983 resultados para Keenan, Bernard


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Este estudo tem como base o trabalho sobre a tipologia linguística desenvolvida pelos linguistas Edward L. Keenan e Bernard Comrie, formuladores de estratégias de formação da oração relativa e da Hierarquia de Acessibilidade. Em suas análises, os autores buscam evidências que confirmem a proposta de revisão feita pelo linguista Simon Cornelis Dik à Hierarquia de Acessibilidade. Na obra, eles salientam que uma pesquisa de base tipológico-funcional não se pode fiar em critérios puramente morfossintáticos e procuram determinar em que medida as funções semânticas têm influência na construção de orações relativas. Apesar de se dedicar ao estudo de línguas indígenas, esta obra não é voltada para a Linguística Indígena, uma vez que seu foco principal é a caracterização tipológico-funcional da oração relativa. No entanto, os autores optaram por tomar como base de dados da análise as línguas indígenas brasileiras pelo fato de haver poucos estudos tipológicos dedicados a elas. Dessa forma, acreditam poder contribuir também para o desenvolvimento da linguística aplicada às línguas nativas do país

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O objetivo deste artigo é investigar a concepção enciclopédica de revolução científica posta em prática pelo químico francês L.-B. Guyton de Morveau (1737-1816). Deslocando a análise do conhecimento químico das Luzes do programa traçado por Lavoisier (1743-1794), sugerimos uma concepção revolucionária republicana, proclamada como resultado do esforço de uma coletividade. Daremos destaque a três abordagens revolucionárias de Guyton de Morveau no âmbito da química. A primeira foi sua atuação no ensino dessa ciência, cuja pedagogia e métodos de ensino foram fundamentais para sua imersão social. Além disso, entre 1770 e 1790, Guyton de Morveau teve desempenhos decisivos no seio da empresa enciclopédica e no seio da escola química francesa.

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Effects of the conflict between reason and passion in Bernard Mandeville’s moral, economic and political thought My PhD dissertation focuses on Bernard Mandeville (1670-1732), a Dutch philosopher who moved to London in his late twenties. The aspect of Mandeville’s thought I take into account in my research is the conflicting relation between reason and passions, and the consequences that Mandeville’s view of this conflict has in the development of his theory of human nature which, I argue, is what grounds his moral, economic and, above all, political theory. According to Mandeville, reason is fundamentally weak. Passions influence with more strength human actions, and, eventually, are the ones which motivate them. The role of reason is merely instrumental, restricted to finding appropriate means in order to reach the desired ends, which are capricious and inconstant, since they all come from unstable passions. Reason cannot take decisions meant to act in the long term, pursuing an object which has not a selfish and temporary nature. There is no possibility, thus, that men’s actions aim just to achieve a good and just society, without their interests being directly involved. The basically selfish root of every desire leads Mandeville to claim that there is neither benevolence nor altruism which guides human behaviour. Hence he expresses a judgement on the moral character of human beings, always busy with their self-satisfaction, and hardly ever considering what would be good on a wider perspective, including other people’s sake. The anthropological features ascribed to men by Mandeville, are those which lead him to prefer a political system where governors are not supposed to have particular abilities, either from an intellectual or from a moral point of view, and peace and order are preserved by the bureaucratic machine, which is meant to work with the least effort on the part of the politicians, and no big harm can be done even by corrupted or wicked governors. This system is adopted with an eye at remedying human deficiencies: Mandeville takes into primary account, when he thinks of how to build a peaceful and functioning society, that everyone is concerned with his selfish interest, and that the rationality of a single politician, or of a group of them belonging to a same generation, cannot find a good “solution” to govern men able to last over the long period, and to work in different ages. This implies a refusal of the Hobbesian theory of the pactum subjectionis, which has the character of a rational and definitive choice, and leads Mandeville to consider the order which arises spontaneously, without any plan or rational intervention.

