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Resumo:
Il lavoro di ricerca tenta di inquadrare sotto nuove prospettive una problematica ormai classica all’interno della semiotica della pubblicità: l’analisi dello spot. I punti chiave del lavoro – e la pretesa di una certa differenza rispetto a lavori con oggetti affini – consistono sostanzialmente in tre aspetti. Innanzitutto, vi è un ritorno alle origini flochiane nella misura in cui non solo il contesto complessivo e le finalità che la ricerca si propone sono fortemente ancorati all’interno di obiettivi di marketing, ma tutto lo studio nella sua interezza nasce dal dialogo concreto tra metodologia di analisi semiotica e prassi concreta all’interno degli istituti di ricerca di mercato. La tesi non presenta quindi una collezione di analisi di testi pubblicitari condotte in modo autoriferito, quanto piuttosto di “messe alla prova” della metodologia, funzionali alla definizione di disegni di ricerca per la marketing research. Questo comporta un dialogo piuttosto stretto con metodologie affini (sociologia qualitativa e quantitativa, psicologia motivazionale, ecc.) nella convinzione che la priorità accordata all’oggetto di analisi sia sovraordinata rispetto all’ortodossia degli strumenti metodologici. In definitiva, lo spot è sempre e comunque analizzato all’interno di una prospettiva brand-centrica che ha ben in mente la semiotica della situazione di consumo rispetto alla quale lo spot agisce da leva di valorizzazione per l’acquisto. In secondo luogo, gli oggetti analizzati sono piuttosto vari e differenziati: non solo lo spot nella sua versione audiovisiva definitiva (il “girato”), ma anche storyboard, animatic, concept (di prodotto e di comunicazione). La prospettiva generativa greimasiana va a innestarsi su problematiche legate (anche) alla genesi dello spot, alla sua progettazione e riprogettazione/ottimizzazione. La tesi mostra quindi come una semiotica per le consulenze di marketing si diriga sul proprio oggetto ponendogli domande ben circoscritte e finalizzate a un obiettivo specifico, sostanzialmente derivato dal brief contenente le intenzioni comunicazionali del cliente-azienda. Infine, pur rimanendo all’interno di una teoria semiotica generativa (sostanzialmente greimasiana e post greimasiana), la ricerca adotta una prospettiva intrinsecamente multidisciplinare che se da un lato guarda a problematiche legate al marketing, al branding e alla comunicazione pubblicitaria e d’impresa tout court, dall’altro ritorna alle teorie dell’audiovisivo, mostrando affinità e differenze rispetto a forme audiovisive standard (il “film”) e a mutuazioni da nuove estetiche (la neotelevisione, il videoclip, ecc). La tesi si mostra solidamente convinta del fatto che per parlare di efficacia discorsiva sia imprescindibile approfondire le tematiche riguardanti il sincretismo espressivo e le specifiche modalità di manifestazione stilistica. In questo contesto, il lavoro si compone di quattro grandi aree tematiche. Dopo una breve introduzione sull’attualità del tema “spot” e sulla prospettiva analiticometodologica adottata (§ 1.), nel secondo capitolo si assume teoreticamente che i contenuti dello spot derivino da una specifica (e di volta in volta diversa) creolizzazione tra domini tematici derivanti dalla marca, dal prodotto (inteso tanto come concept di prodotto, quanto come prodotto già “vestito” di una confezione) e dalle tendenze socioculturali. Le tre dimensioni vengono valutate in relazione all’opposizione tra heritage, cioè continuità rispetto al passato e ai concorrenti e vision, cioè discontinuità rispetto alla propria storia comunicazionale e a quella dei concorrenti. Si esplorano inoltre altri fattori come il testimonial-endorser che, in quanto elemento già intrinsecamente foriero di elementi di valorizzazione, va a influire in modo rilevante sul complesso tematico e assiologico della pubblicità. Essendo la sezione della tesi che prende in considerazione il piano specificatamente contenutistico dello spot, questa parte diventa quindi anche l’occasione per ritornare sul modello delle assiologie del consumo di Jean-Marie Floch, approntando alcune critiche e difendendo invece un modello che – secondo la prospettiva qui esposta – contiene punti di attualità ineludibili rispetto a schematizzazioni che gli sono successive e in qualche modo debitrici. Segue una sezione (§ 3.) specificatamente dedicata allo svolgimento e dis-implicazione del sincretismo audiovisivo e quindi – specularmente alla precedente, dedicata alle forme e sostanze del contenuto – si concentra sulle dinamiche espressive. Lo spot viene quindi analizzato in quanto “forma testuale” dotata di alcune specificità, tra cui in primis la brevità. Inoltre vengono approfondite le problematiche legate all’apporto di ciascuna specifica sostanza: il rapporto tra visivo e sonoro, lo schermo e la sua multiprospetticità sempre più evidente, il “lavoro” di punteggiatura della musica, ecc. E su tutto il concetto dominante di montaggio, intrinsecamente unito a quello di ritmo. Il quarto capitolo ritorna in modo approfondito sul rapporto tra semiotica e ricerca di mercato, analizzando sia i rapporti di reciproca conoscenza (o non conoscenza), sia i nuovi spazi di intervento dell’analisi semiotica. Dopo aver argomentato contro un certo scetticismo circa l’utilità pragmatica dell’analisi semiotica, lo studio prende in esame i tradizionali modelli di valutazione e misurazione dell’efficacia pubblicitaria (pre- e post- test) cercando di semiotizzarne il portato. Ne consegue la proposta di disegni di ricerca semiotici modulari: integrabili tra loro e configurabili all’interno di progetti semio-quali-quantitativi. Dopo aver ridefinito le possibilità di un’indagine semiotica sui parametri di efficacia discorsiva, si procede con l’analisi di un caso concreto (§ 5.): dato uno spot che si è dimostrato efficace agli occhi dell’azienda committente, quali possono essere i modi per replicarne i fattori di successo? E come spiegare invece quelli di insuccesso delle campagne successive che – almeno teoricamente – erano pensate per capitalizzare l’efficacia della prima? Non si tratta quindi di una semiotica ingenuamente chiamata a “misurare” l’efficacia pubblicitaria, che evidentemente la marketing research analizza con strumenti quantitativi assodati e fondati su paradigmi di registrazione di determinati parametri sul consumatore (ricordo spontaneo e sollecitato, immagine di marca risultante nella mente di user e prospect consumer, intenzione d’acquisto stimolata). Piuttosto l’intervento qui esposto si preoccupa più funzionalmente a spiegare quali elementi espressivi, discorsivi, narrativi, siano stati responsabili (e quindi prospetticamente potranno condizionare in positivo o in negativo in futuro) la ricezione dello spot. L’analisi evidenzia come elementi apparentemente minimali, ancorati a differenti livelli di pertinenza siano in grado di determinare una notevole diversità negli effetti di senso. Si tratta quindi di un problema di mancata coerenza tra intenzioni comunicative e testo pubblicitario effettivamente realizzato. La risoluzione di tali questioni pragmatiche conduce ad approfondimenti teoricometodologici su alcuni versanti particolarmente interessanti. In primo luogo, ci si interroga sull’apporto della dimensione passionale nella costruzione dell’efficacia e nel coinvolgimento dello spettatore/consumatore. Inoltre – e qui risiede uno dei punti di maggior sintesi del lavoro di tesi – si intraprende una proficua discussione dei modelli di tipizzazione dei generi pubblicitari, intesi come forme discorsive. Si fanno quindi dialogare modelli diversi ma in qualche misura coestensivi e sovrapponibili come quelli di Jean Marie Floch, Guido Ferraro, Cosetta Saba e Chiara Giaccardi. Si perviene così alla costruzione di un nuovo modello sintetico, idealmente onnipervasivo e trasversale alle prospettive analizzate.
