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La pratique d’activité physique fait partie intégrante des recommandations médicales pour prévenir et traiter les maladies coronariennes. Suivant un programme d’entraînement structuré, serait-il possible d’améliorer la réponse à l’exercice tout en offrant une protection cardiaque au patient? C’est ce que semblent démontrer certaines études sur le préconditionnement ischémique (PCI) induit par un test d’effort maximal. Les mêmes mécanismes physiologiques induits par le PCI sont également observés lorsqu’un brassard est utilisé pour créer des cycles d’ischémie/reperfusion sur un muscle squelettique. Cette méthode est connue sous l’appellation : préconditionnement ischémique à distance (PCID). À l’autre extrémité du spectre de l’activité physique, des sportifs ont utilisé le PCDI durant leur échauffement afin d’améliorer leurs performances. C’est dans l’objectif d’étudier ces prémisses que se sont construits les projets de recherches suivants. La première étude porte sur les effets du PCID sur des efforts supra maximaux de courte durée. Les sujets (N=16) ont exécuté un test alactique (6 * 6 sec. supra maximales) suivi d’un test lactique (30 secondes supra maximales) sur ergocycle. Les sujets avaient été aléatoirement assignés à une intervention PCID ou à une intervention contrôle (CON) avant d’entreprendre les efforts. La procédure PCID consiste à effectuer quatre cycles d’ischémie de cinq minutes à l’aide d’un brassard insufflé à 50 mm Hg de plus que la pression artérielle systolique sur le bras. Les résultats de ce projet démontrent que l’intervention PCID n’a pas d’effets significatifs sur l’amélioration de performance provenant classiquement du « système anaérobie », malgré une légère hausse de la puissance maximal en faveur du PCID sur le test de Wingate de trente secondes (795 W vs 777 W) et sur le test de force-vitesse de six secondes (856 W vs 847 W). Le deuxième essai clinique avait pour objectif d’étudier les effets du PCID, selon la méthode élaborée dans le premier projet, lors d’un effort modéré de huit minutes (75 % du seuil ventilatoire) et un effort intense de huit minutes (115 % du seuil ventilatoire) sur les cinétiques de consommation d’oxygène. Nos résultats démontrent une accélération significative des cinétiques de consommation d’oxygène lors de l’intervention PCID par rapport au CON aux deux intensités d’effort (valeur de τ1 à effort modéré : 27,2 ± 4,6 secondes par rapport à 33,7 ± 6,2, p < 0,01 et intense : 29,9 ± 4,9 secondes par rapport à 33,5 ± 4,1, p < 0,001) chez les sportifs amateurs (N=15). Cela se traduit par une réduction du déficit d’oxygène en début d’effort et une atteinte plus rapide de l’état stable. Le troisième projet consistait à effectuer une revue systématique et une méta-analyse sur la thématique du préconditionnement ischémique (PCI) induit par un test d’effort chez les patients coronariens utilisant les variables provenant de l’électrocardiogramme et des paramètres d’un test d’effort. Notre recherche bibliographique a identifié 309 articles, dont 34 qui ont été inclus dans la méta-analyse, qui représente un lot de 1 053 patients. Nos analyses statistiques démontrent que dans un effort subséquent, les patients augmentent leur temps avant d’atteindre 1 mm de sous-décalage du segment ST de 91 secondes (p < 0,001); le sous-décalage maximal diminue de 0,38 mm (p < 0,01); le double produit à 1 mm de sous-décalage du segment ST augmente de 1,80 x 103 mm Hg (p < 0,001) et le temps total d’effort augmente de 50 secondes (p < 0,001). Nos projets de recherches ont favorisé l’avancement des connaissances en sciences de l’activité physique quant à l’utilisation d’un brassard comme stimulus au PCID avant un effort physique. Nous avons évalué l’effet du PCID sur différentes voies métaboliques à l’effort pour conclure que la méthode pourrait accélérer les cinétiques de consommation d’oxygène et ainsi réduire la plage du déficit d’oxygène. Nos découvertes apportent donc un éclaircissement quant à l’amélioration des performances de type contre-la-montre étudié par d’autres auteurs. De plus, nous avons établi des paramètres cliniques permettant d’évaluer le PCI induit par un test d’effort chez les patients coronariens.

