dei soggetti iscritti.

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Partendo dal problema del rapporto fra la ricostruzione di un evento storico e lo statuto del testo che lo ricostruisce, la tesi si concentra nella lettura di opere riguardanti la Seconda guerra mondiale. Sono in questo senso cruciali due opere autobiografiche trattate nella prima parte del lavoro, Rue Labat Rue Ordener di Sarah Kofman (1993) e Kindheitsmuster di Christa Wolf (1976). In questi due testi la dottoranda prova a recuperare da una parte la rimemorazione letteraria di due esperienze infantili della guerra insieme opposte e complementari dal punto di vista del posizionamento della testimonianza. Il testo della Wolf ibrida la narrazione finzionale e la memoria dell’evento storico vissuto nel ricordo di una bambina tedesca, il testo della Kofman recupera in una maniera quasi psicanalitica la memoria di una bambina ebrea vittima inconsapevole e quesi incosciente della Shoah. Di fronte a due topoi apparentemente già piu volte ripercorsi nella letteratura critica del trauma postconflitto, la tesi in questione cerca di individuare il costituirsi quasi inevitabile di un soggetto identitario che osserva, vive e successivamente recupera e racconta il trauma. Se alcune posizioni della moderna storiografia e della contemporanea riflessione sulla scrittura storiografica, sottolineano la forza e l’importanza dell’elemento narrativo all’interno della ricostruzione storica e dell’analisi dei documenti, questa tesi sembra indicare una via possibile di studio per la letteratura comparata. Una via, cioè, che non si soffermi sui fattori e sui criteri veridizionali del testo, criteri e fattori che devono restare oggetto di studio per gli storici , ma che piuttosto indaghi sul nesso ineludibile e fondativo che la scrittura stessa svela e pone in essere: il trauma, l’irrompere dell’evento storico nell’individuo diventa elemento costitutivo della propria identità, elemento al quale è difficile dare una posizione stabile ma che allo stesso tempo non si può evitare di raccontare, di mettere in discorso. Nella narrazione letteraria di eventi storici esiste dunque un surplus di senso che sta tutto nella costituzione di una posizione dalla quale raccontare, di un punto di vista. Il punto di vista (come ci ricorda De Certeau ne Les lieux des autres in quel saggio dedicato ai cannibali di Montaigne,che viene poi ripreso senza essere mai citato da Ginzburg ne Il filo e le tracce) non è mai dato a priori nel discorso, è il risultato di un conflitto e di una lotta. Il testo che rende conto e recupera la memoria di un passato storico, in particolare di un passato storico conflittuale, di una guerra, di una violenza, per quanto presenti un punto di vista preciso e posizionato, per quanto possa apparire un frutto di determinate strategie testuali e di determinati obiettivi pragmatici, è pur sempre una narrazione il cui soggetto porta in sé, identitariamente, le ferite e i traumi dell’evento storico. Nei casi di Wolf e Kofman abbiamo quindi un rispecchiamento reciproco che fra il tentativo di una ricostruzione della memoria infantile e il recupero dell’elemento intersoggettivo e storico si apre alla scrittura e alla narrazione. La posizione del soggetto che ha vissuto l’irrompere del dramma storico nel discorso lo costituisce e lo delega a essere colui che parla e colui che vede. In un qualche modo la Storia per quanto possa essere creatrice di eventi e per quanto possa trasformare l’esistenza del soggetto non è essa stessa percepibile finché non si posiziona attraverso il soggetto trasformato e modificato all’interno del discorso. In questa continua ricerca di un equilibrio possibile fra realtà e discorso si pone il problema dell’essere soggetto in mezzo ad altri soggetti. E questo in un duplice aspetto: nell’aspetto della rappresentazione dell’altro, cioè nel problema di come la memoria riorganizzi e ricrei i soggetti in gioco nell’evento storico; e poi nella rappresentazione di se stesso per gli altri, nella rappresentazione cioe del punto di vista. Se nel romanzo autobiografico di Kofman tutta la storia veniva a ricondursi alla narrazione privata del soggetto che, come in una seduta psicanalitica recupera e insieme si libera del proprio conflitto interiore, della propria memoria offesa; se nel romanzo di Wolf si cercava un equilibrio fra una soggettivita infantile ormai distante in terza persona