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Resumo:
Oggetto della ricerca sono l’esame e la valutazione dei limiti posti all’autonomia privata dal divieto di abuso della posizione dominante, come sancito, in materia di tutela della concorrenza, dall’art. 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, a sua volta modellato sull’art. 82 del Trattato CE. Preliminarmente, si è ritenuto opportuno svolgere la ricognizione degli interessi tutelati dal diritto della concorrenza, onde individuare la cerchia dei soggetti legittimati ad avvalersi dell’apparato di rimedi civilistici – invero scarno e necessitante di integrazione in via interpretativa – contemplato dall’art. 33 della legge n. 287/1990. È così emerso come l’odierno diritto della concorrenza, basato su un modello di workable competition, non possa ritenersi sorretto da ragioni corporative di tutela dei soli imprenditori concorrenti, investendo direttamente – e rivestendo di rilevanza giuridica – le situazioni soggettive di coloro che operano sul mercato, indipendentemente da qualificazioni formali. In tal senso, sono stati esaminati i caratteri fondamentali dell’istituto dell’abuso di posizione dominante, come delineatisi nella prassi applicativa non solo degli organi nazionali, ma anche di quelli comunitari. Ed invero, un aspetto importante che caratterizza la disciplina italiana dell’abuso di posizione dominante e della concorrenza in generale, distinguendola dalle normative di altri sistemi giuridici prossimi al nostro, è costituito dal vincolo di dipendenza dal diritto comunitario, sancito dall’art. 1, quarto comma, della legge n. 287/1990, idoneo a determinare peculiari riflessi anche sul piano dell’applicazione civilistica dell’istituto. La ricerca si è quindi spostata sulla figura generale del divieto di abuso del diritto, onde vagliarne i possibili rapporti con l’istituto in esame. A tal proposito, si è tentato di individuare, per quanto possibile, i tratti essenziali della figura dell’abuso del diritto relativamente all’esercizio dell’autonomia privata in ambito negoziale, con particolare riferimento all’evoluzione del pensiero della dottrina e ai più recenti orientamenti giurisprudenziali sul tema, che hanno valorizzato il ruolo della buona fede intesa in senso oggettivo. Particolarmente interessante è parsa la possibilità di estendere i confini della figura dell’abuso del diritto sì da ricomprendere anche l’esercizio di prerogative individuali diverse dai diritti soggettivi. Da tale estensione potrebbero infatti discendere interessanti ripercussioni per la tutela dei soggetti deboli nel contesto dei rapporti d’impresa, intendendosi per tali tanto i rapporti tra imprenditori in posizione paritaria o asimmetrica, quanto i rapporti tra imprenditori e consumatori. È stato inoltre preso in considerazione l’aspetto dei rimedi avverso le condotte abusive, alla luce dei moderni contributi sull’eccezione di dolo generale, sulla tutela risarcitoria e sull’invalidità negoziale, con i quali è opportuno confrontarsi qualora si intenda cercare di colmare – come sembra opportuno – i vuoti di disciplina della tutela civilistica avverso l’abuso di posizione dominante. Stante l’evidente contiguità con la figura in esame, si è poi provveduto ad esaminare, per quanto sinteticamente, il divieto di abuso di dipendenza economica, il quale si delinea come figura ibrida, a metà strada tra il diritto dei contratti e quello della concorrenza. Tale fattispecie, pur inserita in una legge volta a disciplinare il settore della subfornitura industriale (art. 9, legge 18 giugno 1998, n. 192), ha suscitato un vasto interessamento della dottrina. Si sono infatti levate diverse voci favorevoli a riconoscere la portata applicativa generale del divieto, quale principio di giustizia contrattuale valevole per tutti i rapporti tra imprenditori. Nel tentativo di verificare tale assunto, si è cercato di individuare la ratio sottesa all’art. 9 della legge n. 192/1998, anche in considerazione dei suoi rapporti con il divieto di abuso di posizione dominante. Su tale aspetto è d’altronde appositamente intervenuto il legislatore con la legge 5 marzo 2001, n. 57, riconoscendo la competenza dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a provvedere, anche d’ufficio, sugli abusi di dipendenza economica con rilevanza concorrenziale. Si possono così prospettare due fattispecie normative di abusi di dipendenza economica, quella con effetti circoscritti al singolo rapporto interimprenditoriale, la cui disciplina è rimessa al diritto civile, e quella con effetti negativi per il mercato, soggetta anche – ma non solo – alle regole del diritto antitrust; tracciare una netta linea di demarcazione tra i reciproci ambiti non appare comunque agevole. Sono stati inoltre dedicati brevi cenni ai rimedi avverso le condotte di abuso di dipendenza economica, i quali involgono problematiche non dissimili a quelle che si delineano per il divieto di abuso di posizione dominante. Poste tali basi, la ricerca è proseguita con la ricognizione dei rimedi civilistici esperibili contro gli abusi di posizione dominante. Anzitutto, è stato preso in considerazione il rimedio del risarcimento dei danni, partendo dall’individuazione della fonte della responsabilità dell’abutente e vagliando criticamente le diverse ipotesi proposte in dottrina, anche con riferimento alle recenti elaborazioni in tema di obblighi di protezione. È stata altresì vagliata l’ammissibilità di una visione unitaria degli illeciti in questione, quali fattispecie plurioffensive e indipendenti dalla qualifica formale del soggetto leso, sia esso imprenditore concorrente, distributore o intermediario – o meglio, in generale, imprenditore complementare – oppure consumatore. L’individuazione della disciplina applicabile alle azioni risarcitorie sembra comunque dipendere in ampia misura dalla risposta al quesito preliminare sulla natura – extracontrattuale, precontrattuale ovvero contrattuale – della responsabilità conseguente alla violazione del divieto. Pur non sembrando prospettabili soluzioni di carattere universale, sono apparsi meritevoli di approfondimento i seguenti profili: quanto all’individuazione dei soggetti legittimati, il problema della traslazione del danno, o passing-on; quanto al nesso causale, il criterio da utilizzare per il relativo accertamento, l’ammissibilità di prove presuntive e l’efficacia dei provvedimenti amministrativi sanzionatori; quanto all’elemento soggettivo, la possibilità di applicare analogicamente l’art. 2600 c.c. e gli aspetti collegati alla colpa per inosservanza di norme di condotta; quanto ai danni risarcibili, i criteri di accertamento e di prova del pregiudizio; infine, quanto al termine di prescrizione, la possibilità di qualificare il danno da illecito antitrust quale danno “lungolatente”, con le relative conseguenze sull’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine prescrizionale. In secondo luogo, è stata esaminata la questione della sorte dei contratti posti in essere in violazione del divieto di abuso di posizione dominante. In particolare, ci si è interrogati sulla possibilità di configurare – in assenza di indicazioni normative – la nullità “virtuale” di detti contratti, anche a fronte della recente conferma giunta dalla Suprema Corte circa la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità del contratto. È stata inoltre esaminata – e valutata in senso negativo – la possibilità di qualificare la nullità in parola quale nullità “di protezione”, con una ricognizione, per quanto sintetica, dei principali aspetti attinenti alla legittimazione ad agire, alla rilevabilità d’ufficio e all’estensione dell’invalidità. Sono poi state dedicate alcune considerazioni alla nota questione della sorte dei contratti posti “a valle” di condotte abusive, per i quali non sembra agevole configurare declaratorie di nullità, mentre appare prospettabile – e, anzi, preferibile – il ricorso alla tutela risarcitoria. Da ultimo, non si è trascurata la valutazione dell’esperibilità, avverso le condotte di abuso di posizione dominante, di azioni diverse da quelle di nullità e risarcimento, le sole espressamente contemplate dall’art. 33, secondo comma, della legge n. 287/1990. Segnatamente, l’attenzione si è concentrata sulla possibilità di imporre a carico dell’impresa in posizione dominante un obbligo a contrarre a condizioni eque e non discriminatorie. L’importanza del tema è attestata non solo dalla discordanza delle pronunce giurisprudenziali, peraltro numericamente scarse, ma anche dal vasto dibattito dottrinale da tempo sviluppatosi, che investe tuttora taluni aspetti salienti del diritto delle obbligazioni e della tutela apprestata dall’ordinamento alla libertà di iniziativa economica.