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Il presente studio, per ciò che concerne la prima parte della ricerca, si propone di fornire un’analisi che ripercorra il pensiero teorico e la pratica critica di Louis Marin, mettendone in rilievo i caratteri salienti affinché si possa verificare se, nella loro eterogenea interdisciplinarità, non emerga un profilo unitario che consenta di ricomprenderli in un qualche paradigma estetico moderno e/o contemporaneo. Va innanzitutto rilevato che la formazione intellettuale di Marin è avvenuta nell’alveo di quel montante e pervasivo interesse che lo strutturalismo di stampo linguistico seppe suscitare nelle scienze sociali degli anni sessanta. Si è cercato, allora, prima di misurare la distanza che separa l’approccio di Marin ai testi da quello praticato dalla semiotica greimasiana, impostasi in Francia come modello dominante di quella svolta semiotica che ha interessato in quegli anni diverse discipline: dagli studi estetici all’antropologia, dalla psicanalisi alla filosofia. Si è proceduto, quindi, ad un confronto tra l’apparato concettuale elaborato dalla semiotica e alcune celebri analisi del nostro autore – tratte soprattutto da Opacité de la peinture e De la représentation. Seppure Marin non abbia mai articolato sistematicametne i principi teorici che esplicitassero la sua decisa contrapposizione al potente modello greimasiano, tuttavia le reiterate riflessioni intorno ai presupposti epistemologici del proprio modo di interpretare i testi – nonché le analisi di opere pittoriche, narrative e teoriche che ci ha lasciato in centinaia di studi – permettono di definirne una concezione estetica nettamente distinta dalla pratica semio-semantica della scuola di A. J. Greimas. Da questo confronto risulterà, piuttosto, che è il pensiero di un linguista sui generis come E. Benveniste ad avere fecondato le riflessioni di Marin il quale, d’altra parte, ha saputo rielaborare originalmente i contributi fondamentali che Benveniste diede alla costruzione della teoria dell’enunciazione linguistica. Impostando l’equazione: enunciazione linguistica=rappresentazione visiva (in senso lato), Marin diviene l’inventore del dispositivo concettuale e operativo che consentirà di analizzare l’enunciazione visiva: la superficie di rappresentazione, la cornice, lo sguardo, l’iscrizione, il gesto, lo specchio, lo schema prospettico, il trompe-l’oeil, sono solo alcune delle figure in cui Marin vede tradotto – ma in realtà immagina ex novo – quei dispositivi enunciazionali che il linguista aveva individuato alla base della parole come messa in funzione della langue. Marin ha saputo così interpretare, in modo convincente, le opere e i testi della cultura francese del XVII secolo alla quale sono dedicati buona parte dei suoi studi: dai pittori del classicismo (Poussin, Le Brun, de Champaigne, ecc.) agli eruditi della cerchia di Luigi XIV, dai filosofi (soprattutto Pascal), grammatici e logici di Port-Royal alle favole di La Fontaine e Perrault. Ma, come si evince soprattutto da testi come Opacité de la peinture, Marin risulterà anche un grande interprete del rinascimento italiano. In secondo luogo si è cercato di interpretare Le portrait du Roi, il testo forse più celebre dell’autore, sulla scorta dell’ontologia dell’immagine che Gadamer elabora nel suo Verità e metodo, non certo per praticare una riduzione acritica di due concezioni che partono da presupposti divergenti – lo strutturalismo e la critica d’arte da una parte, l’ermeneutica filosofica dall’altra – ma per rilevare che entrambi ricorrono al concetto di rappresentazione intendendolo non tanto come mimesis ma soprattutto, per usare il termine di Gadamer, come repraesentatio. Sia Gadamer che Marin concepiscono la rappresentazione non solo come sostituzione mimetica del rappresentato – cioè nella direzione univoca che dal rappresentato conduce all’immagine – ma anche come originaria duplicazione di esso, la quale conferisce al rappresentato la sua legittimazione, la sua ragione o il suo incremento d’essere. Nella rappresentazione in quanto capace di legittimare il rappresentato – di cui pure è la raffigurazione – abbiamo così rintracciato la cifra comune tra l’estetica di Marin e l’ontologia dell’immagine di Gadamer. Infine, ci è sembrato di poter ricondurre la teoria della rappresentazione di Marin all’interno del paradigma estetico elaborato da Kant nella sua terza Critica. Sebbene manchino in Marin espliciti riferimenti in tal senso, la sua teoria della rappresentazione – in quanto dire che mostra se stesso nel momento in cui dice qualcos’altro – può essere intesa come una riflessione estetica che trova nel sensibile la sua condizione trascendentale di significazione. In particolare, le riflessioni kantiane sul sentimento di sublime – a cui abbiamo dedicato una lunga disamina – ci sono sembrate chiarificatrici della dinamica a cui è sottoposta la relazione tra rappresentazione e rappresentato nella concezione di Marin. L’assolutamente grande e potente come tratti distintivi del sublime discusso da Kant, sono stati da noi considerati solo nella misura in cui ci permettevano di fare emergere la rappresentazione della grandezza e del potere assoluto del monarca (Luigi XIV) come potere conferitogli da una rappresentazione estetico-politica costruita ad arte. Ma sono piuttosto le facoltà in gioco nella nostra più comune esperienza delle grandezze, e che il sublime matematico mette esemplarmente in mostra – la valutazione estetica e l’immaginazione – ad averci fornito la chiave interpretativa per comprendere ciò che Marin ripete in più luoghi citando Pascal: una città, da lontano, è una città ma appena mi avvicino sono case, alberi, erba, insetti, ecc… Così abbiamo applicato i concetti emersi nella discussione sul sublime al rapporto tra la rappresentazione e il visibile rappresentato: rapporto che non smette, per Marin, di riconfigurarsi sempre di nuovo. Nella seconda parte della tesi, quella dedicata all’opera di Bernard Stiegler, il problema della comprensione delle immagini è stato affrontato solo dopo aver posto e discusso la tesi che la tecnica, lungi dall’essere un portato accidentale e sussidiario dell’uomo – solitamente supposto anche da chi ne riconosce la pervasività e ne coglie il cogente condizionamento – deve invece essere compresa proprio come la condizione costitutiva della sua stessa umanità. Tesi che, forse, poteva essere tematizzata in tutta la sua portata solo da un pensatore testimone delle invenzioni tecnico-tecnologiche del nostro tempo e del conseguente e radicale disorientamento a cui esse ci costringono. Per chiarire la propria concezione della tecnica, nel I volume di La technique et le temps – opera alla quale, soprattutto, sarà dedicato il nostro studio – Stiegler decide di riprendere il problema da dove lo aveva lasciato Heidegger con La questione della tecnica: se volgiamo coglierne l’essenza non è più possibile pensarla come un insieme di mezzi prodotti dalla creatività umana secondo un certi fini, cioè strumentalmente, ma come un modo di dis-velamento della verità dell’essere. Posto così il problema, e dopo aver mostrato come i sistemi tecnici tendano ad evolversi in base a tendenze loro proprie che in buona parte prescindono dall’inventività umana (qui il riferimento è ad autori come F. Gille e G. Simondon), Stiegler si impegna a riprendere e discutere i contributi di A. Leroi-Gourhan. È noto come per il paletnologo l’uomo sia cominciato dai piedi, cioè dall’assunzione della posizione eretta, la quale gli avrebbe permesso di liberare le mani prima destinate alla deambulazione e di sviluppare anatomicamente la faccia e la volta cranica quali ondizioni per l’insorgenza di quelle capacità tecniche e linguistiche che lo contraddistinguono. Dei risultati conseguiti da Leroi-Gourhan e consegnati soprattutto in Le geste et la parole, Stiegler accoglie soprattutto l’idea che l’uomo si vada definendo attraverso un processo – ancora in atto – che inizia col primo gesto di esteriorizzazione dell’esperienza umana nell’oggetto tecnico. Col che è già posta, per Stiegler, anche la prima forma di simbolizzazione e di rapporto al tempo che lo caratterizzano ancora oggi. Esteriorità e interiorità dell’uomo sono, per Stiegler, transduttive, cioè si originano ed evolvono insieme. Riprendendo, in seguito, l’anti-antropologia filosofica sviluppata da Heidegger nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, Stiegler dimostra che, se si vuole cogliere l’effettività della condizione dell’esistenza umana, è necessaria un’analisi degli oggetti tecnici che però Heidegger relega nella sfera dell’intramondano e dunque esclude dalla temporalità autentica dell’esser-ci. Se è vero che l’uomo – o il chi, come lo chiama Stiegler per distinguerlo dal che-cosa tecnico – trova nell’essere-nel-mondo la sua prima e più fattiva possibilità d’essere, è altrettanto verò che questo mondo ereditato da altri è già strutturato tecnicamente, è già saturo della temporalità depositata nelle protesi tecniche nelle quali l’uomo si esteriorizza, e nelle quali soltanto, quindi, può trovare quelle possibilità im-proprie e condivise (perché tramandate e impersonali) a partire dalle quali poter progettare la propria individuazione nel tempo. Nel percorso di lettura che abbiamo seguito per il II e III volume de La technique et le temps, l’autore è impegnato innanzitutto in una polemica serrata con le analisi fenomenologiche che Husserl sviluppa intorno alla coscienza interna del tempo. Questa fenomenologia del tempo, prendendo ad esame un oggetto temporale – ad esempio una melodia – giunge ad opporre ricordo primario (ritenzione) e ricordo secondario (rimemorazione) sulla base dell’apporto percettivo e immaginativo della coscienza nella costituzione del fenomeno temporale. In questo modo Husserl si preclude la possibilità di cogliere il contributo che l’oggetto tecnico – ad esempio la registrazione analogica di una melodia – dà alla costituzione del flusso temporale. Anzi, Husserl esclude esplicitamente che una qualsiasi coscienza d’immagine – termine al quale Stiegler fa corrispondere quello di ricordo terziario: un testo scritto, una registrazione, un’immagine, un’opera, un qualsiasi supporto memonico trascendente la coscienza – possa rientrare nella dimensione origianaria e costitutiva di tempo. In essa può trovar posto solo la coscienza con i suo vissuti temporali percepiti, ritenuti o ricordati (rimemorati). Dopo un’attenta rilettura del testo husserliano, abbiamo seguito Stiegler passo a passo nel percorso di legittimazione dell’oggetto tecnico quale condizione costitutiva dell’esperienza temporale, mostrando come le tecniche di registrazione analogica di un oggetto temporale modifichino, in tutta evidenza, il flusso ritentivo della coscienza – che Husserl aveva supposto automatico e necessitante – e con ciò regolino, conseguente, la reciproca permeabilità tra ricordo primario e secondario. L’interpretazione tecnica di alcuni oggetti temporali – una foto, la sequenza di un film – e delle possibilità dispiegate da alcuni dispositivi tecnologici – la programmazione e la diffusione audiovisiva in diretta, l’immagine analogico-digitale – concludono questo lavoro richiamando l’attenzione sia sull’evidenza prodotta da tali esperienze – evidenza tutta tecnica e trascendente la coscienza – sia sul sapere tecnico dell’uomo quale condizione – trascendentale e fattuale al tempo stesso – per la comprensione delle immagini e di ogni oggetto temporale in generale. Prendendo dunque le mosse da una riflessione, quella di Marin, che si muove all’interno di una sostanziale antropologia filosofica preoccupata di reperire, nell’uomo, le condizioni di possibilità per la comprensione delle immagini come rappresentazioni – condizione che verrà reperità nella sensibilità o nell’aisthesis dello spettatore – il presente lavoro passerà, dunque, a considerare la riflessione tecno-logica di Stiegler trovando nelle immagini in quanto oggetti tecnici esterni all’uomo – cioè nelle protesi della sua sensibilità – le condizioni di possibilità per la comprensione del suo rapporto al tempo.

