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This dissertation looks at three widely accepted assumptions about how the patent system works: patent documents disclose inventions; this disclosure happens quickly, and patent owners are able to enforce patents. The first chapter estimates the effect of stronger trade secret protection on the number of patented innovations. When firms find it easier to protect business information, there is less need for patent protection, and accordingly less need for the disclosure of technical information that is required by patent law. The novel finding is that when it is easier to keep innovations, there is not only a reduction in the number of patents but also a sizeable reduction in disclosed knowledge per patent. The chapter then shows how this endogeneity of the amount of knowledge per patent can affect the measurement of innovation using patent data. The second chapter develops a game-theoretic model to study how the introduction of fee-shifting in US patent litigation would influence firms’ patenting propensities. When the defeated party to a lawsuit has to bear not only their own cost but also the legal expenditure of the winning party, manufacturing firms in the model unambiguously reduce patenting, with small firms affected the most. For fee-shifting to have the same effect as in Europe, the US legal system would require shifting of a much smaller share of fees. Lessons from European patent litigation may, therefore, have only limited applicability in the US case. The third chapter contains a theoretical analysis of the influence of delayed disclosure of patent applications by the patent office. Such a delay is a feature of most patent systems around the world but has so far not attracted analytical scrutiny. This delay may give firms various kinds of strategic (non-)disclosure incentives when they are competing for more than a single innovation.

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La presente trattazione affronta le principali problematiche giuridiche derivanti dall’apertura di una procedura concorsuale, esaminando le questioni di maggiore rilievo giuridico e operativo per il settore del trasporto marittimo in base ai due sistemi che, a livello sovranazionale, regolano l’insolvenza transfrontaliera, i.e. quello ispirato alla UNCITRAL Model Law e il Regolamento UE 848/2015. Le cornici normative UNCITRAL e UE hanno rappresentato, quindi, il punto di partenza dello scrutinio delle possibili aree di conflitto tra il trasporto marittimo e le procedure di insolvenza: sono emerse numerose zone di potenziale collisione, soprattutto in relazione ai criteri di collegamento tipici della navigazione (in primis, la bandiera quale elemento distintivo della nazionalità della nave) e, dunque, all’individuazione del centro degli interessi principali del debitore/armatore, soprattutto se – come di fatto avviene frequentemente in ambito internazionale – organizzato sotto forma di shipping group. Il secondo capitolo è dedicato, in senso lato, ai privilegi marittimi e al loro rapporto con le procedure di insolvenza, con precipuo riferimento all’ipoteca navale e ai maritime liens. A tale proposito, sono analizzate le principali problematiche correlate all’attuazione dei privilegi marittimi, segnatamente in relazione all’istituto del sequestro di nave di cui alla Convenzione di Bruxelles del 1952 nel contesto dell’insolvenza transfrontaliera. Il terzo e ultimo capitolo è dedicato alla limitazione di responsabilità quale istituto tipico del settore di riferimento, dalla prospettiva delle possibili interferenze tra la costituzione dei fondi di cui alle Convenzioni LLMC e CLC ed eventuali procedimenti concorsuali. La ricerca svolta ha dimostrato che l’universalità a cui ambiscono il Regolamento 848/2015 (già 1346/2000) e il sistema UNCITRAL risulta minata dalla coesistenza di una molteplicità di differenti interpretazioni e implementazioni, tali per cui l’insolvenza transfrontaliera delle compagnie di trasporto marittimo non risulta regolata in maniera uniforme, con conseguente possibilità di diverso trattamento di fattispecie e situazioni analoghe.

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Gli investimenti alle infrastrutture di trasporto sono stati per lungo tempo considerati misure di politica generale di competenza esclusiva degli Stati membri, nonostante il generale divieto di misure di sostegno pubblico a favore delle imprese ai sensi dell’art. 107 TFUE. Le sentenze rese dalle corti eurounitarie in relazione agli aeroporti di Parigi e di Lipsia Halle hanno dato avvio ad un vero e proprio revirement giurisprudenziale, in considerazione delle trasformazioni economiche internazionali, rimettendo in discussione il concetto di impresa, nonché la ferma interpretazione secondo cui il finanziamento alle infrastrutture – in quanto beni pubblici intesi a soddisfare i bisogni di mobilità dei cittadini – sfuggirebbe all’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato. Nonostante le esigenze di costante ammodernamento e sviluppo delle infrastrutture, il nuovo quadro regolatorio adottato dall’Unione europea a seguire ha condotto inevitabilmente gli Stati membri a dover sottoporre al vaglio preventivo della Commissione ogni nuovo investimento infrastrutturale. La presente trattazione, muovendo dall’analisi della disciplina degli aiuti di Stato di cui agli artt. 107 e ss. TFUE, analizza i principi di creazione giurisprudenziale e dottrinale che derivano dall’interpretazione delle fonti primarie, mettendo in evidenza le principali problematiche giuridiche sottese, anche in considerazione delle peculiarità delle infrastrutture in questione, dei modelli proprietari e di governance, delle competenze e dei poteri decisionali in merito a nuovi progetti di investimento. Infine, la trattazione si concentra sui grandi progetti infrastrutturali a livello europeo e internazionale che interessano le reti di trasporto, analizzando le nuove sfide, pur considerando la necessità di assicurare, anche rispetto ad essi, la salvaguardia del cd. level playing field e l’osservanza sostanziale delle norme sugli aiuti di Stato.