Resumo:
Le aree costiere hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, sociale e politico della maggior parte dei paesi; esse supportano infatti diversi ecosistemi produttivi che rendono disponibili beni e servizi. L'importanza economica delle aree costiere è destinata a una considerevole crescita a causa del costante aumento delle popolazioni, delle industrie e delle attività ricreazionali che si concentrano sempre di più sulle coste e ciò può provocare un'alterazione delle linee di costa, imputabile a più fattori e un deterioramento delle condizioni naturali. E' necessario anche tenere da conto dei processi erosivi, sia imputabili a cause naturali (correnti oceaniche, movimenti di marea; azione del vento) sia a cause antropiche (subsidenza del terreno indotta dall'uomo, dragaggio al largo, riduzione del rifornimento di sedimento dai fiumi, distruzione di letti algali, paludi e dune sabbiose). A questo panorama va poi aggiunto il problema dell'innalzamento del livello del mare e dell'aumento delle frequenze di tempeste, come conseguenza del cambiamento climatico globale. In questo contesto quindi, le strutture rigide di difesa contro l'erosione e le mareggiate sono diventate molto comuni nelle aree costiere, coinvolgendo in alcune regioni più della metà della linea di costa. Il meccanismo di difesa attuato dalle barriere consiste nel provocare una riduzione dell'energia delle onde e conseguentemente in una limitazione della quantità di sedimento che viene da loro rimosso dalla spiaggia. La presenza di strutture rigide di difesa generalmente comporta una perdita di habitat di fondale molle e, a causa delle variazioni idrodinamiche che la loro presenza comporta, anche delle comunità ad esso associate, sia su scala locale, che su scala regionale. Uno dei problemi che tali strutture possono indurre è l'eccessiva deposizione di detrito prodotto dalle specie che si insediano sul substrato duro artificiale, che normalmente non fanno parte delle comunità "naturali" di fondo molle circostanti le strutture. Lo scopo di questo studio è stato quello di cercare di evidenziare gli effetti che la deposizione di tale detrito potesse avere sulle comunita meiobentoniche di fondale molle. A tale fine è stata campionata un'area antistante la località di Lido di Dante (RA), la quale è protetta dal 1996 da una struttura artificiale, per fronteggiare il problema dell'erosione della zona, in aumento negli ultimi decenni. La struttura è costituita da una barriera semisoffolta e tre pennelli, di cui uno completamente collegato alla barriera. A circa 50 m dalla barriera, e alla profondità di 4 m circa, è stato allestito un esperimento manipolativo in cui è stato valutato l'effetto della deposizione delle due specie dominanti colonizzanti la barriera, Ulva sp. e Mitili sp. sull'ambiente bentonico, e in particolare sulla comunità di meiofauna. Ulva e Mitili sono stati posti in sacche di rete che sono state depositate sul fondo al fine di simulare la deposizione naturale di detrito, e tali sacche hanno costituito i trattamenti dell'esperimento, i quali sono stati confrontati con un Controllo, costituito da sedimento non manipolato, e un Controllo Procedurale, costituito da una sacca vuota. Il campionamento è stato fatto in tre occasioni nel giugno 2009 (dopo 2 giorni, dopo 7 giorni e dopo 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento) per seguire la dinamica temporale degli effetti del detrito. Per ogni combinazione tempo/trattamento sono state prelevate 4 repliche, per un totale di 48 campioni. Successivamente sono stati prelevati ulteriori campioni di meiofauna in condizioni naturali. In particolare sono stati raccolti in due Posizioni diverse, all'Interno e all'Esterno del pennello posto più a Sud, e su due substrati differenti, rispettivamente Ulva proveniente dalle barriere e sedimento privo di detrito. Per ogni combinazione Posizione/Substrato sono state prelevate 3 repliche, ottenendo un totale di 12 campioni. Tutti i campioni prelevati sono stati poi trattati in laboratorio tramite la procedura di filtratura, pulizia e centrifuga indicata dal protocollo. A questa fase è seguito il sorting al microscopio, durante il quale la meiofauna è stata identificata ed enumerata a livello di taxa maggiori. Per quanto riguarda il taxon più abbondante, quello dei Nematodi, si è proceduto anche all'analisi della distribuzione della biomassa per classi di taglia, in quanto descrittore funzionale delle comunità. Per la costruzione degli spettri di biomassa per classi di taglia sono state misurate la lunghezza e larghezza dei primi 100 Nematodi presenti nei campioni. A partire da tali valori dimensionali è stata calcolata la biomassa di ogni individuo, usata poi per la costruzione dei size spectra, tramite tre metodiche messe a confronto: "Nematode Biomass Spectra" (NBS), "Normalised Nematode Biomass Spectra"(NNBS), "Mean Cumulative Biomass Spectra" (MC-NBS). Successivamente la composizione e la struttura della comunità meiobentonica, in termini di consistenza numerica e di rapporti reciproci di densità degli organismi che la compongono e variabili dimensionali, sono state analizzate mediante tecniche di analisi univariate e multivariate. Ciò che emerge generalmente dai risultati dell'esperimento è la mancanza di interazione significativa tra i due fattori, tempi e trattamenti, mentre sono risultati significativi i due fattori principali, considerati singolarmente. Tali esiti sono probabilmente imputabili all'elevata variabilità fra campioni dei trattamenti e delle patches di controllo. Nonostante ciò l'analisi dei risultati ottenuti permette di effettuare alcune considerazioni interessanti. L'analisi univariata ha mostrato che nel confronto tra trattamenti non ci sono differenze significative nel numero medio di taxa rinvenuti, mentre il livello di diversità e di equidistribuzione degli individui nei taxa differisce in maniera significativa, indicando che la struttura delle comunità varia in funzione dei trattamenti e non in funzione del tempo. Nel trattamento Ulva si osservano le densità più elevate della meiofauna totale imputabile prevalentemente alla densità dei Nematodi. Tuttavia, i valori di diversità e di equiripartizione non sono risultati più elevati nei campioni di Ulva, bensì in quelli di Mitili. Tale differenza potrebbe essere imputabile all'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni di Mitili. Questo andamento è stato giustificato dai differenti tempi di degradazione di Mitili e Ulva posti nelle sacche durante l'esperimento, dai quali emerge una più rapida degradazione di Ulva; inoltre la dimensione ridotta della patch analizzata, i limitati tempi di permanenza fanno sì che l'Ulva non rappresenti un fattore di disturbo per la comunità analizzata. Basandosi su questo concetto risulta dunque difficile spiegare l'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni del trattamento Mitili, in quanto i tempi di degradazione durante l'esperimento sono risultati più lenti, ma è anche vero che è nota l'elevata resistenza dei Nematodi ai fenomeni di ipossia/anossia creata da fenomeni di arricchimento organico. E' possibile però ipotizzare che la presenza delle valve dei Mitili aumenti la complessità dell'habitat e favorisca la colonizzazione da parte di più specie, tra cui specie predatrici. Tale effetto di predazione potrebbe provocare la riduzione dell'abbondanza media dei Nematodi rispetto a Ulva e al Controllo, in quanto i Nematodi costituiscono circa l'85% della meiofauna totale rinvenuta nei campioni. A tale riduzione numerica, però, non corrisponde un decremento dei valori medi di biomassa rilevati, probabilmente a causa del fatto che l'arricchimento organico dovuto ai Mitili stessi favorisca la permanenza degli individui più facilmente adattabili a tali condizioni e di dimensioni maggiori, oppure, la colonizzazione in tempi successivi delle patches a Mitili da parte di individui più grandi. Anche i risultati dell'analisi multivariata sono in accordo con quanto rilevato dall'analisi univariata. Oltre alle differenze tra tempi si evidenzia anche un'evoluzione della comunità nel tempo, in particolar modo dopo 7 giorni dall'allestimento dell'esperimento, quando si registrano il maggior numero di individui meiobentonici e il maggior numero di taxa presenti. Il taxon che ha risentito maggiormente dell'influenza dei tempi è quello degli Anfipodi, con densità maggiori nei campioni prelevati al secondo tempo e sul trattamento Ulva. E'importante considerare questo aspetto in quanto gli Anfipodi sono animali che comprendono alcune specie detritivore e altre carnivore; le loro abitudini detritivore potrebbero quindi aumentare il consumo e la degradazione di Ulva, spiegando anche la loro abbondanza maggiore all'interno di questo trattamento, mentre le specie carnivore potrebbero concorrere al decremento del numero medio di Nematodi nei Mitili. Un risultato inatteso della sperimentazione riguarda l'assenza di differenze significative tra trattamenti e controlli, come invece era lecito aspettarsi. Risultati maggiormente significativi sono emersi dall'analisi del confronto tra sedimento privo di detrito e sedimento contenente Ulva provenienti dal contesto naturale. Relativamente all'area esterna alla barriera, sono stati confrontati sedimento privo di detrito e quello sottostante l'Ulva, nelle condizioni sperimentali e naturali. Globalmente notiamo che all'esterno della barriera gli indici univariati, le densità totali di meiofauna, di Nematodi e il numero di taxa, si comportano in maniera analoga nelle condizioni sperimentali e naturali, riportando valori medi maggiori nei campioni prelevati sotto l'Ulva, rispetto a quelli del sedimento privo di detrito. Differente appare invece l'andamento delle variabili e degli indici suddetti riguardanti i campioni prelevati nell'area racchiusa all'interno della barriera, dove invece i valori medi maggiori si rilevano nei campioni prelevati nel sedimento privo di detrito. Tali risultati possono essere spiegati dall'alterazione dell'idrodinamismo esercitato dalla barriera, il quale provoca maggiori tempi di residenza del detrito con conseguente arricchimento di materia organica nell'area interna alla barriera. Le comunità dei sedimenti di quest'area saranno quindi adattate a tale condizioni, ma la deposizione di Ulva in un contesto simile può aggravare la situazione comportando la riduzione delle abbondanze medie dei Nematodi e degli altri organismi meiobentonici sopracitata. Per quel che riguarda i size spectra la tecnica che illustra i risultati in maniera più evidente è quella dei Nematode Biomass Spectra. I risultati statistici fornitici dai campioni dell'esperimento, non evidenziano effetti significativi dei trattamenti, ma a livello visivo, l'osservazione dei grafici evidenzia valori medi di biomassa maggiori nei Nematodi rilevati sui Mitili rispetto a quelli rilevati su Ulva. Differenze significative si rilevano invece a livello dei tempi: a 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento infatti, le biomasse dei Nematodi misurati sono più elevate. Relativamente invece ai size spectra costruiti per l'ambiente naturale, mostrano andamento e forma completamente diversi e con differenze significative tra l'interno e l'esterno della barriera; sembra infatti che la biomassa nella zona interna sia inibita, portando a densità maggiori di Nematodi, ma di dimensioni minori. All'esterno della barriera troviamo invece una situazione differente tra i due substrati. Nel sedimento prelevato sotto l'Ulva sembra infatti che siano prevalenti le classi dimensionali maggiori, probabilmente a causa del fatto che l'Ulva tende a soffocare le specie detritivore, permettendo la sopravvivenza delle specie più grosse, composte da predatori poco specializzati, i quali si cibano degli organismi presenti sull'Ulva stessa. Nel sedimento privo di detrito, invece, la distribuzione all'interno delle classi segue un andamento completamente diverso, mostrando una forma del size spectra più regolare. In base a questo si può ipotizzare che la risposta a questo andamento sia da relazionarsi alla capacità di movimento dei Nematodi: a causa della loro conformazione muscolare i Nematodi interstiziali di dimensioni minori sono facilitati nel movimento in un substrato con spazi interstiziali ridotti, come sono nel sedimento sabbioso, invece Nematodi di dimensioni maggiori sono più facilitati in sedimenti con spazi interstiziali maggiori, come l'Ulva. Globalmente si evidenzia una risposta della comunità bentonica all'incremento di detrito proveniente dalla struttura rigida artificiale, ma la risposta dipende dal tipo di detrito e dai tempi di residenza del detrito stesso, a loro volta influenzati dal livello di alterazione del regime idrodinamico che la struttura comporta. Si evince inoltre come dal punto di vista metodologico, le analisi univariate, multivariate e dei size spectra riescano a porre l'accento su diverse caratteristiche strutturali e funzionali della comunità. Rimane comunque il fatto che nonostante la comunità scientifica stia studiando metodiche "taxonomic free" emerge che, se da un lato queste possono risultare utili, dall'altro, per meglio comprendere l'evoluzione di comunità, è necessaria un'analisi più specifica che punti all'identificazione almeno delle principali famiglie. E'importante infine considerare che l'effetto riscontrato in questo studio potrebbe diventare particolarmente significativo nel momento in cui venisse esteso alle centinaia di km di strutture artificiali che caratterizzano ormai la maggior parte delle coste, la cui gestione dovrebbe tenere conto non soltanto delle esigenze economico-turistiche, e non dovrebbe prescindere dalla conoscenza del contesto ambientale in cui si inseriscono, in quanto, affiancati a conseguenze generali di tali costruzioni, si incontrano molti effetti sitospecifici.
