217 resultados para Giambattista dalla Concezione, Beato


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Cambiamenti di habitat in ambienti marini: uno studio sperimentale sulla perdita di foreste a Cystoseira barbata (Stackhouse) C. Agardh e sui popolamenti che le sostituiscono La presente tesi affronta il tema scientifico generale di come prevedere e mitigare la perdita di habitat marini naturali causata dalle attività umane. La tesi si è focalizzata sugli habitat subtidali a “canopy” formati da macroalghe brune a tallo eretto dell’ordine Fucales, che per morfologia, ruolo ed importanza ecologica possono essere paragonate alle “foreste” in ambienti terrestri temperati. Questi sistemi sono tra i più produttivi in ambienti marini, e sono coinvolti in importanti processi ecologici, offrendo cibo, protezione, riparo ed ancoraggio a diverse altre specie animali e vegetali, modificando i gradienti naturali di luce, sedimentazione e idrodinamismo, e partecipando al ciclo dei nutrienti. Sulle coste temperate di tutto il mondo, le foreste di macroalghe a canopy sono in forte regressione su scala locale, regionale e globale. Questo fenomeno, che sta accelerando a un ritmo sempre più allarmante, sta sollevando interesse e preoccupazione. Infatti, data la loro importanza, la perdita di questi habitat può avere importanti conseguenze ecologiche ed economiche, tra cui anche il possibile declino della pesca che è stato osservato in alcune aree in seguito alla conseguente riduzione della produttività complessiva dei sistemi marini costieri. Nel Mar Mediterraneo questi tipi di habitat sono originati prevalentemente da alghe appartenenti al genere Cystoseira, che sono segnalate in forte regressione in molte regioni. Gli habitat a Cystoseira che ancora persistono continuano ad essere minacciati da una sineregia di impatti antropici, ed i benefici complessivi delle misure di protezione fin ora attuate sono relativamente scarsi. Scopo della presente tesi era quello di documentare la perdita di habitat a Cystoseira (prevalentemente Cystoseira barbata (Stackhouse) C. Agardh) lungo le coste del Monte Conero (Mar Adriatico centrale, Italia), e chiarire alcuni dei possibili meccanismi alla base di tale perdita. Studi precedentemente condotti nell’area di studio avevano evidenziato importanti cambiamenti nella composizione floristica e della distribuzione di habitat a Cystoseira in quest’area, e avevano suggerito che la scarsa capacità di recupero di questi sistemi potesse essere regolata da interazioni tra Cystoseira e le nuove specie dominanti sui substrati lasciati liberi dalla perdita di Cystoseira. Attraverso ripetute mappature dell’habitat condotte a partire da Luglio 2008 fino a Giugno 2010, ho documentato la perdita progressiva delle poche, e sempre più frammentate, patch di habitat originate da questa specie in due siti chiamati La Vela e Due Sorelle. Attraverso successivi esperimenti, ho poi evidenziato le interazioni ecologiche tra le specie dominanti coinvolte in questi cambiamenti di habitat, al fine di identificare possibili meccanismi di feedback che possano facilitare la persistenza di ciascun habitat o, viceversa, l’insediamento di habitat alternativi. La mappatura dell’habitat ha mostrato un chiaro declino della copertura, della densità e della dimensione degli habitat a Cystoseira (rappresentati soprattutto dalla specie C. barbata e occasionalmente C. compressa che però non è stata inclusa nei successivi esperimenti, d’ora in avanti per semplicità verrà utilizzato unicamente il termine Cystoseira per indicare questo habitat) durante il periodo di studio. Nel sito Due Sorelle le canopy a Cystoseira sono virtualmente scomparse, mentre a La Vela sono rimaste poche, sporadiche ed isolate chiazze di Cystoseira. Questi habitat a canopy sono stati sostituiti da nuovi habitat più semplici, tra cui soprattutto letti di mitili, feltri algali e stand monospecifici di Gracilaira spp.. La mappatura dell’habitat ha inoltre sottolineato una diminuzione del potenziale di recupero del sistema con un chiaro declino del reclutamento di Cystoseira durante tutto il periodo di studio. Successivamente ho testato se: 1) una volta perse, il recupero di Cystoseira (reclutamento) possa essere influenzato dalle interazioni con le nuove specie dominanti, quali mitili e feltri algali; 2) il reclutamento di mitili direttamente sulle fronde di Cystoseira (sia talli allo stadio adulto che giovanili) possa influenzare la sopravvivenza e la crescita della macroalga; 3) la sopravvivenza e la crescita delle nuove specie dominanti, in particolare mitili, possa essere rallentata dalla presenza di canopy di Cystoseira. I risultati dimostrano che le nuove specie dominanti insediatesi (feltri algali e mitili), possono inibire il reclutamento di Cystoseira, accelerandone il conseguente declino. L’effetto diretto dei mitili sulle fronde non è risultato particolarmente significativo né per la sopravvivenza di Cystoseira che finora non è risultata preclusa in nessun stadio di sviluppo, né per la crescita, che nel caso di individui adulti è risultata leggermente, ma non significativamente, più elevata per le fronde pulite dai mitili, mentre è stato osservato il contrario per i giovanili. La presenza di canopy a Cystoseira, anche se di piccole dimensioni, ha limitato la sopravvivenza di mitili. Questi risultati complessivamente suggeriscono che una foresta di macroalghe in buone condizioni può avere un meccanismo di autoregolazione in grado di facilitare la propria persistenza. Quando però il sistema inizia a degradarsi e a frammentarsi progressivamente, i cambiamenti delle condizioni biotiche determinati dall’aumento di nuove specie dominanti contribuiscono alla mancanza di capacità di recupero del sistema. Pertanto le strategie per una gestione sostenibile di questi sistemi dovrebbero focalizzarsi sui primi segnali di cambiamenti in questo habitat e sui possibili fattori che ne mantengono la resilienza.

