474 resultados para Glazed pottery


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Geomagnetic field variations at archeomagnetic timescales can be obtained from well-dated heated structures and archeological potsherds. Here, we present the first archeointensity results obtained oil Portuguese ceramics (1550 to 1750 AD) collected at Brazilian archeological sites. The results are compared to those obtained from `Western Europe and currently available geomagnetic field models. Continuous thermomagnetic and IRM acquisitions curves indicate that Ti-poor titanomagnetite is responsible for the remanence in these ceramic fragments. Five fragments (24 samples) out of twelve analyzed yielded reliable intensity estimates. The row archeointensity data were corrected for TRM anisotropy and cooling rate effect. The mean dipole moments are obtained for three different age intervals: 1550 +/- 30 AD, 1600 +/- 30 AD and 1750 +/- 50 AD. Mean intensities vary from 37.9 +/- 4.2 mu T to 54.8 +/- 7.6 mu T in agreement with the previously reported data for 1550 AD and 1750 AD. Relatively weaker, but still highly dispersed, values were obtained for 1600 AD ceramics.

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La presente ricerca prende in esame le dinamiche archeologiche e storiche della regione egiziana del Fayyum durante il Nuovo Regno (1552 – 1069 a.C.). L’elaborato è suddiviso in quattro parti: la prima analizza tutti i contesti archeologici che hanno restituito materiale databile al Bronzo Tardo, la seconda riguarda, invece, la catalogazione di tutti i documenti iscritti provenienti dalla regione e databili al medesimo periodo. La terza parte rappresenta la sintesi dei dati acquisiti nelle due precedenti sezioni e descrive il divenire storico regionale tra XVIII, XIX e XX dinastia, mentre la quarta parte, un’appendice prosopografica, chiude l’intero studio. I contesti archeologici fayyumici che hanno restituito materiale databile al Bronzo Tardo sono solamente sette: Gurob, el-Lahun, Haraga, Hawara, Medinet Madi, Shedet e Tebtynis. La distribuzione della documentazione tende a concentrarsi, dal punto di vista territoriale nell’area d’ingresso della regione, mentre dal punto di vista cronologico sono molto ben attestate la seconda metà dell’epoca thutmoside, l’età amarniana e la prima parte dell’epoca ramesside. Per quanto la documentazione regionale pertinente al Nuovo Regno sia estremamente rarefatta, soprattutto se paragonata a quella contestualizzabile cronologicamente ad altri periodi storici, un’attenta analisi delle testimonianze porta a collocare il Fayyum in una fitta trama di rapporti politici, economici e militari non solo con il resto del Paese ma anche con altre aree geografiche, esterne all’Egitto.

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La Piana di foce del Garigliano (al confine tra Lazio e Campania) è caratterizzata, fino ad epoche recenti, dalla presenza di aree palustri e umide. Lo studio in corso cerca di ricostruire l’evoluzione dell’ambiente costiero mettendolo in relazione alla presenza dell’uomo, alla gestione del territorio, alle vicende storiche e alle variazioni climatiche utilizzando molteplici metodologie tipiche della geoarcheologia. Si tratta di un approccio multidisciplinare che cerca di mettere insieme analisi tipiche dell’archeologia, della topografia antica, della geomorfologia, della geologia e della paleobotanica. Fino all’età del Ferro l’unica traccia di popolamento viene da Monte d’Argento, uno sperone roccioso isolato lungo la costa, posto al limite occidentale di un ambiente sottostante che sembra una palude chiusa e isolata da apporti sedimentari esterni. Con il passaggio all’età del ferro si verifica un mutamento ambientale con la fine della grande palude e la formazione di una piccola laguna parzialmente comunicante con il mare. L’arrivo dei romani alla fine del III secolo a.C. segna la scomparsa dei grandi centri degli Aurunci e la deduzione di tre colonie (Sessa Aurunca, Sinuessa, Minturno). Le attività di sistemazione territoriale non riguardarono però le aree umide costiere, che non vennero bonificate o utilizzate per scopi agricoli, ma mantennero la loro natura di piccoli laghi costieri. Quest’epoca è dunque caratterizzata da una diffusione capillare di insediamenti, basati su piccole fattorie o installazioni legate allo sfruttamento agricolo. Poche sono le aree archeologiche che hanno restituito materiali successivi al II-III secolo d.C. La città resta comunque abitata fino al VI-VII secolo, quando l’instabilità politica e l’impaludamento dovettero rendere la zona non troppo sicura favorendo uno spostamento verso le zone collinari. Un insediamento medievale è attestato solo a Monte d’Argento e una frequentazione saracena dell’inizio del IX secolo è riportata dalle fonti letterarie, ma non vi è ancora nessuna documentazione archeologica.