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L’analisi del movimento umano ha come obiettivo la descrizione del movimento assoluto e relativo dei segmenti ossei del soggetto e, ove richiesto, dei relativi tessuti molli durante l’esecuzione di esercizi fisici. La bioingegneria mette a disposizione dell’analisi del movimento gli strumenti ed i metodi necessari per una valutazione quantitativa di efficacia, funzione e/o qualità del movimento umano, consentendo al clinico l’analisi di aspetti non individuabili con gli esami tradizionali. Tali valutazioni possono essere di ausilio all’analisi clinica di pazienti e, specialmente con riferimento a problemi ortopedici, richiedono una elevata accuratezza e precisione perché il loro uso sia valido. Il miglioramento della affidabilità dell’analisi del movimento ha quindi un impatto positivo sia sulla metodologia utilizzata, sia sulle ricadute cliniche della stessa. Per perseguire gli obiettivi scientifici descritti, è necessario effettuare una stima precisa ed accurata della posizione e orientamento nello spazio dei segmenti ossei in esame durante l’esecuzione di un qualsiasi atto motorio. Tale descrizione può essere ottenuta mediante la definizione di un modello della porzione del corpo sotto analisi e la misura di due tipi di informazione: una relativa al movimento ed una alla morfologia. L’obiettivo è quindi stimare il vettore posizione e la matrice di orientamento necessari a descrivere la collocazione nello spazio virtuale 3D di un osso utilizzando le posizioni di punti, definiti sulla superficie cutanea ottenute attraverso la stereofotogrammetria. Le traiettorie dei marker, così ottenute, vengono utilizzate per la ricostruzione della posizione e dell’orientamento istantaneo di un sistema di assi solidale con il segmento sotto esame (sistema tecnico) (Cappozzo et al. 2005). Tali traiettorie e conseguentemente i sistemi tecnici, sono affetti da due tipi di errore, uno associato allo strumento di misura e l’altro associato alla presenza di tessuti molli interposti tra osso e cute. La propagazione di quest’ultimo ai risultati finali è molto più distruttiva rispetto a quella dell’errore strumentale che è facilmente minimizzabile attraverso semplici tecniche di filtraggio (Chiari et al. 2005). In letteratura è stato evidenziato che l’errore dovuto alla deformabilità dei tessuti molli durante l’analisi del movimento umano provoca inaccuratezze tali da mettere a rischio l’utilizzabilità dei risultati. A tal proposito Andriacchi scrive: “attualmente, uno dei fattori critici che rallentano il progresso negli studi del movimento umano è la misura del movimento scheletrico partendo dai marcatori posti sulla cute” (Andriacchi et al. 2000). Relativamente alla morfologia, essa può essere acquisita, ad esempio, attraverso l’utilizzazione di tecniche per bioimmagini. Queste vengono fornite con riferimento a sistemi di assi locali in generale diversi dai sistemi tecnici. Per integrare i dati relativi al movimento con i dati morfologici occorre determinare l’operatore che consente la trasformazione tra questi due sistemi di assi (matrice di registrazione) e di conseguenza è fondamentale l’individuazione di particolari terne di riferimento, dette terne anatomiche. L’identificazione di queste terne richiede la localizzazione sul segmento osseo di particolari punti notevoli, detti repere anatomici, rispetto ad un sistema di riferimento solidale con l’osso sotto esame. Tale operazione prende il nome di calibrazione anatomica. Nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento viene implementata una calibrazione anatomica a “bassa risoluzione” che prevede la descrizione della morfologia dell’osso a partire dall’informazione relativa alla posizione di alcuni repere corrispondenti a prominenze ossee individuabili tramite palpazione. Attraverso la stereofotogrammetria è quindi possibile registrare la posizione di questi repere rispetto ad un sistema tecnico. Un diverso approccio di calibrazione anatomica può essere realizzato avvalendosi delle tecniche ad “alta risoluzione”, ovvero attraverso l’uso di bioimmagini. In questo caso è necessario disporre di una rappresentazione digitale dell’osso in un sistema di riferimento morfologico e localizzare i repere d’interesse attraverso palpazione in ambiente virtuale (Benedetti et al. 1994 ; Van Sint Jan et al. 2002; Van Sint Jan et al. 2003). Un simile approccio è difficilmente applicabile nella maggior parte dei laboratori di analisi del movimento, in quanto normalmente non si dispone della strumentazione necessaria per ottenere le bioimmagini; inoltre è noto che tale strumentazione in alcuni casi può essere invasiva. Per entrambe le calibrazioni anatomiche rimane da tenere in considerazione che, generalmente, i repere anatomici sono dei punti definiti arbitrariamente all’interno di un’area più vasta e irregolare che i manuali di anatomia definiscono essere il repere anatomico. L’identificazione dei repere attraverso una loro descrizione verbale è quindi povera in precisione e la difficoltà nella loro identificazione tramite palpazione manuale, a causa della presenza dei tessuti molli interposti, genera errori sia in precisione che in accuratezza. Tali errori si propagano alla stima della cinematica e della dinamica articolare (Ramakrishnan et al. 1991; Della Croce et al. 1999). Della Croce (Della Croce et al. 1999) ha inoltre evidenziato che gli errori che influenzano la collocazione nello spazio delle terne anatomiche