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Le aree costiere hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, sociale e politico della maggior parte dei paesi; esse supportano infatti diversi ecosistemi produttivi che rendono disponibili beni e servizi. L'importanza economica delle aree costiere è destinata a una considerevole crescita a causa del costante aumento delle popolazioni, delle industrie e delle attività  ricreazionali che si concentrano sempre di più sulle coste e ciò può provocare un'alterazione delle linee di costa, imputabile a più fattori e un deterioramento delle condizioni naturali. E' necessario anche tenere da conto dei processi erosivi, sia imputabili a cause naturali (correnti oceaniche, movimenti di marea; azione del vento) sia a cause antropiche (subsidenza del terreno indotta dall'uomo, dragaggio al largo, riduzione del rifornimento di sedimento dai fiumi, distruzione di letti algali, paludi e dune sabbiose). A questo panorama va poi aggiunto il problema dell'innalzamento del livello del mare e dell'aumento delle frequenze di tempeste, come conseguenza del cambiamento climatico globale. In questo contesto quindi, le strutture rigide di difesa contro l'erosione e le mareggiate sono diventate molto comuni nelle aree costiere, coinvolgendo in alcune regioni più della metà della linea di costa. Il meccanismo di difesa attuato dalle barriere consiste nel provocare una riduzione dell'energia delle onde e conseguentemente in una limitazione della quantità di sedimento che viene da loro rimosso dalla spiaggia. La presenza di strutture rigide di difesa generalmente comporta una perdita di habitat di fondale molle e, a causa delle variazioni idrodinamiche che la loro presenza comporta, anche delle comunità ad esso associate, sia su scala locale, che su scala regionale. Uno dei problemi che tali strutture possono indurre è l'eccessiva deposizione di detrito prodotto dalle specie che si insediano sul substrato duro artificiale, che normalmente non fanno parte delle comunità "naturali" di fondo molle circostanti le strutture. Lo scopo di questo studio è stato quello di cercare di evidenziare gli effetti che la deposizione di tale detrito potesse avere sulle comunita meiobentoniche di fondale molle. A tale fine è stata campionata un'area antistante la località di Lido di Dante (RA), la quale è protetta dal 1996 da una struttura artificiale, per fronteggiare il problema dell'erosione della zona, in aumento negli ultimi decenni. La struttura è costituita da una barriera semisoffolta e tre pennelli, di cui uno completamente collegato alla barriera. A circa 50 m dalla barriera, e alla profondità di 4 m circa, è stato allestito un esperimento manipolativo in cui è stato valutato l'effetto della deposizione delle due specie dominanti colonizzanti la barriera, Ulva sp. e Mitili sp. sull'ambiente bentonico, e in particolare sulla comunità  di meiofauna. Ulva e Mitili sono stati posti in sacche di rete che sono state depositate sul fondo al fine di simulare la deposizione naturale di detrito, e tali sacche hanno costituito i trattamenti dell'esperimento, i quali sono stati confrontati con un Controllo, costituito da sedimento non manipolato, e un Controllo Procedurale, costituito da una sacca vuota. Il campionamento è stato fatto in tre occasioni nel giugno 2009 (dopo 2 giorni, dopo 7 giorni e dopo 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento) per seguire la dinamica temporale degli effetti del detrito. Per ogni combinazione tempo/trattamento sono state prelevate 4 repliche, per un totale di 48 campioni. Successivamente sono stati prelevati ulteriori campioni di meiofauna in condizioni naturali. In particolare sono stati raccolti in due Posizioni diverse, all'Interno e all'Esterno del pennello posto più a Sud, e su due substrati differenti, rispettivamente Ulva proveniente dalle barriere e sedimento privo di detrito. Per ogni combinazione Posizione/Substrato sono state prelevate 3 repliche, ottenendo un totale di 12 campioni. Tutti i campioni prelevati sono stati poi trattati in laboratorio tramite la procedura di filtratura, pulizia e centrifuga indicata dal protocollo. A questa fase è seguito il sorting al microscopio, durante il quale la meiofauna è stata identificata ed enumerata a livello di taxa maggiori. Per quanto riguarda il taxon più abbondante, quello dei Nematodi, si è proceduto anche all'analisi della distribuzione della biomassa per classi di taglia, in quanto descrittore funzionale delle comunità. Per la costruzione degli spettri di biomassa per classi di taglia sono state misurate la lunghezza e larghezza dei primi 100 Nematodi presenti nei campioni. A partire da tali valori dimensionali è stata calcolata la biomassa di ogni individuo, usata poi per la costruzione dei size spectra, tramite tre metodiche messe a confronto: "Nematode Biomass Spectra" (NBS), "Normalised Nematode Biomass Spectra"(NNBS), "Mean Cumulative Biomass Spectra" (MC-NBS). Successivamente la composizione e la struttura della comunità meiobentonica, in termini di consistenza numerica e di rapporti reciproci di densità degli organismi che la compongono e variabili dimensionali, sono state analizzate mediante tecniche di analisi univariate e multivariate. Ciò che emerge generalmente dai risultati dell'esperimento è la mancanza di interazione significativa tra i due fattori, tempi e trattamenti, mentre sono risultati significativi i due fattori principali, considerati singolarmente. Tali esiti sono probabilmente imputabili all'elevata variabilità fra campioni dei trattamenti e delle patches di controllo. Nonostante ciò l'analisi dei risultati ottenuti permette di effettuare alcune considerazioni interessanti. L'analisi univariata ha mostrato che nel confronto tra trattamenti non ci sono differenze significative nel numero medio di taxa rinvenuti, mentre il livello di diversità e di equidistribuzione degli individui nei taxa differisce in maniera significativa, indicando che la struttura delle comunità varia in funzione dei trattamenti e non in funzione del tempo. Nel trattamento Ulva si osservano le densità più elevate della meiofauna totale imputabile prevalentemente alla densità dei Nematodi. Tuttavia, i valori di diversità e di equiripartizione non sono risultati più elevati nei campioni di Ulva, bensì in quelli di Mitili. Tale differenza potrebbe essere imputabile all'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni di Mitili. Questo andamento è stato giustificato dai differenti tempi di degradazione di Mitili e Ulva posti nelle sacche durante l'esperimento, dai quali emerge una più rapida degradazione di Ulva; inoltre la dimensione ridotta della patch analizzata, i limitati tempi di permanenza fanno sì che l'Ulva non rappresenti un fattore di disturbo per la comunità analizzata. Basandosi su questo concetto risulta dunque difficile spiegare l'inferiorità numerica dei Nematodi nei campioni del trattamento Mitili, in quanto i tempi di degradazione durante l'esperimento sono risultati più lenti, ma è anche vero che è nota l'elevata resistenza dei Nematodi ai fenomeni di ipossia/anossia creata da fenomeni di arricchimento organico. E' possibile però ipotizzare che la presenza delle valve dei Mitili aumenti la complessità dell'habitat e favorisca la colonizzazione da parte di più specie, tra cui specie predatrici. Tale effetto di predazione potrebbe provocare la riduzione dell'abbondanza media dei Nematodi rispetto a Ulva e al Controllo, in quanto i Nematodi costituiscono circa l'85% della meiofauna totale rinvenuta nei campioni. A tale riduzione numerica, però, non corrisponde un decremento dei valori medi di biomassa rilevati, probabilmente a causa del fatto che l'arricchimento organico dovuto ai Mitili stessi favorisca la permanenza degli individui più facilmente adattabili a tali condizioni e di dimensioni maggiori, oppure, la colonizzazione in tempi successivi delle patches a Mitili da parte di individui più grandi. Anche i risultati dell'analisi multivariata sono in accordo con quanto rilevato dall'analisi univariata. Oltre alle differenze tra tempi si evidenzia anche un'evoluzione della comunità nel tempo, in particolar modo dopo 7 giorni dall'allestimento dell'esperimento, quando si registrano il maggior numero di individui meiobentonici e il maggior numero di taxa presenti. Il taxon che ha risentito maggiormente dell'influenza dei tempi è quello degli Anfipodi, con densità maggiori nei campioni prelevati al secondo tempo e sul trattamento Ulva. E'importante considerare questo aspetto in quanto gli Anfipodi sono animali che comprendono alcune specie detritivore e altre carnivore; le loro abitudini detritivore potrebbero quindi aumentare il consumo e la degradazione di Ulva, spiegando anche la loro abbondanza maggiore all'interno di questo trattamento, mentre le specie carnivore potrebbero concorrere al decremento del numero medio di Nematodi nei Mitili. Un risultato inatteso della sperimentazione riguarda l'assenza di differenze significative tra trattamenti e controlli, come invece era lecito aspettarsi. Risultati maggiormente significativi sono emersi dall'analisi del confronto tra sedimento privo di detrito e sedimento contenente Ulva provenienti dal contesto naturale. Relativamente all'area esterna alla barriera, sono stati confrontati sedimento privo di detrito e quello sottostante l'Ulva, nelle condizioni sperimentali e naturali. Globalmente notiamo che all'esterno della barriera gli indici univariati, le densità totali di meiofauna, di Nematodi e il numero di taxa, si comportano in maniera analoga nelle condizioni sperimentali e naturali, riportando valori medi maggiori nei campioni prelevati sotto l'Ulva, rispetto a quelli del sedimento privo di detrito. Differente appare invece l'andamento delle variabili e degli indici suddetti riguardanti i campioni prelevati nell'area racchiusa all'interno della barriera, dove invece i valori medi maggiori si rilevano nei campioni prelevati nel sedimento privo di detrito. Tali risultati possono essere spiegati dall'alterazione dell'idrodinamismo esercitato dalla barriera, il quale provoca maggiori tempi di residenza del detrito con conseguente arricchimento di materia organica nell'area interna alla barriera. Le comunità dei sedimenti di quest'area saranno quindi adattate a tale condizioni, ma la deposizione di Ulva in un contesto simile può aggravare la situazione comportando la riduzione delle abbondanze medie dei Nematodi e degli altri organismi meiobentonici sopracitata. Per quel che riguarda i size spectra la tecnica che illustra i risultati in maniera più evidente è quella dei Nematode Biomass Spectra. I risultati statistici fornitici dai campioni dell'esperimento, non evidenziano effetti significativi dei trattamenti, ma a livello visivo, l'osservazione dei grafici evidenzia valori medi di biomassa maggiori nei Nematodi rilevati sui Mitili rispetto a quelli rilevati su Ulva. Differenze significative si rilevano invece a livello dei tempi: a 21 giorni dall'allestimento dell'esperimento infatti, le biomasse dei Nematodi misurati sono più elevate. Relativamente invece ai size spectra costruiti per l'ambiente naturale, mostrano andamento e forma completamente diversi e con differenze significative tra l'interno e l'esterno della barriera; sembra infatti che la biomassa nella zona interna sia inibita, portando a densità maggiori di Nematodi, ma di dimensioni minori. All'esterno della barriera troviamo invece una situazione differente tra i due substrati. Nel sedimento prelevato sotto l'Ulva sembra infatti che siano prevalenti le classi dimensionali maggiori, probabilmente a causa del fatto che l'Ulva tende a soffocare le specie detritivore, permettendo la sopravvivenza delle specie più grosse, composte da predatori poco specializzati, i quali si cibano degli organismi presenti sull'Ulva stessa. Nel sedimento privo di detrito, invece, la distribuzione all'interno delle classi segue un andamento completamente diverso, mostrando una forma del size spectra più regolare. In base a questo si può ipotizzare che la risposta a questo andamento sia da relazionarsi alla capacità di movimento dei Nematodi: a causa della loro conformazione muscolare i Nematodi interstiziali di dimensioni minori sono facilitati nel movimento in un substrato con spazi interstiziali ridotti, come sono nel sedimento sabbioso, invece Nematodi di dimensioni maggiori sono più facilitati in sedimenti con spazi interstiziali maggiori, come l'Ulva. Globalmente si evidenzia una risposta della comunità  bentonica all'incremento di detrito proveniente dalla struttura rigida artificiale, ma la risposta dipende dal tipo di detrito e dai tempi di residenza del detrito stesso, a loro volta influenzati dal livello di alterazione del regime idrodinamico che la struttura comporta. Si evince inoltre come dal punto di vista metodologico, le analisi univariate, multivariate e dei size spectra riescano a porre l'accento su diverse caratteristiche strutturali e funzionali della comunità. Rimane comunque il fatto che nonostante la comunità scientifica stia studiando metodiche "taxonomic free" emerge che, se da un lato queste possono risultare utili, dall'altro, per meglio comprendere l'evoluzione di comunità, è necessaria un'analisi più specifica che punti all'identificazione almeno delle principali famiglie. E'importante infine considerare che l'effetto riscontrato in questo studio potrebbe diventare particolarmente significativo nel momento in cui venisse esteso alle centinaia di km di strutture artificiali che caratterizzano ormai la maggior parte delle coste, la cui gestione dovrebbe tenere conto non soltanto delle esigenze economico-turistiche, e non dovrebbe prescindere dalla conoscenza del contesto ambientale in cui si inseriscono, in quanto, affiancati a conseguenze generali di tali costruzioni, si incontrano molti effetti sitospecifici.