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L’area di progetto, sulla quale convergono parti costruite in tempi e modalità diverse, si confronta con limiti importanti rispetto ai quali il progetto viene declinato in modi differenti: la via Emilia, la ferrovia, l’intervento Gregotti, sull’area dell’ex Zuccherificio, il lungo Savio e la vicinanza con lo svincolo della secante; tramite il progetto si vuole disegnare un ingresso per la città di Cesena, ridefinendone i margini e un fronte per la ferrovia e per la strada. L’intento è di lavorare a un progetto a scala urbana, capace di confrontarsi con la città e di instaurare con essa un rapporto di complementarietà e integrazione. La particolare articolazione dell’area ha comportato uno studio preciso della geometria che regolasse il disegno planimetrico, in modo da chiarire le relazioni fra i diversi edifici e fra essi e gli spazi vuoti; tentando di definire un sistema di gerarchie e allineamenti chiaro e riconoscibile. La rete dei percorsi che collega i nuovi spazi, alcuni pubblici altri privati, tenta di ristabilire quel sistema di relazioni e di riprodurre quella complessità che sono l’elemento fondante della città. L’intero progetto è trattato in modo unitario, perciò se da un lato il campus è un sistema autonomo, con funzioni proprie, allo stesso tempo si relaziona a tutto il resto grazie al parco e ai percorsi accompagnati dal sistema dei portici; si crea in tal modo uno spazio articolato che concilia al suo interno l’elemento naturale, l’urbanizzazione residenziale e gli edifici dell’università; in modo che diventi un complesso riconoscibile e allo stesso tempo integrato nella città e fruibile dai cittadini.
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La tesi si pone come obiettivo quello di indagare le mostre di moda contemporanee come macchine testuali. Se consideriamo l’attuale panorama del fashion design come caratterizzato da una complessità costitutiva e da rapidi mutamenti che lo attraversano, e se partiamo dal presupposto che lo spettro di significati che uno stile di abbigliamento e i singoli capi possono assumere è estremamente sfuggente, probabilmente risulta più produttivo interrogarsi su come funziona la moda, su quali sono i suoi meccanismi di produzione di significato. L’analisi delle fashion exhibition si rivela quindi un modo utile per affrontare la questione, dato che gli allestimenti discorsivizzano questi meccanismi e rappresentano delle riflessioni tridimensionali attorno a temi specifici. La mostra di moda mette in scena delle eccezionalità che magnificano aspetti tipici del funzionamento del fashion system, sia se ci rivolgiamo alla moda dal punto di vista della produzione, sia se la consideriamo dal punto di vista della fruizione. L’indagine ha rintracciato nelle mostre curate da Diana Vreeland al Costume Institute del Metropolitan Museum di New York il modello di riferimento per le mostre di moda contemporanee. Vreeland, che dal 1936 al 1971 è stata prima fashion editor e poi editor-in-chief rispettivamente di “Harper’s Bazaar” e di “Vogue USA”, ha segnato un passaggio fondamentale quando nel 1972 ha deciso di accettare il ruolo di Special Consultant al Costume Institute. È ormai opinione diffusa fra critici e studiosi di moda che le mostre da lei organizzate nel corso di più di un decennio abbiano cambiato il modo di mettere in scena i vestiti nei musei. Al lavoro di Vreeland abbiamo poi accostato una recente mostra di moda che ha fatto molto parlare di sé: Spectres. When Fashion Turns Back, a cura di Judith Clark (2004). Nell’indagare i rapporti fra il fashion design contemporaneo e la storia della moda questa mostra ha utilizzato macchine allestitive abitate dai vestiti, per “costruire idee spaziali” e mettere in scena delle connessioni non immediate fra passato e presente. Questa mostra ci è sembrata centrale per evidenziare lo sguardo semiotico del curatore nel suo interrogarsi sul progetto complessivo dell’exhibition design e non semplicemente sullo studio degli abiti in mostra. In questo modo abbiamo delineato due posizioni: una rappresentata da un approccio object-based all’analisi del vestito, che si lega direttamente alla tradizione dei conservatori museali; l’altra rappresentata da quella che ormai si può considerare una disciplina, il fashion curation, che attribuisce molta importanza a tutti gli aspetti che concorrono a formare il progetto allestitivo di una mostra. Un lavoro comparativo fra alcune delle più importanti mostre di moda recentemente organizzate ci ha permesso di individuare elementi ricorrenti e specificità di questi dispositivi testuali. Utilizzando il contributo di Manar Hammad (2006) abbiamo preso in considerazione i diversi livelli di una mostra di moda: gli abiti e il loro rapporto con i manichini; l’exhibition design e lo spazio della mostra; il percorso e la sequenza, sia dal punto di vista della strategia di costruzione e dispiegamento testuale, sia dal punto di vista del fruitore modello. Abbiamo così individuato quattro gruppi di mostre di moda: mostre museali-archivistiche; retrospettive monografiche; mostre legate alla figura di un curatore; forme miste che si posizionano trasversalmente rispetto a questi primi tre modelli. Questa sistematizzazione ha evidenziato che una delle dimensione centrali per le mostre di moda contemporanee è proprio la questione della curatorship, che possiamo leggere in termini di autorialità ed enunciazione. Si sono ulteriormente chiariti anche gli orizzonti valoriali di riferimento: alla dimensione dell’accuratezza storica è associata una mostra che predilige il livello degli oggetti (gli abiti) e un coinvolgimento del visitatore puramente visivo; alla dimensione del piacere visivo possiamo invece associare un modello di mostra che assegna all’exhibition design un ruolo centrale e “chiede” al visitatore di giocare un ruolo pienamente interattivo. L’approccio curatoriale più compiuto ci sembra essere quello che cerca di conciliare queste due dimensioni.
