315 resultados para ECKLONIA-CAVA


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Lo studio effettuato verte sulla ricerca delle cave storiche di pietra da taglio in provincia di Bologna, facendo partire la ricerca al 1870 circa, data in cui si hanno le prime notizie cartacee di cave bolognesi. Nella ricerca si è potuto contare sull’aiuto dei Dott. Stefano Segadelli e Maria Tersa De Nardo, geologi della regione Emilia-Romagna, che hanno messo a disposizione la propria conoscenza e le pubblicazioni della regione a questo scopo. Si è scoperto quindi che non esiste in bibliografia la localizzazione di tali cave e si è cercato tramite l’utilizzo del software ArcGIS , di georeferenziarle, correlandole di informazioni raccolte durante la ricerca. A Bologna al momento attuale non esistono cave di pietra da taglio attive, così tutte le fonti che si sono incontrate hanno fornito dati parziali, che uniti hanno permesso di ottenere una panoramica soddisfacente della situazione a inizio secolo scorso. Le fonti studiate sono state, in breve: il catasto cave della regione Emilia-Romagna, gli shape preesistenti della localizzazione delle cave, le pubblicazioni “Uso del Suolo”, oltre ai dati forniti dai vari Uffici Tecnici dei comuni nei quali erano attive le cave. I litotipi cavati in provincia sono quattro: arenaria, calcare, gesso e ofiolite. Per l’ofiolite si tratta di coltivazioni sporadiche e difficilmente ripetibili dato il rischio che può esserci di incontrare l’amianto in queste formazioni; è quindi probabile che non verranno più aperte. Il gesso era una grande risorsa a fine ‘800, con molte cave aperte nella Vena del Gesso. Questa zona è diventata il Parco dei Gessi Bolognesi, lasciando alla cava di Borgo Rivola il compito di provvedere al fabbisogno regionale. Il calcare viene per lo più usato come inerte, ma non mancano esempi di formazioni adatte a essere usate come blocchi. La vera protagonista del panorama bolognese rimane l’arenaria, che venne usata da sempre per costruire paesi e città in provincia. Le cave, molte e di ridotte dimensioni, sono molto spesso difficili da trovare a causa della conseguente rinaturalizzazione. Ci sono possibilità però di vedere riaprire cave di questo materiale a Monte Finocchia, tramite la messa in sicurezza di una frana, e forse anche tramite la volontà di sindaci di comunità montane, sensibili a questo argomento. Per avere una descrizione “viva” della situazione attuale, sono stati intervistati il Dott. Maurizio Aiuola, geologo della Provincia di Bologna, e il Geom. Massimo Romagnoli della Regione Emilia-Romagna, che hanno fornito una panoramica esauriente dei problemi che hanno portato ad avere in regione dei poli unici estrattivi anziché più cave di modeste dimensioni, e delle possibilità future. Le grandi cave sono, da parte della regione, più facilmente controllabili, essendo poche, e più facilmente ripristinabili data la disponibilità economica di chi la gestisce. Uno dei problemi emersi che contrastano l’apertura di aree estrattive minori, inoltre, è la spietata concorrenza dei materiali esteri, che costano, a parità di qualità, circa la metà del materiale italiano. Un esempio di ciò lo si è potuto esaminare nel comune di Sestola (MO), dove, grazie all’aiuto e alle spiegazioni del Geom. Edo Giacomelli si è documentato come il granito e la pietra di Luserna esteri utilizzati rispondano ai requisiti di resistenza e non gelività che un paese sottoposto ai rigori dell’inverno richiede ai lapidei, al contrario di alcune arenarie già in opera provenienti dal comune di Bagno di Romagna. Alla luce di questo esempio si è proceduto a calcolare brevemente l’ LCA di questo commercio, utilizzando con l’aiuto dell’ Ing. Cristian Chiavetta il software SimaPRO, in cui si è ipotizzato il trasporto di 1000 m3 di arenaria da Shanghai (Cina) a Bologna e da Karachi (Pakistan) a Bologna, comparandolo con le emissioni che possono esserci nel trasporto della stessa quantità di materiale dal comune di Monghidoro (BO) al centro di Bologna. Come previsto, il trasporto da paesi lontani comporta un impatto ambientale quasi non comparabile con quello locale, in termini di consumo di risorse organiche e inorganiche e la conseguente emissione di gas serra. Si è ipotizzato allora una riapertura di cave locali a fini non edilizi ma di restauro; esistono infatti molti edifici e monumenti vincolati in provincia, e quando questi devono essere restaurati, dove si sceglie di cavare il materiale necessario e rispondente a quello già in opera? Al riguardo, si è passati attraverso altre due interviste ai Professori Francesco Eleuteri, architetto presso la Soprintendenza dei Beni Culturali a Bologna e Gian Carlo Grillini, geologo-petrografo e esperto di restauro. Ciò che è emerso è che effettivamente non esiste attualmente una panoramica soddisfacente di quello che è il patrimonio lapideo della provincia, mancando, oltre alla georeferenziazione, una caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica adeguata a poter descrivere ciò che veniva anticamente cavato; l’ipotesi di riapertura a fini restaurativi potrebbe esserci, ma non sembra essere la maggiore necessità attualmente, in quanto il restauro viene per lo più fatto senza sostituzioni o integrazioni, tranne rari casi; è pur sempre utile avere una carta alla mano che possa correlare l’edificio storico con la zona di estrazione del materiale, quindi entrambi i professori hanno auspicato una prosecuzione della ricerca. Si può concludere dicendo che la ricerca può proseguire con una migliore e più efficace localizzazione delle cave sul terreno, usando anche come fonte il sapere della popolazione locale, e di procedere con una parte pratica che riguardi la caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica. L’utilità di questi dati può esserci nel momento in cui si facciano ricerche storiche sui beni artistici presenti a Bologna, e qualora si ipotizzi una riapertura di una zona estrattiva.

