505 resultados para Mondes de l’art


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Ce travail cherche montrer quelques caractéristiques de la Poésie Visuel, expresion artistique qui melange le langage verbal et le langage visuel à tel point qu´on ne peut pas afirmer une classification appuyée sur les genres traditionnels. Aprés une curte presentation des chemins et des points polémiques de cette esthétique, on analyse comme exemple deux compositions sorties de le grand réseau de communication de l´Art Postal qui est né les années soixante et survit aujourd´hui avec intensité. L´Art Postal a une structure fondé sur la simultanéité de l´information que ressamble à la forme de la poésie visuel. Cettes compositions contemporaines sont confrontées à la tradition du poème visuel qui commence peut-être à l´époque des premiers écrits de hiéroglyphe. Elles sont analysées, donc, dans son originalité. A partir des analyses realisées dans le but de révéler les significations, on arrive à la question proposé par Wilcon Joia Pereira : la nécessité de se comprendre d´une façon nouvelle les expériences esthétiques oú les mots deviennent des images

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Cette étude se propose à l'analyser la matière onirique dans les contes fantastique de Pierre Jules Théophile Gautier (1811-1872). En raison des singularités concernant à la période historique de l’auteur, c’est-à-dire à l’époque romantique, la fréquence thématique du rêve se montre essentielle à la compréhension de l'esprit de l'auteur, l’icône de mouvements postérieures, bien en raison de l'évolution artistique et stylistique qui lui a conduit à avoir des relations polémiques avec les idéaux du progrès bourgeois et avec la conception utilitariste de l'art de l’époque, contre laquelle il a opposé la théorie de « L’Art pour l’art ». On a comme l’objectif de montrer que la critique féroce de Théophile Gautier à l’idéal progressite de l’époque et aux limites de la condition humaine occupe une place importante dans ses récits de rêve, soit par la réorganisation des éléments du réel à travers le rêve, soit comme un des moyens d'échapper aux limites de la réalité qui n’était pas toujours vu positevement par les rationalisme

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Mia Couto dans “O Outro Pé da Sereia” représente deux mondes: le monde d’aujourd’hui avec tous les effets de la mondialisation sur l’espace du Mozambique. Sous-jacents de ce monde la vie mystique vient la vie millénaire des africains avec sa religiosité mystique. Il’y a donc, dans le texte coutiano, l’ínteraction entre le deux opposés: l’ancien et le neuf.

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Nous comprenons que la littérature, quelle que soit l'adjectif qui accompagne - enfant, adolescent ou adulte - est l'art. L'art de la parole qui crée des mondes possibles, pas réel, à travers un langage très élaboré et complexe qui permet la compréhension de toute la l'expérience humaine. D'autre part, la réalité de l'éducation brésilienne nous montre que nos étudiants ont de la difficulté à comprendre des textes écrits, ce que compromettre l'apprentissage de toutes les matières du programme. Dans ce sens, cette étude a eu l'óbjective à à souligner les possibilités que nous avons d'incorporer la literature brésilienne pour les enfants e les jeunes - appropriée aux étudiants de l'enseignement de base, les enfants et les jeunes - comme um élément transdisciplinaire, associant toutes les disciplines du programme scolaire de l'école élémentaire, notre découpure. Ainsi, nous le signalons dans Cacoete, d' Eva Furnari (2005), des éléments de toutes les matières du programme d'études de cette étape scolaire Brésilienne, afin de montrer aux les enseignants de tous les domaines qui le travail avec la littérature conduit nécessairement à la compréhension de toutes la connaissance. Notre étude a été réalisée sous une approche qualitative de caractère bibliographique. Pour l'embasement théorique nous utilisons de auteurs qui recherche le concept et les spécificités du texte littéraire, selon Rolland Barthes (2007) et Tzvetan Todorov (2009) aussi que des auteurs qui l'étudient spécifiquement de la littérature pour les enfants, selon Nelly Novaes Coelho (2006) et Fanny Abramovich (1983; 1999). Ils ont été également consultées des auteurs qui recherche sur la lecture, la littérature et l'école, selon John Wanderley Geraldi (2006), Marisa Lajolo (1997), Ana Maria Machado (2011), Iara Conceição Bitencourt Neves et al (2003), Roxane Rojo (2002), Ezequiel Theodoro da Silva (1988)...

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La ricerca ha perseguito l’obiettivo di individuare e definire il potere di un ente territoriale di sostituire, tramite i suoi organi o atti, quelli ordinari degli enti territoriali minori, per assumere ed esercitare compiutamente, in situazioni straordinarie, le funzioni proprie di questi. Dogmaticamente potremmo distinguere due generali categorie di sostituzione: quella amministrativa e quella legislativa, a seconda dell’attività giuridica nella quale il sostituto interviene. Nonostante tale distinzione riguardi in generale il rapporto tra organi o enti della stessa o di differenti amministrazioni, con eguale o diverso grado di autonomia; la ricerca ha mirato ad analizzare le due summenzionate categorie con stretto riferimento agli enti territoriali. I presupposti, l’oggetto e le modalità di esercizio avrebbero consentito ovviamente di sottocatalogare le due generali categorie di sostituzione, ma un’indagine volta a individuare e classificare ogni fattispecie di attività sostitutiva, più che un’attività complessa, è sembrata risultare di scarsa utilità. Più proficuo è parso il tentativo di ricostruire la storia e l’evoluzione del menzionato istituto, al fine di definire e comprendere i meccanismi che consentono l’attività sostitutiva. Nel corso della ricostruzione non si è potuto trascurare che, all’interno dell’ordinamento italiano, l’istituto della sostituzione è nato nel diritto amministrativo tra le fattispecie che regolavano l’esercizio della funzione amministrativa indiretta. La dottrina del tempo collocava la potestà sostitutiva nella generale categoria dei controlli. La sostituzione, infatti, non avrebbe avuto quel valore creativo e propulsivo, nel mondo dell’effettualità giuridica, quell’energia dinamica ed innovatrice delle potestà attive. La sostituzione rappresentava non solo la conseguenza, ma anche la continuazione del controllo. Le fattispecie, che la menzionata dottrina analizzava, rientravano principalmente all’interno di due categorie di sostituzione: quella disposta a favore dello Stato contro gli inadempimenti degli enti autarchici – principalmente il comune – nonché la sostituzione operata all’interno dell’organizzazione amministrativa dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato. Già in epoca unitaria era possibile rinvenire poteri sostitutivi tra enti, la prima vera fattispecie di potestà sostitutiva, era presente nella disciplina disposta da diverse fattispecie dell'allegato A della legge 20 marzo 1856 n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno. Tentativo del candidato è stato quello, quindi, di ricostruire l'evoluzione delle fattispecie sostitutive nella stratificazione normativa che seguì con il T.U. della legge Comunale e Provinciale R.D. 4 febbraio 1915 e le successive variazioni tra cui il R.D.L. 30 dicembre 1923. Gli istituti sostitutivi vennero meno (di fatto) con il consolidarsi del regime fascista. Il fascismo, che in un primo momento aveva agitato la bandiera delle autonomie locali, non tardò, come