991 resultados para Zapf, Geheimrath (Georg Wilhelm), 1747-1810.


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L’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer – indubbiamente uno dei capisaldi del pensiero novecentesco – rappresenta una filosofia molto composita, sfaccettata e articolata, per così dire formata da una molteplicità di dimensioni diverse che si intrecciano l’una con l’altra. Ciò risulta evidente già da un semplice sguardo alla composizione interna della sua opera principale, Wahrheit und Methode (1960), nella quale si presenta una teoria del comprendere che prende in esame tre differenti dimensioni dell’esperienza umana – arte, storia e linguaggio – ovviamente concepite come fondamentalmente correlate tra loro. Ma questo quadro d’insieme si complica notevolmente non appena si prendano in esame perlomeno alcuni dei numerosi contributi che Gadamer ha scritto e pubblicato prima e dopo il suo opus magnum: contributi che testimoniano l’importante presenza nel suo pensiero di altre tematiche. Di tale complessità, però, non sempre gli interpreti di Gadamer hanno tenuto pienamente conto, visto che una gran parte dei contributi esegetici sul suo pensiero risultano essenzialmente incentrati sul capolavoro del 1960 (ed in particolare sui problemi della legittimazione delle Geisteswissenschaften), dedicando invece minore attenzione agli altri percorsi che egli ha seguito e, in particolare, alla dimensione propriamente etica e politica della sua filosofia ermeneutica. Inoltre, mi sembra che non sempre si sia prestata la giusta attenzione alla fondamentale unitarietà – da non confondere con una presunta “sistematicità”, da Gadamer esplicitamente respinta – che a dispetto dell’indubbia molteplicità ed eterogeneità del pensiero gadameriano comunque vige al suo interno. La mia tesi, dunque, è che estetica e scienze umane, filosofia del linguaggio e filosofia morale, dialogo con i Greci e confronto critico col pensiero moderno, considerazioni su problematiche antropologiche e riflessioni sulla nostra attualità sociopolitica e tecnoscientifica, rappresentino le diverse dimensioni di un solo pensiero, le quali in qualche modo vengono a convergere verso un unico centro. Un centro “unificante” che, a mio avviso, va individuato in quello che potremmo chiamare il disagio della modernità. In altre parole, mi sembra cioè che tutta la riflessione filosofica di Gadamer, in fondo, scaturisca dalla presa d’atto di una situazione di crisi o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo e la nostra civiltà. Una crisi che, data la sua profondità e complessità, si è per così dire “ramificata” in molteplici direzioni, andando ad investire svariati ambiti dell’esistenza umana. Ambiti che pertanto vengono analizzati e indagati da Gadamer con occhio critico, cercando di far emergere i principali nodi problematici e, alla luce di ciò, di avanzare proposte alternative, rimedi, “correttivi” e possibili soluzioni. A partire da una tale comprensione di fondo, la mia ricerca si articola allora in tre grandi sezioni dedicate rispettivamente alla pars destruens dell’ermeneutica gadameriana (prima e seconda sezione) ed alla sua pars costruens (terza sezione). Nella prima sezione – intitolata Una fenomenologia della modernità: i molteplici sintomi della crisi – dopo aver evidenziato come buona parte della filosofia del Novecento sia stata dominata dall’idea di una crisi in cui verserebbe attualmente la civiltà occidentale, e come anche l’ermeneutica di Gadamer possa essere fatta rientrare in questo discorso filosofico di fondo, cerco di illustrare uno per volta quelli che, agli occhi del filosofo di Verità e metodo, rappresentano i principali sintomi della crisi attuale. Tali sintomi includono: le patologie socioeconomiche del nostro mondo “amministrato” e burocratizzato; l’indiscriminata espansione planetaria dello stile di vita occidentale a danno di altre culture; la crisi dei valori e delle certezze, con la concomitante diffusione di relativismo, scetticismo e nichilismo; la crescente