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Le wavelet sono una nuova famiglia di funzioni matematiche che permettono di decomporre una data funzione nelle sue diverse componenti in frequenza. Esse combinano le proprietà dell’ortogonalità, il supporto compatto, la localizzazione in tempo e frequenza e algoritmi veloci. Sono considerate, perciò, uno strumento versatile sia per il contenuto matematico, sia per le applicazioni. Nell’ultimo decennio si sono diffuse e imposte come uno degli strumenti migliori nell’analisi dei segnali, a fianco, o addirittura come sostitute, dei metodi di Fourier. Si parte dalla nascita di esse (1807) attribuita a J. Fourier, si considera la wavelet di A. Haar (1909) per poi incentrare l’attenzione sugli anni ’80, in cui J. Morlet e A. Grossmann definiscono compiutamente le wavelet nel campo della fisica quantistica. Altri matematici e scienziati, nel corso del Novecento, danno il loro contributo a questo tipo di funzioni matematiche. Tra tutti emerge il lavoro (1987) della matematica e fisica belga, I. Daubechies, che propone le wavelet a supporto compatto, considerate la pietra miliare delle applicazioni wavelet moderne. Dopo una trattazione matematica delle wavalet, dei relativi algoritmi e del confronto con il metodo di Fourier, si passano in rassegna le principali applicazioni di esse nei vari campi: compressione delle impronte digitali, compressione delle immagini, medicina, finanza, astonomia, ecc. . . . Si riserva maggiore attenzione ed approfondimento alle applicazioni delle wavelet in campo sonoro, relativamente alla compressione audio, alla rimozione del rumore e alle tecniche di rappresentazione del segnale. In conclusione si accenna ai possibili sviluppi e impieghi delle wavelet nel futuro.

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La crescente attenzione verso un utilizzo attento, sostenibile ed economicamente efficiente della risorsa idrica rende di primaria importanza il tema delle perdite idriche e della gestione efficiente dei sistemi idrici. La richiesta di controlli dell’uso dell’acqua è stata avanzata a livello mondiale. Il problema delle perdite idriche nei Paesi industrializzati è stato così affrontato con specifiche normative e procedure di best practice gestionale per avanzare una valutazione delle perdite idriche e una limitazione degli sprechi e degli usi impropri. In quest’ambito, la pressione gioca un ruolo fondamentale nella regolazione delle perdite reali. La regolazione delle pressioni nelle diverse ore del giorno consente, infatti, di poter agire su queste ultime perdite, che aumentano all’aumentare della pressione secondo una cosiddetta legge di potenza. La motivazione della presente tesi è originata dalla necessità di quantificare il livello di perdita idrica in un sistema acquedottistico in relazione alla pressione all’interno del sistema stesso. Per avere una stima realistica che vada al di là della legge della foronomia, si vuole valutare l’influenza della deformabilità della condotta in pressione fessurata sull’entità delle perdite idriche, con particolare attenzione alle fessurazioni di tipo longitudinale. Tale studio è condotto tramite l’introduzione di un semplice modello di trave alla Winkler grazie al quale, attraverso un’analisi elastica, si descrive il comportamento di una generica condotta fessurata longitudinalmente e si valuta la quantità d’acqua perduta. I risultati ottenuti in condizioni specifiche della condotta (tipo di materiale, caratteristiche geometriche dei tubi e delle fessure, etc.) e mediante l’inserimento di opportuni parametri nel modello, calibrati sui risultati forniti da una raffinata modellazione tridimensionale agli elementi finiti delle medesime condotte, verranno poi confrontati con i risultati di alcune campagne sperimentali. Gli obiettivi del presente lavoro sono, quindi, la descrizione e la valutazione del modello di trave introdotto, per stabilire se esso, nonostante la sua semplicità, sia effettivamente in grado di riprodurre, in maniera realistica, la situazione che si potrebbe verificare nel caso di tubo fessurato longitudinalmente e di fornire risultati attendibili per lo studio delle perdite idriche. Nella prima parte verrà approfondito il problema della perdite idriche. Nella seconda parte si illustrerà il semplice modello di trave su suolo elastico adottato per l’analisi delle condotte in pressione fessurate, dopo alcuni cenni teorici ai quali si è fatto riferimento per la realizzazione del modello stesso. Successivamente, nella terza parte, si procederà alla calibrazione del modello, tramite il confronto con i risultati forniti da un’analisi tridimensionale agli elementi finiti. Infine nella quarta parte verrà ricavata la relazione flusso-pressione con particolare attenzione all’esponente di perdita, il cui valore risulterà superiore a quello predetto dalla teoria della foronomia, e verrà verificata l’effettiva validità del modello tramite un confronto con i risultati sperimentali di cui è stata fatta menzione in precedenza.

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Il progetto per la cittadina di Toscanella, nasce dalla volontà di dare risposta ad un’esigenza locale di crescita e riqualificazione del centro storico. L'area in oggetto riguarda gran parte della cittadina di Toscanella. Uno degli obiettivi principali è quello di rivalutare ed integrare tale sito alla luce dell'espansione demografica degli ultimi decenni, integrandolo con servizi attualmente mancanti. Punti programmatici del progetto sono: - La realizzazione di un parco fluviale che permetta il recupero e la riqualificazione del tratto di riva del rio Sabbioso compreso tra via Nenni e via Caduti del lavoro; - Un nuovo centro religioso con locali parrocchiali, chiesa e casa canonica, richiesti per inadeguatezza degli attuali; - nuovo centro polifunzionale che comprenda spazi per lo spettacolo e le arti in generale, spazi per l'attività fisica e ricettività minori (bar, spazi comuni...).