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Bernard-Soulier syndrome (BSS) is an extremely rare hereditary bleeding disorder, caused by mutations occurring in the Glycoprotein (GP) Ibalpha, GPIbbeta and GP9 genes that encode for the corresponding subunits of platelet GPIb-V-IX adhesion receptor complex. BSS has been reported in many populations, mostly behaving in an autosomal-recessive manner.While the great majority of BSS mutations are unique to a single individual or family, the GP9 1828A>G Asn45Ser mutation, which we have identified in an undocumented Australian Caucasian, has already been reported in multiple unrelated Caucasian families from various Northern and Central European countries. Haplotype analysis of 19 BSS patients from 15 unrelated Northern European families (including 2 compound heterozygote siblings from a British family previously published, and 17 1828A>G Asn45Ser homozygotes), showed that 14 of these BSS patients from 11 of the 1828A>G Asn45Ser homozygote families share a common haplotype at the chromosomal region 3' to the GP9 gene. Hence, the results suggest that the GP9 1828A>GAsn45Ser mutation in these families is ancient, and its frequent emergence in the European population is the result of a founder effect rather than recurrent mutational events. Association of the 1828A>G Asn45Ser mutation with variant haplotypes in 4 other Northern European BSS families raised the possibility of a second founder event, or rare recombinations in these families. Additional members from these 'atypical' lineages would need to be screened to resolve this question.

