967 resultados para Aemilia Lepida (0003 av. J.-C.-0053) -- Portraits


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BACKGROUND AND GOAL: Patients infected with hepatitis C virus (HCV) with elevated low-density lipoprotein (LDL) levels achieve higher sustained virologic response (SVR) rates after peginterferon (PegIFN)/ribavirin treatment versus patients with lower LDL. Our aim was to determine whether SVR rates in patients with low/elevated LDL can be improved by dose intensification. STUDY: In PROGRESS, genotype 1 patients with baseline HCV RNA≥400,000 IU/mL and body weight ≥85 kg were randomized to 48 weeks of 180 μg/wk PegIFN α-2a (40 kDa) plus ribavirin (A: 1200 mg/d; B: 1400/1600 mg/d) or 12 weeks of 360 μg/wk PegIFN α-2a followed by 36 weeks of 180 μg/wk, plus ribavirin (C: 1200 mg/d; D: 1400/1600 mg/d). This retrospective analysis assessed SVR rates among patients with low (<100 mg/dL) or elevated (≥100 mg/dL) LDL. Patients with high LDL (n=256) had higher baseline HCV RNA (5.86×10 IU/mL) versus patients with low LDL (n=262; 4.02×10 IU/mL; P=0.0003). RESULTS: Multiple logistic regression analysis identified a significant interaction between PegIFN α-2a dose and LDL levels on SVR (P=0.0193). The only treatment-related SVR predictor in the nested multiple logistic regression was PegIFN α-2a dose among patients with elevated LDL (P=0.0074); therefore, data from the standard (A+B) and induction (C+D) dose arms were pooled. Among patients with low LDL, SVR rates were 40% and 35% in the standard and induction-dose groups, respectively; SVR rates in patients with high LDL were 44% and 60% (P=0.014), respectively. CONCLUSIONS: Intensified dosing of PegIFN α-2a increases SVR rates in patients with elevated LDL even with the difficult-to-cure characteristics of genotype 1, high baseline viral load, and high body weight. Copyright © 2013 by Lippincott Williams & Wilkins.

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Pós-graduação em Medicina Veterinária - FCAV