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Il mio lavoro di tesi è partito da uno studio approfondito del contesto in cui si trova la Darsena di Ravenna, la mia area di progetto. Tutta la storia dell’evoluzione di Ravenna è legata soprattutto a due fattori principali: la necessità di difendersi dalle incursioni esterne e il continuo adattarsi alle trasformazioni del territorio soprattutto per quanto riguarda la linea di costa e il corso dei due fiumi che la circondano, il Ronco e il Montone. Questi due fattori hanno fatto si che Ravenna sia apparsa, sin dai primi secoli d. C., una città cinta da grandi mura, circondate da fiumi. Il Ronco e il Montone, sono poi diventati, a metà del XVI sec. i protagonisti principali della storia di Ravenna. I diversi progetti che si sono susseguiti nel tempo per cercare di deviarli e allontanarli dalla città, dato che ormai rappresentavano solo un grosso pericolo di alluvione, hanno determinato l’abbandono del primo porto della città, voluto dall’imperatore Augusto e la nascita dell’attuale canale Candiano. Fin dall’inizio il nuovo porto di Ravenna ha presentato una serie di problemi legati alla scarsa profondità del fondale e ai costi di manutenzione, a tal punto che le attività del porto sono sempre state molto limitate. Oggi la Darsena di città è caratterizzata da una moltitudine di edifici di archeologia industriale, risalenti al boom economico degli anni ’50, che risultano per la maggior parte, in uno stato di degrado e abbandono, incominciato con la crisi petrolifera degli anni ’70. A partire dal P.R.G. del 1993, si sono messi in atto una serie di iniziative atte a rivitalizzare e reintegrare quest’area all’interno della città storica, in modo che non sembri più un’entità separata ma che possa diventare un grande potenziale di sviluppo per la città stessa. La politica di riqualificazione del waterfront non riguarda solo Ravenna, ma è una strategia che molte città del modo hanno adottato negli ultimi decenni per ridare lustro alla città stessa e, allo stesso tempo recuperare zone spesso lasciate al loro destino. Fra queste città ho scelto di approfondirne cinque, Baltimora, Barcellona, Genova, Amburgo e Bilbao, evidenziando le diverse situazioni ma soprattutto le diverse motivazioni che le hanno spinte a raggiungere la medesima conclusione, quella che l’area portuale rappresenta un grande fattore di sviluppo. La mia attenzione poi si è spostata su quale attività potesse essere più adatta ad assolvere questo obiettivo. Ho pensato di progettare un museo e una serie di edifici ad esso collegati, come un centro di ricerca con residenze annesse e una torre belvedere, che dessero all’area la possibilità di essere vissuta in tutto l’arco della giornata e per tutto l’anno. Prima di affrontare direttamente la parte progettuale ho cercato di capire quale fosse la tipologia di museo e quali fossero i principali elementi indispensabili che caratterizzano questi edifici. Durante lo studio di questi casi ho classificato i musei secondo 5 categorie diverse, la galleria, la rotonda, la corte, la spirale e la pianta libera, che rispecchiano anche lo sviluppo storico di questa particolare tipologia architettonica. In base a tutte queste considerazioni ho affrontato il mio progetto. L’area presa in esame è caratterizzata da un’ampia superficie su cui insistono tre imponenti edifici di archeologia industriale molto degradati e utilizzati come magazzini dalla società proprietaria dell’area. Due di questi presentano un orientamento parallelo alla tessitura dei campi, il terzo invece segue un orientamento proprio. Oltre a queste due trame nell’area se ne può rilevare una terza legata all’andamento del canale. Queste grandi cattedrali del lavoro mi hanno fatto subito pensare di poterle utilizzare come spazi espositivi per mostre permanenti e temporanee, mantenendo intatta la loro struttura portante. Ho deciso di immergere l’edificio più imponente dei tre, che si trova in asse con la strada veicolare di accesso dalla città, in una grande corte verde delimitata ai lati da due nuovi edifici a L adibiti a veri e propri musei. Se da una parte questi musei costituiscono i limiti della corte, dall’altra rappresentano le quinte sceniche di aree completamenti differenti. Il museo adiacente al canale si affaccia su una grande piazza pavimentata dove troneggia l’edificio di archeologia industriale più simile ad una basilica e che accoglie i visitatori che arrivano tramite la navetta costiera; l’altro invece guarda verso il centro di ricerca e le residenze universitarie legati tra loro da un grande campo lungo completamente verde. A concludere la composizione ho pensato ad una torre belvedere dalla pianta circolare che potesse assorbire tutte le diverse direzioni e che si trova proprio in asse con il terzo edificio di archeologia industriale e a contatto con l’acqua. Per quanto riguarda l’organizzazione interna dei musei ho scelto di proporre due sezioni dello stesso museo con caratteristiche ben distinte. Il primo museo riguarda la storia della civiltà marinara di Ravenna ed è caratterizzato da ambienti conclusi lungo un percorso prestabilito che segue un criterio cronologico, il secondo invece presenta una pianta abbastanza libera dove i visitatori possono scegliere come e su cosa indirizzare la propria visita. Questa decisione è nata dalla volontà di soddisfare le esigenze di tutta l’utenza, pensando soprattutto alla necessità di coinvolgere persone giovani e bambini. Il centro di ricerca è organizzato planimetrica mente come una grande C, dove le due ali più lunghe ospitano i laboratori mentre l’ala più corta rappresenta l’ingresso sottolineato da un portico aggettante sulla corte. Simmetricamente si trovano i sette volumi delle residenze. Ognuno di questi può alloggiare sei studenti in altrettanti monolocali con servizi annessi, e presenta al piano terra aree di relax e sale lettura comuni. La torre belvedere invece riveste un ruolo più commerciale ospitando negozi, uffici per le varie associazioni legate al mare e un ristorante su più livelli, fino ad arrivare alla lanterna, che, come il faro per le navi, diventa un vero segno di riconoscimento e di orientamento dell’area sia dal mare che dalla città.

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Lo studio riportato in questa tesi ha come scopo l’osservazione e la comprensione dei processi molecolari associati alla deposizione di CaCO3 nei polimorfi di calcite e aragonite nel mollusco gasteropode Haliotis rufescens. In particolare l’attenzione si è focalizzata sullo strato glicoproteico (green layer) che si trova inserito all’interno dell’ipostraco o strato madreperlaceo. Studi precedenti suggeriscono l’ipotesi che il green layer sia una struttura polifunzionale che svolge un ruolo attivo nell’induzione di crescita dei cristalli di carbonato di calcio nella conchiglia. All’analisi microscopica il green layer si presenta come un foglietto trilaminato. Sugli strati esterni è depositata aragonite nella forma prismatica da una parte e sferulitica dall’altra. All’interno è racchiuso un core proteico, formato da glicoproteine e ricco di chitina. Questa struttura tripartita conferisce al guscio calcareo nuove proprietà meccaniche, come la resistenza alle fratture molto maggiore rispetto al minerale naturale. Il green layer è stato trattato in ambiente alcalino, l’unico in grado di solubilizzarlo. È stato ottenuto del materiale proteico che è stato caratterizzato utilizzando SDS-PAGE, colorato con Blu Comassie e all’argento per visualizzarne la componente peptidica. Il green layer è fluorescente, sono state quindi eseguite analisi spettroscopiche sull’estratto peptidico per determinarne le proprietà chimo fisiche (dipendenza dal pH dell’intensità di fluorescenza). Sono stati eseguiti esperimenti di crescita dei cristalli di CaCO3 in ambiente saturo di CaCl2 in assenza e presenza del peptide e in assenza e presenza di Mg++. I cristalli sono stati osservati al microscopio elettronico a scansione (SEM) e al microscopio confocale. Da un punto di vista spettroscopico si osserva che, eccitando l’estratto alcalino del green layer a 280 nm e 295 nm, lunghezze d’onda caratteristiche degli aminoacidi aromatici, si ottiene uno spettro di emissione che presenta una forte banda centrata a 440 nm e una spalla a circa 350 nm, quest’ultima da ascrivere all’emissione tipica di aminoacidi aromatici. L’emissione di fluorescenza dell’estratto dal green layer dipende dal pH per tutte le bande di emissione; tale effetto è particolarmente visibile per lo spettro di emissione a 440 nm, la cui lunghezza d’onda di emissione e l’intensità dipendono dalla ionizzazione di aminoacidi acidi (pKa = 4) e dell’istidina (pKa = 6.5 L’emissione a 440 nm proviene invece da un’eccitazione il cui massimo di eccitazione è centrato a 350 nm, tipica di una struttura policiclica aromatica. Poiché nessun colorante estrinseco viene isolato dalla matrice del green layer a seguito dei vari trattamenti, tale emissione potrebbe derivare da una modificazione posttraduzionale di aminoacidi le cui proprietà spettrali suggeriscono la formazione di un prodotto di dimerizzazione della tirosina: la ditirosina. Questa struttura potrebbe essere la causa del cross-link che rende resistente il green layer alla degradazione da parte di agenti chimici ed enzimatici. La formazione di ditirosina come fenomeno post-traduzionale è stato recentemente acquisito come un fenomeno di origine perossidativa attraverso la formazione di un radicale Tyr ed è stato osservato anche in altri organismi caratterizzati da esoscheletro di tipo chitinoso, come gli insetti del genere Manduca sexta. Gli esperimenti di cristallizzazione in presenza di estratto di green layer ne hanno provato l’influenza sulla nucleazione dei cristalli. In presenza di CaCl2 avviene la precipitazione di CaCO3 nella fase calcitica, ma la conformazione romboedrica tipica della calcite viene modificata dalla presenza del peptide. Inoltre aumenta la densità dei cristalli che si aggregano a formare strutture sferiche di cristalli incastrati tra loro. Aumentando la concentrazione di peptide, le sfere a loro volta si uniscono tra loro a formare strutture geometriche sovrapposte. In presenza di Mg++, la deposizione di CaCO3 avviene in forma aragonitica. Anche in questo caso la morfologia e la densità dei cristalli dipendono dalla concentrazione dello ione e dalla presenza del peptide. È interessante osservare che, in tutti i casi nei quali si sono ottenute strutture cristalline in presenza dell’estratto alcalino del green layer, i cristalli sono fluorescenti, a significare che il peptide è incluso nella struttura cristallina e ne induce la modificazione strutturale come discusso in precedenza. Si osserva inoltre che le proprietà spettroscopiche del peptide in cristallo ed in soluzione sono molto diverse. In cristallo non si ha assorbimento alla più corta delle lunghezze d’onda disponibili in microscopia confocale (405 nm) bensì a 488 nm, con emissione estesa addirittura sino al rosso. Questa è un’indicazione, anche se preliminare, del fatto che la sua struttura in soluzione e in cristallo è diversa da quella in soluzione. In soluzione, per un peptide il cui peso molecolare è stimato tra 3500D (cut-off della membrana da dialisi) e 6500 D, la struttura è, presumibilmente, totalmente random-coil. In cristallo, attraverso l’interazione con gli ioni Ca++, Mg++ e CO3 -- la sua conformazione può cambiare portando, per esempio, ad una sovrapposizione delle strutture aromatiche, in modo da formare sistemi coniugati non covalenti (ring stacking) in grado di assorbire ed emettere luce ad energia più bassa (red shift).