e una soggettività rammemorante che prendeva posizione nel romanzo nella seconda persona; la cerniera sia epistemologica sia narratologica fra la prima e la seconda parte della tesi pare essere Elsa Morante e il suo romanzo La Storia. L’opera della Morante sembra infatti farsi pieno carico della responsabilità di non poter piu ridurre la narrazione del trauma alla semplice presa in carico del soggetto autobiografico. Il soggetto che, per dirla ancora con De Certeau, può esprimere il proprio punto di vista perche in qualche modo si è salvato dalla temperie della storia, non si pone nel discorso come punto di inizio e di fine di qualsiasi percezione del trauma, ma si incarna in uno o più personaggi che in un qualche modo rappresentino l’irrapresentabile e l’irrapresentato. La storia diventa quindi elemento non costitutivo di un'identità capace di ri-raccontarsi o almeno non solo, diventa fattore costitutivo di un’identità capace di raccontare l’altro, anzi gli altri, tutti coloro che il conflitto, la violenza ha in un qualche modo cancellato. Così accade all’infanzia tradita e offesa del piccolo Useppe, che viene soffocato non solo nella sua possibilita di svilupparsi, di essere punto di vista del discorso, ma anche nella possibilita di essere osservatore vivo dell’evento; cosi accade a Ida, donna e madre, che la Storia lentamente e inesorabilmente spersonalizza riducendola a essere soggetto passivo e vittima degli eventi. Ecco quindi che la strada aperta dalla Morante permette alla memoria di proiettarsi in una narrazione comune e di condividere e suddividere la posizione centrale del soggetto in una costellazione differente di soggetti. A questo punto si apre, attraverso le tecniche della storia orale e la loro narrativizzazione, una strategia di recupero della memoria evidenziata nell’ultima parte della tesi. La strada intrapresa da autori come i Wu Ming e come Andrea Levy ne è un esempio. Sganciati per evidenti ragioni biografiche e anagrafiche (sono tutti nati ben dopo la fine del secondo conflitto mondiale) da qualsiasi tentazione autobiografica, i primi intraprendono una vera e propria ridistribuzione dei punti di vista sulla storia. In romanzi come Manituana si viene a perdere, almeno a un primo e forse piu superficiale livello, qualsiasi imposizione fissa del punto di vista. Una molteplicità di soggetti si prende carico di raccontare la storia da differenti posizioni, ma la apparente molteplicità degli sguardi non si riduce a una frammentazione dell’etica del racconto quanto piuttosto alla volontà di fare emergere tra gli altri anche il punto di vista dello sconfitto e dell’inerme. Al passato oscuro della violenza storica si contrappone in un qualche modo la messa in discorso del soggetto che cerca attraverso la costituzione non solo di un soggetto ma di una pluralitàdi voci , di ritrovare un’ armonia, di riassimilare la propria memoria condividendola nel testo letterario.

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Questo lavoro di tesi curriculare ripercorre attraverso l’analisi di tre progetti, che ho svolto durante il mio percorso di studi, le mie esperienze nell’ambito della riqualificazione di aree al margine del centro storico. In fase di tesi ho poi svolto un lavoro fotografico a supporto degli elaborati progettuali che ho invece redatto negli anni di corso dei laboratori. Il lavoro fotografico a posteriori è da intendersi non tanto come approfondimento delle scelte progettuali effettuate, ma come un ripensamento e una riflessione sui luoghi sui quali ho precedentemente svolto i progetti. Per elaborare questo lavoro ho applicato le conoscenze che ho acquisito nel corso di Storia e Tecnica della Fotografia e nei workshop fotografici ai quali ho partecipato come studente. Dei tre progetti presi in esame, due sono stati svolti nei Laboratori di Progettazione (precisamente II e IV) e uno nel Laboratorio di Sintesi Finale. Come già detto, questi tre progetti sono stati da me scelti perché accomunati dalla prossimità delle aree ai centri storici delle città. Il carattere di queste aree di studio, composto da molteplici identità, è frammentario e le identifica come aree di margine o di confine nelle quali si rende necessario un processo di analisi e di riqualificazione. In maniera differente e con risultati altalenanti, le amministrazioni stanno provvedendo a cercare di dare a questi luoghi un carattere di maggior omogeneità .