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L’arteria principale dell’antica Regio VIII si è dimostrata l’elemento cardine per la fondazione delle città in epoca romana. Le città che nascono sulla via Emilia entrano in un rapporto di simbiosi e di dipendenza con la strada antica, tanto che quest’ultima diventa l’asse generatore di tutta la forma urbis. Questo tracciato generatore è rimasto immutato se non per alcune sporadiche eccezioni e si è consolidato, nella sua forma e funzione, andando a creare così un’integrazione perfetta con l’imago urbis. Anche la città di Claterna deve la sua fondazione alla presenza di questo importante segno, tracciato nel 187 a.C.; un segno che nasce da un’astrazione e dal possesso dell’idea di linea retta da parte dei romani, il cui compito è dare ordine allo spazio che consideravano un caos, e come tale doveva essere organizzato in maniera geometrica e razionale. La via Emilia diventa l’asse generatore della città, la quale segue appunto l’orientamento fornito dall’asse stesso che assume il ruolo di decumanus maximus per l’insediamento, e sulla quale si baserà la costruzione della centuriazione claternate. Il tracciato così forte e importante dal punto di vista funzionale assume però in contemporanea un ruolo di divisione della civitas, in quanto va a separare in maniera netta la zona sud da quella nord. Questa situazione è maggiormente percepibile oggi rispetto al passato, vista la situazione di incolto che prevale sull’area. L’area di progetto risulta infatti tagliata dalla strada statale ed è di conseguenza interessata da problematiche di traffico veicolare anche pesante; tale situazione di attraversamento veloce non permette al viaggiatore di cogliere una lettura completa e unitaria di quello che era l’antico insediamento romano. Inoltre la quota di campagna, che racchiude il layer archeologico, è più bassa rispetto alla quota di percorrenza della strada e non essendoci alcun elemento visivo che possa richiamare l’attenzione di chi percorre questo tratto di via Emilia, l’area d’interesse rimane completamente nascosta e inserita nel contesto paesaggistico. Il paesaggio diventa l’unico immediato protagonista in questo frangente di via Emilia; qui è diverso da molte altre situazioni in cui l’abitato si accosta alla strada, o ancora da quando la strada antica, e ciò si verifica nei maggiori centri urbani, viene ad essere inglobata nel reticolo cittadino fatto di strade ed edifici e con esso si va a confondere ed integrare. Infatti nella porzione compresa tra il comune di Osteria Grande e la frazione di Maggio, ci si trova di fronte ad un vero e proprio spaccato della conformazione geomorfologica del territorio che interessa tutta la regione Emilia Romagna: rivolgendosi verso sud, lo sguardo è catturato dalla presenza della catena appenninica, dove si intravede il grande Parco dei Gessi, che si abbassa dolcemente fino a formare le colline. I lievi pendii si vanno a congiungere con la bassa pianura che si scontra con il segno della via Emilia, ma al di là della quale, verso nord, continua come una distesa senza limite fino all’orizzonte, per andare poi a sfumare nel mare Adriatico. Questi due aspetti, la non percepibilità della città romana nascosta nella terra e la forte presenza del paesaggio che si staglia sul cielo, entrano in contrasto proprio sulla base della loro capacità di manifestarsi all’occhio di chi sta percorrendo la via Emilia: la città romana è composta da un disegno di tracce al livello della terra; il paesaggio circostante invece diventa una vera e propria quinta scenica che non ha però oggetti da poter esporre in quanto sono sepolti e non sono ancora stati adeguatamente valorizzati. Tutte le città, da Rimini a Piacenza, che hanno continuato ad esistere, si sono trasformate fortemente prima in epoca medievale e poi rinascimentale tanto che il layer archeologico romano si è quasi completamente cancellato. La situazione di Claterna è completamente diversa. La città romana è stata mano a mano abbandonata alla fine del IV secolo fino a diventare una delle “semirutarum urbium cadavera” che, insieme a Bononia, Mutina, Regium e Brixillum fino a Placentia, Sant’Ambrogio ha descritto nella sua Epistola all’amico Faustino. Ciò mostra molto chiaramente quale fosse la situazione di tali città in età tardo-antica e in che situazione di degrado e abbandono fossero investite. Mentre alcune di queste importanti urbes riuscirono a risollevare le loro sorti, Claterna non fu più interessata dalla presenza di centri abitati, e ciò è dovuto probabilmente al trasferimento degli occupanti in centri e zone più sicure. Di conseguenza non si è verificato qui quello che è successo nei più importanti centri emiliano-romagnoli. Le successive fasi di sviluppo e di ampliamento di città come Bologna e Piacenza sono andate ad attaccare in maniera irrecuperabile il layer archeologico di epoca romana tanto da rendere lacunosa la conoscenza della forma urbis e delle sue più importanti caratteristiche. A Claterna invece lo strato archeologico romano è rimasto congelato nel tempo e non ha subito danni contingenti come nelle città sopra citate, in quanto il suolo appunto non è stato più interessato da fenomeni di inurbamento, di edificazione e di grandi trasformazioni urbane. Ciò ha garantito che i resti archeologici non venissero distrutti e quindi si sono mantenuti e conservati all’interno della terra che li ha protetti nel corso dei secoli dalla mano dell’uomo. Solo in alcune porzioni sono stati rovinati a causa degli strumenti agricoli che hanno lavorato la terra nell’ultimo secolo andando ad asportare del materiale che è stato quindi riportato alla luce. E’ stata proprio questa serie di ritrovamenti superficiali e fortunati a far intuire la presenza di resti archeologici, e che di conseguenza ha portato ad effettuare delle verifiche archeologiche con sondaggi che si sono concluse con esiti positivi e hanno permesso la collocazione di un vincolo archeologico come tutela dell’area in oggetto. L’area di progetto non è quindi stata contaminata dall’opera dell’uomo e ciò ha garantito probabilmente, secondo le indagini degli archeologi che lavorano presso il sito di Claterna, un buono stato di conservazione per gran parte dell’insediamento urbano e non solo di alcune porzioni minori di città o di abitazioni di epoca romana. Tutto questo attribuisce al sito una grande potenzialità visto che i casi di ritrovamenti archeologici così ampi e ben conservati sono molto limitati, quasi unici. Si tratterebbe quindi di riportare alla luce, in una prospettiva futura, un intero impianto urbano di epoca romana in buono stato di conservazione, di restituire un sapere che è rimasto nascosto e intaccato per secoli e di cui non si hanno che altre limitatissime testimonianze.