incapacità a relazionarsi in maniera adeguata e significativa all’arte, alla poesia e alla cultura, sempre più degradate a mero entertainment; infine, le problematiche legate alla diffusione di armi di distruzione di massa, alla concreta possibilità di una catastrofe ecologica ed alle inquietanti prospettive dischiuse da alcune recenti scoperte scientifiche (soprattutto nell’ambito della genetica). Una volta delineato il profilo generale che Gadamer fornisce della nostra epoca, nella seconda sezione – intitolata Una diagnosi del disagio della modernità: il dilagare della razionalità strumentale tecnico-scientifica – cerco di mostrare come alla base di tutti questi fenomeni egli scorga fondamentalmente un’unica radice, coincidente peraltro a suo giudizio con l’origine stessa della modernità. Ossia, la nascita della scienza moderna ed il suo intrinseco legame con la tecnica e con una specifica forma di razionalità che Gadamer – facendo evidentemente riferimento a categorie interpretative elaborate da Max Weber, Martin Heidegger e dalla Scuola di Francoforte – definisce anche «razionalità strumentale» o «pensiero calcolante». A partire da una tale visione di fondo, cerco quindi di fornire un’analisi della concezione gadameriana della tecnoscienza, evidenziando al contempo alcuni aspetti, e cioè: primo, come l’ermeneutica filosofica di Gadamer non vada interpretata come una filosofia unilateralmente antiscientifica, bensì piuttosto come una filosofia antiscientista (il che naturalmente è qualcosa di ben diverso); secondo, come la sua ricostruzione della crisi della modernità non sfoci mai in una critica “totalizzante” della ragione, né in una filosofia della storia pessimistico-negativa incentrata sull’idea di un corso ineluttabile degli eventi guidato da una razionalità “irrazionale” e contaminata dalla brama di potere e di dominio; terzo, infine, come la filosofia di Gadamer – a dispetto delle inveterate interpretazioni che sono solite scorgervi un pensiero tradizionalista, autoritario e radicalmente anti-illuminista – non intenda affatto respingere l’illuminismo scientifico moderno tout court, né rinnegarne le più importanti conquiste, ma più semplicemente “correggerne” alcune tendenze e recuperare una nozione più ampia e comprensiva di ragione, in grado di render conto anche di quegli aspetti dell’esperienza umana che, agli occhi di una razionalità “limitata” come quella scientista, non possono che apparire come meri residui di irrazionalità. Dopo aver così esaminato nelle prime due sezioni quella che possiamo definire la pars destruens della filosofia di Gadamer, nella terza ed ultima sezione – intitolata Una terapia per la crisi della modernità: la riscoperta dell’esperienza e del sapere pratico – passo quindi ad esaminare la sua pars costruens, consistente a mio giudizio in un recupero critico di quello che egli chiama «un altro tipo di sapere». Ossia, in un tentativo di riabilitazione di tutte quelle forme pre- ed extra-scientifiche di sapere e di esperienza che Gadamer considera costitutive della «dimensione ermeneutica» dell’esistenza umana. La mia analisi della concezione gadameriana del Verstehen e dell’Erfahrung – in quanto forme di un «sapere pratico (praktisches Wissen)» differente in linea di principio da quello teorico e tecnico – conduce quindi ad un’interpretazione complessiva dell’ermeneutica filosofica come vera e propria filosofia pratica. Cioè, come uno sforzo di chiarificazione filosofica di quel sapere prescientifico, intersoggettivo e “di senso comune” effettivamente vigente nella sfera della nostra Lebenswelt e della nostra esistenza pratica. Ciò, infine, conduce anche inevitabilmente ad un’accentuazione dei risvolti etico-politici dell’ermeneutica di Gadamer. In particolare, cerco di esaminare la concezione gadameriana dell’etica – tenendo conto dei suoi rapporti con le dottrine morali di Platone, Aristotele, Kant e Hegel – e di delineare alla fine un profilo della sua ermeneutica filosofica come filosofia del dialogo, della solidarietà e della libertà.