Resumo:
La presente dissertazione illustra lo studio, svolto in ambito di Tesi di Laurea Specialistica, della difesa delle aree di pianura prospicienti il tratto medio inferiore del Fiume Po dalle cosiddette piene al limite della prevedibilità, ovvero quelle aventi intensità al di sopra della quale le procedure di stima statistica perdono di significato a causa della mancanza di eventi osservati confrontabili (Majone, Tomirotti, 2006). In questo contesto si è definito come evento di piena al limite della prevedibiltà un evento con tempo di ritorno pari a cinquecento anni. Lo studio ha necessariamente preso in considerazione e riprodotto attraverso una schematizzazione concettuale le esondazioni all'esterno delle arginature maestre che si verificherebbero in conseguenza ad un evento estremo, quale quello preso in esame, nei comparti idraulici prospicienti l'asta fluviale. Detti comparti sono costituiti dalle zone di pianura latistanti l’asta fluviale, classificate dall'Autorità di Bacino come Fascia C e suddivise in base alla presenza degli affluenti principali del fiume Po e delle principali infrastrutture viarie e ferroviarie situate in tale fascia. Il presente studio persegue l’obiettivo di analizzare alcune politiche di intervento per la mitigazione del rischio alluvionale alternative al sovralzo e ringrosso arginale e ricade all'interno delle linee strategiche individuate dall' AdB-Po per la mitigazione del rischio residuale, ossia quello che permane anche in presenza di opere di difesa progettate e verificate con riferimento ad un ben preciso tempo di ritorno (nel caso in esame Trit = 200 anni). Questa linea di intervento si traduce praticamente individuando sul territorio aree meno "sensibili", in virtù del minor valore o dell'inferiore vulnerabilità dei beni in esse presenti, e dunque adatte ad accogliere i volumi di piena esondabili in occasione di quegli eventi di piena incompatibili con i presidi idraulici preesistenti, le sopra richiamate piene al limite della prevedibilità. L'esondazione controllata dei volumi di piena in tali aree avrebbe infatti il fine di tutelare le aree di maggior pregio, interessate da centri abitati, infrastrutture e beni di vario tipo; tale controllo è da considerarsi auspicabile in quanto sedici milioni di persone abitano la zona del bacino del Po e qui sono concentrati il 55% del patrimonio zootecnico italiano, il 35% della produzione agricola e il 37% delle industrie le quali però sostengono il 46% dei posti di lavoro (fonte AdB-Po). Per questi motivi il Po e il suo bacino sono da considerare come zone nevralgiche per l’intera economia italiana e una delle aree europee con la più alta concentrazione di popolazione, industrie e attività commerciali. Dal punto di vista economico, l’area è strategica per il Paese garantendo un PIL che copre il 40% di quello nazionale, grazie alla presenza di grandi industrie e di una quota rilevante di piccole e medie imprese, nonché d’attività agricole e zootecniche diffuse. Il punto di partenza è stato il modello numerico quasi-bidimensionale precedentemente sviluppato dal DISTART nel 2008 con il software HEC-RAS, la cui schematizzazione geometrica copriva unicamente l'alveo del Fiume (Fasce A e B secondo la denominazione adottata dall'AdB-Po) e le cui condizioni iniziali e al contorno rispecchiavano un evento con tempo di ritorno pari a duecento anni. Si è proceduto dunque alla definizione di nuove sollecitazioni di progetto, volte a riprodurre nelle sezioni strumentate del Po gli idrogrammi sintetici con tempo di ritorno di cinquecento anni messi a punto dal D.I.I.A.R. (Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento, DIIAR, 2001) del Politecnico di Milano. Il modello stesso è stato poi aggiornato e considerevolmente modificato. Il risultato consiste in un nuovo modello matematico idraulico di tipo quasi-bidimensionale che, attraverso una schematizzazione concettuale, riproduce il comportamento idraulico in occasione di eventi di piena al limite della prevedibilità per tutte e tre le Fasce Fluviali considerate nel Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico redatto dall'AdB-Po (Fasce A, B C, v. PAI, 1999). I diversi comparti idraulici in cui può essere suddivisa la Fascia C sono stati inseriti nel modello e geometricamente descritti in termini di curve di riempimento, ricavate a partire dal DTM del Bacino del Po attraverso opportune elaborazioni in ambiente GIS (Geographic Information System). Una volta predisposto il modello sono state condotte due tipologie di simulazioni. Una prima serie è stata volta alla definizione in maniera iterativa dei punti critici degli argini maestri, ovvero quelli nei quali si prevedeva avvenisse la tracimazione, e alla modellazione in essi della formazione di brecce, decisive per una corretta riproduzione del fenomeno di esondazione all'esterno delle arginature maestre nell'attuale configurazione; bisogna infatti considerare che le arginature maestre vengono comunemente progettate con il solo fine di contenere le portate di piena in alveo, e che dunque un’eventuale tracimazione induce fenomeni erosivi che solitamente portano all'apertura di una breccia nel manufatto (rotta arginale). Un'ulteriore simulazione ha permesso di valutare l'evoluzione del fenomeno sotto l'ipotesi di un intervento di consolidamento degli argini maestri nei tratti critici (interessati dai sormonti) e quindi di rotta arginale impedita. Il confronto dei risultati ottenuti ha evidenziato i benefici associati ad una laminazione controllata dell'evento di piena all'esterno delle arginature. In questo contesto il termine "controllata" è esclusivamente associato al fenomeno di rotta arginale, come detto inibita per lo scenario ipotetico. I benefici di tale controllo si hanno in termini di volumi, di portate esondate e di tiranti attesi nei comparti idraulici. Lo strumento modellistico predisposto nell’ambito della Tesi di Laurea Specialistica si presta ad essere utilizzato a supporto dell’identificazione su ampia scala delle zone della Fascia C meno “sensibili”, in quanto meno vulnerabili ai fenomeni di allagamento. Questo ulteriore passaggio costituisce il punto di partenza per delineare le strategie ottimali di laminazione controllata in Fascia C degli eventi al limite della prevedibilità al fine della riduzione del rischio idraulico nelle aree di pianura prospicienti il Po, aspetto che verrà affrontato in sviluppi successivi del presente lavoro.
Resumo:
Il mio lavoro di tesi è partito da uno studio approfondito del contesto in cui si trova la Darsena di Ravenna, la mia area di progetto. Tutta la storia dell’evoluzione di Ravenna è legata soprattutto a due fattori principali: la necessità di difendersi dalle incursioni esterne e il continuo adattarsi alle trasformazioni del territorio soprattutto per quanto riguarda la linea di costa e il corso dei due fiumi che la circondano, il Ronco e il Montone. Questi due fattori hanno fatto si che Ravenna sia apparsa, sin dai primi secoli d. C., una città cinta da grandi mura, circondate da fiumi. Il Ronco e il Montone, sono poi diventati, a metà del XVI sec. i protagonisti principali della storia di Ravenna. I diversi progetti che si sono susseguiti nel tempo per cercare di deviarli e allontanarli dalla città, dato che ormai rappresentavano solo un grosso pericolo di alluvione, hanno determinato l’abbandono del primo porto della città, voluto dall’imperatore Augusto e la nascita dell’attuale canale Candiano. Fin dall’inizio il nuovo porto di Ravenna ha presentato una serie di problemi legati alla scarsa profondità del fondale e ai costi di manutenzione, a tal punto che le attività del porto sono sempre state molto limitate. Oggi la Darsena di città è caratterizzata da una moltitudine di edifici di archeologia industriale, risalenti al boom economico degli anni ’50, che risultano per la maggior parte, in uno stato di degrado e abbandono, incominciato con la crisi petrolifera degli anni ’70. A partire dal P.R.G. del 1993, si sono messi in atto una serie di iniziative atte a rivitalizzare e reintegrare quest’area all’interno della città storica, in modo che non sembri più un’entità separata ma che possa diventare un grande potenziale di sviluppo per la città stessa. La politica di riqualificazione del waterfront non riguarda solo Ravenna, ma è una strategia che molte città del modo hanno adottato negli ultimi decenni per ridare lustro alla città stessa e, allo stesso tempo recuperare zone spesso lasciate al loro destino. Fra queste città ho scelto di approfondirne cinque, Baltimora, Barcellona, Genova, Amburgo e Bilbao, evidenziando le diverse situazioni ma soprattutto le diverse motivazioni che le hanno spinte a raggiungere la medesima conclusione, quella che l’area portuale rappresenta un grande fattore di sviluppo. La mia attenzione poi si è spostata su quale attività potesse essere più adatta ad assolvere questo obiettivo. Ho pensato di progettare un museo e una serie di edifici ad esso collegati, come un centro di ricerca con residenze annesse e una torre belvedere, che dessero all’area la possibilità di essere vissuta in tutto l’arco della giornata e per tutto l’anno. Prima di affrontare direttamente la parte progettuale ho cercato di capire quale fosse la tipologia di museo e quali fossero i principali elementi indispensabili che caratterizzano questi edifici. Durante lo studio di questi casi ho classificato i musei secondo 5 categorie diverse, la galleria, la rotonda, la corte, la spirale e la pianta libera, che rispecchiano anche lo sviluppo storico di questa particolare tipologia architettonica. In base a tutte queste considerazioni ho affrontato il mio progetto. L’area presa in esame è caratterizzata da un’ampia superficie su cui insistono tre imponenti edifici di archeologia industriale molto degradati e utilizzati come magazzini dalla società proprietaria dell’area. Due di questi presentano un orientamento parallelo alla tessitura dei campi, il terzo invece segue un orientamento proprio. Oltre a queste due trame nell’area se ne può rilevare una terza legata all’andamento del canale. Queste grandi cattedrali del lavoro mi hanno fatto subito pensare di poterle utilizzare come spazi espositivi per mostre permanenti e temporanee, mantenendo intatta la loro struttura portante. Ho deciso di immergere l’edificio più imponente dei tre, che si trova in asse con la strada veicolare di accesso dalla città, in una grande corte verde delimitata ai lati da due nuovi edifici a L adibiti a veri e propri musei. Se da una parte questi musei costituiscono i limiti della corte, dall’altra rappresentano le quinte sceniche di aree completamenti differenti. Il museo adiacente al canale si affaccia su una grande piazza pavimentata dove troneggia l’edificio di archeologia industriale più simile ad una basilica e che accoglie i visitatori che arrivano tramite la navetta costiera; l’altro invece guarda verso il centro di ricerca e le residenze universitarie legati tra loro da un grande campo lungo completamente verde. A concludere la composizione ho pensato ad una torre belvedere dalla pianta circolare che potesse assorbire tutte le diverse direzioni e che si trova proprio in asse con il terzo edificio di archeologia industriale e a contatto con l’acqua. Per quanto riguarda l’organizzazione interna dei musei ho scelto di proporre due sezioni dello stesso museo con caratteristiche ben distinte. Il primo museo riguarda la storia della civiltà marinara di Ravenna ed è caratterizzato da ambienti conclusi lungo un percorso prestabilito che segue un criterio cronologico, il secondo invece presenta una pianta abbastanza libera dove i visitatori possono scegliere come e su cosa indirizzare la propria visita. Questa decisione è nata dalla volontà di soddisfare le esigenze di tutta l’utenza, pensando soprattutto alla necessità di coinvolgere persone giovani e bambini. Il centro di ricerca è organizzato planimetrica mente come una grande C, dove le due ali più lunghe ospitano i laboratori mentre l’ala più corta rappresenta l’ingresso sottolineato da un portico aggettante sulla corte. Simmetricamente si trovano i sette volumi delle residenze. Ognuno di questi può alloggiare sei studenti in altrettanti monolocali con servizi annessi, e presenta al piano terra aree di relax e sale lettura comuni. La torre belvedere invece riveste un ruolo più commerciale ospitando negozi, uffici per le varie associazioni legate al mare e un ristorante su più livelli, fino ad arrivare alla lanterna, che, come il faro per le navi, diventa un vero segno di riconoscimento e di orientamento dell’area sia dal mare che dalla città.