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L'approvvigionamento di risorse minerali e la tutela dell'ambiente sono spesso considerate attività contrapposte ed inconciliabili, ma in realtà rappresentano due necessità imprescindibili per le società moderne. Le georisorse, in quanto non rinnovabili, devono essere valorizzate in maniera efficiente, adoperando strumenti che garantiscano la sostenibilità ambientale, sociale ed economica degli interventi estrattivi. La necessità di tutelare il territorio e migliorare la qualità della vita delle comunità locali impone alla Pubblica Amministrazione di implementare misure per la riqualificazione di aree degradate, ma fino ai primi anni '90 la normativa di settore non prevedeva strumenti a tal proposito, e ciò ha portato alla proliferazione di siti estrattivi dismessi e abbandonati senza interventi di recupero ambientale. Il presente lavoro di ricerca fornisce contributi innovativi alla pianificazione e progettazione sostenibile delle attività estrattive, attraverso l'adozione di un approccio multidisciplinare alla trattazione del tema e l'utilizzo esperto dei Sistemi Informativi Geografici, in particolare GRASS GIS. A seguito di una approfondita analisi in merito agli strumenti e le procedure adottate nella pianificazione delle Attività Estrattive in Italia, sono stati sviluppati un metodo di indagine ed un sistema esperto per la previsione ed il controllo delle vibrazioni indotte nel terreno da volate in cava a cielo aperto, che consentono di ottimizzare la progettazione della volata e del sistema di monitoraggio delle vibrazioni grazie a specifici strumenti operativi implementati in GRASS GIS. A supporto di una più efficace programmazione di interventi di riqualificazione territoriale, è stata messa a punto una procedura per la selezione di siti dismessi e di potenziali interventi di riqualificazione, che ottimizza le attività di pianificazione individuando interventi caratterizzati da elevata sostenibilità ambientale, economica e sociale. I risultati ottenuti dimostrano la necessità di un approccio esperto alla pianificazione ed alla progettazione delle attività estrattive, incrementandone la sostenibilità attraverso l'adozione di strumenti operativi più efficienti.