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Prima di procedere con il progetto sono state fatte sezioni storiche dell’area, in epoche indicative, per comprendere quelle che sono le invarianti e le caratteristiche di tale tessuto. Da qui si è dedotto lo schema generatore dell’insediamento che parte dall’identificazione degli assi viari (pedonali e carrabili) già presenti nell’area, che fanno diretto riferimento allo schema cardo-decumanico generatore dell’impianto angioino della città. Con il tracciamento si individuano gli isolati base, che con variazioni formali e tipologiche hanno originato gli edifici di progetto. I corpi di fabbrica generatori della planimetria, dialogano e rimangono a stretto contatto con i pochi edifici agibili, per i quali sono previsti consolidamenti e ristrutturazioni, qualora necessari. Inevitabile è stato il confronto con l’orografia, prestando particolare attenzione a non annullare con l’inserimento degli edifici il dislivello presente, ma lasciarlo percepire chiaramente: l’attacco a terra di ogni edificio avviene gradualmente, passando dai due piani fuori terra a monte ai tre, quattro a valle. Ovviamente non tutti gli assi sono stati trattati allo stesso modo, ma conseguentemente alla loro funzione e carattere di utilizzo. Analizzando la struttura viaria dell’intera area, si presentano schematicamente due anelli di circonvallazione del centro urbano: uno più esterno, di più recente costruzione, rappresentato da via XX Settembre, e uno più vecchio, che rimane rasente al centro storico, costituito dal viale Duca Degli Abruzzi, che prosegue in viale Giovanni XXIII e termina nel viadotto Belvedere. Quest’ultimo asse rappresenta sicuramente un importante collegamento cittadino, sia per la vicinanza al centro, sia per le porzioni di città messe in comunicazione; nonostante ciò il viadotto ha subito, all’altezza di viale Nicolò Persichetti, uno smottamento dopo il 6 aprile, ed essendo un elemento di scarso valore architettonico e spaziale, la sua presenza è stata ripensata. Compiendo una deviazione su via XX Settembre al termine di viale Duca Degli Abruzzi, che va a sfruttare la già presente via Fonte Preturo, non si va a rivoluzionante l’odierno assetto, che confluisce comunque, qualche centinaio di metri dopo, in via XX Settembre è si eliminano le connotazioni negative che il viadotto avrebbe sul rinnovato ingresso al centro storico. La vivibilità tende a favorire così collegamento e all’eterogeneità degli spazi più che la separazione fisica e psicologica: il concetto di città fa riferimento alla vita in comune; per favorirla è importante incentivare i luoghi di aggregazione, gli spazi aperti. Dalle testimonianze degli aquilani la vita cittadina vedeva il centro storico come principale luogo d’incontro sociale. Esso era animato dal numeroso “popolo” di studenti, che lo manteneva attivo e vitale. Per questo nelle intenzioni progettuali si pone l’accento su una visione attiva di città con un carattere unitario come sostiene Ungers3. La funzione di collegamento, che crea una struttura di luoghi complementari, può essere costituita dal sistema viario e da quello di piazze (luoghi sociali per eccellenza). Via Fontesecco ha la sua terminazione nell’omonima piazza: questo spazio urbano è sfruttato, nella conformazione attuale, come luogo di passaggio, piuttosto che di sosta, per questo motivo deve essere ricalibrato e messo in relazione ad un sistema più ampio di quello della sola via. In questo sistema di piazze rientra anche la volontà di mettere in relazione le emergenze architettoniche esistenti nell’area e nelle immediate vicinanze, quali la chiesa e convento dell’Addolorata, Palazzo Antonelli e la chiesa di San Domenico (che si attestano tutte su spazi aperti), e la chiesa di San Quinziano su via Buccio di Ranallo. In quest’ottica l’area d’intervento è intesa come appartenente al centro storico, parte del sistema grazie alla struttura di piazze, e allo stesso tempo come zona filtro tra centro e periferia. La struttura di piazze rende l’area complementare alla trama di pieni e vuoti già presente nel tessuto urbano cittadino; la densità pensata nel progetto, vi si accosta con continuità, creando un collegamento con l’esistente; allontanandosi dal centro e avvicinandosi quindi alle più recenti espansioni, il tessuto muta, concedendo più spazio ai vuoti urbani e al verde. Via Fontesecco, il percorso che delimita il lato sud dell’area, oltre ad essere individuata tra due fronti costruiti, è inclusa tra due quinte naturali: il colle dell’Addolorata (con le emergenze già citate) e il colle Belvedere sul quale s’innesta ora il viadotto. Questi due fronti naturali hanno caratteri molto diversi tra loro: il colle dell’Addolorata originariamente occupato da orti, ha un carattere urbano, mentre il secondo si presenta come una porzione di verde incolto e inutilizzato che può essere sfruttato come cerniera di collegamento verticale. Lo stesso declivio naturale del colle d’Addolorata che degrada verso viale Duca Degli Abruzzi, viene trattato nel progetto come una fascia verde di collegamento con il nuovo insediamento universitario. L’idea alla base del progetto dell’edilizia residenziale consiste nel ricostruire insediamenti che appartengano parte della città esistente; si tratta quindi, di una riscoperta del centro urbano e una proposta di maggior densità. Il tessuto esistente è integrato per ottenere isolati ben definiti, in modo da formare un sistema ben inserito nel contesto. Le case popolari su via Fontesecco hanno subito con il sisma notevoli danni, e dovendo essere demolite, hanno fornito l’occasione per ripensare all’assetto del fronte, in modo da integrarlo maggiormente con il tessuto urbano retrostante e antistante. Attualmente la conformazione degli edifici non permette un’integrazione ideale tra i percorsi di risalita pedonale al colle dell’Addolorata e la viabilità. Le scale terminano spesso nella parte retrostante gli edifici, senza sfociare direttamente su via Fontesecco. Si è quindi preferito frammentare il fronte, che rispecchiasse anche l’assetto originario, prima cioè dell’intervento fascista, e che consentisse comunque una percezione prospettica e tipologica unitaria, e un accesso alla grande corte retrostante. Il nuovo carattere di via Fontesecco, risultante dalle sezioni stradali e dalle destinazioni d’uso dei piani terra degli edifici progettuali, è quello di un asse commerciale e di servizio per il quartiere. L’intenzione, cercando di rafforzare l’area di progetto come nuovo possibile ingresso al centro storico, è quella di estendere l’asse commerciale fino a piazza Fontesecco, in modo da rendere tale spazio di aggregazione vitale: “I luoghi sono come monadi, come piccoli microcosmi, mondi autonomi, con tutte le loro caratteristiche, pregi e difetti, inseriti in un macrocosmo urbano più grande, che partendo da questi piccoli mondi compone una metropoli e un paesaggio”.4[...] Arretrando verso l’altura dell’Addolorata è inserita la grande corte del nuovo isolato residenziale, anch’essa con servizi (lavanderie, spazi gioco, palestra) ma con un carattere diverso, legato più agli edifici che si attestano sulla corte, anche per l’assenza di un accesso carrabile diretto; si crea così una gerarchia degli spazi urbani: pubblico sulla via e semi-pubblico nella corte pedonale. La piazza che domina l’intervento (piazza dell’Addolorata) è chiusa da un edificio lineare che funge da “quinta”, il centro civico. Molto flessibile, presenta al suo interno spazi espositivi e un auditorium a diretta disposizione del quartiere. Sempre sulla piazza sono presenti una caffetteria, accessibile anche dal parco, che regge un sistema di scale permettendo di attraversare il dislivello con la “fascia” verde del colle, e la nuova ala dell’Hotel “Duca degli Abruzzi”, ridimensionata rispetto all’originale (in parte distrutto dal terremoto), che si va a collegare in maniera organica all’edificio principale. Il sistema degli edifici pubblici è completo con la ricostruzione del distrutto “Istituto della Dottrina Cristiana”, adiacente alla chiesa di San Quinziano, che va a creare con essa un cortile di cui usufruiscono gli alunni di questa scuola materna ed elementare. Analizzando l’intorno, gran parte dell’abitato è definito da edifici a corte che, all’interno del tessuto compatto storico riescono a sopperire la mancanza di spazi aperti con corti, più o meno private, anche per consentire ai singoli alloggi una giusta illuminazione e areazione. Nel progetto si passa da due edifici a corti semi-private, chiusi in se stessi, a un sistema più grande e complesso che crea un ampio “cortile” urbano, in cui gli edifici che vi si affacciano (case a schiera e edifici in linea) vanno a caratterizzare gli spazi aperti. Vi è in questa differenziazione l’intenzione di favorire l’interazione tra le persone che abitano il luogo, il proposito di realizzare elementi di aggregazione più privati di una piazza pubblica e più pubblici di una corte privata. Le variazioni tipologiche degli alloggi poi, (dalla casa a schiera e i duplex, al monolocale nell’edilizia sociale) comportano un’altrettanta auspicabile mescolanza di utenti, di classi sociali, età e perché no, etnie diverse che permettano una flessibilità nell’utilizzo degli spazi pubblici.