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Il presente lavoro è incentrato sulla raccolta e l’analisi dell’instrumentum fittile inscriptum – in particolare laterizi, dolia, lucerne, ceramica fine da mensa, anfore e tappi d’anfora - rinvenuto a Modena e nel suo territorio. L’attenzione è stata concentrata sul materiale bollato e, per quanto riguarda le anfore, anche sullo studio degli esemplari recanti tituli picti. Si è proceduto ad una raccolta di tutto il materiale edito, a cui si è aggiunto lo studio di un’ingente quantità di reperti provenienti da due recenti scavi suburbani: quello presso il Parco Novi Sad, che si segnala soprattutto per la ricchezza del materiale anforico, e quello di Viale Reiter, ove sono venuti alla luce numerosi scarti di cottura di lucerne a canale recanti le firme di alcuni dei più noti produttori di tali oggetti nel mondo romano. A ciascuna categoria di instrumentum è stato dedicato un capitolo, corredato di tabelle in cui è stato raccolto tutto il materiale considerato; inoltre, per i reperti del Parco Novi Sad e di Viale Reiter, è stato realizzato un catalogo corredato di riproduzioni grafiche e fotografiche. Per quanto concerne le iscrizioni dipinte, un capitolo è stato dedicato a quelle presenti sulle anforette adriatiche da pesce; quanto ai tituli picti su anfore di morfologia betica per il trasporto di salse di pesce è stato effettuato un confronto con esemplari rinvenuti in due scavi inediti a Parma, che presentano significative analogie col materiale modenese. Dall’analisi dell’instrumentum inscriptum di Mutina, pur consapevoli dei limiti insiti in una ricerca incentrata unicamente su tale tipo di materiale, è emersa un’immagine della colonia, tra la tarda età repubblicana ed il I sec. d.C., congruente con quella delineata dalle fonti letterarie, dall’epigrafia lapidaria e dai rinvenimenti archeologici, ossia di una città di notevole importanza e ricchezza.

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Mehr als hundert Jahre archäologischer Forschung haben gezeigt, dass in Mayen in römischer und mittelalterlicher Zeit eines der wichtigsten europäischen Produktionszentren für die Herstellung qualitätsvoller Gebrauchskeramik bestand. Im Rahmen dieser Studie wurden vier Befundkomplexe aus Töpfereisiedlungen vom 4. bis in das 14. Jahrhundert untersucht. Genauer handelt es sich um Keramik aus zwei spätantiken Brennanlagen des 4. Jahrhunderts im Bereich der Flur „Auf der Eich“ an den Straßen „Am Sonnenhang“ und „Frankenstraße“. Weiterhin konnte Material aus zwei Töpferofenfüllungen des 5. bis 9. Jahrhunderts analysiert werden, das 1975 auf dem Grundstück 55 an der „Siegfriedstraße“ in Brennanlagen entdeckt wurde. Hinzu kam Brenngut aus elf Töpferöfen des späten 8. bis 14. Jahrhunderts, welches in den so genannten „Burggärten“ der Genovevaburg von Mayen in den Jahren 1986/87 durch die archäologische Denkmalpflege in Koblenz geborgen wurde. Die mineralogischen Untersuchungen zur Charakterisierung der „Mayener Keramik“ wurden systematisch an den Keramikmaterialien aus diesen Fundstellen durchgeführt. Mittelalterliche Keramik aus Bornheim-Walberberg, Brühl-Eckdorf, Höhr-Grenzhausen, Langerwehe, Frechen, Brühl-Pingsdorf, Paffrath, Raeren, Ratingen-Breitscheid, Siegburg-Seehofstraße, Siegburg-Scherbenhügel, Fredelsloh und Brühl-Badorf konnte für diese Arbeit als Referenzmaterialien ebenfalls untersucht werden. Provenienzanalysen wurden an Keramikproben aus 27 Fundorten, die makroskopisch nach Mayener Ware aussehen, mit mineralogischen Methoden durchgeführt, um sie der Fundregion Mayen eindeutig zuordnen zu können.rnPhasenanalyse, chemische Analyse und thermische Analyse wurden an Keramik sowie Ton durchgeführt. Die Phasenanalyse wurde zur Bestimmung der mineralischen Zusammensetzung von Grundmasse und Magerungsmittel (Röntgendiffraktometrie (XRD), Polarisationsmikroskop, Mikro-Raman-Spektroskopie) verwendet. Die chemische Zusammensetzung wurde durch Röntgenfluoreszenzanalyse (RFA) ermittelt. Elektronenstrahlmikroanalyse (ESMA) und Laser-Massenspektrometrie mit induktiv gekoppeltem Plasma (LA-ICP-MS) wurden bei den Proben, bei denen weniger als 2g Material zur Verfügung standen, eingesetzt. Brennexperimente wurden am originalen Rohstoff der Keramik aus den „Burggärten“ der Genovevaburg durchgeführt. Gebrannter Ton wurde durch Röntgendiffraktometrie (XRD), Infrarotspektroskopie (IR) und Differential-Thermoanalyse (DTA) analysiert. rnAnhand der Messergebnisse lässt sich die Mayener Keramik aus den vier Fundplätzen in zwei Typen zusammenzufassen: der mit Feldspat-reichem Sand gemagerte römische Typ und der mit Quarz-reichem Sand gemagerte mittelalterliche Typ. Die Änderung des Magerungsmittels von Feldspat- zu Quarzsand weist eine technische Entwicklung zu höheren Brenntemperaturen von der Römerzeit bis in das Mittelalter nach. Nach der Untersuchung und dem Vergleich mit den Referenzkeramikgruppen ist festzustellen, dass durch multivariate Statistikanalysen der chemischen Komponenten die Charakterisierung der Keramik und eine Differenzierung zwischen den Keramikgruppen gelingt. Diese Erkenntnisse bildeten die Basis für Provenienzanalysen. 16 Fundorte können durch Provenienzanalyse sicher als Exportregionen der Mayener Ware festgestellt werden. Gemäß den Brennexperimenten lassen sich die chemischen Reaktionen während des Brandprozesses nachvollziehen. Zwei Methoden wurden mittels Röntgendiffraktometrie (XRD) und Differential-Thermoanalyse (DTA) zur Bestimmung der Brenntemperaturen der Keramik modelliert. Die Töpferöfen der „Burggärten“ können nach der Brenntemperatur in zwei Typen zusammengefasst werden: solche mit einer Brenntemperatur unter 1050°C und solche mit einer Brenntemperatur über 1050°C.rn