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Il MUV, ovvero il Museo della Vela di Ravenna vuole ripercorrere la storia della navigazione a vela dai primordi ai giorni nostri. La quantità di materiale ed il tema di enormi dimensioni richiedono la semplificazione dell’apparato museologico. La vela, come la ruota, è stata probabilmente una delle più grandi invenzioni nella storia dell’umanità considerando che la maggior parte del globo è composta da acqua, permetteva di muoversi, emigrare, esplorare, scappare, procacciare cibo, comunicare, conquistare e commerciare. In questo museo si vuole ripercorrere la storia della vela attraverso i cambiamenti significativi delle tre parti fondamentali di una imbarcazione a vela: scafo, timone e vela. Infatti, ognuno di questi componenti è stato, durante la storia dell’uomo, ottimizzato e trasformato per poter sfruttare al massimo l’energia del vento. Le sezioni espositive saranno divise per grandi periodi significativi della storia, cercando di creare un filo conduttore. Dapprima la vela era utilizzata per muoversi più velocemente e per cercare cibo, poi per il trasporto e la vendita di materie prime e successivamente per andare alla scoperta del mondo e per combattere mentre ora è anche strumento di diletto o competizione sportiva. Tutti questi casi sono accumunati dalla volontà dell’uomo di arrivare sempre per primo, a prescindere dall’epoca o dallo scopo. In fondo all’inizio si competeva per raggiungere per primi un nuovo territorio, poi arrivare primi voleva dire decidere il prezzo delle spezie sul mercato e successivamente avere una barca veloce permetteva poter sfuggire al nemico o catturarlo. Adesso si compete per sport, per diletto o , secondo le ultime necessità ecosostenibili, per riuscire a muoversi più velocemente possibile ma anche nel modo più economico e sostenibile. Il MUV cerca di raccontare la continua ed infinita “ regata ” che l’uomo nel corso dei secoli compie con se stesso e di mostrare al visitatore come sono cambiati scafi, vele e metodi di navigazione durante la storia. Il progetto nasce dall’idea di valorizzare l’area urbana in sponda sinistra del Canale Candiano nella città di Ravenna compresa tra le vie Eustachio Manfredi, Montecatini, delle Industrie e Salona oggi area a destinazione industriale in forte trasformazione con utilizzo futuro a prevalenza civica, ossia per l’istruzione , la ricerca, lo svago e cultura. I principali obiettivi sono stati il miglioramento dell’accessibilità del Canale Candiano dagli spazi circostanti, rendendo fruibile al visitatore soprattutto le rive del canale riavvicinando così la città all’acqua e la progettazione di idonei edifici museali e di ricerca per accogliere, mostrare e conservare il patrimonio e di creare un anello di congiunzione funzionale e culturale all’interno del tessuto urbano creando interconnessioni tra i vari livelli di conoscenza e di accessibilità nel mondo velico. La volontà è stata quella di non creare un’isola nella città ma di creare un anello di congiunzione funzionale e culturale all’interno del tessuto urbano creando interconnessioni tra i vari livelli di conoscenza e di accessibilità. Nell’ area potrà accedere chi si avvicina alla vela, chi la conosce e vorrebbe saperne di più, un esperto velista o chi lavora nel settore dei materiali costruttivi o nel campo universitario e di sperimentazione. Il complesso museale è stato pensato per mantenere fruibile a tutti l’attacco a terra dandogli un carattere prettamente pubblico. Il museo vero e proprio è composto da una serie di volumi che si adagiano attorno alla grande permanenza in laterizio e calcestruzzo e insieme a questa creano una corte pubblica di 35 m x 35 m. L’intero patio con i vari camminamenti perimetrali è fruibili a chiunque, anche senza biglietto così come il corpo a ovest, orientato secondo l’asse che collega l’area al Mausoleo di Teodorico, che contiene una caffetteria, il bookshop più vari servizi. Sul lato nord e sul alto est del patio un’altra caffetteria, un ristorante e una parte di esposizione temporanea concludono l’attacco a terra dandogli definitivamente un carattere pubblico. Così facendo ho cercato di aprire lo spazio del patio verso tutta l’area mentre sul lato ovest c’è stata la volontà di chiudersi rispetto all’intorno essendo vicini a una zona residenziale e si è deciso di destinare questa parte a deposito, carico-scarico e servizi del personale. La disposizione dei volumi dell’edificio museale è stata subordinata nel rispetto dell’edificio di valore documentale in laterizio che si voleva mantenere. Partendo da una griglia modulata sugli edifici con vincoli comunali presenti nell’area il museo si è sviluppato come blocchi longitudinali di pochi piani. La volontà di abbracciare il volume in laterizio è stata fin da subito una delle scelte chiave e ha dato cosi forma a una grande corte che richiama i chiostri delle basiliche del centro di Ravenna, trattando quindi quasi come un monumento la vecchia fabbrica di zolfo.
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Questo progetto, maturato in seguito a profonde riflessioni basate sull’analisi e la valutazione della situazione territoriale, è scaturito dalla volontà di fornire una risposta alle carenze funzionali e strutturali di un’area dalle molteplici potenzialità. La fascia costiera di Platamona è stata al centro di progetti di lottizzazione che, invece di tutelare l’aspetto naturalistico e unificare un sistema costiero che si estende per circa otto chilometri, hanno inserito strutture prevalentemente ricettive e turistiche in maniera piuttosto arbitraria e senza tener conto della possibilità di organizzare il progetto d’intervento tramite un apposito strumento urbanistico. Il risultato, un tessuto edilizio disomogeneo e disorganizzato, non contribuisce certo alla volontà di attribuire un carattere e un’identità al luogo; anzi, la frequenza di aree in stato di abbandono, che rischiano di diventare discariche a cielo aperto fa quasi pensare ad una situazione di stallo e di incuria sia da parte delle amministrazioni che dei privati. L’idea del progetto deriva da un approccio che ha come obiettivo il massimo sfruttamento delle risorse locali e il minor impatto possibile sul paesaggio e sul sistema attuale. La volontà è quella di riorganizzare e riqualificare gli spazi più significativi, inserendoli all’interno di un sistema di percorsi e connessioni che vogliono unificare e rendere fruibile l’intero sistema costiero fra Platamona e Marina di Sorso. Inoltre è da rivalutare l’aspetto naturalistico del SIC dello Stagno e Ginepreto di Platamona, un’oasi naturalistica che ha tutte le potenzialità per essere posta al centro di un’attività di ricerca e diventare la meta di un turismo mirato. Nel Piano di gestione dello stagno sono già stati previsti e realizzati percorsi su passerelle in legno che si snodano fra i canneti e la pineta limitrofa, con alcune torrette di avvistamento, attualmente posizionate nella zona a sud. Uno degli obiettivi è dunque quello di completare questi percorsi per gran parte del perimetro dello stagno e di stabilire un percorso ciclo-pedonale ad anello che circondi e renda fruibile l’intera area del SIC. A livello di percorsi e connessioni, oltre alla nuova pista ciclabile che correrà parallelamente alla SP 81, si cercherà di fornire nuovi collegamenti anche all’ambito della spiaggia. L’idea è di costruire una passeggiata sul fronte mare che si articoli con leggere passerelle in legno fra le dune irregolari. Si snoderebbe dalla rotonda di Platamona