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Tutte le attività che utilizzano acqua nel ciclo produttivo, inevitabilmente la sporcano, l'acqua che si prende pulita deve essere restituire "pulita". Basta pensare agli scarichi fognari: ognuno di noi prende a casa propria acqua pulita dall'acquedotto e la restituisce alla rete fognaria sporca. Pensiamo allo scarico della lavastoviglie, della lavatrice, della doccia e via di seguito. Gli impianti di depurazione sono quegli impianti che hanno il compito di depurare l'acqua, sia per il rispetto dei corpi ricettori allo scarico, sia per il possibile riutilizzo. Naturalmente le normative regolano la qualità dell'acqua e gli enti di controllo vigilano sul rispetto delle leggi. Ovviamente ogni carico inquinante insieme ai volumi giornalieri e agli spazi a disposizione, impone una scelta tecnica diversa per la depurazione. In un impianto di trattamento inerti, materiale di cava a basso valore di mercato, è importante riutilizzare ogni prodotto ricavato dal processo. Di seguito viene considerato il caso specifico dei limi di lavaggio inerti: “patata bollente” per tutte le aziende e soggetto di numerose discussioni in quanto è un argomento complesso da più punti di vista. Il materiale in esame, denominato “limo da lavaggio inerti”, rappresenta lo scarto della lavorazione degli inerti stessi provenienti dalle cave di ghiaia e sabbia in un impianto di produzione di inerti. Questi impianti eseguono sui materiali di cava le operazioni di macinazione, vagliatura, classificazione, slimatura e recupero dei fini. Dunque l’acqua, che proviene dai processi di macinazione, vagliatura e lavaggio del materiale, trascina con sé impurità di origine organica e argillosa, ma soprattutto finissimi in sospensione: i limi. Essi generano un inquinamento dell’acqua il cui aspetto visibile (la colorazione dell’acqua) è il meno pericoloso, infatti suddette sospensioni, dopo lo scarico delle torbide in fiumi, laghi o mare, generano depositi sulle rive che possono causare deviazioni del corso stesso nel caso dei corsi d’acqua; o ancor più grave la impermeabilizzazione dei terreni attraversati con le relative conseguenze in campo agricolo, e ancora il mancato approvvigionamento delle falde acquifere per l’impossibilità da parte dell’acqua superficiale di penetrare nel terreno. Essa dunque, necessita di trattamenti specifici per separare questi solidi in sospensione e consentirne il suo reimpiego nell’impianto stesso almeno in buona percentuale e di conseguenza la diminuzione di nuova acqua fresca necessaria. Per fortuna l’inquinamento è solo “fisico” e molto si può fare per ridurlo, esistono infatti macchinari specifici per eliminare dall’acqua gli elementi inquinanti e restituirla (quasi) limpida.

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Coltivazione di pietre ornamentali: ottimizzazione dei parametri di progetto sulla base di indagini in situ

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La ricerca, presentata in questa tesi di laurea, si pone quale obiettivo, quello di studiare le possibilità di impiego di materiali provenienti da attività da C&D, in sostituzione degli inerti vergini di cava, nella confezione dei misti cementati per strati di base e fondazioni stradali. Lo studio è stato condotto per conto della CEA (Cooperativa Edile Appennino S.c.a.r.l.) la quale ha fornito il materiale riciclato in due diverse curve granulometriche 0/20 e 0/30. Tutte le prove sono state eseguite presso il Laboratorio di Strade della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Bologna.

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La ricerca riguarda lo studio del cantiere edilizio protobizantino, con particolare riferimento al ciclo della lavorazione del marmo. Quest’ultimo viene analizzato sotto il profilo amministrativo, tecnico, sociale ed artigianale. L’elemento guida della ricerca sono i marchi dei marmorari, sigle apposte da funzionari e maestranze durante il processo produttivo. Dapprima, fonti letterarie ed epigrafiche, tra cui le sigle di cava e officina su marmo, vengono esaminate per ricostruire il sistema alto-imperiale di amministrazione delle cave e di gestione dei flussi marmorei, nonché l’iter tecnico-artigianale adottato per la produzione dei manufatti. Il confronto con i dati disponibili per la tarda antichità, con particolare riferimento alle cave di Proconneso, evidenzia una sostanziale continuità della prassi burocratico-amministrativa, mentre alcuni cambiamenti si riscontrano nell’ambito produttivo-artigianale. Il funzionamento degli atelier marmorari viene approfondito attraverso lo studio dei marchi dei marmorari. Si tratta di caratteri greci singoli, multipli o monogrammi. Una ricognizione sistematica delle sigle dalla pars Orientalis dell’impero, reperite in bibliografia o da ricognizioni autoptiche, ha portato alla raccolta di circa 2360 attestazioni. Per esse si propone una classificazione tipologica tra sigle di cava, stoccaggio, officina. Tra le sigle di cava si annoverano sigle di controllo, destinazione/committenza, assemblaggio/posizionamento. Una particolare attenzione è riservata alle sigle di officina, riferibili ad un nome proprio di persona, ovvero al πρωτομαΐστωρ, il capo-bottega che supervisionava il lavoro dei propri artigiani e fungeva da garante del prodotto consegnato alla committenza. Attraverso lo studio comparato delle sigle reperite a Costantinopoli e in altri contesti si mette in luce la prassi operativa adottata dagli atelier nei processi di manifattura, affrontando anche il problema delle maestranze itineranti. Infine, sono analizzate fonti scritte di varia natura per poter collocare il fenomeno del marmo in un contesto socio-economico più ampio, con particolare riferimento alle figure professionali ed artigianali coinvolte nei cantieri e al problema della committenza.