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Le linee direttrici che hanno caratterizzato la composizione si possono riassumere in tre punti principali: • ricerca di una connessione tra la zona del parco del fiume Savio e il centro storico; • espansione del costruito attraverso lo sfruttamento dell’argine fluviale; • strutturazione di un nuovo polo attrattivo per la città di Cesena. Il primo problema che si è posto, ipotizzando la demolizione del muro di cinta, è stato quello di come far interagire due aree completamente separate tra loro; l'idea è stata quella di rendere la zona interamente pedonale e di porre in comunicazione l'area fluviale con la nuova area progettuale; in questa maniera il verde del Savio si estende oltre i propri argini e si spinge all'interno dell'area di progetto, costituendone le zone verdi, mentre il nuovo costruito giunge oltre l'argine del fiume, guadagnandosi spazio attraverso la terrazza del mercato e le braccia del museo, che si estendono verso il corso d'acqua accentuando questa nuova relazione tra le due zone. L'idea progettuale è stata quindi quella di ottenere una continua interazione tra le due entità evitando una netta divisione tra il fiume Savio e la restante cittadina ed ottenendo una zona in grado di collegare la parte più centrale di Cesena, con il proprio fiume. Il mercato ha come ambizioso obiettivo, quello di fungere da elemento di collegamento tra il centro storico di Cesena e la zona fluviale; esso viene così definito da due fronti principali, uno rivolto verso il centro storico, l'altro verso il fiume Savio. L'edificio può essere immaginato come composto da due volumi distinti, che si sviluppano attorno a due corti di diverse dimensioni; i due corpi non sono completamente separati tra loro, ma vengono collegati da un elemento centrale, che ospita parte dell'impianto distributivo dell'edificio. L'impianto generale del mercato presenta un forte richiamo al mondo classico: esso è interamente circondato da un porticato, si eleva al di sopra di un basamento e si ispira fortemente alla tipologia della domus romana. Elemento fondamentale dell'area così ipotizzata, è inoltre la passeggiata pedonale, la quale collega il Ponte Vecchio con quello di più recente costruzione; il percorso, è rialzato rispetto alla quota della nuova piazza, è visibile dalla sponda opposta del Savio e costituisce il nuovo fronte lungo il fiume; esso si identifica come l'elemento unificatore di tutti gli interventi, viene costeggiato dal nuovo impianto sulla sinistra e dal'area di pertinenza fluviale sulla destra, offrendo suggestive visuali di entrambe le zone, costituendo così una vera e propria promenade architecturale sul lungofiume. Il progetto, si pone come obiettivo, quello di restituire un carattere architettonico all'area, partendo dalla realizzazione della piazza centrale, fulcro di tutto l'impianto ipotizzato. Essa viene a costituirsi tra l'edificio più alto del C.A.P.S., l'auditorium, il mercato e la loggia. Quest’ultima si trova di fronte al mercato e si affaccia sulla piazza centrale, definendone un limite e rappresentando nello stesso tempo un forte richiamo storico agli antichi mercati italiani.

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L’analisi condotta sulle condizioni geo-morfologiche dell’intera regione abruzzese e in particolare della città de L’Aquila ha evidenziato l’importanza del contesto paesaggistico territoriale che non può che essere assunto come riferimento progettuale per rinnovare il rapporto tra uomo e natura, soprattutto in una realtà come quella aquilana dove sono il paesaggio naturale e la struttura morfologica che permangono come fattori costanti nel tempo, nonostante le trasformazioni attuate dalla società o dagli eventi sismici che da sempre caratterizzano la storia della città e che rappresentano quindi due elementi in grado di restituire l’identità stessa della popolazione. Questa caratteristica rappresenta il pretesto per un approfondimento sul paesaggio dal punto di vista percettivo: è infatti l’uomo che nel corso dei secoli modifica fortemente il proprio territorio e la percezione che ha di esso. L’obiettivo di tale studio è quello di riuscire a cogliere, in fase progettuale, l’essenza del luogo, il carattere peculiare delle diverse suggestioni che i cittadini aquilani potranno riaffermare come parte della propria identità. Considerate tali premesse, il progetto propone il disegno di un nuovo parco urbano collocato entro le mura lungo l’intera lunghezza dell’area oggetto di studio; l’obiettivo è quello di collegare i poli verdi preesistenti del Parco del Castello e del Parco del Sole e contemporaneamente di ridefinire il lacerato rapporto tra centro storico e prima periferia eleggendo il verde ad elemento capace di una relazione attiva con il contesto urbano, con la possibilità di contribuire alla coesione sociale, alla sensibilizzazione ai temi ambientali e al miglioramento dell’offerta dei luoghi di ritrovo. Il nuovo parco ospiterà architetture legate alla musica e al teatro, temi da sempre di notevole importanza per la città, come testimoniano le numerose strutture che prima dell’evento tellurico arricchivano il patrimonio culturale della città. Per evitare che funzioni di così notevole importanza per la città corrano il rischio di essere progressivamente relegate verso la periferia ed i centri minori, il progetto propone di integrare all’interno del nuovo parco una serie di attività quali laboratori teatrali e foresterie per attori, centro ricreativo, biblioteca e sala espositiva, conservatorio, attività commerciali e residenze, disposti secondo una successione lineare da nord a sud. Tale intervento sarà integrato dalla realizzazione di un complesso di residenze,costituito da tre corpi lineari disposti secondo il naturale declivio del terreno, lungo l’asse est-ovest, in corrispondenza del prolungamento dei tracciati storici secondari. Si viene a creare, quindi una sorta di struttura a pettine, nella quale le aree verdi adibite ad orti e gli spazi costruiti si compenetrano definendo un vero e proprio filtro tra città storica e quella suburbana. La disposizione dei diversi edifici e la presenza in ognuno di essi di uno spazio pubblico esterno, sono pensati in modo tale da creare una successione di spazi collettivi, suggerita in risposta all’assenza di attrezzature pubbliche all’interno del quartiere preesistente. Il progetto prevede, infatti di dare maggiore spazio alle attività pubbliche, investendo sulla realizzazione di luoghi e di spazi per l’incontro e la collettività, che rappresentano un necessità primaria per ogni città ed in particolare per L’Aquila post sisma. Contestualmente al parco che costituisce una sorta di asse verde sviluppato in direzione nord-sud, il progetto si estende anche in direzione perpendicolare, lungo la direttrice est-ovest, attraverso la riqualificazione dell’asse storico di via San Bernardino, cercando di restituire ad esso ed alla monumentale scalinata omonima la valenza storica progressivamente perduta nel corso degli anni. Pertanto, il progetto prevede la ridefinizione di entrambi i lati della scalinata oggi abbandonati al verde incolto ed in particolare la realizzazione, lungo il lato orientale, di un nuovo polo culturale, costituito da una biblioteca ed una sala espositiva. Il nuovo edificio, assume un ruolo cardine all’interno del progetto, rappresentando uno dei punti di collegamento tra città storica e verde pubblico. Il complesso nasce dall’incontro di cinque elementi lineari disposti in modo tale da assecondare il naturale dislivello del terreno e da consentire la realizzazione di due ampi spazi pubblici: uno verde, pensato come prolungamento del parco, sul quale si affaccia l’ampia sala di lettura della biblioteca ed uno pavimentato, ai piedi della scalinata, delimitato da un portico a doppia altezza. Il nuovo edificio, consente inoltre di creare un belvedere dal parco verso la città storica, evocando una suggestione cara agli abitanti della città.