fino alla piazza di Marina di Sorso, per una lunghezza di circa otto chilometri. Il suo scopo è di rendere fruibile l’intera fascia di spiaggia in modo da evitare un eccessivo calpestio del sistema dunario, che purtroppo risente della forte presenza antropica dei mesi estivi. Nel ripensare questi collegamenti e percorsi, si rende necessaria la creazione di aree di sosta attrezzate che si presentano con una certa periodicità, dettata dai pettini e dalle discese a mare. Vi saranno punti di sosta ombreggiati con alberature, aiuole, sedute, fontane e giochi per bambini. Diventa dunque prioritario il fatto di rendere evidente il concetto di unitarietà del sistema costiero in questione, rendendolo riconoscibile tramite l’organizzazione di spazi, episodi e percorsi. Infine il tentativo che riguarda nello specifico il Lido Iride, è quello relativo al suo recupero. L’intento è di restaurarlo e destinarlo a nuove funzioni ricreative-culturali. La struttura principale è mantenuta invariata, soprattutto le stecche che costituivano le cabine sulla spiaggia (elementi alquanto evocativi e radicati nella memoria del luogo). Il complesso sarà riorganizzato in previsione di ospitare workshop e corsi formativi riguardanti la cultura del mare e della salvaguardia dell’ambiente. Molto attuale e sempre più emergente anche in Sardegna risulta l’archeologia subacquea, a cui sono già state dedicate apposite strutture nelle zone di Cagliari e di Orosei. Dunque si riadatteranno le cabine con lo scopo di farle divenire alloggi temporanei per coloro che seguiranno tali corsi, mentre gli altri edifici del complesso fungeranno da supporto per delle lezioni all’aperto (l’arena e la piscina) e per il ristoro o l’allestimento di spazi espositivi (l’edificio centrale del lido). A causa della posizione del complesso balneare (a ridosso della spiaggia) si presuppone che il suo utilizzo sarà prevalentemente stagionale; perciò si è pensato di fornire una struttura di supporto e d’ausilio, la cui fruizione sia auspicabile anche nei mesi invernali: il Nuovo Centro Studi di Platamona. Questo nuovo complesso consiste in una struttura dotata di laboratori, aule conferenze, alloggi e ristorante. Si attesterà sul fronte mare, seguendo la direttrice del nuovo camminamento e innalzandosi su piattaforme e palafitte per non essere eccessivamente invasivo sul sistema dunario. Consisterà in due edifici di testata alti rispettivamente tre e quattro piani, ed entrambi avranno la peculiarità di avere il basamento aperto, attraversato dall’asse della passeggiata sul mare. L’edificio a tre piani ospiterà i laboratori, l’altro il ristorante. Dietro l’edificio dei laboratori si svilupperà una corte porticata che permetterà di giungere alla sala conferenza. Nella parte retrostante i due edifici di testata saranno distribuiti delle stecche di alloggi su palafitte immerse nel verde, caratterizzate da coperture con volte a botte. Lo stile architettonico del nuovo complesso si rifà all’architettura mediterranea, che s’identifica tramite l’utilizzo di basamenti e piccole aperture in facciata, l’uso di pietre e materiali da costruzioni locali, le bianche superfici che riflettono la luce e il forte segno architettonico dei muri che marcano il terreno seguendone l’orografia fino a diventare un tutt’uno.
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“Tecnologie sostenibili per il social housing”: la mia tesi affronta il tema dell’edilizia sociale cercando di capire se può ancora diventare un campo di ricerca e sperimentazione architettonica come lo è stato in più occasioni nell’ultimo secolo. La ricerca si è sviluppata in due fasi: una prima attività di studio della vicenda storica dell’abitazione sociale in Italia, con alcuni confronti europei, fino ad analizzare il nuovo quadro che si è andato delineando dalla fine degli anni ’90 e che caratterizza la situazione attuale. Successivamente, la progettazione di un piccolo intervento di edilizia abitativa che si propone di rispondere agli attuali profili della domanda, puntando a scelte tipologiche e costruttive coerenti. Nel trentennio 1950-’80, nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, e in Italia in particolare, l’edilizia popolare ha vissuto un periodo dinamico, ricco di interventi normativi da parte dello Stato, (su tutte la legge Fanfani, e le norme Gescal) che hanno permesso di realizzare molti degli edifici ancora oggi utilizzati, accelerando la ripresa economica e sociale. Dopo gli anni ’80, le ricerche e le sperimentazioni in campo architettonico si spostano verso altri temi; superata la necessità di fornire una casa a milioni di persone, il tema dell’alloggio sembra perdere il forte rilievo sociale che aveva avuto nei decenni precedenti. Fino a ritenere che il tema dell’alloggio e in particolare dell’alloggio sociale, non avesse più la necessità di essere sperimentato e approfondito. Oggi la situazione riguardante la sperimentazione non è molto diversa: sono ancora molto limitati, infatti, gli studi e le ricerche sul tema dell’alloggio sociale. Ciò che è nuovamente mutata, invece, è l’emergenza di una nuova domanda di casa e la drammatica esigenza sociale di fornire un alloggio a milioni di famiglie che non se lo possono permettere. Le dinamiche che guidano questa nuova ondata di richiesta di alloggi sono molteplici, sia di natura sociale che economica. Sul piano sociale: - l’aumento del numero delle famiglie, passate da 22.226.000 nel 200o a 24.642.000 nel 2010, con un aumento del 9,8% in un solo decennio; - la “nuclearizzazione” delle famiglie e la loro contrazione dimensionale, fino agli attuali 2,4 componenti per nucleo; - l’invecchiamento della popolazione; - l’aumento della popolazione straniera, con oltre 3.900.000 di immigrati regolari. Su quello economico: - l’aumento della povertà assoluta: in Italia 1.162.000 famiglie (4,7%) corrispondenti a 3.074.000 individui vivono sotto la soglia di povertà; - l’aumento della povertà relativa, che investe oggi 2.657.000 famiglie (9,3%) e l’aumento delle famiglie a rischio di povertà (920.000 famiglie, pari al 3,7% dei nuclei). Questi dati evidenziano la dimensione del problema abitativo e smentiscono l’opinione che si tratti di una questione marginale: nel 2010 in Italia almeno 1.162.000 non hanno le risorse per pagare un affitto, nemmeno a canone agevolato, e 4.739.000 famiglie non riescono a pagare un affitto ai prezzi del libero mercato, ma non hanno la possibilità di entrare nelle graduatorie per l’assegnazione di un alloggio sociale. Da questa panoramica sulle dimensioni del disagio abitativo, prende spunto la progettazione del mio sistema costruttivo, che si pone come obiettivo quello di ridurre i costi di costruzione tramite la standardizzazione dei componenti, consentendo di conseguenza, un minor costo di costruzione e quindi la possibilità di canoni di affitto ridotti, mantenendo buoni standard di qualità degli alloggi, sostenibilità ambientale e risparmio energetico. Le linee guida che hanno portato alla progettazione del sistema sono: - modularità degli spazi abitativi - zonizzazione funzionale - razionalizzazione impiantistica - illuminazione naturale - industrializzazione dei sistema costruttivo - standardizzazione dei componenti. Il risultato è un catalogo di alloggi di diverse metrature, aggregabili secondo tre tipologie residenziali. - a ballatoio - in linea - a torre Messo a punto questo sistema costruttivo, è stato progettato un intervento in un contesto specifico, per verificare l’applicabilità delle soluzioni sviluppate ed esplorarne alcune possibilità.