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La tesi analizza il rapporto tra pratiche sociali, modelli di insediamento e morfologia urbana in due casi di costruzione di un tessuto urbano operaio che si prestano ad una stimolante comparazione. Da un lato abbiamo degli immigrati verso un polo industriale dell’area metropolitana milanese (Sesto San Giovanni), dall’altro un bacino minerario vallone (La Louvière). Si tratta di contesti di inserimento in aree industriali profondamente differenti dal punto di vista della morfologia sociale e dell’organizzazione territoriale, che profilano spazi ibridi tra rurale e urbano in profonda e rapida trasformazione, a causa del massiccio afflusso di manodopera immigrata. Le profonde differenze tra le due aree consentono di mettere alla prova dell’analisi comparata concetti e percorsi storici dell’integrazione, del tessuto sociale che la presuppone, della cittadinanza, della costruzione delle identità collettive in modo da superare stereotipe dicotomie tra rurale/urbano, tradizione/moderno, integrazione/conflitto. La tesi sviluppa un’analisi parallela dei due casi lungo un crinale argomentativo unitario che si apre con una ricerca sui flussi migratori e i contesti di approdo delle migrazioni. Nei primi due capitoli viene delineato il contesto economico, sociale e territoriale nel quale si inseriscono i due processi migratori. Per il caso belga, si analizzano il ciclo economico dell’industria carbonifera, il processo di spopolamento della Vallonia, l’avvio dei flussi migratori al termine della seconda guerra mondiale e i meccanismi che li hanno presieduti, vale a dire una migrazione contrattata tra i due governi che spostavano migranti provenienti da poche e selezionate località, rendono conto del primo dei due flussi. Per quanto riguarda il caso interno, viene delineato il contesto della rapida urbanizzazione che porta una serie di comuni contermini al capoluogo lombardo ad entrare nell’orbita metropolitana, qualificandosi come poli periferici di un’area vasta e perdendo la riconoscibilità come nuclei urbani indipendenti. Delineato questo quadro generale, la tesi affronta la questione delle abitazioni e delle forme urbane che assumono queste due mete di migrazione. Per quanto riguarda La Louvière, è ricostruito il duro impatto con il mondo del lavoro nelle miniere e le miserevoli condizioni abitative dei primi immigrati, l’assenza di una iniziativa pubblica nel settore abitativo fino al 1954, solo debolmente compensata dalle iniziative patronali, e la fase invece della seconda metà degli anni ‘50 che porta alla stabilizzazione degli immigrati italiani nell’area. Di Sesto San Giovanni viene ricostruita la complessa transizione a moderna periferia urbana, a partire da insediamenti di tipo rurale, passando attraverso le «Coree» e l’iniziativa pubblica, locale e nazionale, nonché l’intervento edilizio delle grandi imprese industriali che operavano nel suo territorio. L’intervento urbanistico nella cintura metropolitana milanese era al centro di un vivace dibattito sulla pianificazione urbanistica a livello intercomunale che dà luogo a ricerche e studi sulla condizione abitativa. Nell’ultima parte della ricerca, si approfondiscono gli aspetti sociali e culturali del percorso di insediamento e di integrazione nel tessuto urbano. E’ in questa parte che vengono maggiormente utilizzate le fonti orali – sempre opportunamente affiancate e confrontate con altri documenti – al fine di individuare la percezione di sé, della propria identità, le relazioni con altri gruppi sociali, i cambiamenti che la migrazione e l’incontro con la città e l’industria portano nei ruoli di genere, nelle prospettive di vita, nei desideri e nei progetti di questi migranti. Rilevando le peculiarità di due esperienze sociali di migrazione che a partire da contesti di partenza molto simili e portando perlopiù dei contadini ad incontrare città di un mondo lontano, la comparazione profila dinamiche sociali, identitarie e politiche profondamente diverse nei bacini minerari valloni e nella metropoli del miracolo.