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In questo lavoro si è avuta la possibilità di studiare e confrontare i reperti ceramici provenienti da tre recenti scavi condotti nella zona della Romagna dall’Università di Bologna: il monastero di San Severo a Classe (RA), il castello di Rontana (Brisighella-RA) e la pieve di S. Reparata a Terra del Sole (FC). Si tratta di scavi ancora inediti differenti tra loro sia per connotazione distrettuale di appartenenza che per tipologia insediativa La cesura cronologica che si è preso in esame va dal XIII a XV secolo. Il XIII secolo corrisponde a un periodo in cui si assiste ad una riapertura dei trasporti a lunga distanza e si diffonde la tendenza al trasferimento dei saperi tecnici da Oriente verso Occidente, fenomeno che include l’introduzione di nuove tecnologie produttive in campo ceramico come l’ingobbio e la maiolica in diversi centri urbani. Si passa poi attraverso il XIV secolo, momento in cui alcune produzioni, come quella della maiolica, raggiungono la loro massima diffusione, con una diversificazione qualitativa dei prodotti, raggiungendo anche l’ambito rurale, e si assiste alla moltiplicazione dei centri di produzione. Si arriva così al XV secolo periodo in cui iniziano ad affermarsi dei veri e propri centri produttivi “industriali”, rappresentativi anche di una specializzazione regionale dei prodotti di qualità medio-alta. La possibilità di confrontare materiali di siti così differenti tra loro ha dato modo di sottolineare analogie e differenze anche tra città e campagna, in un territorio come quello romagnolo che ancora risente del peso della lunga tradizione antiquaria che ha caratterizzato gli studi fino al secolo scorso.

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Lo scritto ha l’obiettivo di definire dinamiche e cronologie di quel complesso processo espansionistico che portò Roma alla conquista dei territori dell’Ager Gallicus, partendo dall’analisi dettagliata della cultura materiale e dei rispettivi contesti di provenienza emersi dalle recenti indagini archeologiche realizzate dal Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università degli Studi di Bologna nella città di Senigallia. In armonia con quanto testimoniato dalle sequenze stratigrafiche documentate, si delineano quattro principali fasi di vita dell’abitato: la prima preromana, la seconda riferibile alla prima fase di romanizzazione del sito, la terza inerente allo sviluppo dell’insediamento con la fondazione della colonia romana e l’ultima riferibile all’età repubblicana. Emerge con chiarezza la presenza già dalla fine del IV-inizio III a.C., di un insediamento romano nel territorio della città, sviluppatosi con la fondazione di un’area sacra e la predisposizione di un’area produttiva. La scelta del sito di Sena Gallica fu strategica: un territorio idoneo allo sfruttamento agricolo e utile come testa di ponte per la conquista dei territori del Nord Italia. Inoltre, questo centro aveva già intrecciato rapporti commerciali con gli insediamenti costieri adriatici e mediterranei. La presenza di ceramica di produzione locale, il rinvenimento di elementi distanziatori e le caratteristiche geomorfologiche del sito, fanno ipotizzare la presenza in loco di un’officina ceramica. Ciò risulta di grande importanza dato che tutte le attestazioni ceramiche prodotte localmente e rinvenute nel territorio, fino ad oggi sono attribuite alle officine di Aesis e Ariminum. Dunque Sena Gallica sarebbe stata un centro commerciale e produttivo. La precoce presenza di ceramica a Vernice Nera di tipo romano-laziale prodotte localmente prima dell’istituzione ufficiale della colonia, che permette di ipotizzare uno stanziamento di piccoli gruppi di Romani in territori appena conquistati ma non ancora colonizzati, attestata a Sena Gallica, trova riscontro anche in altri centri adriatici come Ariminum, Aesis, Pisaurum, Suasa e Cattolica.

