301 resultados para Semio-pragmatics
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Coordenação de Aperfeiçoamento de Pessoal de Nível Superior (CAPES)
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This paper brings notes regarding Wittgenstein’s philosophy of language and its presence in habermasian philosophy by means of the basic concept language game. The approach of language of the second Wittgenstein reaches a rather culturalist abstraction, which, however, disclaims him of the pretension of being a theoretical of language, but in Habermas, this approach is put with an intention: the systematization of the universal pragmatics, which he presents as a theory of language games.
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Pós-graduação em Linguística e Língua Portuguesa - FCLAR
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This paper examines the historical role that Tesnière’s theory on the centrality of the verb exerted on some theoretical branches that study the way utterances are built in language. The main goal of this paper is to evaluate the impact that such a proposal had in changing the view of the clause being purely logical (a proposition) or purely syntactic (abstractly equated) to a view that embodies semantics and pragmatics to the syntactic organization of the utterance. A close examination of research dedicated to the grammatical and lexicographic description of Portuguese helps to illustrate the here proposed assessment and contributes to support the claim of the influence of Tesnière on current linguistic analyses.
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There are several receptions of the Bakhtinian work: those which situate it in a cultural and historical perspective, making it possible to understand the context inherent to it, the interchanges with which it was instituted and its development paths; those which separately take one or other of its ideas, and those which search to infer a less or more systemized framework from it in order to consider a specific object. When we concentrate on those last ones and on the field of studies about language, we examine the receptions of the Bakhtinian thought as a pragmatics, a sociolinguistics, a semiotics, a social theory, a theory of the discourse. The perspective of this branch of instruction is the one on which we lastly focus in order to reflect upon some of its fundamental basis.
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Il presente studio, per ciò che concerne la prima parte della ricerca, si propone di fornire un’analisi che ripercorra il pensiero teorico e la pratica critica di Louis Marin, mettendone in rilievo i caratteri salienti affinché si possa verificare se, nella loro eterogenea interdisciplinarità, non emerga un profilo unitario che consenta di ricomprenderli in un qualche paradigma estetico moderno e/o contemporaneo. Va innanzitutto rilevato che la formazione intellettuale di Marin è avvenuta nell’alveo di quel montante e pervasivo interesse che lo strutturalismo di stampo linguistico seppe suscitare nelle scienze sociali degli anni sessanta. Si è cercato, allora, prima di misurare la distanza che separa l’approccio di Marin ai testi da quello praticato dalla semiotica greimasiana, impostasi in Francia come modello dominante di quella svolta semiotica che ha interessato in quegli anni diverse discipline: dagli studi estetici all’antropologia, dalla psicanalisi alla filosofia. Si è proceduto, quindi, ad un confronto tra l’apparato concettuale elaborato dalla semiotica e alcune celebri analisi del nostro autore – tratte soprattutto da Opacité de la peinture e De la représentation. Seppure Marin non abbia mai articolato sistematicametne i principi teorici che esplicitassero la sua decisa contrapposizione al potente modello greimasiano, tuttavia le reiterate riflessioni intorno ai presupposti