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Questa tesi di laurea nasce da una collaborazione con il Centro Studi Vitruviani di Fano, un’associazione nata il 30 Settembre 2010 nella mia città. Le note vicende riguardanti la Basilica vitruviana di Fano fanno della città adriatica il luogo più autorevole per accogliere un Centro Studi Internazionale dedicato all’opera di Vitruvio. Questa associazione è nata come contenitore di riferimento per eventi e iniziative legate al mondo della classicità intesa come momento storico, ma anche come più ampio fenomeno non solo artistico che interessa trasversalmente tutta la cultura occidentale. La creazione di un’istituzione culturale, di fondazione pubblico-privata, con l'obiettivo di porsi a riferimento internazionale per il proprio ambito di ricerca, è notizia comunque rilevante in un periodo in cui lo Stato vara l’articolo 7 comma 22 di una legge che ribadisce la fine dei finanziamenti agli enti, agli istituti, e alle fondazioni culturali. Il Centro Studi Vitruviani dovrà diventare presto sede di momenti scientifici alta, borse di studio, occasioni divulgative, mostre, iniziative didattiche. L’alto livello scientifico mi si è presentato subito chiaro durante questi mesi di collaborazione con il Centro, quando ho avuto l’occasione di incontrare e conoscere e contattare personalità quali i Professori Salvatore Settis, Pierre Gros, Howard Burns, Antonio Corso, Antonio Monterroso e Piernicola Pagliara. Attualmente nella mia città il Centro Studi ha una sede non adeguato, non è fruibile al pubblico (per problemi accessi in comune con altri Enti) e non è riconoscibile dall’esterno. L’attuale sede è all’interno del complesso conventuale del S.Agostino. Il Centro Studi mi ha proposto di valutare la possibilità di un ampliamento dell’associazione in questo edificio storico. Nel mio progetto è stato previsto un processo di acquisizione totale del complesso, con un ripensamento dell’accesso riconoscibile dall’esterno, e un progetto di rifunzionalizzazione degli spazi interni. È stata inserita un’aula per la presentazione di libri, incontri e congressi, mostre ed esposizioni, pubblicazioni culturali e specialistiche. Il fatto interessante di questa sede è che l’edificio vive sulle rovine di un tempio romano, già visitabile e inserite nelle visite della città sotterranea. Fano, infatti, è una città di mare, di luce e nello stesso tempo di architetture romane sotterranee. L’identità culturale e artistica della città è incisa nelle pieghe dei suoi resti archeologici. Le mura augustee fanesi costituiscono il tratto più lungo di mura romane conservate nelle città medio-adriatiche. Degli originari 1750 metri, ne rimangono circa 550. Di grande suggestione sono le imponenti strutture murarie rinvenute sotto il complesso del Sant’Agostino che hanno stimolato per secoli la fantasia e suscitato l'interesse di studiosi ed appassionati. Dopo la prima proposta il Centro Studi Vitruviani mi ha lanciato una sfida interessante: l’allargamento dell’area di progetto provando a ripensare ad una musealizzazione delle rovine del teatro romano dell’area adiacente. Nel 2001 l’importante rinvenimento archeologico dell’edificio teatrale ha donato ulteriori informazioni alle ricostruzione di una pianta archeologica della città romana. Questa rovine tutte da scoprire e da ripensare mi si sono presentate come un’occasione unica per il mio progetto di tesi ed, inoltre, estremamente attuali. Nonostante siano passati dieci anni dal rinvenimento del teatro, dell’area mancava un rilievo planimetrico aggiornato, un’ipotesi ricostruttiva delle strutture. Io con questo lavoro di Tesi provo a colmare queste mancanze. La cosa che ritengo più grave è la mancanca di un progetto di musealizzazione per inserire la rovina nelle visite della Fano romana sotteranea. Spero con questa tesi di aver donato materiale e suggestioni alla mia città, per far comprendere la potenzialità dell’area archeologica. Per affrontare questo progetto di Tesi sono risultate fondamentali tre esperienze maturate durante il mio percorso formativo: prima fra tutte la partecipazione nel 2009 al Seminario Internazionale di Museografia di Villa Adriana Premio di Archeologia e Architettura “Giambattista Piranesi” organizzato nella nostra facoltà dal Prof. Arch. Sandro Pittini. A noi studenti è stata data la possibilità di esercitarci in un progetto di installazioni rigorosamente temporanee all’interno del sedime archeologico di Villa Adriana, grande paradigma per l’architettura antica così come per l’architettura contemporanea. Nel corso del quarto anno della facoltà di Architettura ho avuto l’occasione di seguire il corso di Laboratorio di Restauro con i professori Emanuele Fidone e Bruno Messina. Il laboratorio aveva come obiettivo principale quello di sviluppare un approccio progettuale verso la preesistenza storica che vede l'inserimento del nuovo sull'antico non come un problema di opposizione o di imitazione, ma come fertile terreno di confronto creativo. Durante il quinto anno, ho scelto come percorso conclusivo universitario il Laboratorio di Sintesi Finale L’architettura del Museo, avendo già in mente un progetto di tesi che si rivolgesse ad un esercizio teorico di progettazione di un vero e proprio polo culturale. Il percorso intrapreso con il Professor Francesco Saverio Fera mi ha fatto comprendere come l’architettura dell'edificio collettivo, o più semplicemente dell’edificio pubblico si lega indissolubilmente alla vita civile e al suo sviluppo. È per questo che nei primi capitoli di questa Tesi ho cercato di restituire una seria e attenta analisi urbana della mia città. Nel progetto di Tesi prevedo uno spostamento dell’attuale Sezione Archeologica del Museo Civico di Fano nell’area di progetto. Attualmente la statuaria e le iscrizioni romane sono sistemate in sei piccole sale al piano terra del Palazzo Malatestiano: nel portico adiacente sono esposti mosaici e anfore sottoposte all’azione continua di volatili. Anche la Direttrice del Museo, la Dott.ssa Raffaella Pozzi è convinta del necessario e urgente spostamento. Non è possibile lasciare la sezione archeologica della città all’interno degli insufficienti spazi del Palazzo Malatestiano con centinaia di reperti e materiali vari (armi e uniformi, pesi e misure, ceramiche, staturia, marmi, anfore e arredi) chiusi e ammassati all’interno di inadeguati depositi. Il tutto è stato opportunamente motivato in un capitolo di questa Tesi. Credo fortemente che debbano essere le associazioni quali il CSV assieme al già attivissimo Archeclub di Fano e il Museo Archeologico, i veri punti di riferimento per questa rinascita culturale locale e territoriale, per promuovere studi ed iniziative per la memoria, la tutela e la conservazione delle fabbriche classiche e del locale patrimonio monumentale. Questo lavoro di Tesi vuole essere un esercizio teorico che possa segnare l’inizio di un nuovo periodo culturale per la mia città, già iniziato con l’istituzione del Centro Studi Vitruviani. L’evento folkloristico della Fano dei Cesari, una manifestazione sicuramente importante, non può essere l’unico progetto culturale della città! La “Fano dei Cesari” può continuare ad esistere, ma deve essere accompagnata da grandi idee, grandi mostre ed eventi accademici.