noto, una volta giunto al potere, a seguire la sua vera vocazione, dichiarandosi ostile a ogni proposito di decentramento e rafforzando, con la moltiplicazione dei controlli e la soppressione del principio elettivo, la già stretta dipendenza delle comunità locali dallo Stato. Vennero meno i consigli liberamente eletti e al loro posto furono insediati nel 1926 i Podestà e i Consultori per le Amministrazioni comunali; nel 1928 i Presidi e i Rettorati per le Amministrazioni Provinciali, tutti organi nominati direttamente o indirettamente dall’Amministrazione centrale. In uno scenario di questo tipo i termini autarchia e autonomia risultano palesemente dissonanti e gli istituti di coordinamento tra Stato ed enti locali furono ad esso adeguati; in tale ordinamento, infatti, la sostituzione (pur essendo ancora presenti istituti disciplinanti fattispecie surrogatorie) si presentò come un semplice rapporto interno tra organi diversi, di uno stesso unico potere e non come esso è in realtà, anello di collegamento tra soggetti differenti con fini comuni (Stato - Enti autarchici); per semplificare, potremmo chiederci, in un sistema totalitario come quello fascista, in cui tutti gli interessi sono affidati all’amministrazione centrale, chi dovrebbe essere il sostituito. Il potere sostitutivo (in senso proprio) ebbe una riviviscenza nella normativa post-bellica, come reazione alla triste parentesi aperta dal fascismo, che mise a nudo i mali e gli abusi dell’accentramento statale. La suddetta normativa iniziò una riforma in favore delle autonomie locali; infatti, come noto, tutti i partiti politici assunsero posizione in favore di una maggiore autonomia degli enti territoriali minori e ripresero le proposte dei primi anni dell’Unità di Italia avanzate dal Minghetti, il quale sentiva l’esigenza dell’istituzione di un ente intermedio tra Stato e Province, a cui affidare interessi territorialmente limitati: la Regione appunto. Emerge piuttosto chiaramente dalla ricerca che la storia politica e l’evoluzione del diritto pubblico documentano come ad una sempre minore autonomia locale nelle politiche accentratrici dello Stato unitario prima, e totalitario poi, corrisponda una proporzionale diminuzione di istituti di raccordo come i poteri sostitutivi; al contrario ad una sempre maggiore ed evoluta autonomia dello Stato regionalista della Costituzione del 1948 prima, e della riforma del titolo V oggi, una contestuale evoluzione e diffusione di potestà sostitutive. Pare insomma che le relazioni stato-regioni, regioni-enti locali che la sostituzione presuppone, sembrano rappresentare (ieri come oggi) uno dei modi migliori per comprendere il sistema delle autonomie nell’evoluzione della stato regionale e soprattutto dopo la riforma apportata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Dalla preliminare indagine storica un altro dato, che pare emergere, sembra essere la constatazione che l'istituto nato e giustificato da esigenze di coerenza e efficienza dell'azione amministrativa sia stato trasferito nell'ambio delle relazioni tra stato e autonomie territoriali. Tale considerazione sembra essere confermata dal proseguo dell’indagine, ed in particolare dai punti di contatto tra presupposti e procedure di sostituzione nell’analisi dell’istituto. Nonostante, infatti, il Costituente non disciplinò poteri sostitutivi dello Stato o delle regioni, al momento di trasferire le competenze amministrative alle regioni la Corte costituzionale rilevò il problema della mancanza di istituti posti a garantire gli interessi pubblici, volti ad ovviare alle eventuali inerzie del nuovo ente territoriale. La presente ricerca ha voluto infatti ricostruire l’ingresso dei poteri sostitutivi nel ordinamento costituzionale, riportando le sentenze del Giudice delle leggi, che a partire dalla sentenza n. 142 del 1972 e dalla connessa pronuncia n. 39 del 1971 sui poteri di indirizzo e coordinamento dello Stato, pur non senza incertezze e difficoltà, ha finito per stabilire un vero e proprio “statuto” della sostituzione con la sentenza n. 177 del 1988, individuando requisiti sostanziali e procedurali, stimolando prima e correggendo successivamente gli interventi del legislatore. Le prime fattispecie sostitutive furono disciplinate con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari, ed in particolare con l’art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, la quale disciplina, per il rispetto dell’autonomia regionale, venne legittimata dalla stessa Corte nella sentenza n. 182 del 1976. Sempre con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari intervenne l’art. 6 c. 3°, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616. La stessa norma va segnalata per introdurre (all’art. 4 c. 3°) una disciplina generale di sostituzione in caso di inadempimento regionale nelle materie delegate dallo Stato. Per il particolare interesse si deve segnalare il D.M. 21 settembre 1984, sostanzialmente recepito dal D.L. 27 giugno 1985, n. 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), poi convertito in legge 8 agosto 1985, n. 431 c.d. legge Galasso. Tali disposizioni riaccesero il contenzioso sul potere sostitutivo innanzi la Corte Costituzionale, risolto nelle sentt. n. 151 e 153 del 1986. Tali esempi sembrano dimostrare quello che potremmo definire un dialogo tra legislatore e giudice della costituzionalità nella definizione dei poteri sostitutivi; il quale culminò nella già ricordata sent. n. 177 del 1988, nella quale la Corte rilevò che una legge per prevedere un potere sostitutivo costituzionalmente legittimo deve: essere esercitato da parte di un organo di governo; nei confronti di attività prive di discrezionalità nell’an e presentare idonee garanzie procedimentali in conformità al principio di leale collaborazione. Il modello definito dalla Corte costituzionale sembra poi essere stato recepito definitivamente dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale per prima ha connesso la potestà sostitutiva con il principio di sussidiarietà. Detta legge sembra rappresentare un punto di svolta nell’indagine condotta perché consente di interpretare al meglio la funzione – che già antecedentemente emergeva dallo studio dei rapporti tra enti territoriali – dei poteri sostitutivi quale attuazione del principio di sussidiarietà. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha disciplinato all’interno della Costituzione ben due fattispecie di poteri sostitutivi all’art. 117 comma 5 e all’art. 120 comma 2. La “lacuna” del 1948 necessitava di essere sanata – in tal senso erano andati anche i precedenti tentativi di riforma costituzionale, basti ricordare l’art. 58 del progetto di revisione costituzionale presentato dalla commissione D’Alema il 4 novembre 1997 – i disposti introdotti dal riformatore costituzionale, però, non possono certo essere apprezzati per la loro chiarezza e completezza. Le due richiamate disposizioni costituzionali, infatti, hanno prodotto numerose letture. Il dibattito ha riguardato principalmente la natura delle due fattispecie sostitutive. In particolare, si è discusso sulla natura legislativa o amministrativa delle potestà surrogatorie e sulla possibilità da parte del legislatore di introdurre o meno la disciplina di ulteriori fattispecie sostitutive rispetto a quelle previste dalla Costituzione. Con particolare riferimento all’art. 120 c. 2 Cost. sembra semplice capire che le difficoltà definitorie siano state dovute all’indeterminatezza della fattispecie, la quale attribuisce al Governo il potere sostitutivo nei confronti degli organi (tutti) delle regioni, province, comuni e città metropolitane. In particolare, la dottrina, che ha