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Durch den Straßenbau an der Bundesstraße B3a veranlasst, wurden im Zeitraum vom 13.08.2007 bis zum 07.12.2007 archäologische Untersuchungen im Bereich der Streckenkilometer 19 bis 22 durch die Firma Archbau Essen, unter Kontrolle des Landesamtes für Denkmalpflege Hessen und der Kreisarchäologie Wetteraukreis durchgeführt. Bei km 19 wurde dabei eine Siedlung mit angrenzendem Gräberfeld aus der Linienbandkeramik (im Folgenden als LBK bezeichnet) festgestellt. Daneben ergaben sich eine Bestattung und ein Erdwerk der Michelsberger Kultur, Grubenkomplexe und ein Bronzehort aus der Urnenfelderkultur sowie eine mittelalterliche Straße.Heute liegt die Fundstelle Friedberg B3a km 19 in der südlichen Wetterau 30 km nördlich von Frankfurt am Main in Hessen an der Wetter 140 m über NN und gehört zum Wetteraukreis. rnDie 21 ha messende Ausgrabungsfläche umfasste insgesamt 344 Befunde. Die Identifikation der bandkeramischen Strukturen erfolgte hierbei vorwiegend durch die vergesellschaftete Keramik. Von zentraler Bedeutung sind die fünf Hausgrundrisse A bis E im nördlichen Sektor der Fundstelle, wobei die Präsenz zahlreicher „Dreipfostenriegel“ sowie die Nordost-Südwest Ausrichtung der Strukturen als Belege für eine Zeitstellung innerhalb der LBK angesehen werden. Über die Korrespondenzanalyse der bei den Siedlungsstrukturen angetroffenen Keramik konnte darüber hinaus eine Abfolge von Hausgenerationen erstellt werden. Daneben existierten eine Reihe weiterer Befunde von LBK-zeitlichen Pfostenstellungen, bei denen es sich um Zäune oder Palisaden gehandelt haben könnte. Südwestlich dieser Hausgrundrisse wurde bei den Ausgrabungen eine Grabenstruktur geschnitten, für die eine Funktion als Einfassung der bandkeramischen Siedlungsstrukturen möglich ist. Südlich dieser Grabenstruktur konnten sechs Hockerbestattungen der LBK festgestellt werden. Die räumliche Anordnung im Bereich der westlichen Grabungsgrenze lässt den Schluss zu, dass es sich hierbei um ein Gräberfeld handelt, welches bisher nur zu einem geringen Teil ergraben wurde. Ein Zusammenhang zu den Hausgrundrissen A bis E kann erwogen werden. Der nördliche Sektor der Fundstelle umfasste außerdem zahlreiche Grubenbefunde der LBK sowie einige Grubenkomplexe, wobei letztere als Lehmentnahmegruben anzusprechen sind. Abschließend soll hier noch auf die Existenz zweier bandkeramischer Öfen, darunter ein Grubenofen, im Südosten von Friedberg B3a km 19 hingewiesen werden. rnDen mit Abstand größten Anteil am bandkeramischen Fundmaterial aus Friedberg B3 km 19 hatte die Keramik mit 3428 Elementen. An Steingeräten konnten nur 12 Silices sowie 4 Beile und 14 Mahlsteine über die Typologie und die vergesellschaftete Keramik in die LBK eingeordnet werden. Bei den Knochengeräten zeigte sich ein einzelner beschädigter Kamm. Der Fokus der Analysen des bandkeramischen Fundmaterials aus Friedberg B3a km 19 lag auf der Keramik und deren Auswertung innerhalb von Seriation und Korrespondenzanalyse. Um den Untersuchungen mehr Validität zu verleihen und eine optimale Einordnung zu erreichen, wurden die Keramik-Daten aus Friedberg B3a km 19 mit anderen Datensätzen aus Südhessen kombiniert. Dabei war nicht nur die räumliche Nähe der Fundstellen entscheidend, sondern auch die stilistisch-typologische Nähe der Inventare. In Friedberg B3a km 19 waren die Phasen nach Meier-Arendt von einem frühen III bis zum Ende der Phase V anwesend. Phase II kann nur als marginal angesprochen werden. Es ließ sich kein Übergang zum Mittelneolithikum fassen. Nach der Interpretation aller relativchronologischer Daten könnte es sich in Friedberg B3a km 19 um eine Hausentwicklung mit sieben Phasen à 25 Jahren über 175 bis zu 200 Jahren handeln, die eine kontinuierliche Belegung des Platzes von der mittleren bis zum Ende der jüngsten LBK beschreibt. Insgesamt pflegt sich die Fundstelle Friedberg B3a km 19 so in die bandkeramische Siedlungslandschaft der südlichen Wetterau ein.