epistemologici del proprio modo di interpretare i testi – nonché le analisi di opere pittoriche, narrative e teoriche che ci ha lasciato in centinaia di studi – permettono di definirne una concezione estetica nettamente distinta dalla pratica semio-semantica della scuola di A. J. Greimas. Da questo confronto risulterà, piuttosto, che è il pensiero di un linguista sui generis come E. Benveniste ad avere fecondato le riflessioni di Marin il quale, d’altra parte, ha saputo rielaborare originalmente i contributi fondamentali che Benveniste diede alla costruzione della teoria dell’enunciazione linguistica. Impostando l’equazione: enunciazione linguistica=rappresentazione visiva (in senso lato), Marin diviene l’inventore del dispositivo concettuale e operativo che consentirà di analizzare l’enunciazione visiva: la superficie di rappresentazione, la cornice, lo sguardo, l’iscrizione, il gesto, lo specchio, lo schema prospettico, il trompe-l’oeil, sono solo alcune delle figure in cui Marin vede tradotto – ma in realtà immagina ex novo – quei dispositivi enunciazionali che il linguista aveva individuato alla base della parole come messa in funzione della langue. Marin ha saputo così interpretare, in modo convincente, le opere e i testi della cultura francese del XVII secolo alla quale sono dedicati buona parte dei suoi studi: dai pittori del classicismo (Poussin, Le Brun, de Champaigne, ecc.) agli eruditi della cerchia di Luigi XIV, dai filosofi (soprattutto Pascal), grammatici e logici di Port-Royal alle favole di La Fontaine e Perrault. Ma, come si evince soprattutto da testi come Opacité de la peinture, Marin risulterà anche un grande interprete del rinascimento italiano. In secondo luogo si è cercato di interpretare Le portrait du Roi, il testo forse più celebre dell’autore, sulla scorta dell’ontologia dell’immagine che Gadamer elabora nel suo Verità e metodo, non certo per praticare una riduzione acritica di due concezioni che partono da presupposti divergenti – lo strutturalismo e la critica d’arte da una parte, l’ermeneutica filosofica dall’altra – ma per rilevare che entrambi ricorrono al concetto di rappresentazione intendendolo non tanto come mimesis ma soprattutto, per usare il termine di Gadamer, come repraesentatio. Sia Gadamer che Marin concepiscono la rappresentazione non solo come sostituzione mimetica del rappresentato – cioè nella direzione univoca che dal rappresentato conduce all’immagine – ma anche come originaria duplicazione di esso, la quale conferisce al rappresentato la sua legittimazione, la sua ragione o il suo incremento d’essere. Nella rappresentazione in quanto capace di legittimare il rappresentato – di cui pure è la raffigurazione – abbiamo così rintracciato la cifra comune tra l’estetica di Marin e l’ontologia dell’immagine di Gadamer. Infine, ci è sembrato di poter ricondurre la teoria della rappresentazione di Marin all’interno del paradigma estetico elaborato da Kant nella sua terza Critica. Sebbene manchino in Marin espliciti riferimenti in tal senso, la sua teoria della rappresentazione – in quanto dire che mostra se stesso nel momento in cui dice qualcos’altro – può essere intesa come una riflessione estetica che trova nel sensibile la sua condizione trascendentale di significazione. In particolare, le riflessioni kantiane sul sentimento di sublime – a cui abbiamo dedicato una lunga disamina – ci sono sembrate chiarificatrici della dinamica a cui è sottoposta la relazione tra rappresentazione e rappresentato nella concezione di Marin. L’assolutamente grande e potente come tratti distintivi del sublime discusso da Kant, sono stati da noi considerati solo nella misura in cui ci permettevano di fare emergere la rappresentazione della grandezza e del potere assoluto del monarca (Luigi XIV) come potere conferitogli da una rappresentazione estetico-politica costruita ad arte. Ma sono piuttosto le facoltà in