attribuito all’art. 120 capoverso la disciplina di un potere sostitutivo sulle potestà legislative delle Regioni, è partita dalla premessa secondo la quale detta norma ha una funzione fondamentale di limite e controllo statale sulle Regioni. La legge 18 ottobre 2001 n. 3 ha, infatti, variato sensibilmente il sistema dei controlli sulle leggi regionali, con la modificazione degli artt. 117 e 127 della Costituzione; pertanto, il sistema dei controlli dopo la riforma del 2001, troverebbe nel potere sostitutivo ex art. 120 la norma di chiusura. Sul tema è insistito un ampio dibattito, al di là di quello che il riformatore costituzionale avrebbe dovuto prevedere, un’obiezione (più delle altre) pare spingere verso l’accoglimento della tesi che propende per la natura amministrativa della fattispecie in oggetto, ovvero la constatazione che il Governo è il soggetto competente, ex art. 120 capoverso Cost., alla sostituzione; quindi, se si intendesse la sostituzione come avente natura legislativa, si dovrebbe ritenere che il Costituente abbia consentito all’Esecutivo, tosto che al Parlamento, l’adozione di leggi statali in sostituzione di quelle regionali. Suddetta conseguenza sembrerebbe comportare una palese violazione dell’assetto costituzionale vigente. Le difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. si sono riversate sulla normativa di attuazione della riforma costituzionale, legge 5 giugno 2003, n. 131. In particolare nell’art. 8, il quale ha mantenuto un dettato estremamente vago e non ha preso una chiara e netta opzione a favore di una della due interpretazione riportate circa la natura della fattispecie attuata, richiamando genericamente che il potere sostitutivo si adotta “Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120” Cost. Di particolare interesse pare essere, invece, il procedimento disciplinato dal menzionato art. 8, il quale ha riportato una procedura volta ad attuare quelle che sono state le indicazioni della Corte in materia. Analogamente agli anni settanta ed ottanta, le riportate difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. e, più in generale il tema dei poteri sostitutivi dopo la riforma del 2001, sono state risolte e definite dal giudice della costituzionalità. In particolare, la Corte sembra aver palesemente accolto (sent. n. 43 del 2004) la tesi sulla natura amministrativa del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 c. 2 Cost. Il giudice delle leggi ha tra l’altro fugato i dubbi di chi, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, aveva letto nel potere sostitutivo, attribuito dalla riformata Costituzione al Governo, l’illegittimità di tutte quelle previsioni legislative regionali, che disponevano ipotesi di surrogazione (da parte della regione) nei confronti degli enti locali. La Corte costituzionale, infatti, nella già citata sentenza ha definito “straordinario” il potere di surrogazione attribuito dall’art. 120 Cost. allo Stato, considerando “ordinare” tutte quelle fattispecie sostitutive previste dalla legge (statale e regionale). Particolarmente innovativa è la parte dell'indagine in cui la ricerca ha verificato in concreto la prassi di esercizio della sostituzione statale, da cui sono sembrate emergere numerose tendenze. In primo luogo significativo sembra essere il numero esiguo di sostituzioni amministrative statali nei confronti delle amministrazioni regionali; tale dato sembra dimostrare ed essere causa della scarsa “forza” degli esecutivi che avrebbero dovuto esercitare la sostituzione. Tale conclusione sembra trovare conferma nell'ulteriore dato che sembra emergere ovvero i casi in cui sono stati esercitati i poteri sostitutivi sono avvenuti tutti in materie omogenee (per lo più in materia di tutela ambientale) che rappresentano settori in cui vi sono rilevanti interessi pubblici di particolare risonanza nell'opinione pubblica. Con riferimento alla procedura va enfatizzato il rispetto da parte dell'amministrazione sostituente delle procedure e dei limiti fissati tanto dal legislatore quanto nella giurisprudenza costituzionale al fine di rispettare l'autonomia dell'ente sostituito. Dalla ricerca emerge che non è stato mai esercitato un potere sostitutivo direttamente ex art. 120 Cost., nonostante sia nella quattordicesima (Governo Berlusconi) che nella quindicesima legislatura (Governo Prodi) con decreto sia stata espressamente conferita al Ministro per gli affari regionali la competenza a promuovere l’“esercizio coordinato e coerente dei poteri e rimedi previsti in caso di inerzia o di inadempienza, anche ai fini dell'esercizio del potere sostitutivo del Governo di cui all'art. 120 della Costituzione”. Tale conclusione, però, non lascia perplessi, bensì, piuttosto, sembra rappresentare la conferma della “straordinarietà” della fattispecie sostitutiva costituzionalizzata. Infatti, in via “ordinaria” lo Stato prevede sostituzioni per mezzo di specifiche disposizioni di legge o addirittura per mezzo di decreti legge, come di recente il D.L. 09 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania. Misure per la raccolta differenziata), che ha assegnato al Capo del Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri “le funzioni di Commissario delegato per l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania per il periodo necessario al superamento di tale emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2007”. Spesso l’aspetto interessante che sembra emergere da tali sostituzioni, disposte per mezzo della decretazione d’urgenza, è rappresentato dalla mancata previsione di diffide o procedure di dialogo, perché giustificate da casi di estrema urgenza, che spesso spingono la regione stessa a richiedere l’intervento di surrogazione. Del resto è stata la stessa Corte costituzionale a legittimare, nei casi di particolare urgenza e necessità, sostituzioni prive di dialogo e strumenti di diffida nella sent. n. 304 del 1987. Particolare attenzione è stata data allo studio dei poteri sostitutivi regionali. Non solo perché meno approfonditi in letteratura, ma per l’ulteriore ragione che tali fattispecie, disciplinate da leggi regionali, descrivono i modelli più diversi e spingono ad analisi di carattere generale in ordine alla struttura ed alla funzione dei poteri sostitutivi. Esse sembrano rappresentare (in molti casi) modelli da seguire dallo stesso legislatore statale, si vedano ad esempio leggi come quella della regione Toscana 31 ottobre 2001, n. 53, artt. 2, 3, 4, 5, 7; legge regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, art. 30, le quali recepiscono i principi sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale e scandiscono un puntuale procedimento ispirato alla collaborazione ed alla tutela delle attribuzioni degli enti locali. La ricerca di casi di esercizio di poter sostitutivi è stata effettuata anche con riferimento ai poteri sostitutivi regionali. I casi rilevati sono stati numerosi in particolare nella regione Sicilia, ma si segnalano anche casi nelle regioni Basilicata ed Emilia-Romagna. Il dato principale, che sembra emergere, pare essere che alle eterogenee discipline di sostituzione corrispondano eterogenee prassi di esercizio della sostituzione. Infatti, alle puntuali fattispecie di disciplina dei poteri sostitutivi dell’Emilia-Romagna corrispondono prassi volte ad effettuare la sostituzione con un delibera della giunta (organo di governo) motivata, nel rispetto di un ampio termine di diffida, nonché nella ricerca di intese volte ad evitare la sostituzione. Alla generale previsione della regione Sicilia, pare corrispondere un prassi sostitutiva caratterizzata da un provvedimento del dirigente generale