Resumo:
Questo progetto nasce dalla volontà di creare un oasi verde, dove poter studiare, fare ricerca e anche rilassarsi, distogliendo l’attenzione dalla distesa di fabbriche ceramiche che si stagliano per chilometri quadrati su tutto il territorio del comparto ceramico reggiano-modenese. Lo scenario che si presenta a chi fruisce di questi luoghi è, infatti, di straniamento. Si è pervasi da un forte senso di alienazione ed inadeguatezza a causa delle dimensioni di alcuni fabbricati e dalla bicromia che ne caratterizzano gli spazi. Tali caratteristiche ambientali cozzano prepotentemente con la presenza di verde molto intenso, quasi boschivo, che compone il parco delle Salse di Nirano e gli spazi circostanti il Castello di Spezzano, distante solo qualche centinaia di metri dal complesso fioranese della Ferrari e quindi dal sito in esame. Fra gli obiettivi progettuali non è mai stato prioritario salvaguardare le strutture industriali presenti sull’area, non tanto a causa dello scarso interesse architettonico dei manufatti, quanto conseguentemente alla considerazione che la tipicità di tali strutture è ben rappresentata anche dalle fabbriche dell’intorno. L’obiettivo prefissato è proprio quello di infrangere questa monotonia, di organizzare spazi e, soprattutto, servizi, fino ad ora, totalmente assenti. Questa mancanza può essere spiegata ricordando l’indirizzo prettamente industriale dell’area, ma, analizzando attentamente le emergenze limitrofe all’area in questione, è facile notare come la cittadella Ferrari, ad esempio, abbia cominciato a dare al problema una risposta molto forte dal punto di vista architettonico. Nonostante questa parziale risignificazione del territorio, la separazione fra topos urbano - residenziale e industriale all’interno del Distretto è fin troppo marcata. Va detto anche che la totale carenza di luoghi per poter camminare, magari riflettendo sui temi oggetto di ricerca, e per poter vivere all’aria aperta, induce a progettare una soluzione destinata a ovviare al problema. Ne consegue quindi una forte deficienza di infrastrutture, come i parcheggi, di luoghi dedicati al divertimento o anche solo al tempo libero. Proprio per questo motivo, fra i propositi c’è anche quello di integrare il progetto con qualche soluzione in favore di questa problematica, come un polo sportivo che comprenda palestre e piscine. Il contesto, caratterizzato dalla presenza del circuito, che ha risonanza internazionale, suggerisce di optare per una struttura planimetrica lineare: ciò va a massimizzare il contatto fra superficie degli edifici e l’intorno. Sviluppando questa linearità, prende corpo la problematica di creare una rotazione circa a metà della linea d’asse; in primo luogo per assecondare la morfologia dell’area e del contesto, mantenendo inalterati gli edifici situati a nord, e, non meno importante, assegnare il giusto orientamento all’ambito residenziale, che per la sua architettura dovrà essere rivolto perfettamente verso sud. Spostando poi lo sguardo verso gli stabilimenti della Rossa, la via Giardini offre numerosi spunti progettuali. Porta a essere ripensata, lungo i suoi margini, per rapportarla meglio al contesto Ferrari, che è, a sua volta, legato indissolubilmente a quello che si trova al di là di tale asse viario; il Circuito di Fiorano e il progetto del centro ricerca. Per questo motivo risulta una priorità anche la progettazione di percorsi pedonali che colleghino il centro degli stabilimenti Ferrari con l’area del circuito, in modo da favorire la fruibilità di questo luogo di indubbio fascino e carico di storia. In conclusione, il progetto dovrà sviluppare un articolazione che consenta di percepire l’architettura in movimento. La volontà progettuale è chiaramente scenografica e si occuperà anche del rapporto fra tecnica e uomo (macchina/natura). La necessità percepita è quella, dunque, di creare un impianto di forte espressività per sanare una situazione urbana lacerata e caotica. La vastità dell’area in esame permette di incrementare la presenza di entità naturali ad esempio con l’aggiunta dell’enorme vasca d’acqua che può essere utilizzata direttamente anche per scopi funzionali al centro ricerca. L’articolazione progettuale si rivela perciò molto sfaccettata e ricca di spunti.
Resumo:
Oggigiorno si osserva a livello mondiale un continuo aumento dei consumi di acqua per uso domestico, agricolo ed industriale che dopo l’impiego viene scaricata nei corpi idrici (laghi, fiumi, torrenti, bacini, ecc) con caratteristiche chimico fisiche ed organolettiche completamente alterate, necessitando così di specifici trattamenti di depurazione. Ricerche relative a metodi di controllo della qualità dell’acqua e, soprattutto, a sistemi di purificazione rappresentano pertanto un problema di enorme importanza. I trattamenti tradizionali si sono dimostrati efficienti, ma sono metodi che operano normalmente trasferendo l’inquinante dalla fase acquosa contaminata ad un’altra fase, richiedendo perciò ulteriori processi di depurazione. Recentemente è stata dimostrata l’efficacia di sistemi nano strutturati come TiO2-Fe3O4 ottenuto via sol-gel, nella foto-catalisi di alcuni sistemi organici. Questo lavoro di tesi è rivolto alla sintesi e caratterizzazione di un catalizzatore nanostrutturato composito costituito da un core di Fe3O4 rivestito da un guscio di TiO2 separate da un interstrato inerte di SiO2, da utilizzare nella foto-catalisi di sistemi organici per la depurazione delle acque utilizzando un metodo di sintesi alternativo che prevede un “approccio” di tipo colloidale. Partendo da sospensioni colloidali dei diversi ossidi, presenti in commercio, si è condotta la fase di deposizione layer by layer via spray drying, sfruttando le diverse cariche superficiali dei reagenti. Questo nuovo procedimento permette di abbattere i costi, diminuire i tempi di lavoro ed evitare possibili alterazioni delle proprietà catalitiche della titania, risultando pertanto adatto ad una possibile applicazione su scala industriale. Tale sistema composito consente di coniugare le proprietà foto-catalitiche dell’ossido di titanio con le proprietà magnetiche degli ossidi di ferro permettendo il recupero del catalizzatore a fine processo. Il foto-catalizzatore è stato caratterizzato durante tutte la fasi di preparazione tramite microscopia SEM e TEM, XRF, Acusizer, spettroscopia Raman e misure magnetiche. L’attività foto-calitica è stata valutata con test preliminari utilizzando una molecola target tipo il rosso di metile in fase acquosa. I risultati ottenuti hanno dimostrato che il sistema core-shell presenta inalterate sia le proprietà magnetiche che quelle foto-catalitiche tipiche dei reagenti.