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La ricerca affronta la questione della punizione nella prospettiva del diritto costituzionale nazionale integrata con quella del diritto europeo dei diritti dell’uomo. Nella Parte I è sostenuta la tesi secondo cui la trasformazione della Costituzione penale avviata sotto l’influsso della giurisprudenza CEDU rappresenta complessivamente un avanzamento nel processo di costituzionalizzazione del potere punitivo. Questa conclusione è supportata attraverso un confronto della filosofia costituzionale classica sulla punizione con i diversi approcci interpretativi alla Costituzione penale sviluppati durante il XX secolo (approcci tradizionale, costituzionalistico ed EDU). Nella Parte II è invece sostenuta la tesi secondo cui, nonostante gli effetti positivi dell’armonizzazione sovranazionale, lo statuto costituzionale della punizione dovrebbe comunque rimanere formalmente autonomo dal diritto EDU. Non solo, infatti, nessun paradigma dei rapporti interordinamentali finora sviluppato può giustificarne un’integrazione totale, ma essa rischierebbe anche di diminuire la normatività dell’aspetto sociale della Costituzione penale, già ipocostituzionalizzato rispetto a quello liberale. Nella Conclusione sono quindi sviluppati gli elementi fondamentali di un approccio interpretativo alternativo alla Costituzione penale che risponda meglio di quelli esistenti alle esigenze sia di garantire la massima costituzionalizzazione della punizione sia di facilitare l’integrazione sovranazionale. In base a un simile approccio costituzionalmente fondato, sostanzialista, rights-based e inclusivo di tutte le ideologie costituenti, la Costituzione potrebbe essere letta nel senso di prevedere un modello di disciplina unitario per tutte le forme di esercizio del potere punitivo (salvo quello disciplinare, distinguibile sotto l’aspetto istituzionale) caratterizzato da: una riserva di legge a intensità variabile; uno scrutinio stretto della Corte sulla giustificabilità costituzionale della pena; l’estensione dell’ambito di applicazione dei principi di colpevolezza e rieducazione; un pieno sviluppo degli aspetti di garanzia collettiva dei classici principi costituzionalpenalistici (obblighi di tutela penale e garanzia dell’effettiva collocazione della pena in capo al soggetto colpevole), nonché derivabili dall’art. 3 Cost. (proporzionalità della pena alle condizioni materiali del soggetto punito).

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La tesi indaga l’applicazione del principio di autonomia del diritto UE nella giurisprudenza della Corte di giustizia. In particolare, il lavoro mira ad analizzare le modalità attraverso cui il principio viene adoperato come parametro di compatibilità, ai fini dello scrutinio della Corte, in quei casi riguardanti il rapporto tra giurisdizioni di diritto internazionale e diritto dell’Unione. Una volta delineato il contesto teorico di partenza, concernente il significato dell’autonomia del diritto UE all’interno del “quadro costituzionale” dell’Unione, si passa all’analisi, caso per caso, della prassi giurisprudenziale, al fine di individuare ed estrapolare gli elementi costanti nei casi. La disamina svolta parte da pronunce celebri, tra cui il parere 1/91, Kadi e il parere 2/13, in cui il principio nasce e si sviluppa. Successivamente, si passa alle pronunce più recenti, componenti la c.d. saga Achmea, riguardante la compatibilità con il principio di autonomia dei meccanismi ISDS. I risultati raccolti nell’analisi vengono sintetizzati in modo da ricostruire un test di compatibilità unitario e astratto, composto da tre elementi. Si arriva così, per via induttiva, all’elaborazione di un modello idoneo a spiegare le modalità di applicazione del principio di autonomia come parametro di compatibilità. Sulla scorta di ciò vengono formulate considerazioni e riflessioni concernenti le principali implicazioni per l’ordinamento UE e per i suoi attori, che derivano dal principio di autonomia e dal suo utilizzo giurisprudenziale. Infine, si prende in considerazione una visione del principio di autonomia alternativa a quella emersa nel corso della trattazione e se ne valuta il potenziale impatto sulla concezione e sull’applicazione del principio stesso.

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The thesis aims at exploring possible legal solutions to remove the obstacles to the free circulation of judgments in the civil justice area that arise from the remarkably diverging national rules on procedural time limits. As shown by the case-law of the CJEU, time limits have recently come under closer scrutiny. The interplay between national and EU law illustrates that time limits raise significant deficiencies connected with the right to a fair trial under Art. 6 ECHR and Art. 47 CFR – e.g. the effective recovery of claims, effective judicial protection, effective cross-border enforcement of judgments – which negatively impact EU cross-border civil litigation. In order to overcome some of the weaknesses of the current legal framework governing the cross-border enforcement of judgments and strengthen the parties’ fundamental procedural rights the PhD thesis intends to determine whether and, to what extent time limits can be harmonised at EU level. EU action on time limits would indeed favour the speed, efficiency and proportionality of cross-border proceedings without sacrificing the fairness of the judicial process and the equality of the parties