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La presente dissertazione si apre con l’analisi della costa dell’Emilia Romagna, in particolare quella antistante la città di Cesenatico. Nel primo capitolo si è voluto fare un breve inquadramento delle problematiche che affliggono le acque costiere a debole ricambio. Il Mare Adriatico e in particolare le acque costiere, ormai da più di trent’anni, sono afflitti da una serie di problemi ambientali correlati all’inquinamento. Sulla costa romagnola, già verso la metà degli anni settanta, le prime estese morie di organismi viventi acquatici avevano posto sotto gli occhi dell’opinione pubblica l’insorgenza di situazioni drammatiche per l’ambiente, per la salute pubblica e per due importanti settori dell’economia regionale e nazionale quali il turismo e la pesca. Fino ad allora aveva dominato la diffusa convinzione che la diluizione nell’enorme quantità di acqua disponibile avrebbe consentito di immettere nel mare quantità crescenti di sostanze inquinanti senza intaccare in misura apprezzabile la qualità delle acque. Questa teoria si rivelò però clamorosamente errata per i mari interni con scarso ricambio di acqua (quali per esempio il Mare Adriatico), perché in essi le sostanze che entrano in mare dalla terraferma si mescolano per lungo tempo solo con un volume limitato di acqua antistante la costa. Solo se l’immissione di sostanze organiche è limitata, queste possono essere demolite agevolmente attraverso processi di autodepurazione per opera di microrganismi naturalmente presenti in mare. Una zona molto critica per questo processo è quella costiera, perché in essa si ha la transizione tra acque dolci e acque salate, che provoca la morte sia del plancton d’acqua dolce che di quello marino. Le sostanze estranee scaricate in mare giungono ad esso attraverso tre vie principali: • dalla terraferma: scarichi diretti in mare e scarichi indiretti attraverso corsi d’acqua che sfociano in mare; • da attività svolte sul mare: navigazione marittima e aerea, estrazione di materie prime dai fondali e scarico di rifiuti al largo; • dall’atmosfera: tramite venti e piogge che trasportano inquinanti provenienti da impianti e attività situati sulla terraferma. E’ evidente che gli scarichi provenienti dalla terraferma sono quelli più pericolosi per la salvaguardia delle acque costiere, in particolare vanno considerati: gli scarichi civili (enormemente accresciuti nel periodo estivo a causa del turismo), gli scarichi agricoli e gli scarichi industriali. Le sostanze estranee scaricate in mare contengono una grande abbondanza di sali nutrienti per i vegetali (in particolare nitrati e fosfati) che provengono dai concimi chimici, dai residui del trattamento biologico negli impianti di depurazione e dall’autodepurazione dei fiumi. Queste sostanze una volta giunte in mare subiscono un nuovo processo di autodepurazione che genera ulteriori quantità di nutrienti; i sali di fosforo e azoto così formati si concentrano soprattutto nelle acque basse e ferme della costa e vengono assimilati dalle alghe che possono svilupparsi in modo massivo: tale fenomeno prende il nome di eutrofizzazione. La produzione eccessiva di biomasse vegetali pone seri problemi per la balneazione in quanto può portare a colorazioni rossastre, brune, gialle o verdi delle acque; inoltre la decomposizione delle alghe impoverisce di ossigeno l’acqua, soprattutto sul fondo, provocando morie della fauna ittica. Nello specifico, in questo lavoro di tesi, si prende in considerazione il Porto Canale di Cesenatico, e come le acque da esso convogliate vadano ad influenzare il recettore finale, ovvero il Mar Adriatico. Attraverso l’uso di un particolare software, messo a mia disposizione dal D.I.C.A.M. è stata portata avanti un’analisi dettagliata, comprendente svariati parametri, quali la velocità dell’acqua, la salinità, la concentrazione dell’inquinante e la temperatura, considerando due possibili situazioni. A monte di ciò vi è stata una lunga fase preparatoria, in cui dapprima sono state recepite, attraverso una campagna di misure progettata ad hoc, ed elaborate le informazione necessarie per la compilazione del file di input; in seguito è stato necessario calibrare e tarare il programma, in quanto sono state apportate numerose variazioni di recepimento tutt’altro che immediato; dopodiché è stata introdotta la geometria rappresentante l’area presa in esame, geometria molto complessa in quanto trattasi di una zona molto ampia e non uniforme, infatti vi è la presenza di più barriere frangiflutti, sommerse ed emerse, che alterano in svariati punti la profondità del fondale. Non è stato semplice, a tal proposito, ricostruire l’area e ci si è avvalsi di una carta nautica riportante la batimetria del litorale antistante Cesenatico. Come è stato già detto, questa fase iniziale ha occupato molto tempo e si è dimostrata molto impegnativa. Non sono state comunque da meno le fasi successive. Inoltre, tale simulazione è stata effettuata su due scenari differenti, per poter valutare le differenti conclusioni alle quali essi hanno indotto. Dopo molti “tentativi”, l’eseguibile ha girato ed è arrivato al termine ricoprendo un lasso di tempo pari a ventiquattro ore. I risultati ottenuti in output, sono stati tradotti e vagliati in modo da essere graficati e resi più interpretabili. Segue infine la fase di analisi che ha portato alle deduzioni conclusive. Nei prossimi capitoli, si riporta nel dettaglio quello che in questo paragrafo è stato sinteticamente citato.

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Obiettivo del progetto di tesi è ritrovare un percorso urbano, riguardante un tratto della città di Cesena, che oggi non è più leggibile nella sua originaria identità. La cinta muraria di Cesena è da sempre motivo di vanto della città. Esso è dovuto anche al fatto che gran parte di tale cinta è stato oggetto di restauri puntuali. Vi è un tratto di esse però dove non risulta più immediata la sua l’appartenenza ad un tutto più ampio e finito che è quello dell’intero perimetro fortificato. Il nostro progetto vuole suggerire nuovamente quale fosse il suo andamento, e il suo rapporto con il resto della città quindi proponiamo il restauro e la valorizzazione degli elementi significativi che s’incontrano percorrendo il suddetto tratto di città. Precisamente si tratta dei manufatti della porta d’accesso del torrente Cesuola detta Portaccia e di porta Fiume, due delle antiche porte delle mura cesenati. Si propone per questi un riuso degli ambienti che saranno adibiti a punto informativo, piuttosto che aree espositive, museali. Saranno aperte al pubblico e rese visibili per portare un esempio le antiche cannoniere. Si è progettata anche la sistemazione dell’area esterna direttamente prospiciente gli edifici in questione, al fine di renderli maggiormente visibili e riconoscibili all’interno del panorama cittadino. Questi due edifici vogliono essere importanti poli per i turisti o per chiunque voglia immergersi nella storia della città di Cesena. S’incontra poi in questa passeggiata, un’area archeologica. La si raggiunge partendo per esempio dalla Portaccia e seguendo quello che era il tracciato delle antiche mura. Tale area testimonia l’esistenza di tratti di antiche fortificazioni e ci racconta i caratteri costruttivi delle abitazioni del tempo e dell’impianto urbano, oltre ad aver riportato alla luce antichi manufatti e reperti archeologici importanti. Questo spazio verrà opportunamente valorizzato e reso noto ai visitatori. Si sceglie di non portare alla luce gli elementi trovati nel sottosuolo per non variare le loro condizioni termo-igrometriche, e di suggerire la dimensione degli stessi attraverso la progettazione fedele fuori terra di elementi in alzato cavi contenenti vegetazione. Il visitatore potrà girovagare fra questi nel “giardino archeologico”. Un altro elemento di fondamentale importanza proseguendo nel percorso è la presenza dei suggestivi ruderi della rocca Vecchia, che hanno resistito allo scorrere inesorabile del tempo e che sono ancora in grado di testimoniare di un passato ormai distante e sfocato. Sarà la vegetazione a fare da protagonista in quest’area poiché attraverso la scelta di alcune piante che, con le loro radici sono in grado di aiutare i ruderi a sopravvivere, verrà dato nuova veste a ciò che resta della rocca Vecchia. Contestualmente a ciò, si è deciso di riproporre nella zona retrostante i ruderi, il sistema degli antichi terrazzamenti di cui il colle è stato dotato in passato. Essi sono importanti a livello strutturale per ovviare alle problematiche conseguenti al dilavamento del terreno verso valle, ma non solo. Si vuole sì riproporre questi terrazzamenti come citazione storica, ma essa vuole essere un’emulazione non un’imitazione, pertanto, verranno trattati come una sorta di “giardino botanico”. La discesa del colle verso porta Fiume sarà certamente più piacevole se si potranno ammirare le specie autoctone presenti in questo luogo ben organizzate lungo la passeggiata. L’obiettivo del progetto è rendere palesi le importanti caratteristiche architettoniche che contraddistinguono l’eccezionale valore dei beni oggetto di analisi, migliorando le condizioni di conservazione ed assicurando una fruizione degli ambienti, ove sia possibile, e donando una nuova destinazione d’uso agli stessi.