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This in vitro study evaluated the performance of three ceramic and two commonly used polishing methods on two CAD/CAM ceramics. Surface roughness and quality were compared. A glazed group (GLGR) of each ceramic material served as reference. One-hundred and twenty specimens of VITABLOCS Mark II (VITA) and 120 specimens of IPS Empress CAD (IPS) were roughened in a standardized manner. Twenty VITA and 20 IPS specimens were glazed (VITA Akzent Glaze/Empress Universal Glaze). Five polishing methods were investigated (n=20/group): 1) EVE Diacera W11DC-Set (EVE), 2) JOTA 9812-Set (JOTA), 3) OptraFine-System (OFI), 4) Sof-Lex 2382 discs (SOF) and 5) Brownie/Greenie/Occlubrush (BGO). Polishing quality was measured with a surface roughness meter (Ra and Rz values). The significance level was set at alpha=0.05. Kruskal Wallis tests and pairwise Wilcoxon rank sum tests with Bonferroni-Holm adjustment were used. Qualitative surface evaluation of representative specimens was done with SEM. On VITA ceramics, SOF produced lower Ra (p<0.00001) but higher Rz values than GLGR (p=0.003); EVE, JOTA, OFI and BGO yielded significantly higher Ra and Rz values than GLGR. On IPS ceramics, SOF and JOTA exhibited lower Ra values than GLGR (p<0.0001). Equivalent Ra but significantly higher Rz values occurred between GLGR and EVE, OFI or BGO. VITA and IPS exhibited the smoothest surfaces when polished with SOF. Nevertheless, ceramic polishing systems are still of interest to clinicians using CAD/CAM, as these methods are universally applicable and showed an increased durability compared to the investigated silicon polishers.

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In this work, will be discussed to analyze the armed conflict in Cote d'Ivoire has experienced over the years 2010-2012 under the intervention of the International Criminal Court. We have to give more details on these issues and meet certain circumstances that glazed the conflict.

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PURPOSE: To provide an overview on diagnosis, risk factors and prevention of erosive tooth wear, which is becoming an increasingly important factor when considering the long- term health of the dentition. RESULTS: Awareness of dental erosion by the public is still not widespread due to the cryptic nature of this slowly progressing condition. Smooth silky-glazed appearance with the absence of perikymata and intact enamel along the gingival margin, with cupping and grooving on occlusal surfaces are some typical signs of enamel erosion. In later stages, it is sometimes difficult to distinguish between the influences of erosion, attrition or abrasion during a clinical examination. Biological, behavioral and chemical factors all come into play, which over time, may either wear away the tooth surface, or potentially protect it. In order to assess the risk factors, patient should record their dietary intake for a distinct period of time. Based on these analyses, an individually tailored preventive program may be suggested to patients. It may comprise dietary advice, optimization of fluoride regimes, stimulation of salivary flow rate, use of buffering medicaments and particular motivation for non-destructive tooth brushing habits. The frequent use of fluoride gel and fluoride mouthrinse in addition to fluoride toothpaste offers the opportunity to minimize abrasion of tooth substance.