Resumo:
Prima di procedere con il progetto sono state fatte sezioni storiche dell’area, in epoche indicative, per comprendere quelle che sono le invarianti e le caratteristiche di tale tessuto. Da qui si è dedotto lo schema generatore dell’insediamento che parte dall’identificazione degli assi viari (pedonali e carrabili) già presenti nell’area, che fanno diretto riferimento allo schema cardo-decumanico generatore dell’impianto angioino della città. Con il tracciamento si individuano gli isolati base, che con variazioni formali e tipologiche hanno originato gli edifici di progetto. I corpi di fabbrica generatori della planimetria, dialogano e rimangono a stretto contatto con i pochi edifici agibili, per i quali sono previsti consolidamenti e ristrutturazioni, qualora necessari. Inevitabile è stato il confronto con l’orografia, prestando particolare attenzione a non annullare con l’inserimento degli edifici il dislivello presente, ma lasciarlo percepire chiaramente: l’attacco a terra di ogni edificio avviene gradualmente, passando dai due piani fuori terra a monte ai tre, quattro a valle. Ovviamente non tutti gli assi sono stati trattati allo stesso modo, ma conseguentemente alla loro funzione e carattere di utilizzo. Analizzando la struttura viaria dell’intera area, si presentano schematicamente due anelli di circonvallazione del centro urbano: uno più esterno, di più recente costruzione, rappresentato da via XX Settembre, e uno più vecchio, che rimane rasente al centro storico, costituito dal viale Duca Degli Abruzzi, che prosegue in viale Giovanni XXIII e termina nel viadotto Belvedere. Quest’ultimo asse rappresenta sicuramente un importante collegamento cittadino, sia per la vicinanza al centro, sia per le porzioni di città messe in comunicazione; nonostante ciò il viadotto ha subito, all’altezza di viale Nicolò Persichetti, uno smottamento dopo il 6 aprile, ed essendo un elemento di scarso valore architettonico e spaziale, la sua presenza è stata ripensata. Compiendo una deviazione su via XX Settembre al termine di viale Duca Degli Abruzzi, che va a sfruttare la già presente via Fonte Preturo, non si va a rivoluzionante l’odierno assetto, che confluisce comunque, qualche centinaio di metri dopo, in via XX Settembre è si eliminano le connotazioni negative che il viadotto avrebbe sul rinnovato ingresso al centro storico. La vivibilità tende a favorire così collegamento e all’eterogeneità degli spazi più che la separazione fisica e psicologica: il concetto di città fa riferimento alla vita in comune; per favorirla è importante incentivare i luoghi di aggregazione, gli spazi aperti. Dalle testimonianze degli aquilani la vita cittadina vedeva il centro storico come principale luogo d’incontro sociale. Esso era animato dal numeroso “popolo” di studenti, che lo manteneva attivo e vitale. Per questo nelle intenzioni progettuali si pone l’accento su una visione attiva di città con un carattere unitario come sostiene Ungers3. La funzione di collegamento, che crea una struttura di luoghi complementari, può essere costituita dal sistema viario e da quello di piazze (luoghi sociali per eccellenza). Via Fontesecco ha la sua terminazione nell’omonima piazza: questo spazio urbano è sfruttato, nella conformazione attuale, come luogo di passaggio, piuttosto che di sosta, per questo motivo deve essere ricalibrato e messo in relazione ad un sistema più ampio di quello della sola via. In questo sistema di piazze rientra anche la volontà di mettere in relazione le emergenze architettoniche esistenti nell’area e nelle immediate vicinanze, quali la chiesa e convento dell’Addolorata, Palazzo Antonelli e la chiesa di San Domenico (che si attestano tutte su spazi aperti), e la chiesa di San Quinziano su via Buccio di Ranallo. In quest’ottica l’area d’intervento è intesa come appartenente al centro storico, parte del sistema grazie alla struttura di piazze, e allo stesso tempo come zona filtro tra centro e periferia. La struttura di piazze rende l’area complementare alla trama di pieni e vuoti già presente nel tessuto urbano cittadino; la densità pensata nel progetto, vi si accosta con continuità, creando un collegamento con l’esistente; allontanandosi dal centro e avvicinandosi quindi alle più recenti espansioni, il tessuto muta, concedendo più spazio ai vuoti urbani e al verde. Via Fontesecco, il percorso che delimita il lato sud dell’area, oltre ad essere individuata tra due fronti costruiti, è inclusa tra due quinte naturali: il colle dell’Addolorata (con le emergenze già citate) e il colle Belvedere sul quale s’innesta ora il viadotto. Questi due fronti naturali hanno caratteri molto diversi tra loro: il colle dell’Addolorata originariamente occupato da orti, ha un carattere urbano, mentre il secondo si presenta come una porzione di verde incolto e inutilizzato che può essere sfruttato come cerniera di collegamento verticale. Lo stesso declivio naturale del colle d’Addolorata che degrada verso viale Duca Degli Abruzzi, viene trattato nel progetto come una fascia verde di collegamento con il nuovo insediamento universitario. L’idea alla base del progetto dell’edilizia residenziale consiste nel ricostruire insediamenti che appartengano parte della città esistente; si tratta quindi, di una riscoperta del centro urbano e una proposta di maggior densità. Il tessuto esistente è integrato per ottenere isolati ben definiti, in modo da formare un sistema ben inserito nel contesto. Le case popolari su via Fontesecco hanno subito con il sisma notevoli danni, e dovendo essere demolite, hanno fornito l’occasione per ripensare all’assetto del fronte, in modo da integrarlo maggiormente con il tessuto urbano retrostante e antistante. Attualmente la conformazione degli edifici non permette un’integrazione ideale tra i percorsi di risalita pedonale al colle dell’Addolorata e la viabilità. Le scale terminano spesso nella parte retrostante gli edifici, senza sfociare direttamente su via Fontesecco. Si è quindi preferito frammentare il fronte, che rispecchiasse anche l’assetto originario, prima cioè dell’intervento fascista, e che consentisse comunque una percezione prospettica e tipologica unitaria, e un accesso alla grande corte retrostante. Il nuovo carattere di via Fontesecco, risultante dalle sezioni stradali e dalle destinazioni d’uso dei piani terra degli edifici progettuali, è quello di un asse commerciale e di servizio per il quartiere. L’intenzione, cercando di rafforzare l’area di progetto come nuovo possibile ingresso al centro storico, è quella di estendere l’asse commerciale fino a piazza Fontesecco, in modo da rendere tale spazio di aggregazione vitale: “I luoghi sono come monadi, come piccoli microcosmi, mondi autonomi, con tutte le loro caratteristiche, pregi e difetti, inseriti in un macrocosmo urbano più grande, che partendo da questi piccoli mondi compone una metropoli e un paesaggio”.4[...] Arretrando verso l’altura dell’Addolorata è inserita la grande corte del nuovo isolato residenziale, anch’essa con servizi (lavanderie, spazi gioco, palestra) ma con un carattere diverso, legato più agli edifici che si attestano sulla corte, anche per l’assenza di un accesso carrabile diretto; si crea così una gerarchia degli spazi urbani: pubblico sulla via e semi-pubblico nella corte pedonale. La piazza che domina l’intervento (piazza dell’Addolorata) è chiusa da un edificio lineare che funge da “quinta”, il centro civico. Molto flessibile, presenta al suo interno spazi espositivi e un auditorium a diretta disposizione del quartiere. Sempre sulla piazza sono presenti una caffetteria, accessibile anche dal parco, che regge un sistema di scale permettendo di attraversare il dislivello con la “fascia” verde del colle, e la nuova ala dell’Hotel “Duca degli Abruzzi”, ridimensionata rispetto all’originale (in parte distrutto dal terremoto), che si va a collegare in maniera organica all’edificio principale. Il sistema degli edifici pubblici è completo con la ricostruzione del distrutto “Istituto della Dottrina Cristiana”, adiacente alla chiesa di San Quinziano, che va a creare con essa un cortile di cui usufruiscono gli alunni di questa scuola materna ed elementare. Analizzando l’intorno, gran parte dell’abitato è definito da edifici a corte che, all’interno del tessuto compatto storico riescono a sopperire la mancanza di spazi aperti con corti, più o meno private, anche per consentire ai singoli alloggi una giusta illuminazione e areazione. Nel progetto si passa da due edifici a corti semi-private, chiusi in se stessi, a un sistema più grande e complesso che crea un ampio “cortile” urbano, in cui gli edifici che vi si affacciano (case a schiera e edifici in linea) vanno a caratterizzare gli spazi aperti. Vi è in questa differenziazione l’intenzione di favorire l’interazione tra le persone che abitano il luogo, il proposito di realizzare elementi di aggregazione più privati di una piazza pubblica e più pubblici di una corte privata. Le variazioni tipologiche degli alloggi poi, (dalla casa a schiera e i duplex, al monolocale nell’edilizia sociale) comportano un’altrettanta auspicabile mescolanza di utenti, di classi sociali, età e perché no, etnie diverse che permettano una flessibilità nell’utilizzo degli spazi pubblici.
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Lo studio di cambiamenti strutturali inter o intramolecolari nei materiali polimerici può essere effettuato mediante la spettroscopia infrarossa associata a quella di correlazione bidimensionale (2D-COS, two-dimensional correlation spectroscopy). Questa tecnica, applicata a campioni del copolimero stirene-acrilonitrile (SAN) a diversa composizione, consente di interpretare variazioni spettrali riscontrate e l’andamento della temperatura di transizione vetrosa, Tg. L’applicazione della spettroscopia di correlazione bidimensionale (2D-COS) e l’analisi dell’intensità delle bande spettrali in funzione del contenuto di AN nel copolimero SAN, prevedono lo sviluppo di un metodo per correggere gli spettri IR da instabilità dovute alla linea di base e da variazioni derivanti dallo spessore dei film. A tal fine si sottopone lo spettro IR di ogni film di SAN alla correzione della linea di base e successivamente al processo di normalizzazione. La banda di vibrazione sottoposta ad analisi 2D-COS è quella corrispondente allo stretching del gruppo −C≡N in quanto presenta le maggiori variazioni in funzione della composizione del copolimero. La 2D-COS evidenzia che tali variazioni sono attribuibili alla variazione contemporanea di frequenza di assorbimento, larghezza e intensità di banda. A partire da questa osservazione si può dedurre la presenza nel materiale di un’interazione dipolo-dipolo di tipo intra-molecolare tra i gruppi nitrilici.
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Linea guida per lo sviluppo e la messa in opera di una Web Radio istituzionale per le Università, completa di confronti con altre Web Radio universitare e descrizione di una funzionalità sviluppata.
