998 resultados para A. acuta d13C
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Nell'elaborato si analizzano aspetti della teoria dei giochi e della multi-criteria decision-making. La riflessione serve a proporre le basi per un nuovo modello di protocollo di routing in ambito Mobile Ad-hoc Networks. Questo prototipo mira a generare una rete che riesca a gestirsi in maniera ottimale grazie ad un'acuta tecnica di clusterizzazione. Allo stesso tempo si propone come obiettivo il risparmio energetico e la partecipazione collaborativa di tutti i componenti.
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Ottimizzazione di un protocollo di anticoagulazione regionale con citrato in CRRT Introduzione: La necessità di un'anticoagulazione continua e l'ipofosforemia in corso di trattamento sono problemi costranti in corso di CRRT. Il nostro studio ha cercato di dimostrare l'efficacia e la sicurezza dell'anticoagulazione regionale con citrato in CVVH basato sull'utilizzo di una soluzione di citrato (18 mmol/L) associata ad una soluzione di reinfusione contenente fosfato, recentemente disponibile in commercio, al fine di ridurre l'ipofosfatemia in corso di CRRT. Metodi: Abbiamo utilizzato il nostro protocollo basato sull'utilizzo di una concentrazione di citrato contenente 18 mmol/l associata ad una soluzione di reinfusione contenente fosfato in un piccolo gruppo di pazienti ricoverati in terapia intensiva post-cardiochirurgica, sottoposti a CRRT per insufficienza renale acuta. Risultati: Il nostro protocollo ha garantito un'adeguata durata del circuito ed un ottimo controllo dell'equilibrio acido-base in ogni paziente. E' stata necessaria solo una minima supplementazione di fosforo in alcuni dei pazienti trattati. Conclusioni: Il nostro protocollo basato sull' utilizzo di una soluzione a concentrazione di citrato maggiore (18 mmol/l), permette un miglior controllo dell'equilibrio acido-base rispetto all'utilizzo della soluzione a più bassa concentrazione di citrato. L'uso di una minore dose di citrato ed il mantenimento di un target maggiore di calcio ionizzato all'interno del circuito sono comunque associati ad un'adeguata durata del circuito. I livelli di fosforemia sono rimasti sostanzialmente stabili nella maggior parte dei pazienti trattati, grazie alla presenza di fosfato nella soluzione utilizzata come reinfusione in post-diluizione.
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In Medicina Veterinaria l'avvelenamento da rodenticidi anticoagulanti è conosciuto e studiato ormai da anni, essendo una delle intossicazioni più comunemente riscontrate nelle specie non target. In letteratura si rinvengono numerose pubblicazioni ma alcuni aspetti sono rimasti ancora inesplorati.Questo studio si propone di valutare il processo infiammatorio, mediante le proteine di fase acuta (APPs), in corso di fenomeni emorragici, prendendo come modello reale un gruppo di soggetti accidentalmente avvelenati da rodenticidi anticoagulanti. I 102 soggetti avvelenati presentano un valore più elevato di proteina C reattiva (CRP)con una mediana di 4.77 mg/dl statisticamente significativo rispetto alla mediana delle due popolazioni di controllo di pari entità numerica create con cross match di sesso, razza ed età; rispettivamente 0.02 mg/dl dei soggetti sani e 0.37 mg/dl dei soggetti malati di altre patologie. Inoltre all'interno del gruppo dei soggetti avvelenati un valore di CRP elevato all'ammissione può predisporre al decesso. La proteina C reattiva assume quindi un ruolo diagnostico e prognostico in questo avvelenamento. Un'altra finalità, di non inferiore importanza, è quella di definire una linea guida terapeutica con l'ausilio di biomarker coagulativi e di valutare la sicurezza della vitamina K per via endovenosa: in 73 cani, non in terapia con vitamina k, intossicati da rodenticidi anticoagulanti, i tempi della coagulazione (PT ed aPTT) ritornano nel range di normalità dopo 4 ore dalla prima somministrazione di 5 mg/kg di vitamina k per via endovenosa e nessun soggetto durante e dopo il trattamento ha manifestato reazioni anafilattiche, nessuno dei pazienti ha necessitato trasfusione ematica e tutti sono sopravvissuti. Infine si è valutata l'epidemiologia dell'ingestione dei prodotti rodenticidi nella specie oggetto di studio e la determinazione dei principi attivi mediante cromatografia liquida abbinata a spettrofotometria di massa (UPLC-MS/MS).