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Il lavoro si propone un’analisi dell’elemento spaziale e del movimento per ricostruire lo spazio della cultura neozelandese e lo spazio letterario di Janet Frame. La tesi si concentra in particolar modo sui romanzi con alcune incursioni nella fiction breve e nell’autobiografia. Si sviluppa in quattro capitoli nella forma di un itinerario attraverso la fiction dell'autrice preceduto da un capitolo che offre alcune coordinate teoriche e metodologiche sul concetto di spazio e la sua percezione. In particolare, una prospettiva fenomenologica e esistenziale alla questione appare congeniale all'analisi delle opere dell'autrice. Nell'ordine, quattro spazi concettuali si aprono a partire dai romanzi: linguaggio, etica, trascendenza e arte. Essi costituiscono i nuclei tematici e strutturali attorno ai quali si raccolgono i romanzi di Janet Frame e che consentono di analizzare i luoghi descritti nelle opere proponendo però una riflessione che va oltre la rappresentazione dello spazio per aprirsi sul retroterra culturale, intellettuale e filosofico dell'autrice. Emerge così l'originalità della sua posizione rispetto all'identità culturale del suo paese e alla relazioni che legano la Nuova Zelanda alla metropoli inglese e agli altri Paesi anglosassoni.
Resumo:
Il presente lavoro, partendo dal tema della responsabilità sociale d’impresa (RSI), intesa come forma d’integrazione della sfera economica con le altre sfere sociali, si concentra poi sulle politiche di welfare aziendale (dimensione interna della RSI) a sostegno dell’articolazione delle responsabilità familiari e lavorative dei dipendenti. La ricerca empirica riguarda tre aziende all’interno delle quali è stata analizzata la cultura organizzativa, il pacchetto di misure di welfare family friendly implementato, l’impatto dei diversi dispositivi sulla vita personale, familiare e lavorativa dei dipendenti. Le conclusioni sono dedicate all’analisi delle configurazioni emergenti dei contratti lavorativi come contratti relazionali.
Resumo:
L'elaborato considera anzitutto la genesi dell'istituto, e con chiarezza analizza il percorso di affioramento della figura del distacco nell'impiego pubblico rimarcando affinità e differenze con ipotesi similari di temporanea dissociazione tra datore di lavoro e fruitore della prestazione. Nell'operare gli opportuni distinguo, il dott. Tortini si confronta con la fattispecie tipica del lavoro subordinato e con il divieto di dissociazione che ad essa sarebbe sotteso, anche alla luce della legge 1369 del 1960 sul divieto di interposizione. Gli elementi caratterizzanti il distacco sono poi esposti analizzando con acutezza i più rilevanti orientamenti emersi nella giurisprudenza di merito e di legittimità , in specie con riguardo alla prassi invalsa nei gruppi di società di dirigere la prestazione di lavoro a favore di società collegate o controllate dalla società datrice di lavoro. In tal senso l'elaborato prende posizione in ordine alla necessaria temporaneità dell'interesse del distaccante, nonchè all'inclusione del distacco nell'ambito del potere direttivo-organizzativo del datore di lavoro, ciò che esclude la necessità del consenso del lavoratore distaccato. Nel secondo capitolo il dott. Tortini si confronta con il quadro delle libertà fondamentali del diritto comunitario, ed in particolare con la libera prestazione di servizi, analizzando profili essenziali quali la natura autonoma, la transnazionalità e la temporaneità del servizio prestato. Con ampi riferimenti alla dottrina, anche comparata, in argomento, il capitolo delinea le possibili forme di interazione tra gli ordinamenti nazionali all'interno dell'Unione europea ed individua, in alternativa, tre modelli di coordinamento tra le esigenze liberalizzanti tipiche del mercato unico e le prerogative nazionali di tipo protezionistico che si manifestano qualora un servizio venga prestato in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede il prestatore: host state control, home state control e controllo sovranazionale. L'analisi si rivela essenziale al fine di delineare le ragioni della più recente giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di appalti cross-border e libera circolazione dei lavoratori, e dimostra un sostanziale "slittamento" della base giuridica mediante la quale il diritto comunitario regola il fenomeno della prestazione di lavoro transnazionale, dall'art. 39 all'art. 49 TCE. Il terzo capitolo confronta l'impianto teorico ricavabile dai principi del Trattato con la Direttiva 96/71 sul distacco ed i relativi provvedimenti attuativi (d.lgs. n. 72/2000 e art. 30, d.lgs. n. 276/2003). In particolare, vengono analizzate le ipotesi limitrofe alla nozione di distacco ricavabile dal diritto comunitario, accomunate dalla dissociazione tra datore di lavoro ed utilizzatore della prestazione, ma distinguibili in base alla natura del rapporto contrattuale tra impresa distaccante ed impresa distaccataria. La funzione principale della Direttiva comunitaria in argomento viene individuata dal dott. Tortini nella predisposizione di una base inderogabile di diritti che devono essere, in ogni caso, assicurati al lavoratore oggetto del distacco. Questa base, denominata hard core della tutela, deve essere garantita, all'interno del singolo Stato membro, dalla contrattazione collettiva. Nell'ordinamento italiano, la disciplina del distacco contenuta nella Direttiva viene attuata con il d.lgs. n. 72/2000 che, come opportunamente segnalato dal dott. Tortini, contiene una serie di incongruenze e di lacune. Fra tutte, si rimarca come la stessa Commissione abbia rilevato uno scostamento tra le due discipline, dato che la legge italiana estende surrettiziamente ai lavoratori distaccati tutte le disposizioni legislative e/o i contratti collettivi che disciplinano le condizioni di lavoro, operazione non consentita dal la Direttiva 76/91. E' in specie il riferimento al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative ad essere criticato dall'elaborato, in quanto finisce con il trasformare l'art. 3.1 del D. Lgs. 72/2000 in una discriminazione fondata sulla nazionalità e rischia di creare maggiori difficoltà e più oneri per gli imprenditori stranieri che intendano erogare servizi sul territorio nazionale. A conclusione della tesi, il dott. Tortini esamina la nozione di distacco introdotta ad opera dell'art. 30, d.lgs. n. 276/2003, ed enuclea gli elementi caratterizzanti dell'istituto, individuati nell'interesse del distaccante e nella temporaneità dell'assegnazione, definita «l'in sè» dell'interesse stesso.