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STATEMENT OF PROBLEM: Long-term fluoride application on the teeth of patients receiving radiation therapy for head and neck tumors results in excessive staining and roughening of ceramic restorations. PURPOSE: The purpose of this in vitro study was to compare the staining effects of 2 fluoride treatments on ceramic disks by simulating 1 year of clinical exposure at 10 minutes per day. In addition, 2 different surface preparations were tested. MATERIAL AND METHODS: Eighty ceramic disks (IPS Empress), 20 x 2 mm, were fabricated. Half of the disks were glazed, and the remaining disks were polished. All disks were brushed for 3 minutes with a soft-bristle power toothbrush and mild dentifrice (baseline) and were immersed in 1 of the 2 fluoride products (0.4% SnF(2), Gel-Kam Gel, or 1.1% NaF, Prevident 5000) for 10 days (n=20). Means and standard deviations of color change (Delta E), surface roughness (Ra, um), and surface gloss (GU) of the ceramic material were measured with a reflection spectrophotometer, a profilometer, and a gloss meter, respectively, at baseline and after fluoride treatment. Two- and 3-way ANOVA (alpha=.05), with surface preparation (polished vs. glazed) and fluoride treatment (0.4% SnF(2) or 1.1% NaF) as independent variables and condition (baseline vs. after fluoride treatment) as a repeated measure, was used to analyze the data. Fisher's PLSD intervals (alpha=.05) were calculated for comparisons among the means. RESULTS: The polished specimens had significantly higher Delta E values, significantly higher surface gloss values, and significantly lower surface roughness values than the glazed specimens before fluoride treatment (P<.001). After both fluoride treatments, ceramic disks exhibited significantly higher surface roughness values when polished and significantly lower surface gloss values when glazed or polished (P<.001). The glazed specimens presented significantly higher surface roughness (P<.001) and lower surface gloss values (P<.001) when treated with 0.4% SnF(2) as compared to NaF. For the polished specimens, there was no significant difference in surface roughness and surface gloss values between the 2 fluoride treatments. CONCLUSIONS: Use of 0.4% SnF(2) and 1.1% NaF gels, in vitro, caused significant color change in the polished IPS Empress ceramic disks. Polishing of the ceramic surface before immersion in either fluoride agent caused the ceramic tested to be more resistant to etching by the 2 solutions tested. The NaF caused less deterioration of the porcelain surface and was less stain inducing than SnF(2).

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The site of Bakr Awa is situated in north-eastern Iraq, in the Plain of Shahrizor. Excavations were undertaken in 1960/61by the Iraqi Department of Antiquities and 2010/11 by the University of Heidelberg/Germany. Occupation layers from the beginning of the Early Bronze Age tothe Ottoman period were uncoveredin the lower city and on the citadel. Archaeological evidence from the secondmillennium B.C. shows the most intensive settlement activities and apparent prosperity at Bakr Awa. Several forms of pottery, small finds and architecture reflect dynamic processes of cultural and political transformation at this site located in an area of transition between northern and southern Mesopotamia and western Iran.

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Preliminary archaeological and palynological results are presented from an early Byzantine cistern of the village Horvat Kur in eastern Lower Galilee/Israel. The rural site was settled from the Hellenistic until the Early Arab period, its synagogue was constructed shortly after 425 AD and renovated sometimes during the 2nd half of the 6th century AD. It was abandoned probably as a consequence of the earthquake of 749 AD. The intact and properly sealed cistern contained complete or fully restorable pottery. Two cooking pots from the early 5th century AD comprised sediments which was sampled for palynological purposes. Both samples, as well as a sample from the soil beneath one of the pots and a modern surface sample from the site, revealed well preserved palynomorphs in comparably high concentration showing a great potential of the cistern as a pollen archive. The pollen content points to an open, grassy semiarid landscape with an apparent scarcity of cultivars and trees in the vicinity of the site and an abundance of herbs, especially Asteraceae, which are still commonly found in modern regional vegetation.