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The dissertation regards The memory on the Italian Risorgimento in “Justice and Freedom”(1929-1940) a theoretical core point in the history of the Movement, which so far has not been granted due attention. The work herewith presented is therefore aimed at filling a storiographical gap, analysing the historical events which continue to operate as traditions, raising feelings and passions and hence operating in politics, although as secondary factors. The point made is that the Justice and Freedom Movement, an antifascist political movement born in Paris in October 1929, bases its strength on the heroic choice of the antifascism movement to fight a Second Risorgimento, connecting the fight against the regime to the battles previously fought for the justice and the freedom, an entirely isolated event in the political opposition’s panorama. The dissertation, thus, attempts to explain how and why Justice and Freedom is so tightly interconnected in its political action to the Risorgimento tradition. The first chapter sets the cultural background of the foundation of the Justice and Freedom Movement. The centre of such foundation was Florence, where Gaetano Salvemini, along with a group of young people, would later on carry out some cultural experiences that ideally prepare the ground for the movement’s birth. In the second chapter are found the sites of the memory where the passage of the Risorgimento tradition between the generations takes place. The work therefore shifts from a public to a private level, concentrating on biographical paths. The choice made was for Nello Rosselli, a man very close to the Justice and Freedom Movement but who, as opposed to his comrades-in-arms, did not chose the political way to express his ethical choice, but rather the theoretical one, becoming a Risorgimento historian. The third chapter concentrates on the birth of the Justice and Freedom Movement in France, trying to reconstruct the cultural ties and the confrontation places and sites where the members of the Movement could interact with the French intellectual milieu, bringing back to light the propagandistic usage of the Risorgimento myth carried out by the Movement. Lastly, the fourth chapter focuses on the cultural debate on the Risorgimento, which took place on the press organs of the Movement, pointing out and periodizing the theoretical passages and the propagandistic uses of the myth as related to the stages of the Movement and the political needs.

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Il presente studio affronta la complessa relazione esistente tra i concetti di donna, identità e nazione nell’ambito del rinnovato progetto politico scozzese avviato dalla devolution. La letteratura femminile e la cultura scozzese contemporanea vengono dunque esaminate in un’ottica postcoloniale, coordinando una prospettiva storico-sociale a un’analisi discorsiva della nazione, comportando inoltre continui riferimenti alle più recenti teorie femministe e di genere. La produzione letteraria di Jackie Kay, A. L. Kennedy e Ali Smith infatti sembra rendere possibile un’apertura della nozione di Scottishness, consentendo un approfondimento dei temi della differenza sessuale e culturale, immaginando propriamente la Scozia in senso post-nazionale.