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The Penninic nappes in the Swiss Alps formed during continental collision between the Adriatic and European plates in Cenozoic times. Although intensely studied, the finite geometry of the basement-bearing Penninic nappes in western Switzerland has remained a matter of debate for decades (e.g., “Siviez-Mischabel dilemma”) and the paleogeographic origin of various nappes has been disputed. Here, we present new structural data for the central part of the Penninic Bernard nappe complex, which contains pre-Permian basement and Permo-Mesozoic metasedimentary units. Our lithological and structural observations indicate that the discrepancy between the different structural models proposed for the Bernard nappe complex can be explained by a lateral discontinuity. In the west, the presence of a Permian graben caused complex isoclinal folding, whereas in the east, the absence of such a graben resulted mainly in imbricate thrusting. The overall geometry of the Bernard nappe complex is the result of three main deformation phases: (1) detachment of Mesozoic cover sediments along Triassic evaporites (Evolène phase) during the early stages of collision, (2) Eocene top-to-the-N(NW) nappe stacking (Anniviers phase), and (3) subsequent backfolding and backshearing (Mischabel phase). The southward localized backshearing is key to understand the structural position and paleogeographic origin of units, such as the Frilihorn and Cimes Blanches “nappes” and the Antrona ophiolites. Based on these observations, we present a new tectonic model for the entire Penninic region of western Switzerland and discuss this model in terms of continental collision zone processes.