gioco nella nostra più comune esperienza delle grandezze, e che il sublime matematico mette esemplarmente in mostra – la valutazione estetica e l’immaginazione – ad averci fornito la chiave interpretativa per comprendere ciò che Marin ripete in più luoghi citando Pascal: una città, da lontano, è una città ma appena mi avvicino sono case, alberi, erba, insetti, ecc… Così abbiamo applicato i concetti emersi nella discussione sul sublime al rapporto tra la rappresentazione e il visibile rappresentato: rapporto che non smette, per Marin, di riconfigurarsi sempre di nuovo. Nella seconda parte della tesi, quella dedicata all’opera di Bernard Stiegler, il problema della comprensione delle immagini è stato affrontato solo dopo aver posto e discusso la tesi che la tecnica, lungi dall’essere un portato accidentale e sussidiario dell’uomo – solitamente supposto anche da chi ne riconosce la pervasività e ne coglie il cogente condizionamento – deve invece essere compresa proprio come la condizione costitutiva della sua stessa umanità. Tesi che, forse, poteva essere tematizzata in tutta la sua portata solo da un pensatore testimone delle invenzioni tecnico-tecnologiche del nostro tempo e del conseguente e radicale disorientamento a cui esse ci costringono. Per chiarire la propria concezione della tecnica, nel I volume di La technique et le temps – opera alla quale, soprattutto, sarà dedicato il nostro studio – Stiegler decide di riprendere il problema da dove lo aveva lasciato Heidegger con La questione della tecnica: se volgiamo coglierne l’essenza non è più possibile pensarla come un insieme di mezzi prodotti dalla creatività umana secondo un certi fini, cioè strumentalmente, ma come un modo di dis-velamento della verità dell’essere. Posto così il problema, e dopo aver mostrato come i sistemi tecnici tendano ad evolversi in base a tendenze loro proprie che in buona parte prescindono dall’inventività umana (qui il riferimento è ad autori come F. Gille e G. Simondon), Stiegler si impegna a riprendere e discutere i contributi di A. Leroi-Gourhan. È noto come per il paletnologo l’uomo sia cominciato dai piedi, cioè dall’assunzione della posizione eretta, la quale gli avrebbe permesso di liberare le mani prima destinate alla deambulazione e di sviluppare anatomicamente la faccia e la volta cranica quali ondizioni per l’insorgenza di quelle capacità tecniche e linguistiche che lo contraddistinguono. Dei risultati conseguiti da Leroi-Gourhan e consegnati soprattutto in Le geste et la parole, Stiegler accoglie soprattutto l’idea che l’uomo si vada definendo attraverso un processo – ancora in atto – che inizia col primo gesto di esteriorizzazione dell’esperienza umana nell’oggetto tecnico. Col che è già posta, per Stiegler, anche la prima forma di simbolizzazione e di rapporto al tempo che lo caratterizzano ancora oggi. Esteriorità e interiorità dell’uomo sono, per Stiegler, transduttive, cioè si originano ed evolvono insieme. Riprendendo, in seguito, l’anti-antropologia filosofica sviluppata da Heidegger nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, Stiegler dimostra che, se si vuole cogliere l’effettività della condizione dell’esistenza umana, è necessaria un’analisi degli oggetti tecnici che però Heidegger relega nella sfera dell’intramondano e dunque esclude dalla temporalità autentica dell’esser-ci. Se è vero che l’uomo – o il chi, come lo chiama Stiegler per distinguerlo dal che-cosa tecnico – trova nell’essere-nel-mondo la sua prima e più fattiva possibilità d’essere, è altrettanto verò che questo mondo ereditato da altri è già strutturato tecnicamente, è già saturo della temporalità depositata nelle protesi tecniche nelle quali l’uomo si esteriorizza, e nelle quali soltanto, quindi, può trovare quelle possibilità im-proprie e condivise (perché tramandate e impersonali) a partire dalle quali poter progettare la propria individuazione