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La presente tesi dimostra che la letteratura nera canadese può costituire una critica al concetto di appartenenza, così come è stato sempre rappresentato nel Canada anglofono. Più specificatamente, prende in considerazione tre scrittori contemporanei – George Elliott Clarke, Austin Clarke e Dionne Brand – che mettono in evidenza, seppure non nei termini classici, ciò che Stuart Hall descrive come “quegli aspetti delle nostre identità che scaturiscono dal nostro ‘appartenere’ a distinte culture etniche, razziali, linguistiche, religiose e soprattutto nazionali” (Stuart Hall, Modernity 596). Ognuno di essi, infatti, pone in evidenza il senso di appartenenza culturale in modo incerto, ambivalente e perfino estremamente critico. L’analisi dei loro testi, inoltre, è imprescindibile, dallo studio di tre discorsi (termine da intendersi secondo la definizione proposta da Ian Angus): il nazionalismo, il multiculturalismo e la diaspora che sembrano condizionare e limitare i termini semantici, concettuali e politici dell’appartenenza culturale, specialmente nell’ambito degli studi canadesi e postcoloniali. In realtà, autori quali Austin Clarke e Dionne Brand, offrendo una prospettiva unica ed originale da cui avviare una critica a tali concetti, propongono dei ‘linguaggi di appartenenza’ diversi e, di conseguenza, modi alternativi di manifestare e concretizzare, non solo un attaccamento culturale, ma anche un impegno politico profondo. Il lavoro è composto dall’Introduzione, in cui vengono esplicitate le ragioni dell’argomento scelto; il Capitolo I, che funge da impianto metodologico alla ricerca, spiega il concetto di appartenenza; da tre Capitoli centrali, ciascuno dedicato ad un singolo autore, che esaminano una serie di opere, di ogni singolo autore, al fine di esaminare e giudicare i tre discorsi; e dalla Conclusione che contiene delle considerazioni sul ruolo della letteratura nera canadese all’interno degli studi canadesi contemporanei e postcoloniali.

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Nella tesi sono rielaborati i dati etnografici, prodotti in Italia ed in Ghana, con una ricerca sul campo di oltre un anno. Attraverso la ricostruzione di un progetto di co-sviluppo che mobilita i migranti in quanto attori di sviluppo, ed in questo caso l’associazione ghanese di Modena per avviare alcune iniziative di sviluppo economico, umano e sostenibile nel paese d’origine, si sono indagate le forme concrete di transnazionalismo attivate da questo gruppo sociale. Nell’analisi, prettamente antropologica, si rivela come, nel progetto di co-sviluppo osservato, le identità etniche, le relazioni asimmetriche di genere ed i processi di negoziazione politica sono celati ed agiti dai diversi attori sociali coinvolti. Si sono inoltre osservate le forme di partecipazione politica in Italia ed in Ghana rivelando come il collettivo ghanese abbia avviato un processo di depoliticizzazione dello sviluppo nel contesto d’origine e, nonostante ciò, sia divenuto nel paese d’immigrazione un nuovo attore politico. Particolare attenzione è stata posta alle produzioni discorsive dello sviluppo e della diaspora, evidenziando come i collettivi migranti se ne riapproprino e le riformulino nelle pratiche quotidiane.

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Il presente lavoro nasce dall’obiettivo di individuare strumenti statistici per indagare, sotto diversi aspetti, il flusso di lavoro di un Laboratorio di Anatomia Patologica. Il punto di partenza dello studio è l’ambiente di lavoro di ATHENA, software gestionale utilizzato nell’Anatomia Patologica, sviluppato dalla NoemaLife S.p.A., azienda specializzata nell’informatica per la sanità. A partire da tale applicativo è stato innanzitutto formalizzato il workflow del laboratorio (Capitolo 2), nelle sue caratteristiche e nelle sue possibili varianti, identificando le operazioni principali attraverso una serie di “fasi”. Proprio le fasi, unitamente alle informazioni addizionali ad esse associate, saranno per tutta la trattazione e sotto diversi punti di vista al centro dello studio. L’analisi che presentiamo è stata per completezza sviluppata in due scenari che tengono conto di diversi aspetti delle informazioni in possesso. Il primo scenario tiene conto delle sequenze di fasi, che si presentano nel loro ordine cronologico, comprensive di eventuali ripetizioni o cicli di fasi precedenti alla conclusione. Attraverso l’elaborazione dei dati secondo specifici formati è stata svolta un’iniziale indagine grafica di Workflow Mining (Capitolo 3) grazie all’ausilio di EMiT, un software che attraverso un set di log di processo restituisce graficamente il flusso di lavoro che li rappresenta. Questa indagine consente già di valutare la completezza dell’utilizzo di un applicativo rispetto alle sue potenzialità. Successivamente, le stesse fasi sono state elaborate attraverso uno specifico adattamento di un comune algoritmo di