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Introduzione. Il rapido e globale incremento dell’utilizzo dei telefoni cellulari da parte degli adolescenti e dei bambini ha generato un considerevole interesse circa i possibili effetti sulla salute dell’esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza. Perciò è stato avviato lo studio internazionale caso-controllo Mobi-kids, all’interno del quale si colloca quello italiano condotto in 4 Regioni (Piemonte, Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna). Obiettivi. Lo studio ha come obiettivo quello di valutare la stima del rischio degli effetti potenzialmente avversi di queste esposizioni sul sistema nervoso centrale nei bambini e negli adolescenti. Materiali e Metodi. La popolazione include tutte le persone di età compresa tra 10 e 24 anni residenti nelle 4 Regioni, con una diagnosi confermata di neoplasia cerebrale primitiva, diagnosticata durante il periodo di studio (3 anni). Sono stati selezionati due controlli - ospedalizzati per appendicite acuta - per ciascun caso. I controlli sono stati appaiati individualmente a ciascun caso per età, sesso e residenza del caso. Risultati. In Italia sono stati intervistati a Giugno 2014, 106 casi e 191 controlli. In Emilia-Romagna i casi reclutati sono stati fino ad ora 21 e i controlli 20, con una rispondenza del’81% e dell’65% rispettivamente. Dei 41 soggetti totali, il 61% era di sesso maschile con un’età media generale pari a 16,5 (±4,5) anni. Inoltre il 44% degli intervistati proveniva dalla classe di età più giovane (10-14). In merito allo stato di appaiamento, nella nostra Regione sono state effettuate 7 triplette (33%) - 1 caso e 2 controlli - e 6 doppiette (29%) - 1 caso ed 1 controllo. Conclusioni. Nonostante le varie difficoltà affrontate data la natura del progetto, l’esperienza maturata fin ad ora ha comunque portato alla fattibilità dello studio e porterà probabilmente a risultati che contribuiranno alla comprensione dei potenziali rischi di neoplasie cerebrali associati all'uso di telefoni cellulari tra i giovani.
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The public awareness that chemical substances are present ubiquitously in the environment, can be assumed through the diet and can exhibit various health effects, is very high in Europe and Italy. National and international institutions are called to provide figures on the magnitude, frequency, and duration of the population exposure to chemicals, including both natural or anthropogenic substances, voluntarily added to consumers’ good or accidentally entering the production chains. This thesis focuses broadly on how human population exposure to chemicals can be estimated, with particular attention to the methodological approaches and specific focus on dietary exposure assessment and biomonitoring. From the results obtained in the different studies collected in this thesis, it has been pointed out that when selecting the approach to use for the estimate of the exposure to chemicals, several different aspects must be taken into account: the nature of the chemical substance, the population of interest, clarify if the objective is to assess chronic or acute exposure, and finally, take into account the quality and quantity of data available in order to specify and quantify the uncertainty of the estimate.
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Negli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento della qualità di vita dei piccoli animali che, oltre ad aumentarne l'aspettativa di vita, ha determinato un aumento della frequenza di patologie associate all'età medio-avanzata, quali le patologie renali croniche. Il presente studio si fonda sulla necessità, sempre più sentita nella pratica clinica veterinaria, di poter fornire al proprietario del paziente affetto da CKD, una serie di parametri che, oltre a fungere da target terapeutico, possano aiutare a comprenderne la prognosi. Lo studio ha valutato una popolazione di cani affetti da CKD e ne ha seguito o ricostruito il follow-up, per tutto il periodo di sopravvivenza fino al momento dell’exitus. Di tali soggetti sono stati raccolti dati relativi ad anamnesi, esame clinico, misurazione della pressione arteriosa, diagnostica per immagini, esami ematochimici, analisi delle urine ed eventuale esame istologico renale. È stato possibile individuare alcuni importanti fattori prognostici per la sopravvivenza in pazienti con CKD. Oltre a fattori ben noti in letteratura, come ad esempio elevati valori di creatinina e fosforo, o la presenza di proteinuria, è stato possibile anche evidenziare il ruolo prognostico negativo di alcuni parametri meno noti, ed in particolare delle proteine di fase acuta positive e negative, e del rapporto albumina/globuline. Una possibile spiegazione del valore prognostico di tali parametri risiede nel ruolo prognostico negativo dell’infiammazione nel paziente con CKD: tale ruolo è stato suggerito e dimostrato nell’uomo e avrebbe alla base numerosi possibili meccanismi (sviluppo di anemia, complicazioni gastroenteriche, neoplasie, etc.), ma dati analoghi sono mancanti in medicina veterinaria. Una seconda possibile spiegazione risiede nel fatto che potenzialmente i livelli delle proteine di fase acuta possono essere influenzati dalla presenza di proteinuria nel paziente con CKD e di conseguenza potrebbero essere una conferma di come la proteinuria influenzi negativamente l'outcome.