nel tempo. Nel percorso di lettura che abbiamo seguito per il II e III volume de La technique et le temps, l’autore è impegnato innanzitutto in una polemica serrata con le analisi fenomenologiche che Husserl sviluppa intorno alla coscienza interna del tempo. Questa fenomenologia del tempo, prendendo ad esame un oggetto temporale – ad esempio una melodia – giunge ad opporre ricordo primario (ritenzione) e ricordo secondario (rimemorazione) sulla base dell’apporto percettivo e immaginativo della coscienza nella costituzione del fenomeno temporale. In questo modo Husserl si preclude la possibilità di cogliere il contributo che l’oggetto tecnico – ad esempio la registrazione analogica di una melodia – dà alla costituzione del flusso temporale. Anzi, Husserl esclude esplicitamente che una qualsiasi coscienza d’immagine – termine al quale Stiegler fa corrispondere quello di ricordo terziario: un testo scritto, una registrazione, un’immagine, un’opera, un qualsiasi supporto memonico trascendente la coscienza – possa rientrare nella dimensione origianaria e costitutiva di tempo. In essa può trovar posto solo la coscienza con i suo vissuti temporali percepiti, ritenuti o ricordati (rimemorati). Dopo un’attenta rilettura del testo husserliano, abbiamo seguito Stiegler passo a passo nel percorso di legittimazione dell’oggetto tecnico quale condizione costitutiva dell’esperienza temporale, mostrando come le tecniche di registrazione analogica di un oggetto temporale modifichino, in tutta evidenza, il flusso ritentivo della coscienza – che Husserl aveva supposto automatico e necessitante – e con ciò regolino, conseguente, la reciproca permeabilità tra ricordo primario e secondario. L’interpretazione tecnica di alcuni oggetti temporali – una foto, la sequenza di un film – e delle possibilità dispiegate da alcuni dispositivi tecnologici – la programmazione e la diffusione audiovisiva in diretta, l’immagine analogico-digitale – concludono questo lavoro richiamando l’attenzione sia sull’evidenza prodotta da tali esperienze – evidenza tutta tecnica e trascendente la coscienza – sia sul sapere tecnico dell’uomo quale condizione – trascendentale e fattuale al tempo stesso – per la comprensione delle immagini e di ogni oggetto temporale in generale. Prendendo dunque le mosse da una riflessione, quella di Marin, che si muove all’interno di una sostanziale antropologia filosofica preoccupata di reperire, nell’uomo, le condizioni di possibilità per la comprensione delle immagini come rappresentazioni – condizione che verrà reperità nella sensibilità o nell’aisthesis dello spettatore – il presente lavoro passerà, dunque, a considerare la riflessione tecno-logica di Stiegler trovando nelle immagini in quanto oggetti tecnici esterni all’uomo – cioè nelle protesi della sua sensibilità – le condizioni di possibilità per la comprensione del suo rapporto al tempo.
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Il lavoro di ricerca tenta di inquadrare sotto nuove prospettive una problematica ormai classica all’interno della semiotica della pubblicità: l’analisi dello spot. I punti chiave del lavoro – e la pretesa di una certa differenza rispetto a lavori con oggetti affini – consistono sostanzialmente in tre aspetti. Innanzitutto, vi è un ritorno alle origini flochiane nella misura in cui non solo il contesto complessivo e le finalità che la ricerca si propone sono fortemente ancorati all’interno di obiettivi di marketing, ma tutto lo studio nella sua interezza nasce dal dialogo concreto tra metodologia di analisi semiotica e prassi concreta all’interno degli istituti di ricerca di mercato. La tesi non presenta quindi una collezione di analisi di testi pubblicitari condotte in modo autoriferito, quanto piuttosto di “messe alla prova” della metodologia, funzionali alla definizione di disegni di ricerca per la marketing research. Questo comporta un