allineamento globale, l’algoritmo Needleman-Wunsch (Capitolo 4). L’utilizzo delle tecniche di allineamento applicate a sequenze di processo è in grado di individuare, nell’ambito di una specifica codifica delle fasi, le similarità tra casi clinici. L’algoritmo di Needleman-Wunsch individua le identità e le discordanze tra due stringhe di caratteri, assegnando relativi punteggi che portano a valutarne la similarità. Tale algoritmo è stato opportunamente modificato affinché possa riconoscere e penalizzare differentemente cicli e ripetizioni, piuttosto che fasi mancanti. Sempre in ottica di allineamento sarà utilizzato l’algoritmo euristico Clustal, che a partire da un confronto pairwise tra sequenze costruisce un dendrogramma rappresentante graficamente l’aggregazione dei casi in funzione della loro similarità. Proprio il dendrogramma, per la sua struttura grafica ad albero, è in grado di mostrare intuitivamente l’andamento evolutivo della similarità di un pattern di casi. Il secondo scenario (Capitolo 5) aggiunge alle sequenze l’informazione temporale in termini di istante di esecuzione di ogni fase. Da un dominio basato su sequenze di fasi, si passa dunque ad uno scenario di serie temporali. I tempi rappresentano infatti un dato essenziale per valutare la performance di un laboratorio e per individuare la conformità agli standard richiesti. Il confronto tra i casi è stato effettuato con diverse modalità, in modo da stabilire la distanza tra tutte le coppie sotto diversi aspetti: le sequenze, rappresentate in uno specifico sistema di riferimento, sono state confrontate in base alla Distanza Euclidea ed alla Dynamic Time Warping, in grado di esprimerne le discordanze rispettivamente temporali, di forma e, dunque, di processo. Alla luce dei risultati e del loro confronto, saranno presentate già in questa fase le prime valutazioni sulla pertinenza delle distanze e sulle informazioni deducibili da esse. Il Capitolo 6 rappresenta la ricerca delle correlazioni tra elementi caratteristici del processo e la performance dello stesso. Svariati fattori come le procedure utilizzate, gli utenti coinvolti ed ulteriori specificità determinano direttamente o indirettamente la qualità del servizio erogato. Le distanze precedentemente calcolate vengono dunque sottoposte a clustering, una tecnica che a partire da un insieme eterogeneo di elementi individua famiglie o gruppi simili. L’algoritmo utilizzato sarà l’UPGMA, comunemente applicato nel clustering in quanto, utilizzando, una logica di medie pesate, porta a clusterizzazioni pertinenti anche in ambiti diversi, dal campo biologico a quello industriale. L’ottenimento dei cluster potrà dunque essere finalmente sottoposto ad un’attività di ricerca di correlazioni utili, che saranno individuate ed interpretate relativamente all’attività gestionale del laboratorio. La presente trattazione propone quindi modelli sperimentali adattati al caso in esame ma idealmente estendibili, interamente o in parte, a tutti i processi che presentano caratteristiche analoghe.

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Il tema centrale di questo lavoro è costituito dalle nuove forme di pianificazione territoriale in uso nelle principali città europee, con particolare riferimento all'esperienza della pianificazione strategica applicata al governo del territorio, e dall'analisi approfondita delle politiche e degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale della città di Bologna, dal Piano Regolatore Generale del 1985-'89 al nuovo Piano Strutturale Comunale del 2008. Più precisamente, le caratteristiche, potenzialità e criticità del nuovo strumento urbanistico del capoluogo emiliano-romagnolo, vengono esaminati, non solo, in rapporto alle caratteristiche tipiche dei piani strategici europei, ma anche alle forme tradizionali della pianificazione urbanistica (i piani regolatori generali) di cui il piano strutturale dovrebbe superare i limiti, sia in termini di efficacia operativa, sia per quanto riguarda la capacità di costruire condivisione e consenso tra i diversi attori urbani, sull'idea di città di cui è portatore. The main topics of this research are the new tools for urban planning used by the main European cities - with particular reference to strategic planning applied to the territorial management - and the analysis of Bologna policies and instruments for urban and territorial planning, from the Piano Regolatore Generale '85-'89, to the Piano Strutturale Comunale in 2008. More precisely, the Bologna new planning instrument's characteristics, potentialities and criticalities, are not only investigated in relation to the fundamental characteristics of European strategic plans, but also to the traditional instruments of Italian urbanistic planning (Piani Regolatori Generali), of which the new structural plan should exceed the limits, both in terms of effectiveness; and in terms of ability to build agreement and sharing on its urban project, between different urban actors.