all’assessorato per gli enti locali (organo di governo?), per nulla motivato, salvo il richiamo generico alle norme di legge, nonché brevi termini di diffida, che sembrano trovare la loro giustificazione in note o solleciti informati che avvisano l’ente locale della possibile sostituzione. In generale il fatto che in molti casi i poteri sostitutivi siano stimolati per mezzo dell’iniziativa dei privati, sembra dimostrare l’attitudine di tal istituto alla tutela degli interessi dei singoli. I differenti livelli nei quali operano i poteri sostitutivi, il ruolo che la Corte ha assegnato a tali strumenti nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nonché i dati emersi dall’indagine dei casi concreti, spingono ad individuare nel potere sostitutivo uno dei principali strumenti di attuazione del principio di sussidiarietà, principio quest’ultimo che sembra rappresentare – assieme ai corollari di proporzionalità, adeguatezza e leale collaborazione – la chiave di lettura della potestà sostitutiva di funzioni amministrative. In tal senso, come detto, pare emergere dall’analisi di casi concreti come il principio di sussidiarietà per mezzo dei poteri sostitutivi concretizzi quel fine, a cui l’art. 118 cost. sembra mirare, di tutela degli interessi pubblici, consentendo all’ente sovraordinato di intervenire laddove l’ente più vicino ai cittadini non riesca. Il principio di sussidiarietà sembra essere la chiave di lettura anche dell’altra categoria della sostituzione legislativa statale. L’impossibilità di trascurare o eliminare l’interesse nazionale, all’interno di un ordinamento regionale fondato sull’art. 5 Cost., sembra aver spino la Corte costituzionale ad individuare una sorta di “potere sostitutivo legislativo”, attraverso il (seppur criticabile) meccanismo introdotto per mezzo della sent. 303 del 2003 e della cosiddetta “chiamata i sussidiarietà”. Del resto adattare i principi enucleati nella giurisprudenza costituzionale a partire dalla sent. n. 117 del 1988 alla chiamata in sussidiarietà e i limiti che dal principio di leale collaborazione derivano, sembra rappresentare un dei modi (a costituzione invariata) per limitare quello che potrebbe rappresentare un meccanismo di rilettura dell’art. 117 Cost. ed ingerenza dello stato nelle competenze della regioni. Nonostante le sensibili differenze non si può negare che lo strumento ideato dalla Corte abbia assunto le vesti della konkurrierende gesetzgebung e, quindi, di fatto, di un meccanismo che senza limiti e procedure potrebbe rappresentare uno strumento di interferenza e sostituzione della stato nelle competenze regionali. Tali limiti e procedure potrebbero essere rinvenuti come detto nelle procedure di sostituzione scandite nelle pronunce del giudice delle leggi. I risultati che si spera emergeranno dalla descritta riflessione intorno ai poteri sostitutivi e il conseguente risultato circa lo stato del regionalismo italiano, non sembrano, però, rappresentare un punto di arrivo, bensì solo di partenza. I poteri sostitutivi potrebbero infatti essere oggetto di futuri interventi di riforma costituzionale, così come lo sono stati in occasione del tentativo di riforma del 2005. Il legislatore costituzionale nel testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta (recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione” e pubblicato in gazzetta ufficiale n. 269 del 18-11-2005) pareva aver fatto un scelta chiara sostituendo il disposto “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni” con “Lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell'esercizio delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118”. Insomma si sarebbe introdotto quello strumento che in altri Paesi prende il nome di Supremacy clause o Konkurrierende Gesetzgebung, ma quali sarebbero state le procedure e limiti che lo Stato avrebbe dovuto rispettare? Il dettato che rigidamente fissa le competenze di stato e regioni, assieme alla reintroduzione espressa dell’interesse nazionale, non avrebbe ridotto eccessivamente l’autonomia regionale? Tali interrogativi mirano a riflettere non tanto intorno a quelli che potrebbero essere gli sviluppi dell’istituto dei poteri sostitutivi. Piuttosto essi sembrano rappresenterebbe l’ulteriore punto di vista per tentare di comprendere quale percorso avrebbe potuto (o potrebbe domani) prendere il regionalismo italiano.

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L’elaborato è dedicato all’esame della forma di emanazione e del sistema d’impugnazione degli atti del CSM circa la carriera giuridica dei magistrati, con particolare attenzione alle numerose implicazioni di livello costituzionale ed amministrativo sollevate dalla problematica. I principali obiettivi perseguiti sono: a) la verifica della costituzionalità del sistema predisposto dalla legge 24 marzo 1958, n. 195, la quale stabilisce che i provvedimenti consiliari siano emanati con decreto presidenziale o ministeriale e che possano essere sindacati dai giudici amministrativi; b) l’individuazione e la risoluzione delle ambiguità interpretative e dei dubbi applicativi che sono emersi fin dall’introduzione della legge in parola e che tutt’ora continuano costantemente a riproporsi, non avendo trovato compiuta sistemazione né in dottrina né in giurisprudenza; c) la ricognizione e l’esame critico della prassi giurisprudenziale, specialmente in ordine alle decisioni più recenti, tenuto conto della mancanza di studi aggiornati in merito pur a fronte dell’ampio numero di pronunce. Sulla base dell’ipotesi di partenza dell’irrinunciabilità, per la piena comprensione della portata precettiva della legge sopra citata, di un’esaustiva analisi delle premesse teoriche necessarie per una piena comprensione dello stessa, lo svolgimento è sostanzialmente articolato in due parti fondamentali. La prima incentrata sulla ricostruzione del perimetro costituzionale dell’indagine, con specifico riferimento all’assetto costituzionale della Magistratura. La seconda, riconducibile nell’alveo proprio del “diritto amministrativo”, concernente a) il significato e la funzione da attribuire alla forma di emanazione degli atti consiliari; b) i poteri ministeriali e presidenziali nella fase di esternazione; c) la tipologia degli atti impugnabili e dei vizi sindacabili in sede giurisdizionale. Con la consapevolezza che lo sviluppo dell’argomento prescelto rappresenta un’angolazione di visuale privilegiata relativamente allo svolgersi dei rapporti tra Potere Esecutivo ed Ordine giudiziario, la tesi affronta complesse questioni di carattere generale quali il principio di separazione dei poteri, il concetto di organo costituzionale e quello di autodichìa, la nozione di autonomia pubblica, i princìpi di imparzialità ed uguaglianza. Il vaglio della giurisprudenza costituzionale ed amministrativa, ampiamente richiamata, è condotto trattando a fondo, sia aspetti connotati da un elevato tasso di tecnicità, come la disciplina del conferimento d’incarichi direttivi, sia interrogativi concernenti diversi aspetti problematici. Segnatamente, l’indagine ha riguardato – tra l’altro – l’ammissibilità del sindacato del giudice amministrativo sugli atti “amministrativi” delle autorità non incardinate nella P.A.; la compatibilità dell’interpretazione evolutiva con l’art. 138 Cost.; la definizione di atto amministrativo; la stessa nozione costituzionale di pubblica amministrazione. La presa d’atto della tendenza giurisprudenziale ad estendere il sindacato al vizio di eccesso di potere conduce infine ad alcune riflessioni conclusive in merito alla conciliabilità del ruolo assunto dal giudice amministrativo col quadro normativo delineato dai Costituenti.