dialogo piuttosto stretto con metodologie affini (sociologia qualitativa e quantitativa, psicologia motivazionale, ecc.) nella convinzione che la priorità accordata all’oggetto di analisi sia sovraordinata rispetto all’ortodossia degli strumenti metodologici. In definitiva, lo spot è sempre e comunque analizzato all’interno di una prospettiva brand-centrica che ha ben in mente la semiotica della situazione di consumo rispetto alla quale lo spot agisce da leva di valorizzazione per l’acquisto. In secondo luogo, gli oggetti analizzati sono piuttosto vari e differenziati: non solo lo spot nella sua versione audiovisiva definitiva (il “girato”), ma anche storyboard, animatic, concept (di prodotto e di comunicazione). La prospettiva generativa greimasiana va a innestarsi su problematiche legate (anche) alla genesi dello spot, alla sua progettazione e riprogettazione/ottimizzazione. La tesi mostra quindi come una semiotica per le consulenze di marketing si diriga sul proprio oggetto ponendogli domande ben circoscritte e finalizzate a un obiettivo specifico, sostanzialmente derivato dal brief contenente le intenzioni comunicazionali del cliente-azienda. Infine, pur rimanendo all’interno di una teoria semiotica generativa (sostanzialmente greimasiana e post greimasiana), la ricerca adotta una prospettiva intrinsecamente multidisciplinare che se da un lato guarda a problematiche legate al marketing, al branding e alla comunicazione pubblicitaria e d’impresa tout court, dall’altro ritorna alle teorie dell’audiovisivo, mostrando affinità e differenze rispetto a forme audiovisive standard (il “film”) e a mutuazioni da nuove estetiche (la neotelevisione, il videoclip, ecc). La tesi si mostra solidamente convinta del fatto che per parlare di efficacia discorsiva sia imprescindibile approfondire le tematiche riguardanti il sincretismo espressivo e le specifiche modalità di manifestazione stilistica. In questo contesto, il lavoro si compone di quattro grandi aree tematiche. Dopo una breve introduzione sull’attualità del tema “spot” e sulla prospettiva analiticometodologica adottata (§ 1.), nel secondo capitolo si assume teoreticamente che i contenuti dello spot derivino da una specifica (e di volta in volta diversa) creolizzazione tra domini tematici derivanti dalla marca, dal prodotto (inteso tanto come concept di prodotto, quanto come prodotto già “vestito” di una confezione) e dalle tendenze socioculturali. Le tre dimensioni vengono valutate in relazione all’opposizione tra heritage, cioè continuità rispetto al passato e ai concorrenti e vision, cioè discontinuità rispetto alla propria storia comunicazionale e a quella dei concorrenti. Si esplorano inoltre altri fattori come il testimonial-endorser che, in quanto elemento già intrinsecamente foriero di elementi di valorizzazione, va a influire in modo rilevante sul complesso tematico e assiologico della pubblicità. Essendo la sezione della tesi che prende in considerazione il piano specificatamente contenutistico dello spot, questa parte diventa quindi anche l’occasione per ritornare sul modello delle assiologie del consumo di Jean-Marie Floch, approntando alcune critiche e difendendo invece un modello che – secondo la prospettiva qui esposta – contiene punti di attualità ineludibili rispetto a schematizzazioni che gli sono successive e in qualche modo debitrici. Segue una sezione (§ 3.) specificatamente dedicata allo svolgimento e dis-implicazione del sincretismo audiovisivo e quindi – specularmente alla precedente, dedicata alle forme e sostanze del contenuto – si concentra sulle dinamiche espressive. Lo spot viene quindi analizzato in quanto “forma testuale” dotata di alcune specificità, tra cui in primis la brevità. Inoltre vengono approfondite le problematiche legate all’apporto di ciascuna specifica sostanza: il rapporto tra visivo e sonoro, lo schermo e la sua multiprospetticità sempre