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1944/1945 wurde in Cham-Hagendorn eine Wassermühle ausgegraben, die dank ihrer aussergewöhnlich guten Holzerhaltung seit langem einen prominenten Platz in der Forschung einnimmt. 2003 und 2004 konnte die Kantonsarchäologie Zug den Platz erneut archäologisch untersuchen. Dabei wurden nicht nur weitere Reste der Wassermühle, sondern auch Spuren älterer und jüngerer Anlagen geborgen: eine ältere und eine jüngere Schmiedewerkstatt (Horizont 1a/Horizont 3) sowie ein zweiphasiges Heiligtum (Horizonte 1a/1b). All diese Anlagen lassen sich nun in das in den neuen Grabungen erkannte stratigraphische Gerüst einhängen (s. Beil. 2). Dank der Holzerhaltung können die meisten Phasen dendrochronologisch datiert werden (s. Abb. 4.1/1a): Horizont 1a mit Schlagdaten zwischen 162(?)/173 und 200 n. Chr., Horizont 1b um 215/218 n. Chr. und Horizont 2 um 231 n. Chr. Ferner konnten in den neuen Grabungen Proben für mikromorphologische und archäobotanische Untersuchungen entnommen werden (Kap. 2.2; 3.11). In der vorliegenden Publikation werden der Befund und die Baustrukturen vorgelegt, (Kap. 2), desgleichen sämtliche stratifizierten Funde und eine umfassende Auswahl der 1944/1945 geborgenen Funde (Kap. 3). Dank anpassender Fragmente, sog. Passscherben, lassen sich diese zum Teil nachträglich in die Schichtenabfolge einbinden. Die mikromorphologischen und die archäobotanischen Untersuchungen (Kap. 2.2; 3.11) zeigen, dass der Fundplatz in römischer Zeit inmitten einer stark vom Wald und dem Fluss Lorze geprägten Landschaft lag. In unmittelbarer Nähe können weder eine Siedlung noch einzelne Wohnbauten gelegen haben. Die demnach nur gewerblich und sakral genutzten Anlagen standen an einem Bach, der vermutlich mit jenem Bach identisch ist, der noch heute das Groppenmoos entwässert und bei Cham-Hagendorn in die Lorze mündet (s. Abb. 2.4/1). Der antike Bach führte wiederholt Hochwasser ─ insgesamt sind fünf grössere Überschwemmungsphasen auszumachen (Kap. 2.2; 2.4). Wohl anlässlich eines Seehochstandes durch ein Überschwappen der Lorze in den Bach ausgelöst, müssen diese Überschwemmungen eine enorme Gewalt entwickelt haben, der die einzelnen Anlagen zum Opfer fielen. Wie die Untersuchung der Siedlungslandschaft römischer Zeit rund um den Zugersee wahrscheinlich macht (Kap. 6 mit Abb. 6.2/2), dürften die Anlagen von Cham-Hagendorn zu einer in Cham-Heiligkreuz vermuteten Villa gehören, einem von fünf grösseren Landgütern in diesem Gebiet. Hinweise auf Vorgängeranlagen fehlen, mit denen die vereinzelten Funde des 1. Jh. n. Chr. (Kap. 4.5) in Verbindung gebracht werden könnten. Diese dürften eher von einer der Überschwemmungen bachaufwärts weggerissen und nach Cham-Hagendorn eingeschwemmt worden sein. Die Nutzung des Fundplatzes (Horizont 1a; s. Beil. 6) setzte um 170 n. Chr. mit einer Schmiedewerkstatt ein (Kap. 2.5.1). Der Fundanfall, insbesondere die Schmiedeschlacken (Kap. 3.9) belegen, dass hier nur hin und wieder Geräte hergestellt und repariert wurden (Kap. 5.2). Diese Werkstatt war vermutlich schon aufgelassen und dem Verfall preisgegeben, als man 200 n. Chr. (Kap. 4.2.4) auf einer Insel zwischen dem Bach und einem Lorzearm ein Heiligtum errichtete (Kap. 5.3). Beleg für den sakralen Status dieser Insel ist in erster Linie mindestens ein eigens gepflanzter Pfirsichbaum, nachgewiesen mit Pollen, einem Holz und über 400 Pfirsichsteinen (Kap. 3.11). Die im Bach verlaufende Grenze zwischen dem sakralen Platz und der profanen Umgebung markierte man zusätzlich mit einer Pfahlreihe (Kap. 2.5.3). In diese war ein schmaler Langbau integriert (Kap. 2.5.2), der an die oft an Temenosmauern antiker Heiligtümer angebauten Portiken erinnert und wohl auch die gleiche Funktion wie diese gehabt hatte, nämlich das Aufbewahren von Weihegaben und Kultgerät (Kap. 5.3). Das reiche Fundmaterial, das sich in den Schichten der ersten Überschwemmung fand (s. Abb. 5./5), die um 205/210 n. Chr. dieses Heiligtum zerstört hatte, insbesondere die zahlreiche Keramik (Kap. 3.2.4), und die zum Teil auffallend wertvollen Kleinfunde (Kap. 3.3.3), dürften zum grössten Teil einst in diesem Langbau untergebracht gewesen sein. Ein als Glockenklöppel interpretiertes, stratifiziertes Objekt spricht dafür, dass die fünf grossen, 1944/1945 als Stapel aufgefundenen Eisenglocken vielleicht auch dem Heiligtum zuzuweisen sind (Kap. 3.4). In diesen Kontext passen zudem die überdurchschnittlich häufig kalzinierten Tierknochen (Kap. 3.10). Nach