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Il volume raccoglie al suo interno il risultato complessivo della progettazione di uno stadio per la città di Bogotà, e più specificatamente per la localidad di Usme. Il progetto rappresenta la sintesi architettonica del processo conoscitivo del luogo, rielaborato in maniera da offrire una soluzione coerente a problematiche di tipo urbano, sociale e archiettonico. L'intervento si configura come una riqualificazione ambientale e territoriale dell'area delle cave di Usme, nel tentativo di fornire alla città uno spazio sportivo e al contempo sociale, che comprenda al suo interno una struttura di servizi attualmente insufficienti nella zona, con l'obbiettivo di valorizzare il sito di progetto in maniera da sfruttarne tutte le potenzialità. La riqualificazione verrà operata ricercando il collegamento della cava alle zone adiacenti e attraverso l'inserimento dello stadio che andrà a costituire un polo attrattivo non soltanto per la localidad di Usme ma per l'intera Bogotà.

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Deep vein thrombosis (DVT) and its complication, pulmonary embolism, are frequent causes of disability and mortality. Although blood flow disturbance is considered an important triggering factor, the mechanism of DVT initiation remains elusive. Here we show that 48-hour flow restriction in the inferior vena cava (IVC) results in the development of thrombi structurally similar to human deep vein thrombi. von Willebrand factor (VWF)-deficient mice were protected from thrombosis induced by complete (stasis) or partial (stenosis) flow restriction in the IVC. Mice with half normal VWF levels were also protected in the stenosis model. Besides promoting platelet adhesion, VWF carries Factor VIII. Repeated infusions of recombinant Factor VIII did not rescue thrombosis in VWF(-/-) mice, indicating that impaired coagulation was not the primary reason for the absence of DVT in VWF(-/-) mice. Infusion of GPG-290, a mutant glycoprotein Ib?-immunoglobulin chimera that specifically inhibits interaction of the VWF A1 domain with platelets, prevented thrombosis in wild-type mice. Intravital microscopy showed that platelet and leukocyte recruitment in the early stages of DVT was dramatically higher in wild-type than in VWF(-/-) IVC. Our results demonstrate a pathogenetic role for VWF-platelet interaction in flow disturbance-induced venous thrombosis.

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Insufficient cardiac preload and impaired contractility are frequent in early sepsis. We explored the effects of acute cardiac preload reduction and dobutamine on hepatic arterial (Qha) and portal venous (Qpv) blood flows during endotoxin infusion. We hypothesized that the hepatic arterial buffer response (HABR) is absent during preload reduction and reduced by dobutamine. In anesthetized pigs, endotoxin or vehicle (n = 12, each) was randomly infused for 18 h. HABR was tested sequentially by constricting superior mesenteric artery (SMA) or inferior vena cava (IVC). Afterward, dobutamine at 2.5, 5.0, and 10.0 μg/kg per minute or another vehicle (n = 6, each) was randomly administered in endotoxemic and control animals, and SMA was constricted during each dose. Systemic (cardiac output, thermodilution) and carotid, splanchnic, and renal blood flows (ultrasound Doppler) and blood pressures were measured before and during administration of each dobutamine dose. HABR was expressed as hepatic arterial pressure/flow ratio. Compared with controls, 18 h of endotoxin infusion was associated with decreased mean arterial blood pressure [49 ± 11 mmHg vs. 58 ± 8 mmHg (mean ± SD); P = 0.034], decreased renal blood flow, metabolic acidosis, and impaired HABR during SMA constriction [0.32 (0.18-1.32) mmHg/ml vs. 0.22 (0.08-0.60) mmHg/ml; P = 0.043]. IVC constriction resulted in decreased Qpv in both groups; whereas Qha remained unchanged in controls, it decreased after 18 h of endotoxemia (P = 0.031; constriction-time-group interaction). One control and four endotoxemic animals died during the subsequent 6 h. The maximal increase of cardiac output during dobutamine infusion was 47% (22-134%) in controls vs. 53% (37-85%) in endotoxemic animals. The maximal Qpv increase was significant only in controls [24% (12-47%) of baseline (P = 0.043) vs. 17% (-7-32%) in endotoxemia (P = 0.109)]. Dobutamine influenced neither Qha nor HABR. Our data suggest that acute cardiac preload reduction is associated with preferential hepatic arterial perfusion initially but not after established endotoxemia. Dobutamine had no effect on the HABR.