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La presenza di residui dei farmaci ad uso umano e veterinario nelle acque superficiali è in costante aumento a causa del loro elevato consumo. L’impatto ambientale dei prodotti farmaceutici è riconosciuto in tutto il mondo ma attualmente ancora non sono presenti degli Standard di qualità ambientale per queste sostanze in ambiente acquatico. L’agenzia europea per i farmaci (EMEA) ha introdotto delle linee guida per la valutazione del rischio ambientale per tutti i nuovi farmaci prima di provvedere alla registrazione, ma in nessun caso la loro autorizzazione in commercio è vietata. Una volta assunti, i farmaci sono escreti dagli organismi in forma nativa o come metaboliti, e attraverso gli scarichi urbani raggiungono i depuratori che li rimuovono solo in parte. Di conseguenza, i residui dei farmaci vengono ritrovati nei fiumi, nei laghi, fino alle acque marine costiere. Anche se presenti a basse concentrazioni (ng-μg/L) nelle acque superficiali, i farmaci possono provocare effetti avversi negli organismi acquatici. Queste specie rappresentano involontari bersagli. Tuttavia molti di essi possiedono molecole target simili a quelle dell’uomo, con i quali i farmaci interagiscono per indurre gli effetti terapeutici; in questo caso i farmaci ambientali possono causare effetti specifici ma indesiderati sulla fisiologia degli animali acquatici. Le interazioni possono essere anche non specifiche perché dovute agli effetti collaterali dei farmaci, ad esempio effetti ossidativi, con potenziali conseguenze negative su vertebrati ed invertebrati. In questo lavoro sono stati valutati i potenziali effetti indotti nelle larve di orata da quattro classi di farmaci ovvero: carbamazepina (antiepilettico), ibuprofene (antinfiammatorio non steroideo), caffeina (stimolante) e novobiocina (antibiotico). In particolare, in questo lavoro si è valutato inizialmente il tasso di sopravvivenza delle larve di orata esposte ai farmaci, per verificare se l’esposizione determinasse effetti di tossicità acuta; successivamente si è passati alla valutazione di due biomarker : il danno al DNA e la perossidazione lipidica per verificare la presenza di effetti tossici sub-letali. Le larve sono state esposte per 96 ore alle concentrazioni di 0.1, 1 (MEC), 10 e 50 µg/L (>MEC) di carbamazepina e novobiocina, a 0.1, 5 (MEC),10 e 50 µg/L (> MEC) di ibuprofene ed a 0.1, 5 (MEC),15 e 50 µg/L (> MEC) di caffeina, rappresentative delle concentrazioni riscontrate in ambiente acquatico e al di sopra di quest’ultimo. L’analisi dei dati sulla sopravvivenza ha dimostrato che la carbamazepina, l’ibuprofene, la novobiocina e la caffeina non hanno effetti significativi alle concentrazioni testate. La valutazione dei biomarker ha evidenziato un generale decremento significativo dei livelli di danno primario al DNA e per la perossidazione lipidica è stato generalmente osservato un decremento alle dosi dei farmaci più basse, seguito da un aumento a quelle più elevate. Nell’insieme i dati indicano che alle concentrazioni testate, i farmaci carbamazepina, caffeina, ibuprofene e novobiocina non hanno prodotto alterazioni attribuibili alla comparsa di effetti avversi nelle larve di S. aurata dopo 96 ore di esposizione.