der Überschwemmung befestigte man für 215 n. Chr. (Kap. 4.2.4) das unterspülte Bachufer mit einer Uferverbauung (Kap. 2.6.1). Mit dem Bau eines weiteren, im Bach stehenden Langbaus (Kap. 2.6.2) stellte man 218 n. Chr. das Heiligtum auf der Insel in ähnlicher Form wieder her (Horizont 1b; s. Beil. 7). Von der Pfahlreihe, die wiederum die sakrale Insel von der profanen Umgebung abgrenzte, blieben indes nur wenige Pfähle erhalten. Dennoch ist der sakrale Charakter der Anlage gesichert. Ausser dem immer noch blühenden Pfirsichbaum ist es ein vor dem Langbau aufgestelltes Ensemble von mindestens 23 Terrakottafigurinen (s. Abb. 3.6/1), elf Veneres, zehn Matres, einem Jugendlichen in Kapuzenmantel und einem kindlichen Risus (Kap. 3.6; s. auch Kap. 2.6.3). In den Sedimenten der zweiten Überschwemmung, der diese Anlage um 225/230 n. Chr. zum Opfer gefallen war, fanden sich wiederum zahlreiche Keramikgefässe (Kap. 3.2.4) und zum Teil wertvolle Kleinfunde wie eine Glasperle mit Goldfolie (Kap. 3.8.2) und eine Fibel aus Silber (Kap. 3.3.3), die wohl ursprünglich im Langbau untergebracht waren (Kap. 5.3.2 mit Abb. 5/7). Weitere Funde mit sicherem oder möglichem sakralem Charakter finden sich unter den 1944/1945 geborgenen Funden (s. Abb. 5/8), etwa ein silberner Fingerring mit Merkurinschrift, ein silberner Lunula-Anhänger, eine silberne Kasserolle (Kap. 3.3.3), eine Glasflasche mit Schlangenfadenauflage (Kap. 3.8.2) und einige Bergkristalle (Kap. 3.8.4). Im Bereich der Terrakotten kamen ferner mehrere Münzen (Kap. 3.7) zum Vorschein, die vielleicht dort niedergelegt worden waren. Nach der zweiten Überschwemmung errichtete man um 231 n. Chr. am Bach eine Wassermühle (Horizont 2; Kap. 2.7; Beil. 8; Abb. 2.7/49). Ob das Heiligtum auf der Insel wieder aufgebaut oder aufgelassen wurde, muss mangels Hinweisen offen bleiben. Für den abgehobenen Zuflusskanal der Wassermühle verwendete man mehrere stehen gebliebene Pfähle der vorangegangenen Anlagen der Horizonte 1a und 1b. Obwohl die Wassermühle den 28 jährlichen Überschwemmungshorizonten (Kap. 2.2) und den Funden (Kap. 4.3.2; 4.4.4; 45) zufolge nur bis um 260 n. Chr., während gut einer Generation, bestand, musste sie mindestens zweimal erneuert werden – nachgewiesen sind drei Wasserräder, drei Mühlsteinpaare und vermutlich drei Podeste, auf denen jeweils das Mahlwerk ruhte. Grund für diese Umbauten war wohl der weiche, instabile Untergrund, der zu Verschiebungen geführt hatte, so dass das Zusammenspiel von Wellbaum bzw. Sternnabe und Übersetzungsrad nicht mehr funktionierte und das ganze System zerbrach. Die Analyse von Pollen aus dem Gehhorizont hat als Mahlgut Getreide vom Weizentyp nachgewiesen (Kap. 3.11.4). Das Abzeichen eines Benefiziariers (Kap. 3.3.2 mit Abb. 3.3/23,B71) könnte dafür sprechen, dass das verarbeitete Getreide zumindest zum Teil für das römische Militär bestimmt war (s. auch Kap. 6.2.3). Ein im Horizont 2 gefundener Schreibgriffel und weitere stili sowie eine Waage für das Wägen bis zu 35-40 kg schweren Waren aus dem Fundbestand von 1944/1945 könnten davon zeugen, dass das Getreide zu wägen und zu registrieren war (Kap. 3.4.2). Kurz nach 260 n. Chr. fiel die Wassermühle einem weiteren Hochwasser zum Opfer. Für den folgenden Horizont 3 (Beil. 9) brachte man einen Kiesboden ein und errichtete ein kleines Gebäude (Kap. 2.8). Hier war wohl wiederum eine Schmiede untergebracht, wie die zahlreichen Kalottenschlacken belegen (Kap. 3.9), die im Umfeld der kleinen Baus zum Vorschein kamen. Aufgrund der Funde (Kap. 4.4.4; 4.5) kann diese Werkstatt nur kurze Zeit bestanden haben, höchstens bis um 270 n. Chr., bevor sie einem weiteren Hochwasser zum Opfer fiel. Von der jüngsten Anlage, die wohl noch in römische Zeit datiert (Horizont 4; Beil. 10), war lediglich eine Konstruktion aus grossen Steinplatten zu fassen (Kap. 2.9.1). Wozu sie diente, muss offen bleiben. Auch der geringe Fundanfall spricht dafür, dass die Nutzung des Platzes, zumindest für die römische Zeit, allmählich ein Ende fand (Kap. 4.5). Zu den jüngsten Strukturen gehören mehrere Gruben (Kap. 2.9.2), die vielleicht der Lehmentnahme dienten. Mangels Funden bleibt ihre Datierung indes ungewiss. Insbesondere wissen wir nicht, ob sie noch in römische Zeit datieren oder jünger sind. Spätestens mit der fünften Überschwemmung, die zur endgültigen Verlandung führte und wohl schon in die frühe Neuzeit zu setzen ist, wurde der Platz aufgelassen und erst mit dem Bau der bestehenden Fensterfabrik Baumgartner wieder besetzt.