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OBJECTIVE: Autopsy determination of fatal hemorrhage as the cause of death is often a difficult diagnosis in forensic medicine. No quantitative system for accurately measuring the blood volume in a corpse has been developed. MATERIALS AND METHODS: This article describes the measurement and evaluation of the cross-sectional areas of major blood vessels, of the diameter of the right pulmonary artery, of the volumes of thoracic aorta and spleen on MDCT, and of the volumes of heart chambers on MRI in 65 autopsy-verified cases of fatal hemorrhage or no fatal hemorrhage. RESULTS: Most cases with a cause of death of "fatal hemorrhage" had collapsed vessels. The finding of a collapsed superior vena cava, main pulmonary artery, or right pulmonary artery was 100% specific for fatal hemorrhage. The mean volumes of the thoracic aorta and of each of the heart chambers and the mean cross-sectional areas of all vessels except the inferior vena cava and abdominal aorta were significantly smaller in fatal hemorrhage than in no fatal hemorrhage. CONCLUSION: For the quantitative differentiation of fatal hemorrhage from other causes of death, we propose a three-step algorithm with measurements of the diameter of the right pulmonary artery, the cross-sectional area of the main pulmonary artery, and the volume of the right atrium (specificity, 100%; sensitivity, 95%). However, this algorithm must be corroborated in a prospective study, which would eliminate the limitations of this study. Quantitative postmortem cross-sectional imaging might become a reliable objective method to assess the question of fatal hemorrhage in forensic medicine.

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The aim of this study was to develop a standardized procedure for examination of the canine abdomen using endoscopic ultrasound and to describe the organs and structures that could be identified transgastrically. The abdomen of four healthy dogs and two cadavers were examined with endoscopic ultrasound. Five anatomic landmarks were used for standardized imaging of the cranial abdomen. These were the portal vein, splenic head and body, duodenum, left kidney, and aorta. High-resolution images of the following organs and structures could be made: distal esophagus, gastric wall from the cardia to the pylorus, liver, caudal vena cava, hepatic lymph nodes, liver hilus, and associated vessels, trifurcation of the celiac artery as well as the path of its branches and the left pancreatic limb and body. Structures that were more difficult to image were the distal duodenum and right pancreatic limb, the entire jejunum, ileum, and cecum as well as the tail of the spleen. Endoscopic ultrasound allowed excellent visualization of the gastric wall and regional structures without interference with gas artefacts. Centrally located organs such as the pancreas could be well examined transgastrically with endoscopic ultrasound without interference by overlying intestinal segments as is common with transabdominal ultrasound.

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PURPOSE: To compare two techniques used to create a larger animal model of venous valve incompetence. MATERIALS AND METHODS: To achieve vein dilatation as the primary cause of valve incompetence, common carotid jugular vein (JV) fistulas were created and optional filters were placed into the JV of sheep. Altogether, nine inferior vena cava filters were placed in three sheep in two stages. Six filters were placed caudal to the most caudal JV valve in three sheep and removed 6 weeks later. Then, three filters were placed across the most caudal valve in two sheep with competent valves and removed 3 weeks later. A common carotid artery-JV fistula was created in three sheep and followed-up for 1-3 weeks. Ascending and descending venograms were obtained to determine the JV sizes and function of their valves. The JVs removed at necropsy were studied with venoscopy. RESULTS: Only one of the six JVs with filters caudal to the most caudal valve had incompetent valves after filter removal at 6 weeks. In addition, only one of three JVs with the filter across the valve had incompetent valves after filter removal at 3 weeks. At 1-3-week follow-up of the group with common carotid artery-JV fistula, all three JVs had incompetent valves in the cephalad vein portion, but only one JV had an incompetent valve in its caudal portion. At venoscopy, the incompetent valves showed various degrees of damage ranging from shortening to the destruction of valve leaflets. CONCLUSION: Dilation of the valve annulus with a removable vena cava filter failed to produce valve incompetence. The promising results with the common carotid artery-JV fistula justify further detailed research.