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The diet of early human ancestors has received renewed theoretical interest since the discovery of elevated d13C values in the enamel of Australopithecus africanus and Paranthropus robustus. As a result, the hominin diet is hypothesized to have included C4 grass or the tissues of animals which themselves consumed C4 grass. On mechanical grounds, such a diet is incompatible with the dental morphology and dental microwear of early hominins. Most inferences, particularly for Paranthropus, favor a diet of hard or mechanically resistant foods. This discrepancy has invigorated the longstanding hypothesis that hominins consumed plant underground storage organs (USOs). Plant USOs are attractive candidate foods because many bulbous grasses and cormous sedges use C4 photosynthesis. Yet mechanical data for USOs—or any putative hominin food—are scarcely known. To fill this empirical void we measured the mechanical properties of USOs from 98 plant species from across sub-Saharan Africa. We found that rhizomes were the most resistant to deformation and fracture, followed by tubers, corms, and bulbs. An important result of this study is that corms exhibited low toughness values (mean = 265.0 J m-2) and relatively high Young’s modulus values (mean = 4.9 MPa). This combination of properties fits many descriptions of the hominin diet as consisting of hard-brittle objects. When compared to corms, bulbs are tougher (mean = 325.0 J m-2) and less stiff (mean = 2.5 MPa). Again, this combination of traits resembles dietary inferences, especially for Australopithecus, which is predicted to have consumed soft-tough foods. Lastly, we observed the roasting behavior of Hadza hunter-gatherers and measured the effects of roasting on the toughness on undomesticated tubers. Our results support assumptions that roasting lessens the work of mastication, and, by inference, the cost of digestion. Together these findings provide the first mechanical basis for discussing the adaptive advantages of roasting tubers and the plausibility of USOs in the diet of early hominins.
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The Continental porphyry Cu‐Mo mine, located 2 km east of the famous Berkeley Pit lake of Butte, Montana, contains two small lakes that vary in size depending on mining activity. In contrast to the acidic Berkeley Pit lake, the Continental Pit waters have near-neutral pH and relatively low metal concentrations. The main reason is geological: whereas the Berkeley Pit mined highly‐altered granite rich in pyrite with no neutralizing potential, the Continental Pit is mining weakly‐altered granite with lower pyrite concentrations and up to 1‐2% hydrothermal calcite. The purpose of this study was to gather and interpret information that bears on the chemistry of surface water and groundwater in the active Continental Pit. Pre‐existing chemistry data from sampling of the Continental Pit were compiled from the Montana Bureau of Mines and Geology and Montana Department of Environmental Quality records. In addition, in March of 2013, new water samples were collected from the mine’s main dewatering well, the Sarsfield well, and a nearby acidic seep (Pavilion Seep) and analyzed for trace metals and several stable isotopes, including dD and d18O of water, d13C of dissolved inorganic carbon, and d34S of dissolved sulfate. In December 2013, several soil samples were collected from the shore of the frozen pit lake and surrounding area. The soil samples were analyzed using X‐ray diffraction to determine mineral content. Based on Visual Minteq modeling, water in the Continental Pit lake is near equilibrium with a number of carbonate, sulfate, and molybdate minerals, including calcite, dolomite, rhodochrosite (MnCO3), brochantite (CuSO4·3Cu(OH)2), malachite (Cu2CO3(OH)2), hydrozincite (Zn5(CO3)2(OH)6), gypsum, and powellite (CaMoO4). The fact that these minerals are close to equilibrium suggests that they are present on the weathered mine walls and/or in the sediment of the surface water ponds. X‐Ray Diffraction (XRD) analysis of the pond “beach” sample failed to show any discrete metal‐bearing phases. One of the soil samples collected higher in the mine, near an area of active weathering of chalcocite‐rich ore, contained over 50% chalcanthite (CuSO4·5H2O). This water‐soluble copper salt is easily dissolved in water, and is probably a major source of copper to the pond and underlying groundwater system. However, concentrations of copper in the latter are probably controlled by other, less‐soluble minerals, such as brochantite or malachite. Although the acidity of the Pavilion Seep is high (~ 11 meq/L), the flow is much less than the Sarsfield Well at the current time. Thus, the pH, major and minor element chemistry in the Continental Pit lakes are buffered by calcite and other carbonate minerals. For the Continental Pit waters to become acidic, the influx of acidic seepage (e.g., Pavilion Seep) would need to increase substantially over its present volume.