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Il paesaggio, e così anche il paesaggio agrario, può essere considerato come segno del rapporto uomo/natura, come costrutto storico che testimonia il succedersi delle diverse civilizzazioni che l'hanno generato, ma anche come spazio per l'immaginazione territoriale, come progetto per il futuro del territorio. In questo lavoro si trattano le relazioni tra questa visione del paesaggio e le forme di produzione e consumo dei prodotti agricoli, nell'ambito delle trasformazioni che l'ambito rurale sta subendo a partire dagli ultimi decenni, tra pressione dell'urbano, da un lato, e abbandono e crisi dell'agricoltura, dall'altro. Particolare attenzione è riservata a quelle esperienze che, attraverso la produzione biologica e lo scambio locale, esprimono un nuovo progetto di territorio, che prende avvio dal contesto rurale ma che pervade anche le città, proponendo anche nuove relazioni tra città e campagna. Nelle reti della filiera corta e dell'economia solidale che si concretizzano soprattutto come esperienze “dal basso”, di autogestione e partecipazione, si diffondono insieme prodotti e valori. In quest'ottica la sostenibilità ambientale non appare più come una fonte di limitazioni e esternalità negative, per dirla con il linguaggio dell'economia, ma diventa un valore aggiunto di appartenenza collettiva (equilibri ecologici, paesaggio) e un'occasione per nuove relazioni sociali e territoriali.

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Il progetto di ricerca, dal titolo La Nuova destra dalla Francia all'Italia, prende come oggetto di studio specifico quel fenomeno politico, emerso in Italia verso la metà degli anni Settanta, che si originò in seno agli ambienti politici della destra radicale, noto con la definizione di Nuova Destra (ND), sul modello dell’omologa e più matura corrente francese il cui nucleo principale ruotava attorno all’associazione culturale GRECE (Groupement de recherche et d’études sur la civilisation européenne). Dal livello avanzato della ricerca sviluppata in questi anni, si è potuto notare che questo soggetto culturale ed ideologico è stato scarsamente studiato nel panorama scientifico italiano dove la maggior parte delle indagini ad esso dedicate sono state svolte da politologi, o comunque risultano riconducibili agli ambienti accademici delle Facoltà di Scienze Politiche, mentre pochissimi sono i lavori che si sono accostati alla ND con le armi specifiche della ricerca storica. Al contrario in Francia il fenomeno è stato oggetto di numerose ricerche da parte di autorevoli studiosi e ha dato avvio ad un florido dibattito ideologico. L’obiettivo principale a cui questa ricerca di dottorato tenta di rispondere è, quindi, quello di ricostruire le vicende storiche della ND italiana, sia attraverso i suoi rapporti con il Movimento sociale italiano (MSI), dalle cui sezioni giovanili essa nacque e si sviluppò per poi distaccarsene, sia tramite l’analisi delle sue evoluzioni politiche e concettuali, sia, infine, cercando di porre in evidenza i lasciti, le influenze e gli stretti legami, che intercorsero fra l’Italia e la più matura esperienza della Nouvelle Droite francese, ed in particolare con il pensiero politico e filosofico di Alain de Benoist, il suo maggiore esponente.