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La tesi mira ad analizzare e valutare le attuali relazioni esistenti tra le regioni e l’Unione europea, alla luce dei processi di riforma in atto sia sul versante interno sia su quello europeo. In particolare, essa prende spunto dalla riforma del Titolo V della Costituzione italiana e dalle leggi di attuazione della stessa, che hanno ridisegnato i contorni del regionalismo italiano. Nell’introduzione si analizza il contesto europeo delle relazioni dell’Unione con le entità sub-statali; in tal senso si è voluto preliminarmente chiarire il senso in cui si è utilizzato il termine “regione”: non tutti gli Stati europei infatti accolgono una tale nozione nel senso in cui essa è utilizzata nell’ordinamento italiano, né i poteri conferiti alle regioni sono i medesimi in tutti gli Stati che utilizzano ripartizioni territoriali simili alle regioni italiane. Prendendo come punto di riferimento per la prima parte della ricerca le entità territoriali dotate di competenze legislative, trascurando le relazioni dell’UE con i soggetti sub-statali con attribuzioni meramente amministrative. La ricerca prende dunque le mosse dal concetto di “regionalismo comunitario”. La questione regionale ha sempre costituito un problema aperto per le istituzioni comunitarie (legato alla problematica del “deficit democratico” dei processi legislativi comunitari). Le istituzioni, soprattutto agli inizi del cammino di integrazione europea, risentivano infatti delle origini internazionali delle Comunità, e consideravano quale unici interlocutori possibili i governi centrali degli Stati membri. Si è quindi voluta mettere in luce la rapida evoluzione dell’attitudine regionale dell’Unione, provocata da una nuova coscienza comunitaria legata alla prima fase di attuazione della politica dei fondi strutturali, ma soprattutto all’ingresso sulla scena europea del principio di sussidiarietà, e degli effetti che esso è stato in grado di produrre sull’intero sistema di relazioni Stati/Regioni/Unione europea: l’Unione è giunta di recente ad accogliere una nozione più ampia di Stato, comprensiva – anche se in modo limitato e solo per alcuni fini – delle entità sub-statali. Lo studio si concentra poi sull’ordinamento italiano, presentando lo stato attuale della legislazione nazionale relativa alla partecipazione delle regioni al sistema del diritto comunitario. All’inizio del capitolo si precisa la fondamentale distinzione tra fase ascendente, cioè partecipazione di rappresentanti regionali alle procedure legislative dell’Unione, e fase discendente, cioè relativa al ruolo delle regioni nell’attuazione del diritto comunitario; tale distinzione appare necessaria al fine di chiarire le diverse modalità che può assumere il ruolo delle regioni nel sistema comunitario, e sarà ripresa durante tutta la ricerca. Il secondo capitolo esamina la riforma costituzionale del 2001, complessivamente orientata verso una ridefinizione del nostro sistema delle autonomie e delle loro relazioni con l’Unione europea. Nel nuovo testo costituzionale le prerogative regionali risultano ormai “costituzionalizzate”, trovano ora definitiva collocazione nell’art. 117 Cost. La riforma del 2001 comporta alcuni elementi innovativi circa la complessiva strutturazione del rapporto tra l’ordinamento nazionale e quello comunitario, in particolare prevedendo che “le regioni, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato”. Grazie a questa previsione il coinvolgimento delle regioni assume rango costituzionale e si impone al legislatore ordinario, il quale può continuare a determinarne le modalità procedurali ma non cancellarlo o pregiudicarlo in modo sostanziale. In secondo luogo l’art. 117 Cost. propone, all’interno del nostro ordinamento, una definizione complessiva del rapporto tra le fonti statali e quelle regionali, rimodulando le sfere e le modalità di “interferenza” tra lo Stato e le autonomie regionali. Con riferimento alla ripartizione di competenze, l’evoluzione è evidente: da un sistema in cui la competenza generale era statale, e veniva fornita un’elencazione di dettaglio delle materie che facevano eccezione, si è giunti oggi ad un sistema capovolto, in cui per ogni materia non contenuta nell’elencazione dell’articolo 117 la competenza può essere regionale; in tale sistema può leggersi una forma di “sussidiarietà legislativa”, come messo in luce dalla ricerca. Lo studio passa poi ad analizzare le concrete modalità di partecipazione regionale nelle disposizioni delle leggi primarie che hanno dato attuazione alla novella costituzionale, con riferimento tanto alla fase ascendete quanto a quella discendente. La fase ascendente, osservata nel secondo capitolo della tesi, può verificarsi tramite la partecipazione diretta di rappresentanti regionali alle riunioni del Consiglio, così come previsto da una disposizione della legge n. 131/2003 (“La Loggia”), i cui risultati si sono rivelati però piuttosto modesti e privi, in assenza di una radicale revisione dei Trattati, di serie prospettive di sviluppo. Ma esiste altresì un'altra tipologia di relazioni sviluppabili in fase ascendente, relazioni “indirette”, cioè svolte tramite l’intermediazione dello Stato, che si fa portavoce delle istanze regionali a Bruxelles. In tale prospettiva, la ricerca si concentra sulle disposizioni della legge n. 11/2005 (“Buttiglione”), che riformano il sistema delle conferenze, prevedono precisi obblighi informativi per il Governo nei confronti delle regioni in relazione all’adozione di atti comunitari ed introducono nel panorama legislativo italiano l’istituto della riserva d’esame, al fine di dare maggior peso alle istituzioni regionali al momento dell’adozione di atti comunitari. La tesi passa poi all’analisi della fase discendente. Le funzioni regionali in materia di attuazione del diritto comunitario risultano altresì ampliate non soltanto alla luce della nuova formulazione dell’art. 117 Cost., ma anche e soprattutto grazie ad una disposizione della legge “Buttiglione”, che introduce la possibilità di adottare “leggi comunitarie regionali”, da adottarsi sul modello di legge comunitaria nazionale vigente nel nostro ordinamento fin dal 1989. Tale disposizione ha dato il via ad una serie di processi di riforma all’interno degli ordinamenti giuridici regionali, volti a predisporre tutti gli strumenti legislativi utili all’adozione delle leggi comunitarie regionali, di gran lunga la novità più importante contenuta nella disciplina della legge “Buttiglione”. Perciò, dopo un’analisi approfondita relativa al nuovo riparto di competenze tra Stato e regioni, oggetto della prima parte del capitolo terzo, ed uno studio relativo al locus standi delle regioni nel sistema giurisdizionale europeo, svolto nella seconda parte dello stesso capitolo, l’ultima parte della tesi è rivolta ad individuare gli atti regionali di maggior interesse nella prospettiva dell’attuazione del diritto comunitario realizzata tramite leggi comunitarie regionali. In quest’ambito particolare attenzione è stata rivolta alla legislazione della regione Emilia-Romagna, che si è dimostrata una delle regioni più attente e capaci di cogliere le potenzialità presenti nel “nuovo” sistema di relazioni delle regioni con il sistema comunitario.

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E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta. Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa, efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva. Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della ricerca della forma di mercato più “efficiente”. Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime di concorrenza perfetta. Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il criterio della rule of reason. Capitolo 2 Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri. Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al criterio di efficacia). Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti. Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di Impatto della Regolazione Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale, quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza, Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello sviluppatosi nella cultura cinese. Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì, più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione. Capitolo 3 Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia. L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d. teorie “Post-Chicago”. Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della concorrenza sia l’analisi economica del diritto. A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno dei principali ambiti applicativi della law and economics. Capitolo 4 Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito sull’applicazione del criterio di efficienza. Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione. Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi, contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea. Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato rilevante. Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3). Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto, prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente Regolamento 4064/89. Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese, suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3). Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti. Capitolo 5 L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile. Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in termini di sistema giuridico, nel quale esse operano. Capitolo 6 Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le è stato affidato dall’ordinamento. In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al potere esecutivo né a quello giurisdizionale. Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico. Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea, istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del criterio di efficienza. Capitolo 7 Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza. A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle analisi empiriche svolte dalla letteratura. 6 Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni. Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli utilizzati dagli organi comunitari. Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete. Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della rule of law sulla rule of reason. Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue. Capitolo 8 Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore. La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta, d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico. Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti, suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato fenomeno del trasporto multimodale. Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto; il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di un sistema. Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente, tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo di un network ben più ampio Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale. Capitolo 9. Conclusioni L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza. Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva. Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria, non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua legittimazione, che in questa sede non affrontiamo. Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al diritto antitrust. Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze, nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche. Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e giuridico), essendo esse nodi e non reti. E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza. Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai singoli mercati nazionali. Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà, sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli. Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.