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To assess the predictive value of C-reactive protein (CRP) level for postoperative infectious complications after colorectal surgery.

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Tissue phantoms play a central role in validating biomedical imaging techniques. Here we employ a series of methods that aim to fully determine the optical properties, i.e., the refractive index n, absorption coefficient μa, transport mean free path ℓ∗, and scattering coefficient μs of a TiO2 in gelatin phantom intended for use in optoacoustic imaging. For the determination of the key parameters μa and ℓ∗, we employ a variant of time of flight measurements, where fiber optodes are immersed into the phantom to minimize the influence of boundaries. The robustness of the method was verified with Monte Carlo simulations, where the experimentally obtained values served as input parameters for the simulations. The excellent agreement between simulations and experiments confirmed the reliability of the results. The parameters determined at 780 nm are n=1.359(±0.002), μ′s=1/ℓ∗=0.22(±0.02) mm-1, μa= 0.0053(+0.0006-0.0003) mm-1, and μs=2.86(±0.04) mm-1. The asymmetry parameter g obtained from the parameters ℓ∗ and μ′s is 0.93, which indicates that the scattering entities are not bare TiO2 particles but large sparse clusters. The interaction between the scattering particles and the gelatin matrix should be taken into account when developing such phantoms.

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BACKGROUND: Clinical outcomes of chronic hepatitis C infection in patients with advanced fibrosis include liver failure, hepatocellular carcinoma, and death. OBJECTIVE: To investigate whether sustained virologic response to treatment for hepatitis C is associated with improved clinical outcomes. DESIGN: Retrospective cohort study. SETTING: 5 hepatology units of tertiary care centers in Europe and Canada caring for patients with chronic hepatitis C treated between 1990 and 2003. PATIENTS: Consecutively treated patients with chronic hepatitis C who had biopsy-proven advanced fibrosis or cirrhosis (Ishak score, 4 to 6). MEASUREMENTS: Sustained virologic response, defined as absence of detectable hepatitis C virus RNA at 24 weeks after the end of treatment, and clinical outcomes, defined as death (liver-related or non-liver-related), liver failure, and hepatocellular carcinoma. RESULTS: Of 479 patients, 29.6% had sustained virologic response and 70.3% did not. Median follow-up was 2.1 years (interquartile range, 0.8 to 4.9 years). Four patients with and 83 without sustained virologic response had at least 1 outcome event. Sustained virologic response was associated with a statistically significant reduction in the hazard of events (adjusted hazard ratio, 0.21 [95% CI, 0.07 to 0.58]; P = 0.003). The effect was largely attributable to a reduction in liver failure, which developed in no patients with and 42 patients without sustained virologic response (5-year occurrence, 0% vs. 13.3% [CI, 8.4% to 18.2%]; unadjusted hazard ratio, 0.03 [CI, 0.00 to 0.91]). LIMITATIONS: Because few events occurred in the sustained virologic response group, the study had limited ability to detect differences between groups in individual outcomes. In addition, the study was retrospective; selection and survival biases may therefore influence estimates of effect. CONCLUSION: Sustained virologic response to treatment is associated with improved clinical outcomes, mainly prevention of liver failure, in patients with chronic hepatitis C and advanced fibrosis.