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PURPOSE: To demonstrate the feasibility of direct angioscopic visualization of an optional inferior vena cava (IVC) filter in situ and during retrieval. MATERIALS AND METHODS: Angioscopy was used for direct visualization of optional IVC filters in six sheep. Cavograms were obtained before the filters were retrieved. After successful filter retrieval, segmental IVC perfusion was performed to evaluate filter retrieval-related damage to the IVC wall. Therefore, all branch vessels were ligated before the IVC segment was flushed with normal saline solution until it was fully distended. Then, the inflow was terminated and the IVC segment observed for deflation. Subsequently, the IVC was harvested en bloc, dissected, and inspected macroscopically. RESULTS: The visibility of IVC filters at angioscopy was excellent. During the retrieval procedure, filter collapse and retraction into the sheath were clearly demonstrated. Angioscopy provided additional information to that obtained with cavography, demonstrating adherent material in three filters. Three filters in place for more than 2 months could not be retrieved because the filter legs were incorporated into the IVC wall. After filter retrieval, there was no perforation at segmental IVC perfusion. At macroscopic inspection of the IVC lumen, a small piece of detached endothelium was found in one animal. CONCLUSION: Angioscopy enabled the direct evaluation of optional IVC filters in situ and during retrieval. Compared with cavography, angioscopy provided additional information about the filter in situ and the retrieval procedure. Future applications of this technique could include studies of filter migration, compression, and clot-trapping efficacy.

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OBJECTIVE: Compare changes in P-wave amplitude of the intra-atrial electrocardiogram (ECG) and its corresponding transesophageal echocardiography (TEE)-controlled position to verify the exact localization of a central venous catheter (CVC) tip. DESIGN: A prospective study. SETTING: University, single-institutional setting. PARTICIPANTS: Two hundred patients undergoing elective cardiac surgery. INTERVENTIONS: CVC placement via the right internal jugular vein with ECG control using the guidewire technique and TEE control in 4 different phases: phase 1: CVC placement with normalized P wave and measurement of distance from the crista terminalis to the CVC tip; phase 2: TEE-controlled placement of the CVC tip; parallel to the superior vena cava (SVC) and measurements of P-wave amplitude; phase 3: influence of head positioning on CVC migration; and phase 4: evaluation of positioning of the CVC postoperatively using a chest x-ray. MEASUREMENTS AND MAIN RESULTS: The CVC tip could only be visualized in 67 patients on TEE with a normalized P wave. In 198 patients with the CVC parallel to the SVC wall controlled by TEE (phase 2), an elevated P wave was observed. Different head movements led to no significant migration of the CVC (phase 3). On a postoperative chest-x-ray, the CVC position was correct in 87.6% (phase 4). CONCLUSION: The study suggests that the position of the CVC tip is located parallel to the SVC and 1.5 cm above the crista terminalis if the P wave starts to decrease during withdrawal of the catheter. The authors recommend that ECG control as per their study should be routinely used for placement of central venous catheters via the right internal jugular vein.

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Endothelial progenitor cells (EPC) are involved in many healing processes in cardiovascular diseases and can be found in spontaneously resolving venous thrombi. The purpose of the present study was to investigate whether the therapeutic administration of EPC might enhance the resolution of venous thrombi. For this purpose, venous thrombosis was induced in the infrarenal inferior vena cava (IVC) in 28 athymic nude rats. Culture expanded EPC derived from human peripheral blood mononuclear cells were injected intravenously two and four days after thrombus induction. Recanalisation of the IVC and thrombus organisation were assessed by laser Doppler measurements of the blood flow and immunohistochemical detection of endothelialised luminal structures in the thrombus. EPC transplantation resulted in significantly enhanced thrombus neovascularisation (capillary density: 186.6 +/- 26.7/HPF vs. 78 +/- 12.3/HPF, p<0.01; area covered by capillaries: 8.9 +/- 1.7 microm(2) vs. 2.5 +/- 1.3 microm(2), p<0.01) and was accompanied by a substantial increase in intra-thrombus blood flow (perfusion ratio: 0.7 +/- 0.07 vs. 0.3 +/- 0.08, p<0.02). These results were paralleled by augmented macrophage recruitment into resolving thrombi in the animals treated with EPC (39.4 +/- 4.7/HPF vs. 11.6 +/- 1.9/HPF, p<0.01). Our data suggest that EPC transplantation might be of clinical value to facilitate venous thrombus resolution in cases where current therapeutic options have limited success.