non dipendono soltanto dalla precisione con cui vengono identificati i repere anatomici, ma anche dalle regole che si utilizzano per definire le terne. E’ infine necessario evidenziare che la palpazione manuale richiede tempo e può essere effettuata esclusivamente da personale altamente specializzato, risultando quindi molto onerosa (Simon 2004). La presente tesi prende lo spunto dai problemi sopra elencati e ha come obiettivo quello di migliorare la qualità delle informazioni necessarie alla ricostruzione della cinematica 3D dei segmenti ossei in esame affrontando i problemi posti dall’artefatto di tessuto molle e le limitazioni intrinseche nelle attuali procedure di calibrazione anatomica. I problemi sono stati affrontati sia mediante procedure di elaborazione dei dati, sia apportando modifiche ai protocolli sperimentali che consentano di conseguire tale obiettivo. Per quanto riguarda l’artefatto da tessuto molle, si è affrontato l’obiettivo di sviluppare un metodo di stima che fosse specifico per il soggetto e per l’atto motorio in esame e, conseguentemente, di elaborare un metodo che ne consentisse la minimizzazione. Il metodo di stima è non invasivo, non impone restrizione al movimento dei tessuti molli, utilizza la sola misura stereofotogrammetrica ed è basato sul principio della media correlata. Le prestazioni del metodo sono state valutate su dati ottenuti mediante una misura 3D stereofotogrammetrica e fluoroscopica sincrona (Stagni et al. 2005), (Stagni et al. 2005). La coerenza dei risultati raggiunti attraverso i due differenti metodi permette di considerare ragionevoli le stime dell’artefatto ottenute con il nuovo metodo. Tale metodo fornisce informazioni sull’artefatto di pelle in differenti porzioni della coscia del soggetto e durante diversi compiti motori, può quindi essere utilizzato come base per un piazzamento ottimo dei marcatori. Lo si è quindi utilizzato come punto di partenza per elaborare un metodo di compensazione dell’errore dovuto all’artefatto di pelle che lo modella come combinazione lineare degli angoli articolari di anca e ginocchio. Il metodo di compensazione è stato validato attraverso una procedura di simulazione sviluppata ad-hoc. Relativamente alla calibrazione anatomica si è ritenuto prioritario affrontare il problema associato all’identificazione dei repere anatomici perseguendo i seguenti obiettivi: 1. migliorare la precisione nell’identificazione dei repere e, di conseguenza, la ripetibilità dell’identificazione delle terne anatomiche e della cinematica articolare, 2. diminuire il tempo richiesto, 3. permettere che la procedura di identificazione possa essere eseguita anche da personale non specializzato. Il perseguimento di tali obiettivi ha portato alla implementazione dei seguenti metodi: • Inizialmente è stata sviluppata una procedura di palpazione virtuale automatica. Dato un osso digitale, la procedura identifica automaticamente i punti di repere più significativi, nella maniera più precisa possibile e senza l'ausilio di un operatore esperto, sulla base delle informazioni ricavabili da un osso digitale di riferimento (template), preliminarmente palpato manualmente. • E’ stato poi condotto uno studio volto ad indagare i fattori metodologici che influenzano le prestazioni del metodo funzionale nell’individuazione del centro articolare d’anca, come prerequisito fondamentale per migliorare la procedura di calibrazione anatomica. A tale scopo sono stati confrontati diversi algoritmi, diversi cluster di marcatori ed è stata valutata la prestazione del metodo in presenza di compensazione dell’artefatto di pelle. • E’stato infine proposto un metodo alternativo di calibrazione anatomica basato sull’individuazione di un insieme di punti non etichettati, giacenti sulla superficie dell’osso e ricostruiti rispetto ad un TF (UP-CAST). A partire dalla posizione di questi punti, misurati su pelvi coscia e gamba, la morfologia del relativo segmento osseo è stata stimata senza identificare i repere, bensì effettuando un’operazione di matching dei punti misurati con un modello digitale dell’osso in esame. La procedura di individuazione dei punti è stata eseguita da personale non specializzato nell’individuazione dei repere anatomici. Ai soggetti in esame è stato richiesto di effettuare dei cicli di cammino in modo tale da poter indagare gli effetti della nuova procedura di calibrazione anatomica sulla determinazione della cinematica articolare. I risultati ottenuti hanno mostrato, per quel che riguarda la identificazione dei repere, che il metodo proposto migliora sia la precisione inter- che intraoperatore, rispetto alla palpazione convenzionale (Della Croce et al. 1999). E’ stato inoltre riscontrato un notevole miglioramento, rispetto ad altri protocolli (Charlton et al. 2004; Schwartz et al. 2004), nella ripetibilità della cinematica 3D di anca e ginocchio. Bisogna inoltre evidenziare che il protocollo è stato applicato da operatori non specializzati nell’identificazione dei repere anatomici. Grazie a questo miglioramento, la presenza di diversi operatori nel laboratorio non genera una riduzione di ripetibilità. Infine, il tempo richiesto per la procedura è drasticamente diminuito. Per una analisi che include la pelvi e i due arti inferiori, ad esempio, l’identificazione dei 16 repere caratteristici usando la calibrazione convenzionale richiede circa 15 minuti, mentre col nuovo metodo tra i 5 e i 10 minuti.

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