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Karst aquifers are known for their wide distribution of water transfer velocities. From this observation, a multiple geochemical tracer approach seems to be particularly well suited to provide a significant assessment of groundwater flows, but the choice of adapted tracers is essential. In this study, several common tracers in karst aquifers such as physicochemical parameters, major ions, stable isotopes, and d13C to more specific tracers such as dating tracers – 14C, 3H, 3H–3He, CFC-12, SF6 and 85Kr, and 39Ar – were used, in a fractured karstic carbonated aquifer located in Burgundy (France). The information carried by each tracer and the best sampling strategy are compared on the basis of geochemical monitoring done during several recharge events and over longer time periods (months to years). This study’s results demonstrate that at the seasonal and recharge event time scale, the variability of concentrations is low for most tracers due to the broad spectrum of groundwater mixings. The tracers used traditionally for the study of karst aquifers, i.e., physicochemical parameters and major ions, efficiently describe hydrological processes such as the direct and differed recharge, but require being monitored at short time steps during recharge events to be maximized. From stable isotopes, tritium, and Cl� contents, the proportion of the fast direct recharge by the largest porosity was estimated using a binary mixing model. The use of tracers such as CFC-12, SF6, and 85Kr in karst aquifers provides additional information, notably an estimation of apparent age, but they require good preliminary knowledge of the karst system to interpret the results suitably. The CFC-12 and SF6 methods efficiently determine the apparent age of baseflow, but it is preferable to sample the groundwater during the recharge event. Furthermore, these methods are based on different assumptions such as regional enrichment in atmospheric SF6, excess air, and flow models among others. 85Kr and 39Ar concentrations can potentially provide a more direct estimation of groundwater residence time. Conversely, the 3H–3He method is inefficient in the karst aquifer for dating due to 3He degassing.
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BACKGROUND Maculopapular or urticarial eruptions and erythema multiforme sometimes occur in patients affected with Mycoplasma pneumoniae respiratory infections. Further eruptions have also been reported. OBJECTIVE To review the literature addressing M. pneumoniae respiratory infection and rather unusual eruptions. METHODS Computer-based search in the U.S. National Library of Medicine database as well as in the search engine Google. RESULTS We found a possible relationship between M. pneumoniae infection and Fuchs' syndrome (n = 37), varicella-like eruptions (n = 8), Henoch-Schönlein syndrome and further leukocytoclastic vasculitides (n = 21) and erythema nodosum (n = 11). A temporal relationship was also observed with 2 cases of Gianotti-Crosti syndrome. Finally, there exists reasonable evidence that pityriasis rosea Gibert and pityriasis lichenoides et varioliformis acuta Mucha-Habermann are not associated with Mycoplasma infections. CONCLUSION This review implies that M. pneumoniae may cause, in addition to erythematous maculopapular (or urticarial) eruptions and erythema multiforme, Fuchs' syndrome and varicella-like eruptions. Furthermore, there is an intriguing link with leukocytoclastic vasculitides or erythema nodosum that deserves further investigation.
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Several episodes of abrupt and transient warming, each lasting between 50,000 and 200,000 years, punctuated the long-term warming during the Late Palaeocene and Early Eocene (58 to 51 Myr ago) epochs**1,2. These hyperthermal events, such as the Eocene Thermal Maximum 2 (ETM2) that took place about 53.5 Myr ago**2, are associated with rapid increases in atmospheric CO2 content. However, the impacts of most events are documented only locally**3,4. Here we show, on the basis of estimates from the TEX86' proxy, that sea surface temperatures rose by 3-5 °C in the Arctic Ocean during the ETM2. Dinoflagellate fossils demonstrate a concomitant freshening and eutrophication of surface waters, which resulted in euxinia in the photic zone. The presence of palm pollen implies**5 that coldest month mean temperatures over the Arctic land masses were no less than 8 °C, in contradiction of model simulations that suggest hyperthermal winter temperatures were below freezing**6. In light of our reconstructed temperature and hydrologic trends, we conclude that the temperature and hydrographic responses to abruptly increased atmospheric CO2 concentrations were similar for the ETM2 and the better-described Palaeocene-Eocene Thermal Maximum**7,8, 55.5 Myr ago.
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Stable isotope analysis was performed on the structural carbonate of fish bone apatite from early and early middle Eocene samples (~55 to ~45 Ma) recently recovered from the Lomonosov Ridge by Integrated Ocean Drilling Program Expedition 302 (the Arctic Coring Expedition). The d18O values of the Eocene samples ranged from -6.84 per mil to -2.96 per mil Vienna Peedee belemnite, with a mean value of -4.89 per mil, compared to 2.77 per mil for a Miocene sample in the overlying section. An average salinity of 21 to 25 per mil was calculated for the Eocene Arctic, compared to 35 per mil for the Miocene, with lower salinities during the Paleocene Eocene thermal maximum, the Azolla event at ~48.7 Ma, and a third previously unidentified event at ~47.6 Ma. At the Azolla event, where the organic carbon content of the sediment reaches a maximum, a positive d13C excursion was observed, indicating unusually high productivity in the surface waters.