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Il Progetto XCModel, che da dieci anni si sviluppa e si perfeziona col contributo di varie persone, consente la progettazione di scene 3D e la resa fotorealistica. Esso si appoggia sulle funzionalita' grafiche di X-Window in Linux: si tratta di un ambiente in costante evoluzione, dovuta sia alle continue innovazioni hardware che ai cambiamenti degli standard. XCModel e' composto da vari pacchetti, ognuno dei quali specializzato nel trattare un particolare aspetto della modellazione o della resa (curve, superfici, textures, luci, ...) e che si presentano come applicazioni dotate di una sofisticata interfaccia grafica. Tutte attingono alle funzioni della Libreria XTools, che fornisce numerose primitive grafiche facenti uso delle potenzialita' di X-Window. I recenti cambiamenti nelle specifiche di X-Org, ed in particolare la de- standardizzazione del backing-store, ha obbligato il team di XCModel ad una consistente riprogettazione di XTools e di tutti i pacchetti che su di esso s'appoggiano. S'e' colta l'occasione per un massiccio debugging e per modificare i pacchetti in base alle impressioni emerse nel corso degli anni da parte degli utilizzatori, primi tra tutti gli studenti del corso di Grafica tenuto dal Prof. Giulio Casciola, project-manager di XCModel: questa e' un'ulteriore testimonianza del continuo adattamento e dell'aggiornabilita' del Progetto! Nella fattispecie, ci si occupera' delle modifiche effettuate in particolare al pacchetto XCSurf, finalizzato alla creazione ed alla modifica di curve e superfici 3D da utilizzarsi successivamente per la creazione delle scene: tale pacchetto e' di fatto risultato il pie' avulso dalle specifiche di XTools, il che ha costretto ad un massiccio intervento al codice del programma, ma d'altro canto ha consentito una standardizzazione del pacchetto in linea con gli altri, in particolare ridisegnandone l'interfaccia. Nel primo capitolo si effettuera' una veloce panoramica dell'ambiente XCModel e delle problematiche emerse dai cambiamenti degli standard di X-Window. Il secondo capitolo affrontera' un'ampia analisi dell'hardware, del software e dei paradigmi che caratterizzano la grafica interattiva, e gli ambienti necessari per interagire con essa ed esaminando i vari obiettivi raggiungibili. Infine, il terzo capitolo analizzera' nel dettaglio le modifiche effettuate ai pacchetti di XCModel ed in particolare ad XCSurf per l'adattamento ai nuovi standard, nel rispetto delle politiche e delle linee guida dettate dalla grafica interattiva.
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Nonostante la riforma societaria ed i tentativi di rilanciare l’economia nazionale, ancora oggi la principale fonte di ricchezza e di capitalizzazione resta l’investimento immobiliare. Ed ecco perchè si sente sempre più parlare di “Real Estate”, ovvero dei diritti reali sui beni immobili, della loro circolazione, e delle garanzie e tutele ad essa correlate. Dalla vendita immobiliare tipizzata nel codice civile del ’42 ad oggi molto è cambiato. E il mio lavoro parte proprio da un’analisi delle nuove forme e dei nuovi limiti alla circolazione degli immobili. In primis ho affrontato il tema del riconoscimento giurisprudenziale della cessione di cubatura: un esempio tipico del passaggio dal fatto al diritto attraverso la costruzione giurisprudenziale di nuove fattispecie giuridiche già in uso fra gli operatori del mercato. Tecnicamente la stessa espressione “cessione di cubatura” non risulta corretta: non si ha una vera e propria cessione, quanto la costituzione di una servitù ius non edificandi a favore di un terreno e a carico di un altro. La giurisprudenza è ormai concorde nello stabilire che l’accordo delle parti rimane comunque privo di efficacia se ad esso non segue un permesso di costruire della Pubblica Amministrazione che riconosca la maggiore capacità edificatoria al terreno a cui vantaggio è stabilità la servitù. Un’altra nuova forma di circolazione della proprietà, così come degli altri diritti reali minori, è la multiproprietà. La multiproprietà viene disciplinata nel nostro ordinamento, a seguito di una risoluzione del Parlamento Europeo del 13 ottobre 1988, dapprima con il D.lgs. 9 novembre 1998 e da ultimo con il Codice del Consumo, che con gli artt. 69 ss. stabilisce una più puntuale tutela degli acquirenti. Si riconosce qui l’esistenza di uno squilibrio fra le posizioni contrattuali fra venditore ed acquirente/consumatore: vi è una profonda asimmetria informativa fra le parti, che viene colmata prevedendo la consegna al futuro acquirente di un dettagliato prospetto informativo predisposto dal venditore. La mia attenzione si è concentrata proprio sul tema delle tutele che il nostro ordinamento riconosce al consumatore multiproprietario: un prospetto informativo dal contenuto minimo legislativamente predeterminato, recesso, fideiussione. Ho dedicato un particolare approfondimento alla normativa sull’acquisto immobiliare sulla carta. Il D.lgs. 122/2005 si inserisce nel contesto di una legislazione, che spesso trova la sua origine nel diritto privato europeo, finalizzata alla regolamentazione di un fenomeno sempre più frequente nella realtà economica contemporanea, rappresentato dalla contrattazione fra soggetti che si trovano in una posizione di squilibrio contrattuale: un “contraente forte” da una parte, ed un “contraente debole” dall’altra. La legislazione nazionale interviene sempre più frequentemente per porre un rimedio a queste situazioni di squilibrio, con interventi di tipo conformativo intesi a rendere effettiva l’autonoma contrattuale delle parti e, conseguentemente, agevolare il corretto funzionamento del mercato. Si parla in tal senso di una ius espansiva del modello europeo di legislazione a tutela del contraente debole, e quindi di una espansione del diritto privato europeo anche in settori dove manca una puntuale normativa comunitaria. Vi è una generale tendenza ad un “neoformalismo”, che consiste nella richiesta espressa della forma scritta e nella conformazione del contenuto del contratto, che solo apparentemente limitano l’autonomia contrattuale delle parti ma che tende ad eliminare le situazioni di squilibrio dando una tutela effettiva al contraente debole. Contraente debole e non “consumatore”. L’art. 1 del decreto parla, infatti, espressamente di “persona fisica”. Secondo gli orientamenti dottrinali maggioritari dalla nuova disciplina resterebbero esclusi, e quindi non rientrerebbero nella definizione di “acquirenti”, le società, le persone giuridiche e gli enti collettivi in generale. Si riconosce la figura del “professionista debole”, giacché si riconosce che l’acquisto di un immobile da costruire sia un’operazione che, in virtù della sua importanza economica, viene gestita con maggiore avvedutezza: l’acquisto di un immobile non è propriamente “atto di consumo”in senso tecnico. L’esigenza di tutela è diversa: si vuole tutelare l’acquirente in considerazione dell’intrinseca rischiosità dell’operazione, stabilendo alcuni profili fondamentali del contenuto del contratto non solo e non tanto a fini informativi, quanto piuttosto per una “tutela sostanziale” dell’acquirente. Il legislatore si preoccupa di predisporre garanzie obbligatorie per il caso di dissesto dell’impresa costruttrice. Le garanzie, quindi, come forma di tutela del contraente debole. Il mio lavoro si concentra, a questo punto, sulle garanzie personali e reali. Poche le novità sulle garanzie, ma alcune significative. Nel campo delle garanzie personali, acquista maggiore rilevanza la fideiussione prestata dal contraente forte a favore del contraente debole, affinché quest’ultimo possa recuperare tutte le somme investite per l’acquisto dell’immobile: sia esso un immobile in multiproprietà, sia esso un immobile ancora da costruire. E ancora le garanzie reali: pegno e ipoteca. Ho posto particolare attenzione al tema della "portabilità" dei mutui e surrogazione ex art. 1202 c.c. ed al tema delle formalità ipotecarie così come previsti dagli artt. 6, 7 e 8 della l. 2 aprile 2007, n. 40 sulla concorrenza. Ma la mia attenzione si è soffermata soprattutto sul tema della nullità ed in particolare sulla nullità relativa. La più recente legislazione speciale, specie quella di derivazione europea, ha dato un grosso scossone alla dogmatica tradizionale della nullità negoziale. Le fattispecie di nullità relativa sono sempre più frequenti, tanto da far parlare di una nuova categoria di nullità c.d. “nullità di protezione”. Quest’ultima risponde ad esigenze profondamente differenti dalla nullità assoluta di stampo codicistico. In luogo della nullità, sembra oggi più corretto parlare delle nullità: diverse categorie di invalidità, ciascuna delle quali soddisfa interessi diversificati, e come tale riceve anche una disciplina differenziata in termini di legittimazione all’azione, rilevabilità d’ufficio, prescrittibilità, sanabilità, opponibilità ai terzi. Ancora una volta partendo da un’analisi critica del D.lgs. 122/2005, ho avuto modo di approfondire il fondamentale tema della nullità nel nostro ordinamento. L’art. 2 del decreto stabilisce espressamente la nullità relativa, e cioè azionabile dal solo acquirente parte debole del contratto, nel caso in cui non sia rilasciata dal venditore la fideiussione. L’art. 6 stabilisce, invece, un contenuto minimo del contratto poste a tutela della parte debole e del corretto funzionamento del mercato immobiliare. Se ad alcune di esse può attribuirsi un valore meramente ordinatorio, altre al contrario rivestono una natura di norme imperative di ordine pubblico attinenti più precisamente al c.d. ordine pubblico di protezione ed al c.d. ordine pubblico di direzione. Nel sistema del nostro codice, la violazione di norma imperative dà luogo, ex art. 1418, alla nullità del contatto salvo che la legge stabilisca diversamente. E’quindi configurabile una nullità virtuale del contratto, ovvero non espressamente e letteralmente stabilita, ma che può essere desunta dal tenore imperativo delle norme. La dottrina prevalente è ormai orientata nel senso di ammettere che anche la nullità relativa possa essere virtuale, nel quadro di un orientamento, ormai dominante, volto al superamento dell’approccio tendente a far rientrare nell’eccezionalità qualsiasi difformità dal modello classico della nullità. Il problema, quindi, si sposta all’individuazione della natura imperativa della norma violata. In linea generale si afferma che perché una norma possa essere definita imperativa debba porre un comando o un divieto espresso, debba essere inderogabile ed indisponibile. Oggetto di dibattiti dottrinali è, poi, il tema della rilevabilità d’ufficio delle nullità relative. A fronte di una prima posizione dottrinale tendente ad escludere tale rilevabilità d’ufficio sul presupposto di una sua inconciliabilità con il regime di legittimazione relativa all’azione di nullità, dottrina e giurisprudenza più recenti appaiono concordi nel ritenere assolutamente conciliabili tali due profili. Si concorda, inoltre, sull’esistenza di limitazioni alla rilevabilità d’ufficio della nullità: la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma tale rilievo deve operare nell’esclusivo interesse del contraente debole, dovendo il giudice bloccarsi davanti ad un concreto interesse della parte a mantenere in vita il contratto. Discorso a sé stante deve poi esser fatto sul rapporto fra nullità relativa e nullità virtuale e responsabilità del notaio rogante. Secondo l’orientamento dominante della giurisprudenza, nella misura in cui vi sia una violazione di norme imperative, e l’imperatività sia evidente, manifesta, dal tenore delle disposizioni, deve ritenersi che la nullità, sia testuale che virtuale, comporti la responsabilità del notaio ai sensi dell’art. 28 l. not. Ogni qualvolta, viceversa, tale nullità non si configuri, la responsabilità disciplinare sarà esclusa. Si avverte, comunque, una prima apertura verso la sanzionabilità delle nullità relative che siano manifeste. In chiusura del mio lavoro non ho potuto non tenere conto della recente crisi dei mercati internazionali. Crisi che ha avuto inizio proprio con il crollo negli Stati Uniti dei settori immobiliare e finanziario, improntati verso una eccessiva deregolamentazione e valorizzazione dell’autonomia contrattuale delle parti. L’assenza di garanzie sicure e la carenza di controllo di un professionista corrispondente al nostro notaio pubblico ufficiale, ha portato ad investimenti e finanziamenti azzardati da parte delle banche e degli istituti di credito che stanno vivendo un momento di profonda crisi aprendo la strada ad una recessione economica di portata mondiale.