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Die Großherzog Wilhelm Ernst Ausgabe deutscher Klassiker wurde seit 1904 bis in die Zwanziger Jahre hinein im Insel Verlag in Leipzig publiziert. Die Buchreihe hat nicht nur für den Verlag und die Druckerei Poeschel in der sie gedruckt wurde eine ganze Reihe von Neuerungen nach sich gezogen, auch für den deutschen Buchmarkt hat die Klassikerausgabe einen Meilenstein bedeutet. Sie hat einige Eigenschaften des Taschenbuches vorweggenommen. Sie orientierte sich an der Qualität bibliophiler Buchpublikationen, aber war dennoch preislich erschwinglich. Zeitgenössische Klassikerausgaben erschienen zumeist mit einem Kommentar. Nicht so die Großherzog Wilhelm Ernst Ausgabe. Der Text wurde zwar von führenden Wissenschaftlern editiert, aber sie war dennoch unkommentiert. Der Text war in einer Jenson-Antiqua gesetzt obwohl die Debatte um individuell gestaltete Künstlerschriften und die Diskussion um die als deutsche Schrift begriffene Fraktur unter den wichtigsten Protagonisten des deutschen Buchgewerbes ihren Höhepunkt noch nicht erreicht hatte. Ziel für die Klassikerausgabe war darüber hinaus, das zur Jahrhundertwende leicht angestaubte Image der Stadt Weimar aufzupolieren. Über das Patronat des Großherzogs hinaus hätte man die Gewinne aus dem Verkauf der Bücher der Permanenten Ausstellung für die Anschaffung von modernen Kunstobjekten zur Verfügung stellen wollen, die unter der Leitung von Harry Graf Kessler stand. Sieht man den Inhalt der Werke der in der Klassikerreihe erschienen Dichter Goethe, Schiller und Körner in einem ästhetischen Kontext mit dem der Philosophen Schopenhauer und Kant, wird im Spiegel der Formalästhetik der Klassikerausgabe Graf Kesslers Bildungs- und Kulturbegriff erkennbar, der sich in den Jahren nach der Jahrhundertwende zu seinem Lebenskunstideal verdichtete. Der zerrütteten Existenz der Zeitgenossen, wie Friedrich Nietzsche sie beschrieben hatte, sollte der Inhalt der Ausgabe in seiner modernen Form eine moderne Wertehaltung entgegensetzen. Die Lektüre der Klassiker sollte den deutschen Philister „entkrampfen“ und ihm ein Stück der verloren geglaubten Lebensfreude wieder zurück bringen, in dem dieser auch die Facetten des Lebensleids als normal hinnehmen und akzeptieren lernte. Die Klassikerausgabe repräsentierte aus diesem Grund auch den kulturellen und politischen Reformwillen und die gesellschaftlichen Vorstellungen die der Graf für ein modernes Deutschland als überfällig erachtete. Die Buchreihe war aus diesem Grund auch ein politisches Statement gegen die Beharrungskräfte im deutschen Kaiserreich. Die Klassikerreihe wurde in der buchhistorischen Forschung zwar als bedeutender Meilenstein charakterisiert und als „wichtiges“ oder gar „revolutionäres“ Werk der Zeit hervorgehoben, die Ergebnisse der Forschung kann man überspitzt aber in der Aussage zusammenfassen, dass es sich bei der Großherzog Wilhelm Ernst Ausgabe um einen „zufälligen Glückstreffer“ deutscher Buchgestaltung zu handeln scheint. Zumindest lassen die Aussagen, die bisher in dieser Hinsicht gemacht wurden, keine eindeutige Einordnung zu, außer vielleicht der, dass die Klassiker von der englischen Lebensreform inspiriert wurden und Henry van de Velde und William Morris einen Einfluss auf ihre äußere Form hatten. Gerade die Gedankenansätze dieser Beiden nutzte Graf Kessler aber für eigene Überlegungen, die ihn schließlich auch zu eigenen Vorstellungen von idealer Buchgestaltung brachten. Da für Kessler auch Gebrauchsgegenstände Kunst sein konnten, wird das Konzept der Klassikerausgabe bis zur Umsetzung in ihrer `bahnbrechenden´ Form in das ideengeschichtliche und ästhetische Denken des Grafen eingeordnet. Die Klassiker werden zwar in buchhistorischen Einzeluntersuchungen bezüglich ihrer Komponenten, dem Dünndruckpapier, ihrem Einband oder der Schrifttype exponiert. In buchwissenschaftlichen Überblicksdarstellungen wird ihr Einfluss hingegen weniger beachtet, denn verschiedene Kritiker bezogen sie seit ihrem ersten Erscheinen nicht als deutsches Kulturgut mit ein, denn sie lehnten sowohl die englischen Mitarbeiter Emery Walker, Edward Johnston, Eric Gill und Douglas Cockerell wie auch ihre Gestaltung als „welsche“ Buchausgabe ab. Richtig ist, die Großherzog Wilhelm Ernst Ausgabe hatte dieselbe Funktion wie die von Graf Kessler in Weimar konzipierten Kunstausstellungen und die dortige Kunstschule unter der Leitung seines Freundes Henry van de Velde. Auch das für Weimar geplante Theater, das unter der Leitung von Hugo von Hofmannsthal hätte stehen sollen und die Großherzog Wilhelm Ernst Schule, hätten dieselben Ideen der Moderne mit anderen Mitteln transportieren sollen, wie die Großherzog Wilhelm Ernst Ausgabe deutscher Klassiker.