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In the early 1970 the community has started to realize that have as a main principle the industry one, with the oblivion of the people and health conditions and of the world in general, it could not be a guideline principle. The sea, as an energy source, has the characteristic of offering different types of exploitation, in this project the focus is on the wave energy. Over the last 15 years the Countries interested in the renewable energies grew. Therefore many devices have came out, first in the world of research, then in the commercial one; these converters are able to achieve an energy transformation into electrical energy. The purpose of this work is to analyze the efficiency of a new wave energy converter, called WavePiston, with the aim of determine the feasibility of its actual application in different wave conditions: from the energy sea state of the North Sea, to the more quiet of the Mediterranean Sea. The evaluation of the WavePiston is based on the experimental investigation conducted at the University of Aalborg, in Denmark; and on a numerical modelling of the device in question, to ascertain its efficiency regardless the laboratory results. The numerical model is able to predict the laboratory condition, but it is not yet a model which can be used for any installation, in fact no mooring or economical aspect are included yet. È dai primi anni del 1970 che si è iniziato a capire che il solo principio dell’industria con l’incuranza delle condizioni salutari delle persone e del mondo in generale non poteva essere un principio guida. Il mare, come fonte energetica, ha la caratteristica di offrire diverse tipologie di sfruttamento, in questo progetto è stata analizzata l’energia da onda. Negli ultimi 15 anni sono stati sempre più in aumento i Paesi interessati in questo ambito e di conseguenza, si sono affacciati, prima nel mondo della ricerca, poi in quello commerciale, sempre più dispositivi atti a realizzare questa trasformazione energetica. Di tali convertitori di energia ondosa ne esistono diverse classificazioni. Scopo di tale lavoro è analizzare l’efficienza di un nuovo convertitore di energia ondosa, chiamato WavePiston, al fine si stabilire la fattibilità di una sua reale applicazione in diverse condizioni ondose: dalle più energetiche del Mare del Nord, alle più quiete del Mar Mediterraneo. La valutazione sul WavePiston è basata sullo studio sperimentale condotto nell’Università di Aalborg, in Danimarca; e su di una modellazione numerica del dispositivo stesso, al fine di conoscerne l’efficienza a prescindere dalla possibilità di avere risultati di laboratorio. Il modello numerico è in grado di predirre le condizioni di laboratorio, ma non considera ancora elementi come gli ancoraggi o valutazione dei costi.

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Il progetto si sviluppa nell’area dell’ex Eridania di Forlì, un’area molto vasta, adiacente al centro storico e come tema della Tesi abbiamo deciso di studiare un progetto che potesse contenere funzioni pubbliche a disposizione di tutti i cittadini. Ci è sembrato interessante ragionare sull’area in questi termini poiché dagli studi effettuati è risultato che la città di Forlì è priva di un polo culturale compatto che possa costituire un punto di ritrovo per i forlivesi. Nelle nostre intenzioni gli spazi progettati dovranno ospitare attività espositive, concerti, spettacoli all’aperto, rappresentazioni teatrali, conferenze e laboratori artistici che coinvolgano tutte le fasce d’età. Importante per noi era portare all’interno di quest’area dismessa nuove funzioni culturali di cui Forlì è oggi carente. Dall’analisi svolta sulla città è emerso che gli spazi esistenti dedicati ad attività per lo spettacolo non sono sufficienti a soddisfare le esigenze dei cittadini sia a livello quantitativo che di assortimento. Abbiamo perciò deciso di inserire nel progetto auditorium, teatro, teatro all’aperto, laboratori artistici, zone espositive, attività annesse come uffici per l’amministrazione, biglietterie, info point e un grande parco. La prima problematica che abbiamo cercato di risolvere è stata quella dell’attraversamento della ferrovia e, più in particolare, di un collegamento con il centro storico della città e con lo sviluppo di Forlì in generale che l’ha sempre vista come un limite invalicabile. Il problema è stato affrontato ipotizzando la realizzazione di un edificio su via Vittorio Veneto adibito a commercio e terziario dal quale, attraverso un ponte che oltrepassa la ferrovia, si giunge a un edificio, all’interno dell’area, che ospita i servizi di risalita, alcuni uffici e un bar. La scelta è stata quella di non porci ortogonalmente agli edifici affacciati su questa importante arteria ma di legarci all’intero progetto che segue l’orientamento dettato dalle preesistenze. All’interno dell’area spicca per dimensioni il corpo principale dell’ex Eridania che, conserviamo eliminando le superfetazioni e intervenendo per la messa in sicurezza e per permetterne l’adeguata fruibilità. La scelta di riordinare il prospetto Nord di questo edificio nasce dalla volontà di realizzare una grande corte sulla quale si affacciassero tutti gli edifici ad esclusione dei vecchi magazzini che ne risultano racchiusi all’interno e del teatro all’aperto che rimane immerso nel verde. Per definire questa corte abbiamo pensato a un porticato che proseguisse, seguendone l’aspetto, le dimensioni e il ritmo dei pilastri, quello già esistente a lato dell’edificio conservato dell’ex zuccherificio e che fungesse da percorso coperto per raggiungere i diversi laboratori artistici che si innestano su questo. A chiudere il quarto lato della corte sono il teatro e l’auditorium, simmetrici rispetto all’asse del progetto che è dato dalle vasche originariamente usate per il lavaggio delle barbabietole, allineate con l’edificio principale dell’ex zuccherificio. Per rendere la direzione ancora più evidente decidiamo di proseguirla con un tratto d’acqua diretto verso il teatro all’aperto, conclusione della stessa. Gli edifici di progetto sono immersi in un grande parco caratterizzato dalla vegetazione già esistente nell’area, cresciuta durante l’abbandono della stessa. Così facendo manteniamo delle zone che possono definirsi boschive, dove la vegetazione è molto fitta e intricata, e altre invece più libere dagli alberi e quindi utilizzabili per altre funzioni ricreative. Un diverso trattamento è riservato alla zona di parco racchiusa tra i due percorsi rettilinei e simmetrici che collegano il teatro all’aperto alla piazza: qui si è preferito eliminare la vegetazione esistente ricavando un grande prato libero definito da filari di alberi opportunamente disposti per focalizzare l’attenzione sul teatro stesso.

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L’evolvere del sistema insediativo nelle Marche, dal dopoguerra ad oggi, ha condotto ad un diffuso sottoutilizzo dei piccoli centri storici ed all’abbandono, ormai definitivo, di quei borghi minori, privi di funzioni di pregio, privi ormai anche delle dotazioni minime funzionali all’abitare. Il piccolo nucleo di Sant’Arduino si inserisce in quel lungo elenco di borghi che, con il graduale abbandono dell’agricoltura, hanno subito un progressivo processo di spopolamento. Lungo la strada che da Macerata Feltria conduce verso il monte Carpegna, il complesso monumentale è quasi sospeso su un dirupo: un campanile senza campane, una chiesa sconsacrata e pochi edifici rustici da alcuni anni completamente abbandonati. E' tutto quello che rimane dell'antico castello e della Chiesa parrocchiale di Sant’Arduino, che oggi ha perso la propria autonomia amministrativa e si colloca nel Comune di Pietrarubbia. Questo lavoro vuole offrire un contributo al processo di valorizzazione dei nuclei minori di antico impianto, intento promosso dalla stessa Regione all’interno del progetto “Borghi delle Marche”. La sensibilizzazione per un recupero urbanistico e architettonico del patrimonio tradizionale minore si coniuga con la scelta di inserire l’intervento nel suo contesto culturale e geografico, cercando di impostare, non un isolato intervento di recupero, ma un anello di connessione in termini sociali, culturali e funzionali con le politiche di sviluppo del territorio. Il percorso individuato si è articolato su una prima fase di indagine volta ad ottenere una conoscenza del tema dei borghi abbandonati e del sistema dei borghi delle Marche, successivamente l’analisi storica e la lettura e l’indagine dell’oggetto, fasi propedeutiche all’elaborazione di un’ipotesi di intervento, per giungere all’individuazione della modalità di riuso compatibile con il rispetto dei valori storico, formali e culturali del luogo. Per questo la scelta del riuso turistico del complesso, trovando nella funzione di albergo diffuso la possibile e concreta conversione dei manufatti. Il tutto basandosi su un’approfondita ricerca storica e su un’analisi dei sistemi costruttivi tradizionali, inserendo gli interventi di restauro dell’esistente e di integrazione delle nuove strutture nel totale rispetto della fabbrica. L’idea che ha mosso l’intero lavoro parte dall’analisi della cultura rurale locale, che ha generato il patrimonio dell’architettura minore. L’alta valle del Foglia può rappresentare un territorio nuovamente appetibile se non perde le sue ricchezze; la valorizzazione e il recupero di quest’architettura diffusa può rappresentare un buon trampolino di lancio per riappropriarsi della storia e della tradizione del luogo.