Resumo:
La mia tesi dal titolo ”Applicazione della tecnica PSinSAR™ allo studio di fenomeni franosi lenti: casi di studio in Emilia-Romagna” ha avuto come obiettivo quello di mostrare le potenzialità e i limiti della tecnica PSinSAR nel monitoraggio di fenomeni franosi localizzati in Val Marecchia. Ho svolto, nel capitolo due, un’analisi preliminare dell’area di studio andando a evidenziare prima le caratteristiche climatiche, piogge medie annue e le temperature minime e massime, e a seguire sono passato a descrivere l’inquadramento geologico e geomorfologico. L’area della Val Marecchia è, da questo punto di vista, molto particolare poggiando su quella che è definita dagli autori “coltre della Val Marecchia”; essa è un complesso alloctono sovrascorso ai terreni autoctoni della successione Umbro – Romagnola - Marchigiana. La traslazione verso Est della coltre avvenne per "scatti", in funzione delle principali fasi tettoniche appenniniche, separati da momenti di pausa in cui sedimentarono le formazioni più recenti le quali poi si spostarono in modo solidale con la coltre. La coltre, infatti, è costituita da un insieme di formazioni di età diverse e in particolare ritroviamo, partendo da quella più antica l’unità ligure, l’unità subligure e infine l’unità epiligure. La presenza di formazioni più recenti sopra ad altre più antiche rende unica la morfologia della vallata con enormi blocchi rocciosi poggianti su un substrato in genere argilloso come nell’esempio più famoso della rupe di San Leo. Da queste analisi è emersa un’altra caratteristica peculiare della valle cioè la forte tendenza a essere interessata da dissesti di varie tipologie. Gli indici di franosità mostrano che nella zona alta della vallata circa il 50% del territorio è interessato da dissesti, valore che decresce leggermente nella parte media e bassa della valle. Il motivo di tale instabilità è da imputare in parte alla forte erosione che avviene sulle placche epiliguri e in parte alle caratteristiche scadenti del substrato che è per lo più composto di argille e arenarie. Per quanto riguarda le tipologie di frane in Val Marecchia la situazione è molto eterogenea; in particolari le tre tipologie più frequenti sono il colamento lento, lo scivolamento rotazionale/traslativo e le frane di tipo complesso. Nel terzo capitolo ho descritto la tecnica PSinSAR; essa si basa sull’elaborazione di scene riprese da satellite per giungere alla formazione di una rete di punti, i PS, di cui conosciamo i movimenti nel tempo. I Permanent Scatterer (PS) sono dei bersagli radar individuati sulla superficie terrestre dal sensori satellitari caratterizzati per il fatto di possedere un’elevata stabilità nel tempo alla risposta elettromagnetica. I PS nella maggior parte dei casi corrispondono a manufatti presenti sulla superficie quali edifici, monumenti, strade, antenne e tralicci oppure ad elementi naturali come per esempio rocce esposte o accumuli di detrito. Lo spostamento viene calcolato lungo la linea di vista del satellite, per cui il dato in uscita non mostra lo spostamento effettivo del terreno, ma l'allontanamento o l'avvicinamento del punto rispetto al satellite. La misure sono sempre differenziali, ovvero sono riferite spazialmente a un punto noto a terra chiamato reference point, mentre temporalmente alla data di acquisizione della prima immagine. La tecnica PSinSAR proprio per la sua natura è "cieca" rispetto ai movimenti in direzione Nord-Sud. Le scene utilizzate per la creazione dei dataset di PS derivano quasi interamente dai satelliti ERS e ENVISAT. Tuttora sono disponibili anche le scene dei satelliti TerraSAR-X, RADARSAT e Cosmo Skymed. I sensori utilizzati in questo ambito sono i SAR (Synthetic Aperture Radar) che sono sensori attivi, cioè emettono loro stessi l'energia necessaria per investigare la superficie terrestre al contrario dei sensori ottici. Questo permette di poter acquisire scene anche di notte e in condizioni di cielo nuvoloso. La tecnica PSinSAR presenta molti vantaggi rispetto alle tecniche interferometriche tradizionali essa, infatti, è immune agli errori di decorrelamento temporale e spaziale oltre agli errori atmosferici, che portavano ad avere precisioni non inferiori a qualche cm, mentre ora l’errore di misura sulla velocità media di spostamento si attesta in genere sui 2 mm. La precisione che si ha nella georeferenziazione dei punti è in genere di circa 4-7 m lungo la direzione Est e circa 1-2 m in quella Nord. L’evoluzione di PSinSAR, SqueeSAR, permette un numero maggiore di punti poiché oltre ai Permanent Scatterers PS, tramite un apposito algoritmo, calcola anche i Distribuited Scatterer DS. I dataset di dati PS che ho utilizzato nel mio lavoro di tesi (PSinSAR) derivano, come detto in precedenza, sia da scene riprese dal satellite ERS che da ENVISAT nelle due modalità ascendenti e discendenti; nel primo caso si hanno informazioni sui movimenti avvenuti tra il 1992 e il 2000 mentre per l’ENVISAT tra il 2002 e il 2008. La presenza di dati PS nelle due modalità di ripresa sulla stessa zona permette tramite alcuni calcoli di ricavare la direzione effettiva di spostamento. È importante però sottolineare che, a seconda della modalità di ripresa, alcune aree possono risultare in ombra, per questo nell’analisi dei vari casi di studio non sempre sono stati utilizzabili tutti i dataset. Per l'analisi dei vari casi di studio, presentati nel capitolo 4, ho utilizzato diverso materiale cartografico. In particolare mi sono servito delle Carte Tecniche Regionali (CTR) a scala 1:10000 e 1:5000, in formato digitale, come base cartografica. Sempre in formato digitale ho utilizzato anche le carte geologiche e geomorfologiche dell'area della Val Marecchia (fogli 266, 267, 278) oltre, per finire, agli shapefile presi dal database online del Piano stralcio dell’Assetto Idrogeologico PAI. Il software usato per la realizzazione del lavoro di tesi è stato ArcGIS di proprietà di ESRI. Per ogni caso di studio ho per prima cosa effettuato un'analisi dal punto di vista geologico e geomorfologico, in modo da fare un quadro delle formazioni presenti oltre ad eventuali fenomeni franosi mostrati dalle carte. A seguire ho svolto un confronto fra il dato PS, e quindi i valori di spostamento, e la perimetrazione mostrata nel PAI. Per alcuni casi di studio il dato PS ha mostrato movimenti in aree già perimetrate nel PAI come "in dissesto", mentre in altri il dato satellitare ha permesso di venire a conoscenza di fenomeni non conosciuti (come ad esempio nel caso di Monte Gregorio). Per ogni caso di studio ho inoltre scelto alcuni PS caratteristici (solitamente quelli a coerenza maggiore) e ho ricavato la relativa serie storica. In questo modo è stato possibile verificare lo spostamento durante tutti gli anni in cui sono state prese le scene (dal 1992 al 2000 per dati ERS, dal 2002 al 2008 per dati ENVISAT) potendo quindi mettere in luce accelerazioni o assestamenti dei fenomeni nel tempo, oltre a escludere la presenza di trend di spostamento anomali imputabili nella maggior parte dei casi a errori nel dato. L’obiettivo della tesi è stato da una parte di verificare la bontà del dato PS nell’interpretazione dei movimenti dovuti a dissesti franosi e dall’altra di fare un confronto tra il dato di spostamento ricavato dai PS e i vari inventari o carte di piano. Da questo confronto sono emerse informazioni molti interessanti perché è stato possibile avere conferme di movimento su dissesti già conosciuti (Sant’Agata Feltria, San Leo e altri) ma anche di venire a conoscenza di fenomeni non conosciuti (Monte Gregorio). In conclusione è emerso dal mio lavoro che il monitoraggio tramite tecnica PSinSAR necessita di essere integrato con le tecniche tradizionali poiché presenta alcune limitazioni importanti come l’impossibilità di "vedere" movimenti veloci o lungo la direzione Nord-Sud, oltre ad avere dati in aree vegetate o scarsamente abitate. I vantaggi sono però notevoli potendo monitorare con un’unica ripresa vaste porzioni di territorio oltre ad avere serie storiche consistenti, in grado di evidenziare i movimenti avvenuti nel passato. Tale tecnica quindi, secondo il mio parere, può essere utilizzata come supporto alla stesura di cartografia di fenomeni franosi fornendo informazioni aggiuntive rispetto alle varie tecniche tradizionali come il GPS, sondaggi geotecnici e sondaggi inclinometrici.