più evidente, il “lavoro” di punteggiatura della musica, ecc. E su tutto il concetto dominante di montaggio, intrinsecamente unito a quello di ritmo. Il quarto capitolo ritorna in modo approfondito sul rapporto tra semiotica e ricerca di mercato, analizzando sia i rapporti di reciproca conoscenza (o non conoscenza), sia i nuovi spazi di intervento dell’analisi semiotica. Dopo aver argomentato contro un certo scetticismo circa l’utilità pragmatica dell’analisi semiotica, lo studio prende in esame i tradizionali modelli di valutazione e misurazione dell’efficacia pubblicitaria (pre- e post- test) cercando di semiotizzarne il portato. Ne consegue la proposta di disegni di ricerca semiotici modulari: integrabili tra loro e configurabili all’interno di progetti semio-quali-quantitativi. Dopo aver ridefinito le possibilità di un’indagine semiotica sui parametri di efficacia discorsiva, si procede con l’analisi di un caso concreto (§ 5.): dato uno spot che si è dimostrato efficace agli occhi dell’azienda committente, quali possono essere i modi per replicarne i fattori di successo? E come spiegare invece quelli di insuccesso delle campagne successive che – almeno teoricamente – erano pensate per capitalizzare l’efficacia della prima? Non si tratta quindi di una semiotica ingenuamente chiamata a “misurare” l’efficacia pubblicitaria, che evidentemente la marketing research analizza con strumenti quantitativi assodati e fondati su paradigmi di registrazione di determinati parametri sul consumatore (ricordo spontaneo e sollecitato, immagine di marca risultante nella mente di user e prospect consumer, intenzione d’acquisto stimolata). Piuttosto l’intervento qui esposto si preoccupa più funzionalmente a spiegare quali elementi espressivi, discorsivi, narrativi, siano stati responsabili (e quindi prospetticamente potranno condizionare in positivo o in negativo in futuro) la ricezione dello spot. L’analisi evidenzia come elementi apparentemente minimali, ancorati a differenti livelli di pertinenza siano in grado di determinare una notevole diversità negli effetti di senso. Si tratta quindi di un problema di mancata coerenza tra intenzioni comunicative e testo pubblicitario effettivamente realizzato. La risoluzione di tali questioni pragmatiche conduce ad approfondimenti teoricometodologici su alcuni versanti particolarmente interessanti. In primo luogo, ci si interroga sull’apporto della dimensione passionale nella costruzione dell’efficacia e nel coinvolgimento dello spettatore/consumatore. Inoltre – e qui risiede uno dei punti di maggior sintesi del lavoro di tesi – si intraprende una proficua discussione dei modelli di tipizzazione dei generi pubblicitari, intesi come forme discorsive. Si fanno quindi dialogare modelli diversi ma in qualche misura coestensivi e sovrapponibili come quelli di Jean Marie Floch, Guido Ferraro, Cosetta Saba e Chiara Giaccardi. Si perviene così alla costruzione di un nuovo modello sintetico, idealmente onnipervasivo e trasversale alle prospettive analizzate.
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Wie viele andere Sprachen Ost- und Südostasiens ist das Thai eine numerusneutrale Sprache, in der ein Nomen lediglich das Konzept benennt und keinen Hinweis auf die Anzahl der Objekte liefert. Um Nomina im Thai zählen zu können, ist der Klassifikator (Klf) nötig, der die Objekte anhand ihrer semantischen Schlüsseleigenschaft herausgreift und individualisiert. Neben der Klassifikation stellt die Individualisierung die Hauptfunktion des Klf dar. Weitere Kernfunktionen des Klf außerhalb des Zählkontextes sind die Markierung der Definitheit, des Numerus sowie des Kontrasts. Die wichtigsten neuen Ergebnisse dieser Arbeit, die sowohl die Ebenen der Grammatik und Semantik als auch die der Logik und Pragmatik integriert, sind folgende: Im Thai kann der Klf sowohl auf der Element- als auch auf der Mengenebene