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Coilin is the signature protein of the Cajal body (CB), a nuclear suborganelle involved in the biogenesis of small nuclear ribonucleoproteins (snRNPs). Newly imported Sm-class snRNPs are thought to traffic through CBs before proceeding to their final nuclear destinations. Loss of coilin function in mice leads to significant viability and fertility problems. Coilin interacts directly with the spinal muscular atrophy (SMA) protein via dimethylarginine residues in its C-terminal domain. Although coilin hypomethylation results in delocalization of survival of motor neurons (SMN) from CBs, high concentrations of snRNPs remain within these structures. Thus, CBs appear to be involved in snRNP maturation, but factors that tether snRNPs to CBs have not been described. In this report, we demonstrate that the coilin C-terminal domain binds directly to various Sm and Lsm proteins via their Sm motifs. We show that the region of coilin responsible for this binding activity is separable from that which binds to SMN. Interestingly, U2, U4, U5, and U6 snRNPs interact with the coilin C-terminal domain in a glutathione S-transferase (GST)-pulldown assay, whereas U1 and U7 snRNPs do not. Thus, the ability to interact with free Sm (and Lsm) proteins as well as with intact snRNPs, indicates that coilin and CBs may facilitate the modification of newly formed snRNPs, the regeneration of 'mature' snRNPs, or the reclamation of unassembled snRNP components.

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Rutile (TiO2) is an important host phase for high field strength elements (HFSE) such as Nb in metamorphic and subduction zone environments. The observed depletion of Nb in arc rocks is often explained by the hypothesis that rutile sequesters HFSE in the subducted slab and overlying sediment, and is chemically inert with respect to aqueous fluids evolved during prograde metamorphism in the forearc to subarc environment. However, field observations of exhumed terranes, and experimental studies, indicate that HFSE may be soluble in complex aqueous fluids at high pressure (i.e., >0.5 GPa) and moderate to high temperature (i.e., >300 degrees C). In this study, we investigated experimentally the mobility of Nb in NaCl- and NaF-bearing aqueous fluids in equilibrium with Nb-bearing rutile at pressure-temperature conditions applicable to fluid evolution in arc environments. Niobium concentrations in aqueous fluid at rutile saturation were measured directly by using a hydrothermal diamond-anvil cell (HDAC) and synchrotron X-ray fluorescence (SXRF) at 2.1 to 6.5 GPa and 300-500 degrees C, and indirectly by performing mass loss experiments in a piston-cylinder (PC) apparatus at similar to 1 GPa and 700-800 degrees C. The concentration of Nb in a 10 wt% NaCl aqueous fluid increases from 6 to 11 mu g/g as temperature increases from 300 to 500 degrees C, over a pressure range from 2.1 to 2.8 GPa, consistent with a positive temperature dependence. The concentration of Nb in a 20 wt% NaCl aqueous fluid varies from 55 to 150 mu g/g at 300 to 500 degrees C, over a pressure range from 1.8 to 6.4 GPa; however, there is no discernible temperature or pressure dependence. The Nb concentration in a 4 wt% NaF-bearing aqueous fluid increases from 180 to 910 mu g/g as temperature increases from 300 to 500 degrees C over the pressure range 2.1 to 6.5 GPa. The data for the F-bearing fluid indicate that the Nb content of the fluid exhibits a dependence on temperature between 300 and 500 degrees C at >= 2 GPa, but there is no observed dependence on pressure. Together, the data demonstrate that the hydrothermal mobility of Nb is strongly controlled by the composition of the fluid, consistent with published data for Ti. At all experimental conditions, however, the concentration of Nb in the fluid is always lower than coexisting rutile, consistent with a role for rutile in moderating the Nb budget of arc rocks.