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By examining seven major reviews (the French “Revue des deux Mondes”, the “Revue de Paris” and the “Nouvelle Revue”; the Italian “Nuova Antologia”, the “Rassegna Nazionale”, the “Rivista europea” and the “Revue internationale”) this thesis investigate the female participation in high quality journalism in Italy and France between the 1870s and the First World War. The aim is to show that despite some obvious limitations, women found room in that apparently very ‘male’ space of culture and emerged on a considerable scale in all walks of the profession. Many women regularly published on high quality reviews. Some of them even rose to high positions on editorials board. With the exception of a few fields of knowledge – albeit fundamental to the journals’ overall structure – such as economics, finance and matters to do with the army and the colonies, women contributors covedered nearly all the range of subjects contained in this periodicals: not only fiction, but also literary criticism, travelogues, politics and others. Quality and cultural journals offered women writers a considerable space for entering the public sphere, as both authors and readers. It may thus construed on a dual plane: as an opportunity for women writers to join the new professional ranks of modern publishing, but also as an important terrain for acknowledgment of their standing as intellectuals.

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Oggetto della ricerca sono l’esame e la valutazione dei limiti posti all’autonomia privata dal divieto di abuso della posizione dominante, come sancito, in materia di tutela della concorrenza, dall’art. 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, a sua volta modellato sull’art. 82 del Trattato CE. Preliminarmente, si è ritenuto opportuno svolgere la ricognizione degli interessi tutelati dal diritto della concorrenza, onde individuare la cerchia dei soggetti legittimati ad avvalersi dell’apparato di rimedi civilistici – invero scarno e necessitante di integrazione in via interpretativa – contemplato dall’art. 33 della legge n. 287/1990. È così emerso come l’odierno diritto della concorrenza, basato su un modello di workable competition, non possa ritenersi sorretto da ragioni corporative di tutela dei soli imprenditori concorrenti, investendo direttamente – e rivestendo di rilevanza giuridica – le situazioni soggettive di coloro che operano sul mercato, indipendentemente da qualificazioni formali. In tal senso, sono stati esaminati i caratteri fondamentali dell’istituto dell’abuso di posizione dominante, come delineatisi nella prassi applicativa non solo degli organi nazionali, ma anche di quelli comunitari. Ed invero, un aspetto importante che caratterizza la disciplina italiana dell’abuso di posizione dominante e della concorrenza in generale, distinguendola dalle normative di altri sistemi giuridici prossimi al nostro, è costituito dal vincolo di dipendenza dal diritto comunitario, sancito dall’art. 1, quarto comma, della legge n. 287/1990, idoneo a determinare peculiari riflessi anche sul piano dell’applicazione civilistica dell’istituto. La ricerca si è quindi spostata sulla figura generale del divieto di abuso del diritto, onde vagliarne i possibili rapporti con l’istituto in esame. A tal proposito, si è tentato di individuare, per quanto possibile, i tratti essenziali della figura dell’abuso del diritto relativamente all’esercizio dell’autonomia privata in ambito negoziale, con particolare riferimento all’evoluzione del pensiero della dottrina e ai più recenti orientamenti giurisprudenziali sul tema, che hanno valorizzato il ruolo della buona fede intesa in senso oggettivo. Particolarmente interessante è parsa la possibilità di estendere i confini della figura dell’abuso del diritto sì da ricomprendere anche l’esercizio di prerogative individuali diverse dai diritti soggettivi. Da tale estensione potrebbero infatti discendere interessanti ripercussioni per la tutela dei soggetti deboli nel contesto dei rapporti d’impresa, intendendosi per tali tanto i rapporti tra imprenditori in posizione paritaria o asimmetrica, quanto i rapporti tra imprenditori e consumatori. È stato inoltre preso in considerazione l’aspetto dei rimedi avverso le condotte abusive, alla luce dei moderni contributi sull’eccezione di dolo generale, sulla tutela risarcitoria e sull’invalidità negoziale, con i quali è opportuno confrontarsi qualora si intenda cercare di colmare – come sembra opportuno – i vuoti di disciplina della tutela civilistica avverso l’abuso di posizione dominante. Stante l’evidente contiguità con la figura in esame, si è poi provveduto ad esaminare, per quanto sinteticamente, il divieto di abuso di dipendenza economica, il quale si delinea come figura ibrida, a metà strada tra il diritto dei contratti e quello della concorrenza. Tale fattispecie, pur inserita in una legge volta a disciplinare il settore della subfornitura industriale (art. 9, legge 18 giugno 1998, n. 192), ha suscitato un vasto interessamento della dottrina. Si sono infatti levate diverse voci favorevoli a riconoscere la portata applicativa generale del divieto, quale principio di giustizia contrattuale valevole per tutti i rapporti tra imprenditori. Nel tentativo di verificare tale assunto, si è cercato di individuare la ratio sottesa all’art. 9 della legge n. 192/1998, anche in considerazione dei suoi rapporti con il divieto di abuso di posizione dominante. Su tale aspetto è d’altronde appositamente intervenuto il legislatore con la legge 5 marzo 2001, n. 57, riconoscendo la competenza dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a provvedere, anche d’ufficio, sugli abusi di dipendenza economica con rilevanza concorrenziale. Si possono così prospettare due fattispecie normative di abusi di dipendenza economica, quella con effetti circoscritti al singolo rapporto interimprenditoriale, la cui disciplina è rimessa al diritto civile, e quella con effetti negativi per il mercato, soggetta anche – ma non solo – alle regole del diritto antitrust; tracciare una netta linea di demarcazione tra i reciproci ambiti non appare comunque agevole. Sono stati inoltre dedicati brevi cenni ai rimedi avverso le condotte di abuso di dipendenza economica, i quali involgono problematiche non dissimili a quelle che si delineano per il divieto di abuso di posizione dominante. Poste tali basi, la ricerca è proseguita con la ricognizione dei rimedi civilistici esperibili contro gli abusi di posizione dominante. Anzitutto, è stato preso in considerazione il rimedio del risarcimento dei danni, partendo dall’individuazione della fonte della responsabilità dell’abutente e vagliando criticamente le diverse ipotesi proposte in dottrina, anche con riferimento alle recenti elaborazioni in tema di obblighi di protezione. È stata altresì vagliata l’ammissibilità di una visione unitaria degli illeciti in questione, quali fattispecie plurioffensive e indipendenti dalla qualifica formale del soggetto leso, sia esso imprenditore concorrente, distributore o intermediario – o meglio, in generale, imprenditore complementare – oppure consumatore. L’individuazione della disciplina applicabile alle azioni risarcitorie sembra comunque dipendere in ampia misura dalla risposta al quesito preliminare sulla natura – extracontrattuale, precontrattuale ovvero contrattuale – della responsabilità conseguente alla violazione del divieto. Pur non sembrando prospettabili soluzioni di carattere universale, sono apparsi meritevoli di approfondimento i seguenti profili: quanto all’individuazione dei soggetti legittimati, il problema della traslazione del danno, o passing-on; quanto al nesso causale, il criterio da utilizzare per il relativo accertamento, l’ammissibilità di prove presuntive e l’efficacia dei provvedimenti amministrativi sanzionatori; quanto all’elemento soggettivo, la possibilità di applicare analogicamente l’art. 2600 c.c. e gli aspetti collegati alla colpa per inosservanza di norme di condotta; quanto ai danni risarcibili, i criteri di accertamento e di prova del pregiudizio; infine, quanto al termine di prescrizione, la possibilità di qualificare il danno da illecito antitrust quale danno “lungolatente”, con le relative conseguenze sull’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale. In secondo luogo, è stata esaminata la questione della sorte dei contratti posti in essere in violazione del divieto di abuso di posizione dominante. In particolare, ci si è interrogati sulla possibilità di configurare – in assenza di indicazioni normative – la nullità “virtuale” di detti contratti, anche a fronte della recente conferma giunta dalla Suprema Corte circa la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità del contratto. È stata inoltre esaminata – e valutata in senso negativo – la possibilità di qualificare la nullità in parola quale nullità “di protezione”, con una ricognizione, per quanto sintetica, dei principali aspetti attinenti alla legittimazione ad agire, alla rilevabilità d’ufficio e all’estensione dell’invalidità. Sono poi state dedicate alcune considerazioni alla nota questione della sorte dei contratti posti “a valle” di condotte abusive, per i quali non sembra agevole configurare declaratorie di nullità, mentre appare prospettabile – e, anzi, preferibile – il ricorso alla tutela risarcitoria. Da ultimo, non si è trascurata la valutazione dell’esperibilità, avverso le condotte di abuso di posizione dominante, di azioni diverse da quelle di nullità e risarcimento, le sole espressamente contemplate dall’art. 33, secondo comma, della legge n. 287/1990. Segnatamente, l’attenzione si è concentrata sulla possibilità di imporre a carico dell’impresa in posizione dominante un obbligo a contrarre a condizioni eque e non discriminatorie. L’importanza del tema è attestata non solo dalla discordanza delle pronunce giurisprudenziali, peraltro numericamente scarse, ma anche dal vasto dibattito dottrinale da tempo sviluppatosi, che investe tuttora taluni aspetti salienti del diritto delle obbligazioni e della tutela apprestata dall’ordinamento alla libertà di iniziativa economica.