Resumo:
Chiunque visiti il Castello di Sorrivoli, può percepire lo straordinario valore testimoniale di questo monumento, dall’aspetto “venerando e pittoresco”, che racchiude in sé quasi mille anni di storia. Il continuo utilizzo del castello, le piccole opere di manutenzione e le campagne di restauro hanno garantito la trasmissione al presente di apparati tipici dell’architettura bellica medievale e del palatium residenziale, ma soprattutto hanno reso possibile leggere parte di questi mille anni direttamente sulla fabbrica. Quello che invece colpisce negativamente è come il castello abbia dovuto adattarsi alle nuove funzioni, imposte aprioristicamente negli ultimi decenni e non viceversa. Spazi straordinari sono stati compromessi, gran parte delle sale sono utilizzate come deposito e le ali del castello, che non possono essere ragionevolmente sfruttate dalla comunità religiosa, si trovano in uno stato di conservazione pessimo, mettendo così a repentaglio la possibilità di continuare questa traditio, intesa col significato latino di tradere ai posteri la memoria del castello. L’approccio alla fabbrica richiedeva dunque, oltre agli interventi sui paramenti, una nuova destinazione d’uso che, coinvolgendo tutto il castello, ne valorizzasse le spazialità e soprattutto permettesse la conservazione di tutte le sue parti costitutive. In secondo luogo, la nuova ipotesi aspirava a confrontarsi con una situazione realistica e sostenibile dal punto di vista della gestione del complesso. Dopo aver valutato quelle che erano le opportunità offerte dal territorio e le vocazioni d’uso del castello stesso, è quindi emersa la necessità di avere due livelli di fruizione, uno che permettesse a tutti di conoscere e visitare il castello e le sue parti più significative e il secondo più materiale, legato alla presenza di tutti quei servizi che rendono confortevole la permanenza delle persone. Per queste ragioni il percorso ha inizio nel parco, con una lettura complessiva del monumento; prosegue, attraverso la postierla, nel piano interrato, dove è allestito un museo virtuale che narra, in maniera interattiva, la storia del castello e termina sulla corte, dove il nuovo volume, che ripropone la spazialità dell’ala crollata, permette di comprendere i legami intrinseci col territorio circostante. La torre centrale assume infine il ruolo di punto culminante di questa ascesa verso la conoscenza del castello, diventando un luogo metaforico di meditazione e osservazione del paesaggio. Il piano terra e il piano primo dell’antico palatium ospitano invece una struttura ricettiva, che aspirando ad un’elevata qualità di servizi offerti, è dotata di punto vendita e degustazione di prodotti tipici e sala conferenze. La scelta di ricostruire l’ala crollata invece, non vuol essere un gesto autografo, ma deriva dall’esigenza di far funzionare al meglio il complesso sistema del castello; sono stati destinati al volume di nuova edificazione quei servizi necessari che però non erano compatibili con la fabbrica antica e soprattutto si è cercato di dar conclusione al racconto iniziato nel giardino. In tal senso la valorizzazione del castello si articola come un percorso di conoscenza che si pone come scopo primario la conservazione del monumento, senza però negare l’innovazione legata alla contemporaneità dell’intervento e alla volontà di volerlo includere in una più ampia dinamica territoriale.
Resumo:
Fin dalle prime riflessioni effettuate sulle zone industriali oggetto di indagine è apparso evidente come l’area di Sassa non abbia trovato, nella vocazione industriale conferitagli dagli strumenti urbanistici, la sua miglior definizione. Le successive analisi non hanno fatto altro che confermare questa primitiva intuizione, soprattutto se si considera l’esiguo numero di attività operanti e la presenza, ad oggi decisamente importante , dell’attiguo Progetto C.A.S.E. di Sassa NSI. L’intuizione seguita per rispondere alle reali esigenze del luogo e del tempo è stata quella di coniugare il tema dello sviluppo industriale a piccola scala con il tema dell’abitare gli spazi, non solo quelli pieni, ma anche e soprattutto quelli vuoti. Il Rio Forcella, che scorre da Ovest ad Est lungo l’area, diventa l’elemento utile a raccordare tutti i temi: un parco fluviale che si sviluppa trasversalmente e che, come una spina dorsale, regge l’intero sistema. Il parco, quindi, accoglie un’area legata alle produzioni locali, una legata ai servizi al turismo, ed una dedicata ai servizi alla residenza.
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“Perdita di fase tra il gruppo riempimento polvere/cronoidi con LVDT ed il gruppo piattello durante la fase di arresto a causa della mancanza imprevista di corrente elettrica”. La perdita della fase tra differenti gruppi può avvenire per due ragioni: 1) a causa della cedevolezza di alcuni elementi della catena cinematica 2) per problemi relativi al software che comanda gli assi elettronici e che è responsabile del movimento coordinato dei vari gruppi. La prima ipotesi è molto improbabile in macchine come l’ADAPTA, dove non sono presenti elementi cinematici con elevata cedevolezza (come ad esempio delle cinghie) essendo i movimenti guidati da camme scanalate (che, contrariamente, sono molto rigide) e/o da camme elettriche (motori Brushless). Il secondo caso invece avviene ogni volta che viene a mancare la corrente elettrica in maniera accidentale (ad esempio a causa di un black-out). La mancanza di energia elettrica impedisce al computer a bordo macchina di continuare a monitorare e controllare il funzionamento dei vari assi elettronici della macchina, che sono comandati da motori brushless, che quindi continuano per inerzia il loro moto fino a fermarsi. Siccome ogni gruppo ha un’inerzia e una velocità/accelerazione istantanea diversa e variabile in funzione della posizione assunta all’interno del proprio ciclo nel momento della mancanza di corrente elettrica, i tempi di arresto risultano differenti, e questo causa la perdita di fase. I gruppi riempimento polvere/cronoidi e spingitori fondelli presentano interferenza meccanica col gruppo piattello per una certa durata del suo ciclo; in questa fase gli elementi entrano nelle boccole porta fondelli delle slitte mobili del piattello. È l’unico caso in tutta la macchina in cui parti meccaniche di gruppi diversi, vanno a “intersecare” i propri spostamenti. La progettazione di macchine che presentano interferenze di questo genere è generalmente sconsigliabile poiché si potrebbe presentare il rischio di uno scontro nel caso avvenga una perdita di fase tra i gruppi. Si sono cercate diverse soluzioni mirate a evitare un urto, derivato dall’interferenza meccanica, in caso di black-out oppure di ridurre il più possibile i danni che questa casualità può portare alla macchina. Il gruppo piattello è definito master rispetto a tutti gli altri gruppi; ha un’inerzia molto piccola e questo fa si che, in caso di black-out, il suo arresto avvenga praticamente istantaneamente, al contrario di ciò che avviene per tutti gli altri gruppi slave dotati di inerzia maggiore. Siccome l’arresto del piattello è istantaneo, il pericolo per tastatori e punzoni sollevatori di urto può avvenire solamente per compenetrazione: se gli elementi sono già all’interno della boccola, e restando fermo il piattello, l’inerzia del gruppo che fa proseguire il moto per alcuni istanti non farebbe altro che portarli fuori dalla boccola, non provocando alcun danno. Non vi è perciò il pericolo di “taglio” di questi elementi da parte del piattello. Perciò l’unica possibilità è che il black-out avvenga in un istante del ciclo dove gli elementi si stanno muovendo per entrare nelle boccole mentre anche il piattello è in rotazione.