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Oggetto della ricerca è il museo Wilhelm Lehmbruck di Duisburg, un'opera dell'architetto Manfred Lehmbruck, progettata e realizzata tra il 1957 e il 1964. Questa architettura, che ospita la produzione artistica del noto scultore Wilhelm Lehmbruck, padre di Manfred, è tra i primi musei edificati ex novo nella Repubblica Federale Tedesca dopo la seconda guerra mondiale. Il mito di Wilhelm Lehmbruck, costruito negli anni per donare una identità culturale alla città industriale di Duisburg, si rinvigorì nel secondo dopoguerra in seno ad una più generale tendenza sorta nella Repubblica di Bonn verso la rivalutazione dell'arte moderna, dichiarata “degenerata” dal nazionalsocialismo. Ricollegarsi all'arte e all'architettura moderna degli anni venti era in quel momento funzionale al ridisegno di un volto nuovo e democratico del giovane stato tedesco, che cercava legittimazione proclamandosi erede della mitica e gloriosa Repubblica di Weimar. Dopo anni di dibattiti sulla ricostruzione, l'architettura del neues Bauen sembrava l'unico modo in cui la Repubblica Federale potesse presentarsi al mondo, anche se la realtà del paese era assai più complessa e svelava il “doppio volto” che connotò questo stato a partire dal 1945. Le numerose dicotomie che popolarono presto la tabula rasa nata dalle ceneri del conflitto (memoria/oblio, tradizione/modernità, continuità/discontinuità con il recente e infausto passato) trovano espressione nella storia e nella particolare architettura del museo di Duisburg, che può essere quindi interpretato come un'opera paradigmatica per comprendere la nuova identità della Repubblica Federale, un'identità che la rese capace di risorgere dopo l' “anno zero”, ricercando nel miracolo economico uno strumento di redenzione da un passato vergognoso, che doveva essere taciuto, dimenticato, lasciato alle spalle.

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La dissertazione è uno studio monografico delle cantate dialogiche e delle serenate a più voci e strumenti composte da Händel in Italia negli anni 1706-1710. Insieme ai drammi per musica e agli oratori coevi, le quattro cantate "Aminta e Fillide" HWV 83, "Clori, Tirsi e Fileno" HWV 96, "Il duello amoroso" HWV 82, "Apollo e Dafne" HWV 122 e le due serenate "Aci, Galatea e Polifemo" HWV 72 e "Olinto pastore arcade alle glorie del Tebro" HWV 143 costituiscono le prime importanti affermazioni di Händel come compositore di musica vocale. Le sei composizioni sono state studiate sotto l’aspetto storico-letterario, drammaturgico-musicale e della committenza, con l’obiettivo di individuare intersecazioni fra questi piani. I testi poetici, di cui si è curata l’edizione, sono stati analizzati da un punto di vista storico e stilistico e collocati nel particolare contesto romano del primo Settecento, in cui la proibizione di ogni spettacolo teatrale determinò, sotto la spinta di una raffinata committenza, un ‘drammatizzazione’ dei generi della cantata e della serenata. L’analisi musicale di ciascuna composizione è stata dunque finalizzata a una lettura ‘drammaturgica’, che ha portato alla individuazione dei dispositivi di ascendenza teatrale nella scelte compositive di Händel. Lo studio si conclude con un selettivo confronto con le cantate e le serenate scritte negli stessi anni a Roma da Alessandro Scarlatti.