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Nonostante la riforma societaria ed i tentativi di rilanciare l’economia nazionale, ancora oggi la principale fonte di ricchezza e di capitalizzazione resta l’investimento immobiliare. Ed ecco perchè si sente sempre più parlare di “Real Estate”, ovvero dei diritti reali sui beni immobili, della loro circolazione, e delle garanzie e tutele ad essa correlate. Dalla vendita immobiliare tipizzata nel codice civile del ’42 ad oggi molto è cambiato. E il mio lavoro parte proprio da un’analisi delle nuove forme e dei nuovi limiti alla circolazione degli immobili. In primis ho affrontato il tema del riconoscimento giurisprudenziale della cessione di cubatura: un esempio tipico del passaggio dal fatto al diritto attraverso la costruzione giurisprudenziale di nuove fattispecie giuridiche già in uso fra gli operatori del mercato. Tecnicamente la stessa espressione “cessione di cubatura” non risulta corretta: non si ha una vera e propria cessione, quanto la costituzione di una servitù ius non edificandi a favore di un terreno e a carico di un altro. La giurisprudenza è ormai concorde nello stabilire che l’accordo delle parti rimane comunque privo di efficacia se ad esso non segue un permesso di costruire della Pubblica Amministrazione che riconosca la maggiore capacità edificatoria al terreno a cui vantaggio è stabilità la servitù. Un’altra nuova forma di circolazione della proprietà, così come degli altri diritti reali minori, è la multiproprietà. La multiproprietà viene disciplinata nel nostro ordinamento, a seguito di una risoluzione del Parlamento Europeo del 13 ottobre 1988, dapprima con il D.lgs. 9 novembre 1998 e da ultimo con il Codice del Consumo, che con gli artt. 69 ss. stabilisce una più puntuale tutela degli acquirenti. Si riconosce qui l’esistenza di uno squilibrio fra le posizioni contrattuali fra venditore ed acquirente/consumatore: vi è una profonda asimmetria informativa fra le parti, che viene colmata prevedendo la consegna al futuro acquirente di un dettagliato prospetto informativo predisposto dal venditore. La mia attenzione si è concentrata proprio sul tema delle tutele che il nostro ordinamento riconosce al consumatore multiproprietario: un prospetto informativo dal contenuto minimo legislativamente predeterminato, recesso, fideiussione. Ho dedicato un particolare approfondimento alla normativa sull’acquisto immobiliare sulla carta. Il D.lgs. 122/2005 si inserisce nel contesto di una legislazione, che spesso trova la sua origine nel diritto privato europeo, finalizzata alla regolamentazione di un fenomeno sempre più frequente nella realtà economica contemporanea, rappresentato dalla contrattazione fra soggetti che si trovano in una posizione di squilibrio contrattuale: un “contraente forte” da una parte, ed un “contraente debole” dall’altra. La legislazione nazionale interviene sempre più frequentemente per porre un rimedio a queste situazioni di squilibrio, con interventi di tipo conformativo intesi a rendere effettiva l’autonoma contrattuale delle parti e, conseguentemente, agevolare il corretto funzionamento del mercato. Si parla in tal senso di una ius espansiva del modello europeo di legislazione a tutela del contraente debole, e quindi di una espansione del diritto privato europeo anche in settori dove manca una puntuale normativa comunitaria. Vi è una generale tendenza ad un “neoformalismo”, che consiste nella richiesta espressa della forma scritta e nella conformazione del contenuto del contratto, che solo apparentemente limitano l’autonomia contrattuale delle parti ma che tende ad eliminare le situazioni di squilibrio dando una tutela effettiva al contraente debole. Contraente debole e non “consumatore”. L’art. 1 del decreto parla, infatti, espressamente di “persona fisica”. Secondo gli orientamenti dottrinali maggioritari dalla nuova disciplina resterebbero esclusi, e quindi non rientrerebbero nella definizione di “acquirenti”, le società, le persone giuridiche e gli enti collettivi in generale. Si riconosce la figura del “professionista debole”, giacché si riconosce che l’acquisto di un immobile da costruire sia un’operazione che, in virtù della sua importanza economica, viene gestita con maggiore avvedutezza: l’acquisto di un immobile non è propriamente “atto di consumo”in senso tecnico. L’esigenza di tutela è diversa: si vuole tutelare l’acquirente in considerazione dell’intrinseca rischiosità dell’operazione, stabilendo alcuni profili fondamentali del contenuto del contratto non solo e non tanto a fini informativi, quanto piuttosto per una “tutela sostanziale” dell’acquirente. Il legislatore si preoccupa di predisporre garanzie obbligatorie per il caso di dissesto dell’impresa costruttrice. Le garanzie, quindi, come forma di tutela del contraente debole. Il mio lavoro si concentra, a questo punto, sulle garanzie personali e reali. Poche le novità sulle garanzie, ma alcune significative. Nel campo delle garanzie personali, acquista maggiore rilevanza la fideiussione prestata dal contraente forte a favore del contraente debole, affinché quest’ultimo possa recuperare tutte le somme investite per l’acquisto dell’immobile: sia esso un immobile in multiproprietà, sia esso un immobile ancora da costruire. E ancora le garanzie reali: pegno e ipoteca. Ho posto particolare attenzione al tema della "portabilità" dei mutui e surrogazione ex art. 1202 c.c. ed al tema delle formalità ipotecarie così come previsti dagli artt. 6, 7 e 8 della l. 2 aprile 2007, n. 40 sulla concorrenza. Ma la mia attenzione si è soffermata soprattutto sul tema della nullità ed in particolare sulla nullità relativa. La più recente legislazione speciale, specie quella di derivazione europea, ha dato un grosso scossone alla dogmatica tradizionale della nullità negoziale. Le fattispecie di nullità relativa sono sempre più frequenti, tanto da far parlare di una nuova categoria di nullità c.d. “nullità di protezione”. Quest’ultima risponde ad esigenze profondamente differenti dalla nullità assoluta di stampo codicistico. In luogo della nullità, sembra oggi più corretto parlare delle nullità: diverse categorie di invalidità, ciascuna delle quali soddisfa interessi diversificati, e come tale riceve anche una disciplina differenziata in termini di legittimazione all’azione, rilevabilità d’ufficio, prescrittibilità, sanabilità, opponibilità ai terzi. Ancora una volta partendo da un’analisi critica del D.lgs. 122/2005, ho avuto modo di approfondire il fondamentale tema della nullità nel nostro ordinamento. L’art. 2 del decreto stabilisce espressamente la nullità relativa, e cioè azionabile dal solo acquirente parte debole del contratto, nel caso in cui non sia rilasciata dal venditore la fideiussione. L’art. 6 stabilisce, invece, un contenuto minimo del contratto poste a tutela della parte debole e del corretto funzionamento del mercato immobiliare. Se ad alcune di esse può attribuirsi un valore meramente ordinatorio, altre al contrario rivestono una natura di norme imperative di ordine pubblico attinenti più