agieren. In der Verbindung mit einem Demonstrativ kann der Klf auch eine pluralische Interpretation hervorrufen, wenn er auf eine als pluralisch präsupponierte Gesamtmenge referiert oder die Gesamtmenge in einer Teil-Ganzes-Relation individualisiert. In einem Ausdruck, der bereits eine explizite Zahlangabe enthält, bewirkt die Klf-Demonstrativ-Konstruktion eine Kontrastierung von Mengen mit gleichen Eigenschaften. Wie auch der Individualbegriff besitzt der Klf Intension und Extension. Intension und Extension von Thai-Klf verhalten sich umgekehrt proportional, d.h. je spezifischer der Inhalt eines Klf ist, desto kleiner ist sein Umfang. Der Klf signalisiert das Schlüsselmerkmal, das mit der Intension des Nomens der Identifizierung des Objekts dient. Der Klf individualisiert das Nomen, indem er Teilmengen quantifiziert. Er kann sich auf ein Objekt, eine bestimmte Anzahl von Objekten oder auf alle Objekte beziehen. Formal logisch lassen sich diese Funktionen mithilfe des Existenz- und des Allquantors darstellen. Auch die Nullstelle (NST) läßt sich formal logisch darstellen. Auf ihren jeweiligen Informationsgehalt reduziert, ergeben sich für Klf und NST abhängig von ihrer Positionierung verschiedene Informationswerte: Die Opposition von Klf und NST bewirkt in den Fragebögen ausschließlich skalare Q-Implikaturen, die sich durch die Informationsformeln in Form einer Horn-Skala darstellen lassen. In einem sich aufbauenden Kontext transportieren sowohl Klf als auch NST in der Kontextmitte bekannte Informationen, wodurch Implikaturen des M- bzw. I-Prinzips ausgelöst werden. Durch die Verbindung der Informationswerte mit den Implikaturen des Q-, M- und I-Prinzips lässt sich anhand der Positionierung direkt erkennen, wann der Klf die Funktion der Numerus-, der Definitheits- oder der Kontrast-Markierung erfüllt.
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The aim of the thesis is to investigate the topic of semantic under-determinacy, i.e. the failure of the semantic content of certain expressions to determine a truth-evaluable utterance content. In the first part of the thesis, I engage with the problem of setting apart semantic under-determinacy as opposed to other phenomena such as ambiguity, vagueness, indexicality. As I will argue, the feature that distinguishes semantic under-determinacy from these phenomena is its being explainable solely in terms of under-articulation. In the second part of the thesis, I discuss the topic of how communication is possible, despite the semantic under-determinacy of language. I discuss a number of answers that have been offered: (i) the Radical Contextualist explanation which emphasises the role of pragmatic processes in utterance comprehension; (ii) the Indexicalist explanation in terms of hidden syntactic positions; (iii) the Relativist account, which regards sentences as true or false relative to extra coordinates in the circumstances of evaluation (besides possible worlds). In the final chapter, I propose an account of the comprehension of utterances of semantically under-determined sentences in terms of conceptual constraints, i.e. ways of organising information which regulate thought and discourse on certain matters. Conceptual constraints help the hearer to work out the truth-conditions of an utterance of a semantically under-determined sentence. Their role is clearly semantic, in that they contribute to “what is said” (rather than to “what is implied”); however, they do not respond to any syntactic constraint. The view I propose therefore differs, on the one hand, from Radical Contextualism, because it stresses the role of semantic-governed processes as opposed to pragmatics-governed processes; on the other hand, it differs from Indexicalism in its not endorsing any commitment as to hidden syntactic positions; and it differs from Relativism in that it maintains a monadic notion if truth.