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La tesi di dottorato ha come oggetto il pensiero sociologico di Georg Simmel con particolare riferimento alla sua interpretazione nei diversi indirizzi di ricerca della sociologia relazionale contemporanea. In particolare, si propone una rilettura del contributo simmeliano alla luce del paradigma relazionale della sociologia di Pierpaolo Donati. Il lavoro di ricerca è stato condotto secondo una rigorosa ricognizione testuale dell’opus simmeliano e della bibliografia critica internazionale sull'argomento in oggetto. A partire dalla nozione di relazione sociale, si dipana l’analisi della proposta sociologica simmeliana: il termine tedesco Wechselwirkung (azione reciproca) racchiude la complessa semantica con cui assume senso l’intera teoria sociologica simmeliana. Simmel è il primo "sociologo relazionale", come sostenuto da Donati, e in questa ricerca si cerca di mostrare le evidenze della validità di tale asserzione. Nella formulazione simmeliana si trovano importanti indizi teorici che permettono di rielaborare la relazione nei termini di una “forma sociale vitale”. Questo significa che la relazione sociale trova la sua ragion d’essere in quanto fenomeno umano che si determina a partire dalle nozioni di “spirito” (Geist) e “vita”(Leben). Nel primo capitolo si chiarisce la natura di questa relazione sociale in rapporto alle varie proposte sociologiche relazionali in campo internazionale. Nel secondo capitolo si analizza in maniera critica la (ri)formulazione simmeliana della relazione come scambio (nella forma simbolica del denaro) e le interpretazioni relazionali che si sono succedute a partire da questo cambio di rotta. Nel terzo capitolo vengono passate in rassegna le principali figure relazionali (la vita della metropoli, la moda, il conflitto, il povero, lo straniero) con le quali si confronta il sociologo berlinese. Nel quarto capitolo si propone di rileggere fenomeni sociali e culturali come forme relazionali in riferimento alla sfera dell’arte e della teologia (religione).

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In ecologia della pesca, i fattori o indicatori della “condizione” di un organismo forniscono molte informazioni sulle caratteristiche di adattamento dei pesci all’ambiente e sul loro ruolo nell’ecosistema. La “condizione” include molte caratteristiche strutturali ed energetiche che possono variare in funzione dell’ontogenesi, del ciclo riproduttivo, ma anche in funzione delle caratteristiche dell’ambiente, incluso il grado di stress al quale è sottoposta una specie (es. la pressione di pesca). L’obiettivo del presente studio sperimentale è stato valutare eventuali differenze nell’abbondanza, nei parametri di popolazione, nella struttura demografica e negli indicatori di “condizione” di due specie, Merluccius merluccius (Pisces: Gadiformes) e Galeus melastomus (Pisces: Carcharhiniformes), in due diverse aree: Toscana settentrionale e meridionale, differenti per caratteristiche ambientali e pressione di pesca. Nella prima parte dell’analisi, sono stati confrontati gli indici di densità e biomassa, la struttura di taglia delle due popolazioni, su dati estratti dagli archivi storici delle campagne di pesca sperimentale MEDITS dal 1994 al 2013. Nella seconda parte dell’analisi invece, sono stati analizzati 1000 individui provenienti dalla campagna MEDITS 2014, integrati con campioni provenienti dallo sbarcato commerciale per il biennio 2014-2015. Gli individui di M. merluccius sono stati ripartiti in due classi di taglia (I = individui ≤ 18 cm LT; II = individui > 18 cm LT), quelli di G. melastomus in tre classi di taglia (I = individui ≤ 20 cm LT; II = individui 20 cm< x ≤ 35 cm LT; III= individui > 35 cm LT), suddivisi rispettivamente in 50 maschi e 50 femmine, per ogni classe. E’ stato condotto lo studio della crescita relativa attraverso l’analisi della relazione taglia/peso e lo studio della condizione tramite i seguenti indicatori: il fattore K di Fulton, l’indice epatosomatico (HSI) e l’indice gonadosomatico (GSI). I risultati di questa tesi hanno evidenziato differenze nei popolamenti, riconducibili alle diverse condizioni ambientali e alla pressione di pesca, tra le due aree indagate. L’area sud, interessata da un più intenso sforzo di pesca esercitato sui fondali della piattaforma e della scarpata continentale e da una morfologia del fondale differente, mostra una diversità in termini di crescita relativa e stato della “condizione”, che risulta più elevata in entrambe le specie, rispetto all’area settentrionale, caratterizzata invece da uno sforzo di pesca meno intenso, incentrato sull’ampia piattaforma continentale.

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