precisamente al c.d. ordine pubblico di protezione ed al c.d. ordine pubblico di direzione. Nel sistema del nostro codice, la violazione di norma imperative dà luogo, ex art. 1418, alla nullità del contatto salvo che la legge stabilisca diversamente. E’quindi configurabile una nullità virtuale del contratto, ovvero non espressamente e letteralmente stabilita, ma che può essere desunta dal tenore imperativo delle norme. La dottrina prevalente è ormai orientata nel senso di ammettere che anche la nullità relativa possa essere virtuale, nel quadro di un orientamento, ormai dominante, volto al superamento dell’approccio tendente a far rientrare nell’eccezionalità qualsiasi difformità dal modello classico della nullità. Il problema, quindi, si sposta all’individuazione della natura imperativa della norma violata. In linea generale si afferma che perché una norma possa essere definita imperativa debba porre un comando o un divieto espresso, debba essere inderogabile ed indisponibile. Oggetto di dibattiti dottrinali è, poi, il tema della rilevabilità d’ufficio delle nullità relative. A fronte di una prima posizione dottrinale tendente ad escludere tale rilevabilità d’ufficio sul presupposto di una sua inconciliabilità con il regime di legittimazione relativa all’azione di nullità, dottrina e giurisprudenza più recenti appaiono concordi nel ritenere assolutamente conciliabili tali due profili. Si concorda, inoltre, sull’esistenza di limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità: la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma tale rilievo deve operare nell’esclusivo interesse del contraente debole, dovendo il giudice bloccarsi davanti ad un concreto interesse della parte a mantenere in vita il contratto. Discorso a sé stante deve poi esser fatto sul rapporto fra nullità relativa e nullità virtuale e responsabilità del notaio rogante. Secondo l’orientamento dominante della giurisprudenza, nella misura in cui vi sia una violazione di norme imperative, e l’imperatività sia evidente, manifesta, dal tenore delle disposizioni, deve ritenersi che la nullità, sia testuale che virtuale, comporti la responsabilità del notaio ai sensi dell’art. 28 l. not. Ogni qualvolta, viceversa, tale nullità non si configuri, la responsabilità disciplinare sarà esclusa. Si avverte, comunque, una prima apertura verso la sanzionabilità delle nullità relative che siano manifeste. In chiusura del mio lavoro non ho potuto non tenere conto della recente crisi dei mercati internazionali. Crisi che ha avuto inizio proprio con il crollo negli Stati Uniti dei settori immobiliare e finanziario, improntati verso una eccessiva deregolamentazione e valorizzazione dell’autonomia contrattuale delle parti. L’assenza di garanzie sicure e la carenza di controllo di un professionista corrispondente al nostro notaio pubblico ufficiale, ha portato ad investimenti e finanziamenti azzardati da parte delle banche e degli istituti di credito che stanno vivendo un momento di profonda crisi aprendo la strada ad una recessione economica di portata mondiale.

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Dopo aver brevemente ricostruito l’evoluzione dell’istituto dell’incompatibilità nel pubblico impiego, tra la sua introduzione nell’Ordinamento italiano nel 1908 e la sua attuale formulazione (attraverso le riforme del 1923 e del 1957), l’autore –contestando un’opinione diffusa nella letteratura giuslavoristica- esclude che l’art. 98 Cost. obblighi il legislatore ordinario ad imporre un dovere di esclusività al lavoratore dipendente dalle pubbliche amministrazioni. Successivamente si osserva come nel corso di più di un secolo la Dottrina, comunque poco interessata al tema, non abbia saputo giustificare in maniera unitaria e coerente la disciplina delle incompatibilità (se non ricorrendo ad argomentazioni di natura etica o sociale); diversamente la Giurisprudenza, soprattutto in epoca repubblicana, ha cercato di ricondurre la ratio dell’istituto alla specificità del rapporto lavorativo, riuscendo a giustificare le previsioni (e a individuarne i confini di applicazione) solo in relazione alla specialità del rapporto di lavoro pubblico. Nel secondo capitolo si evidenzia come, in occasione della riforma di fine XX secolo, la scelta di riservare alla legge la disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego non sia necessariamente in contrasto con la privatizzazione del lavoro pubblico. Si descrivono inoltre le linee generali dell’istituto, evidenziandone gli aspetti problematici (in particolare rapporto tra art. 53 del D.Lgvo 165/01 e l’art. 1 commi 57 e ss. della L. 662/96) e la collocazione nell’ambito complessivo della riforma di privatizzazione (con particolare attenzione al tema della natura degli atti). Nell’ultimo capitolo, si evidenziano le criticità della disciplina vigente, anche alla luce della discutibile interpretazione datane dalla Corte di Cassazione. In particolare si sottolinea come il sistema sanzionatorio non sia coerente con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e mantenga una forte connotazione pubblicistica. Si rileva quindi come le critiche all’istituto si possano sostanzialmente ricondurre al fatto che il legislatore, mantenendo in vita un istituto risalente e riconducibile a esigenze di varia natura, non ha individuato univocamente nè il fine ultimo delle norme nè quale sia il bene che si intende proteggere; in tal modo si è disegnato un sistema che vieta irragionevolmente le sole attività remunerative, implica una profonda differenziazione pubblico/privato, comporta un sacrificio significativo per il lavoratore pubblico. Dopo aver negato la possibilità di ricondurre l’istituto alle previsioni di cui all’art. 2105 c.c., l’autore, riflettendo sulle ragioni fondanti l’esistenza di tale ultima previsione e in considerazione del dato incontrovertibile che oggi l’ordinamento fonda sul contratto sia i rapporti di impiego pubblico sia quelli di impiego privato, giunge ad individuare un unitario principio secondo il quale è illecito lo svolgimento, da parte del lavoratore, di attività inconciliabili con gli interessi che costituiscono la giustificazione profonda dell’attività del datore di lavoro. Si tratterebbe, insomma, di “un generale principio di tutela dell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività del datore, che si concretizza in entrambi i casi nel sorgere di obbligazioni negative (di non fare/di astenersi) in capo al lavoratore, riferite alle attività concorrenziali e a quelle incompatibili”(Cap III, 3.3) rispettivamente nel privato e nel pubblico Alla luce della esposta conclusione, l’autore auspica che tutto il sistema delle incompatibilità venga ridisegnato in una prospettiva che tenga conto dell’esigenza di uniformare al massimo le regole che governano il lavoro, indipendentemente dalla soggettività (pubblica o privata) dei datori. Un simile obiettivo, in termini di coerenza ed efficacia, appare perseguibile a partire dal modello disegnato dall’art. 53 del D.Lgvo 165/01 in materia di incarichi autorizzabili.