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I libretti che Pascoli scrisse in forma di abbozzi e che sognò potessero calcare il palcoscenico di un teatro furono davvero un “melodramma senza musica”. In primo luogo, perché non giunsero mai ad essere vestiti di note e ad arrivare in scena; ma anche perché il tentativo di scrivere per il teatro si tinse per Pascoli di toni davvero melodrammatici, nel senso musicale di sconfitta ed annullamento, tanto da fare di quella pagina della sua vita una piccola tragedia lirica, in cui c’erano tante parole e, purtroppo, nessuna musica. Gli abbozzi dei drammi sono abbastanza numerosi; parte di essi è stata pubblicata postuma da Maria Pascoli.1 Il lavoro di pubblicazione è stato poi completato da Antonio De Lorenzi.2 Ho deciso di analizzare solo quattro di questi abbozzi, che io reputo particolarmente significativi per poter cogliere lo sviluppo del pensiero drammatico e della poetica di Pascoli. I drammi che analizzo sono Nell’Anno Mille (con il rifacimento Il ritorno del giullare), Gretchen’s Tochter (con il rifacimento La figlia di Ghita), Elena Azenor la Morta e Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante. La prima ragione della scelta risiede nel fatto che questi abbozzi presentano una lunghezza più consistente dell’appunto di uno scheletro di dramma registrato su un foglietto e, quindi, si può seguire attraverso di essi il percorso della vicenda, delle dinamiche dei personaggi e dei significati dell’opera. Inoltre, questi drammi mostrano cosa Pascoli intendesse comporre per sollevare le vesti del libretto d’opera e sono funzionali all’esemplificazione delle sue concezioni teoriche sulla musica e il melodramma, idee che egli aveva espresso nelle lettere ad amici e compositori. In questi quattro drammi è possibile cogliere bene le motivazioni della scelta dei soggetti, il loro significato entro la concezione melodrammatica del poeta, il sistema simbolico che soggiace alla creazione delle vicende e dei personaggi e i legami con la poetica pascoliana. Compiere un’analisi di questo tipo significa per me, innanzitutto, risalire alle concezioni melodrammatiche di Pascoli e capire esattamente cosa egli intendesse per dramma musicale e per rinnovamento dello stesso. Pascoli parla di musica e dei suoi tentativi di scrivere per il teatro lirico nelle lettere ai compositori e, sporadicamente, ad alcuni amici (Emma Corcos, Luigi Rasi, Alfredo Caselli). La ricostruzione del pensiero e dell’estetica musicale di Pascoli ha dovuto quindi legarsi a ricerche d’archivio e di materiali inediti o editi solo in parte e, nella maggioranza dei casi, in pubblicazioni locali o piuttosto datate (i primi anni del Novecento). Quindi, anche in presenza della pubblicazione di parte del materiale necessario, quest’ultimo non è certo facilmente e velocemente consultabile e molto spesso è semi sconosciuto. Le lettere di Pascoli a molti compositori sono edite solo parzialmente; spesso, dopo quei primi anni del Novecento, in cui chi le pubblicò poté vederle presso i diretti possessori, se ne sono perse le tracce. Ho cercato di ricostruire il percorso delle lettere di Pascoli a Giacomo Puccini, Riccardo Zandonai, Giovanni Zagari, Alfredo Cuscinà e Guglielmo Felice Damiani. Si tratta sempre di contatti che Pascoli tenne per motivi musicali, legati alla realizzazione dei suoi drammi. O per le perdite prodotte dalla storia (è il 1 Giovanni Pascoli, Nell’Anno Mille. Sue notizie e schemi da altri drammi, a c. di Maria Pascoli, Bologna, Zanichelli, 1924. 2 Giovanni Pascoli, Testi teatrali inediti, a c. di Antonio De Lorenzi, Ravenna, Longo, 1979. caso delle lettere di Pascoli a Zandonai, che andarono disperse durante la seconda guerra mondiale, come ha ricordato la prof.ssa Tarquinia Zandonai, figlia del compositore) o per l’impossibilità di stabilire contatti quando i possessori dei materiali sono privati e, spesso, collezionisti, questa parte delle mie ricerche è stata vana. Mi è stato possibile, però, ritrovare gli interi carteggi di Pascoli e i due Bossi, Marco Enrico e Renzo. Le lettere di Pascoli ai Bossi, di cui do notizie dettagliate nelle pagine relative ai rapporti con i compositori e all’analisi dell’Anno Mille, hanno permesso di cogliere aspetti ulteriori circa il legame forte e meditato che univa il poeta alla musica e al melodramma. Da queste riflessioni è scaturita la prima parte della tesi, Giovanni Pascoli, i musicisti e la musica. I rapporti tra Pascoli e i musicisti sono già noti grazie soprattutto agli studi di De Lorenzi. Ho sentito il bisogno di ripercorrerli e di darne un aggiornamento alla luce proprio dei nuovi materiali emersi, che, quando non sono gli inediti delle lettere di Pascoli ai Bossi, possono essere testi a stampa di scarsa diffusione e quindi poco conosciuti. Il quadro, vista la vastità numerica e la dispersione delle lettere di Pascoli, può subire naturalmente ancora molti aggiornamenti e modifiche. Quello che ho qui voluto fare è stato dare una trattazione storico-biografica, il più possibile completa ed aggiornata, che vedesse i rapporti tra Pascoli e i musicisti nella loro organica articolazione, come premessa per valutare le posizioni del poeta in campo musicale. Le lettere su cui ho lavorato rientrano tutte nel rapporto culturale e professionale di Pascoli con i musicisti e non toccano aspetti privati e puramente biografici della vita del poeta: sono legate al progetto dei drammi teatrali e, per questo, degne di interesse. A volte, nel passato, alcune di queste pagine sono state lette, soprattutto da giornalisti e non da critici letterari, come un breve aneddoto cronachistico da inserire esclusivamente nel quadro dell’insuccesso del Pascoli teatrale o come un piccolo ragguaglio cronologico, utile alla datazione dei drammi. Ricostruire i rapporti con i musicisti equivale nel presente lavoro a capire quanto tenace e meditato fu l’avvicinarsi di Pascoli al mondo del teatro d’opera, quali furono i mezzi da lui perseguiti e le proposte avanzate; sempre ho voluto e cercato di parlare in termini di materiale documentario e archivistico. Da qui il passo ad analizzare le concezioni musicali di Pascoli è stato breve, dato che queste ultime emergono proprio dalle lettere ai musicisti. L’analisi dei rapporti con i compositori e la trattazione del pensiero di Pascoli in materia di musica e melodramma hanno in comune anche il fatto di avvalersi di ricerche collaterali allo studio della letteratura italiana; ricerche che sconfinano, per forza di cose, nella filosofia, estetica e storia della musica. Non sono una musicologa e non è stata mia intenzione affrontare problematiche per le quali non sono provvista di conoscenze approfonditamente adeguate. Comprendere il panorama musicale di quegli anni e i fermenti che si agitavano nel teatro lirico, con esiti vari e contrapposti, era però imprescindibile per procedere in questo cammino. Non sono pertanto entrata negli anfratti della storia della musica e della musicologia, ma ho compiuto un volo in deltaplano sopra quella terra meravigliosa e sconfinata che è l’opera lirica tra Ottocento e Novecento. Molti consigli, per non smarrirmi in questo volo, mi sono venuti da valenti musicologi ed esperti conoscitori della materia, che ho citato nei ringraziamenti e che sempre ricordo con viva gratitudine. Utile per gli studi e fondamentale per questo mio lavoro è stato riunire tutte le dichiarazioni, da me conosciute finora, fornite da Pascoli sulla musica e il melodramma. Ne emerge quella che è la filosofia pascoliana della musica e la base teorica della scrittura dei suoi drammi. Da questo si comprende bene perché Pascoli desiderasse tanto scrivere per il teatro musicale: egli riteneva che questo fosse il genere perfetto, in cui musica e parola si compenetravano. Così, egli era convinto che la sua arte potesse parlare ed arrivare a un pubblico più vasto. Inoltre e soprattutto, egli intese dare, in questo modo, una precisa risposta a un dibattito europeo sul rinnovamento del melodramma, da lui molto sentito. La scrittura teatrale di Pascoli non è tanto un modo per trovare nuove forme espressive, quanto soprattutto un tentativo di dare il suo contributo personale a un nuovo teatro musicale, di cui, a suo dire, l’umanità aveva bisogno. Era quasi un’urgenza impellente. Le risposte che egli trovò sono in linea con svariate concezioni di quegli anni, sviluppate in particolare dalla Scapigliatura. Il fatto poi che il poeta non riuscisse a trovare un compositore disposto a rischiare fino in fondo, seguendolo nelle sue creazioni di drammi tutti interiori, con scarso peso dato all’azione, non significa che egli fosse una voce isolata o bizzarra nel contesto culturale a lui contemporaneo. Si potranno, anche in futuro, affrontare studi sugli elementi di vicinanza tra Pascoli e alcuni compositori o possibili influenze tra sue poesie e libretti d’opera, ma penso non si potrà mai prescindere da cosa egli effettivamente avesse ascoltato e avesse visto rappresentato. Il che, documenti alla mano, non è molto. Solo ciò a cui possiamo effettivamente risalire come dato certo e provato è valido per dire che Pascoli subì il fascino di questa o di quell’opera. Per questo motivo, si trova qui (al termine del secondo capitolo), per la prima volta, un elenco di quali opere siamo certi Pascoli avesse ascoltato o visto: lo studio è stato possibile grazie ai rulli di cartone perforato per il pianoforte Racca di Pascoli, alle testimonianze della sorella Maria circa le opere liriche che il poeta aveva ascoltato a teatro e alle lettere del poeta. Tutto questo è stato utile per l’interpretazione del pensiero musicale di Pascoli e dei suoi drammi. I quattro abbozzi che ho scelto di analizzare mostrano nel concreto come Pascoli pensasse di attuare la sua idea di dramma e sono quindi interpretati attraverso le sue dichiarazioni di carattere musicale. Mi sono inoltre avvalsa degli autografi dei drammi, conservati a Castelvecchio. In questi abbozzi hanno un ruolo rilevante i modelli che Pascoli stesso aveva citato nelle sue lettere ai compositori: Wagner, Dante, Debussy. Soprattutto, Nell’Anno Mille, il dramma medievale sull’ultima notte del Mille, vede la significativa presenza del dantismo pascoliano, come emerge dai lavori di esegesi della Commedia. Da questo non è immune nemmeno Aasvero o Caino nel trivio o l’Ebreo Errante, che è il compimento della figura di Asvero, già apparsa nella poesia di Pascoli e portatrice di un messaggio di rinascita sociale. I due drammi presentano anche una specifica simbologia, connessa alla figura e al ruolo del poeta. Predominano, invece, in Gretchen’s Tochter e in Elena Azenor la Morta le tematiche legate all’archetipo femminile, elemento ambiguo, materno e infero, ma sempre incaricato di tenere vivo il legame con l’aldilà e con quanto non è direttamente visibile e tangibile. Per Gretchen’s Tochter la visione pascoliana del femminile si innesta sulle fonti del dramma: il Faust di Marlowe, il Faust di Goethe e il Mefistofele di Boito. I quattro abbozzi qui analizzati sono la prova di come Pascoli volesse personificare nel teatro musicale i concetti cardine e i temi dominanti della sua poesia, che sarebbero così giunti al grande pubblico e avrebbero avuto il merito di traghettare l’opera italiana verso le novità già percorse da Wagner. Nel 1906 Pascoli aveva chiaramente compreso che i suoi drammi non sarebbero mai arrivati sulle scene. Molti studi e molti spunti poetici realizzati per gli abbozzi gli restavano inutilizzati tra le mani. Ecco, allora, che buona parte di essi veniva fatta confluire nel poema medievale, in cui si cantano la storia e la cultura italiane attraverso la celebrazione di Bologna, città in cui egli era appena rientrato come professore universitario, dopo avervi già trascorso gli anni della giovinezza da studente. Le Canzoni di Re Enzio possono quindi essere lette come il punto di approdo dell’elaborazione teatrale, come il “melodramma senza musica” che dà il titolo a questo lavoro sul pensiero e l’opera del Pascoli teatrale. Già Cesare Garboli aveva collegato il manierismo con cui sono scritte le Canzoni al teatro musicale europeo e soprattutto a Puccini. Alcuni precisi parallelismi testuali e metrici e l’uso di fonti comuni provano che il legame tra l’abbozzo dell’Anno Mille e le Canzoni di Re Enzio è realmente attivo. Le due opere sono avvicinate anche dalla presenza del sostrato dantesco, tenendo presente che Dante era per Pascoli uno dei modelli a cui guardare proprio per creare il nuovo e perfetto dramma musicale. Importantissimo, infine, è il piccolo schema di un dramma su Ruth, che egli tracciò in una lettera della fine del 1906, a Marco Enrico Bossi. La vicinanza di questo dramma e di alcuni degli episodi principali della Canzone del Paradiso è tanto forte ed evidente da rendere questo abbozzo quasi un cartone preparatorio della Canzone stessa. Il Medioevo bolognese, con il suo re prigioniero, la schiava affrancata e ancella del Sole e il giullare che sulla piazza intona la Chanson de Roland, costituisce il ritorno del dramma nella poesia e l’avvento della poesia nel dramma o, meglio, in quel continuo melodramma senza musica che fu il lungo cammino del Pascoli librettista.