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In contrast to formal semantics, the conjunction and is nonsymmetrical in pragmatics. The events in Marc went to bed and fell asleep seem to have occurred chronologically although no explicit time reference is given. As the temporal interpretation appears to be weaker in Mia ate chocolate and drank milk, it seems that the kind and nature of events presented in a context influences the interpretation of the conjunction. This work focuses on contextual influences on the interpretation of the German conjunction und (‘and’). A variety of theoretic approaches are concerned with whether and contributes to the establishment of discourse coherence via pragmatic processes or whether the conjunction has complex semantic meaning. These approaches are discussed with respect to how they explain the temporal and additive interpretation of the conjunction and the role of context in the interpre-tation process. It turned out that most theoretic approaches do not consider the importance of different kinds of context in the interpretation process.rnIn experimental pragmatics there are currently only very few studies that investigate the inter-pretation of the conjunction. As there are no studies that investigate contextual influences on the interpretation of und systematically or investigate preschoolers interpretation of the con-junction, research questions such as How do (preschool) children interpret ‘und’? and Does the kind of events conjoined influence children’s and adults’ interpretation? are yet to be answered. Therefore, this dissertation systematically investigates how different types of context influence children’s interpretation of und. Three auditory comprehension studies were conducted in German. Of special interest was whether and how the order of events introduced in a context contributes to the temporal read-ing of the conjunction und. Results indicate that the interpretation of und is – at least in Ger-man – context-dependent: The conjunction is interpreted temporally more often when events that typical occur in a certain order are connected (typical contexts) compared to events with-out typical event order (neutral contexts). This suggests that the type of events conjoined in-fluences the interpretation process. Moreover, older children and adults interpret the conjunc-tion temporally more often than the younger cohorts if the conjoined events typically occur in a certain order. In neutral contexts, additive interpretations increase with age. 5-year-olds reject reversed order statements more often in typical contexts compared to neutral contexts. However, they have more difficulties with reversed order statements in typical contexts where they perform at chance level. This suggests that not only the type of event but also other age-dependent factors such as knowledge about scripts influence children’s performance. The type of event conjoined influences children’s and adults’ interpretation of the conjunction. There-fore, the influence of different event types and script knowledge on the interpretation process does not only have to be considered in future experimental studies on language acquisition and pragmatics but also in experimental pragmatics in general. In linguistic theories, context has to be given a central role and a commonly agreed definition of context that considers the consequences arising from different event types has to be agreed upon.
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Paul Grice distinguishes between natural meaning and non-natural meaning, where the first notion is especially connected to something’s being a natural sign and the second to communication. It is argued that some of the arguments against the distinction being exhaustive are based on a misinterpretation of Grice, but also that the distinction cannot be exhaustive if one takes into account both the criterion of factivity and the connection to communication. If one makes a distinction between natural and non-natural communication, then there are different types of natural communication to be distinguished: goal-directed communication, intentional communication and open intentional communication. Given the empirical evidence, the behavior of chimpanzees and of human infants may be described as goal-directed communication, but there are also important differences between the communicative behavior of the two.
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A semantic approach towards political conflict first emerged in the 1930s and provides the methodological foundations for the description of political conflicts, in particular as the correlation between the language of description and reality. Any military or political confrontation presupposes axiological, conceptual and ideological confrontation. The form of adequate description can only be comprehended if the characteristic features of its language (structure) and thesaurus are revealed. Admitting the possibility of different descriptions implies the necessity of analysing this possible ambiguity, i.e. the characteristic features of the language which enable us to form various statements, including mutually exclusive ones. The insoluble task of finding a middle ground between the viewpoints of the conflicting parties should be replaced by soluble procedures of explaining and assessing the conflicting axiologies. For the description of conflict situations, when it is essential to represent various positions within a uniform system, an apparatus of model semantics seems to be the most appropriate one both for generating alternatives and for bringing them together in a modal system of a world in which procedures of transition from one world to another (i.e. the transworld compatibility between them) are also reflected. Reality is reconstructed not as a sort of middle ground between the mutually exclusive approaches nor as their sum, but as a result of the overlapping of various worlds and the procedures of transition from one state of affairs to another. The description of a conflict is therefore seen as a system of worlds connected by modal relations, with a system of worlds emerging as a reality to be described. This approach makes it possible to describe the processes from the points of view of the participating parties and, at the same time, to reveal their basic attitudes. The main idea of this research is shown by the problems analysed: the description of conflict as methodology; language and behaviour (general problems of semiotic description), the logico-semantic analysis of the notions of "problem and conflict", "Genesis and Chronology", "the recurrent model of the (historical) explanation and interpretation of the conflict". Zolyan used data on the Karabagh conflict to demonstrate the dependence of the structure of semio-cultural codes on current political development and considered post-soviet history as a semio-cultural problem. He sought to consider and reveal the logic of manipulations with history, and proposed the logic of preferences as a possible instrument for achieving compromise.