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Annette von Droste-Hülshoff, «die grösste deutsche Dichterin», comme on le dit fréquemment en allemand, a longtemps passé pour intraduisible. Ces traductions essaient pour la première fois de respecter la densité des vers allemands, tant sur les plans phonique que sémantique.

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An inherited polyneuropathy (PN) observed in Leonberger dogs has clinical similarities to a genetically heterogeneous group of peripheral neuropathies termed Charcot-Marie-Tooth (CMT) disease in humans. The Leonberger disorder is a severe, juvenile-onset, chronic, progressive, and mixed PN, characterized by exercise intolerance, gait abnormalities and muscle atrophy of the pelvic limbs, as well as inspiratory stridor and dyspnea. We mapped a PN locus in Leonbergers to a 250 kb region on canine chromosome 16 (Praw = 1.16×10-10, Pgenome, corrected = 0.006) utilizing a high-density SNP array. Within this interval is the ARHGEF10 gene, a member of the rho family of GTPases known to be involved in neuronal growth and axonal migration, and implicated in human hypomyelination. ARHGEF10 sequencing identified a 10 bp deletion in affected dogs that removes four nucleotides from the 3'-end of exon 17 and six nucleotides from the 5'-end of intron 17 (c.1955_1958+6delCACGGTGAGC). This eliminates the 3'-splice junction of exon 17, creates an alternate splice site immediately downstream in which the processed mRNA contains a frame shift, and generates a premature stop codon predicted to truncate approximately 50% of the protein. Homozygosity for the deletion was highly associated with the severe juvenile-onset PN phenotype in both Leonberger and Saint Bernard dogs. The overall clinical picture of PN in these breeds, and the effects of sex and heterozygosity of the ARHGEF10 deletion, are less clear due to the likely presence of other forms of PN with variable ages of onset and severity of clinical signs. This is the first documented severe polyneuropathy associated with a mutation in ARHGEF10 in any species.

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