Resumo:
L’obiettivo che l’elaborato si prefigge consiste nel dar forma ad un progetto palladiano rimasto sulla carta attraverso l’utilizzo delle tecnologie informatiche. Nello specifico si è ricostruita Villa Mocenigo in forma tridimensionale attraverso uno schizzo del progetto fatto su carta dallo stesso Palladio nel 1550. Lo schizzo della pianta, conservato al RIBA di Londra, anticiperebbe il successivo progetto finale pubblicato ne “I Quattro Libri dell’Architettura” ma rimasto comunque incompiuta. Il linguaggio di base utilizzato per la definizione dell’ipotesi progettuale del modello 3D è stato attinto dalle regole generali di proporzionamento “alla maniera degli antichi” che lo stesso Architetto illustra nel suo trattato. Al fine di rendere l’ipotesi ricostruttiva il più possibile in linea con il metodo di proporzionamento palladiano, come esercitazione, si è partiti dallo studio preparatorio di un altro progetto: Villa Sarego, edificata solo in parte. A partire quindi dalla ricostruzione 3D basata sui disegni dei rilievi eseguiti dal CISAAP è stata avanzata l’ipotesi di ricostruzione totale della villa, completa della parte incompiuta. Lo studio sintetizzato in questo elaborato ha anche riguardato: la composizione architettonica e lo studio delle regole proporzionali evolutesi nel tempo; il processo di digitalizzazione e archiviazione delle opere palladiane e i progetti attualmente in corso; escursus storico sulle ville romane; le opera di Palladio, costruite e progettate.
Resumo:
Il lavoro tratta l’applicazione di un progetto di Certificazione del Sistema di Gestione della Qualità di un’innovativa linea di Business nel settore delle macchine per il confezionamento delle bevande. Questo lavoro è stato preparato durante un periodo di Stage della durata di sei mesi effettuato presso SACMI IMOLA S.C. (Imola, BOLOGNA) a seguito della necessità, riscontrata dal management, di allineare il sistema gestione qualità della nuova linea di business alla normativa ISO 9001:2008, come per le altre linee di business dell’azienda. Tutto questo mediante l’implementazione di un sistema di Business Process Management (BPM) e di tutti i sistemi informatici ad esso collegati. La tesi si struttura in tre parti. Nella prima parte, attraverso un’indagine della letteratura di riferimento, si sono indagati l’evoluzione storica, la struttura attuale e i possibili scenari evolutivi inerenti il concetto di qualità, il sistema gestione qualità e la normativa di riferimento. La seconda parte è dedicata all’approfondimento delle tematiche del BPM, i cui principi hanno guidato l’intervento effettuato. La ricerca è stata condotta allo scopo di evidenziare le radici e gli elementi innovativi che contraddistinguono questo approccio di “management”, descrivere gli aspetti che ne hanno determinato la diffusione e l’evoluzione ed evidenziare, inoltre, il collegamento tra l’approccio per processi che sta alla base di questa filosofia di management e lo stesso approccio previsto nella normativa ISO 9001:2008 e, più specificatamente nella cosiddetta Vision 2000. Tale sezione si conclude con la formalizzazione delle metodologia e degli strumenti effettivamente utilizzati per la gestione del progetto. La terza ed ultima parte del lavoro consiste nella descrizione del caso. Vengono presentate le varie fasi dell’implementazione del progetto, dall’analisi dell’attuale situazione alla costruzione dell’infrastruttura informatica per l’attuazione del BPM ottenuta attraverso l’applicazione dei “criteri di progettazione” trattati dalla letteratura di riferimento, passando per la mappatura dei processi attualmente in vigore e per l’analisi delle performance del processo attuale, misurate attraverso indicatori sviluppati “ad hoc”. Il lavoro è arricchito dall’analisi di un’innovativa metodologia per la creazione di un sistema di gestione integrato delle certificazioni (ISO 9001, ISO 14001, OHSAS 18001) fondato sull’infrastruttura informatica creata.
Resumo:
Il progetto di tesi, inizialmente, è stato concentrato sull’approfondimento, e studio, delle problematiche relative alla costruzione delle linee ad Alta Velocità, che hanno recentemente segnato il territorio italiano, da nord a sud e da ovest ad est. Proseguendo l’analisi sul sistema ferroviario, tramite il confronto con le altre realtà europee, ho compreso quali fossero le principali criticità e doti del trasporto su ferro in Italia, che è ancora molto lontano dalla sua miglior ottimizzazione, ma che comunque, ci tengo a dire, in rapporto a ciò che succede negli altri paesi d’Europa, non è così deficitario come si è portati a pensare. L’entrata in funzione delle linee ad Alta Velocità, infatti, ha cambiato lo scenario di relazioni tra infrastruttura, città e territorio, proprio in questo ambito nasce la volontà di proporre un modello di sviluppo urbano che comprenda, nella sua pianificazione originale, città, infrastruttura ed architettura, e che anzi rivendichi l’importanza di quest’ultima nelle scelte urbanistiche, al contrario di quanto purtroppo avviene oggi. Dopo uno studio dei contesti possibili in cui inserire un progetto di questa portata, è stata individuata la zona che meglio si adatta alle premesse iniziali, ad ovest di Milano tra Novara e l’aeroporto di Milano Malpensa. Qui la scarsa razionalizzazione dei trasporti pregiudica lo sfruttamento delle potenzialità dell’aeroporto da una parte, e della nuova linea ad Alta Velocità dell’altra, così aggiungendo una nuova tratta di ferrovia ad alte prestazioni e riorganizzando trasporti e territorio, ho tentato di dare risposta alle mancanze del sistema della mobilità. In questo quadro si inserisce la città lineare studiata per dimostrare la possibile integrazione tra trasporti, città ed architettura, il modello, partendo dallo studio del blocco milanese giunge a definire un piano di tipo composto, con un asse principale in cui sono concentrate le vie di trasporto, ed una serie di assi ortogonali secondari che individuano le emergenze architettoniche, punti notevoli che devono fungere da catalizzatori. In uno di questi punti, posto in posizione baricentrica è stato collocato il centro di ricerca avanzata, in particolare è stato inserito in una zona difficilmente raggiungibile, questo per enfatizzare l’isolamento e la riservatezza che sono necessarie alla funzione. Il campus avrebbe potuto trovarsi anche in un altro punto del piano e questo non avrebbe inficiato le premesse iniziali, il progetto dell’università è solo un pretesto per dimostrare l’ipotesi prima dichiarata, l’architettura può e deve svolgere un ruolo importante nella pianificazione anche infrastrutturale.
Resumo:
Questa tesi di laurea si pone in continuità rispetto all’esperienza maturata nel Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanistica “Spiagge urbane. Paesaggi, luoghi, architetture nella città balneare adriatica”. Nel corso del Laboratorio è stata condotta una riflessione sulle possibili strategie di “dedensificazione” della località balneare di Viserbella, nella Riviera di Rimini. La tesi è quindi l’occasione per ripensare lo sviluppo e la trasformazione di una parte del litorale riminese, creando una città balneare capace di conferire un’impronta indelebile nel tessuto esistente. L’esigenza di “dedensificare” nasce per dare una concreta risposta ad un incontrollato sviluppo turistico che ha creato contemporaneamente l’affascinante prodotto che è la costa romagnola, e il tessuto completamente saturo e senza alcuna pianificazione urbanistica, sviluppatosi, per lo più, tra la linea di costa e la linea ferroviaria. La storia di Viserbella, posta tra Torre Pedrera e Viserba, inizia nei primi decenni del Novecento, ma il vero sviluppo, legato al boom turistico, avviene negli anni Cinquanta, quando la località si satura di edifici, alcuni dei quali di scarso valore architettonico e collocati sull’arenile, e di infrastrutture inefficienti. Lo studio dell’area di progetto si articola in quattro fasi. La prima riguarda l’analisi territoriale della costa romagnola compresa tra Cesenatico e Cattolica, con un raffronto particolare tra la piccola località e la città di Rimini. La seconda parte è volta a ricostruire, invece, le fasi dello sviluppo urbano dell’agglomerato. La ricerca bibliografica, archivistica, cartografica e le interviste agli abitanti ci hanno permesso la ricostruzione della storia di Viserbella. La terza parte si concentra sull’analisi urbana, territoriale, ambientale e infrastrutturale e sull’individuazione delle criticità e delle potenzialità della località determinate, in particolar modo, dai sopraluoghi e dai rilievi fotografici. Basilari sono state, in questo senso, le indagini svolte tra i residenti che ci hanno mostrato le reali necessità e le esigenze della località e il raffronto con gli strumenti urbanistici vigenti. La fase di ricerca è stata seguita da diversi docenti e professionisti che hanno lavorato con noi per approfondire diversi aspetti come i piani urbanistici, lo studio del paesaggio e dell’area. Con i risultati ottenuti dalle indagini suddette abbiamo redatto il metaprogetto alla scala urbana che identifica le strategie di indirizzo attraverso le quali si delineano le azioni di programmazione, finalizzate al raggiungimento di un risultato. La conoscenza del territorio, le ricerche e le analisi effettuate, permettono infatti di poter operare consapevolmente nella quarta fase: quella progettuale. Il progetto urbanistico di “dedensificazione” per la località di Viserbella ha come presupposto primario la sostituzione dell’attuale linea ferroviaria Rimini-Ravenna con una linea a raso che migliori i collegamenti con le località vicine e la qualità della vita, dando ulteriori possibilità di sviluppo all’insediamento oltre la ferrovia. Da questo emergono gli altri obiettivi progettuali tra cui: riqualificare l’area a monte della ferrovia che attualmente si presenta degradata e abbandonata; rafforzare e creare connessioni tra entroterra e litorale; riqualificare il tessuto esistente con l’inserimento di spazi pubblici e aree verdi per la collettività; “restituire” la spiaggia al suo uso tradizionale, eliminando gli edifici presenti sull’arenile; migliorare i servizi esistenti e realizzarne di nuovi allo scopo di rinnovare la vita della collettività e di creare spazi adeguati alle esigenze di tutti. Restituire un’identità a questo luogo, è l’intento primario raggiungibile integrando gli elementi artificiali con quelli naturali e creando un nuovo skyline della città. La progettazione della nuova Viserbella pone le basi per forgiare degli spazi urbani e naturali vivibili dagli abitanti della località e dai turisti, sia in estate che in inverno.