629 resultados para paesaggio, restauro, architettura, percezione


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Information technology (IT) is on the verge of another revolution. Driven by the increasing capabilities and ever declining costs of computing and communications devices, IT is being embedded into a growing range of physical devices linked together through networks and will become ever more pervasive as the component technologies become smaller, faster, and cheaper. [..] These networked systems of embedded computers, referred to as EmNets throughout this report, have the potential to change radically the way people interact with their environment by linking together a range of devices and sensors that will allow information to be collected, shared, and processed in unprecedented ways.[..] The use of EmNets throughout society could well dwarf previous milestones in the information revolution.[..] IT will eventually become \textbf{an invisible component of almost everything} in everyone`s surroundings. Con il ridursi dei costi e l'aumentare della capacità di computazione dei componenti elettronici sono proliferate piattaforme che permettono al bambino come all'ingegnere di sviluppare un'idea che trasversalmente taglia il mondo reale e quello virtuale. Una collisione tra due mondi che fino a poco tempo fa era consentita esclusivamente a professionisti. Oggetti che possono acquisire o estendere funzionalità, che ci permettono di estendere la nostra percezione del mondo e di rivalutarne i suoi limiti. Oggetti connessi alla 'rete delle reti' che condividono ed elaborano dati per un nuovo utilizzo delle informazioni. Con questa tesi si vuole andare ad esplorare l'applicazione degli agenti software alle nuove piattaforme dei sistemi embedded e dell'Internet of Things, tecnologie abbastanza mature eppure non ancora esplorate a fondo. Ha senso modellare un sistema embedded con gli agenti?

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Nel periodo storico compreso tra la seconda metà dell’Ottocento ed il primo ventennio del Novecento, un’ondata di innovazioni tecnologiche e scientifiche, unitamente all’espansione dell’industria siderurgica e la conseguente diffusione del ferro come materiale da costruzione, portarono alla realizzazione di strutture metalliche grandiose. Ciò fu reso possibile grazie ad una fervida attività di ricerca che permise la risoluzione di problematiche tecniche di assoluto rilievo, come la progettazione di grandi coperture o di ponti destinati al traffico ferroviario in grado di coprire luci sempre maggiori. In questo contesto si sviluppò il sistema della chiodatura come metodo di unione per il collegamento rigido e permanente dei vari elementi che compongono la struttura portante metallica. Ad oggi il sistema della chiodatura è stato quasi completamente sostituito dalla bullonatura di acciaio ad alta resistenza e dalla saldatura, che garantendo gli stessi standard di affidabilità e sicurezza, offrono vantaggi in termini economici e di rapidità esecutiva. Tuttavia lo studio delle unioni chiodate continua a rivestire notevole importanza in tutti quei casi in cui il progettista debba occuparsi di restauro, manutenzione o adeguamento di strutture esistenti che in molti casi continuano ad assolvere le funzioni per le quali erano state progettate. La valutazione delle strutture esistenti, in particolare i ponti, ha assunto un’importanza sempre crescente. L’incremento della mobilità e del traffico sulle infrastrutture di trasporto ha portato ad un incremento contemporaneo di carichi e velocità sui ponti. In particolare nelle ferrovie, i ponti rappresentano una parte strategica della rete ferroviaria e in molti casi, essi hanno già raggiunto i loro limiti di capacità di traffico, tanto è vero che l’età media del sessanta percento dei ponti metallici ferroviari è di un centinaio di anni. Pertanto i carichi di servizio, i cicli di sforzo accumulati a causa dei carichi da traffico e il conseguente invecchiamento delle strutture esistenti, inducono la necessità della valutazione della loro rimanente vita a fatica. In questo contesto, la valutazione delle condizioni del ponte e le conseguenti operazioni di manutenzione o sostituzione diventano indispensabili. Negli ultimi decenni sono state effettuate numerose iniziative di ricerca riguardo il comportamento a fatica dei ponti ferroviari chiodati, poiché le passate esperienze hanno mostrato che tali connessioni sono suscettibili di rotture per fatica. Da uno studio dell’ASCE Committee on Fatigue and Fracture Reliability è emerso che l’ottanta, novanta percento delle crisi nelle strutture metalliche è da relazionarsi ai fenomeni di fatica e frattura. Il danno per fatica riportato dai ponti chiodati è stato osservato principalmente sulle unioni tra elementi principali ed è causato dagli sforzi secondari, che si possono sviluppare in diverse parti delle connessioni. In realtà riguardo la valutazione della fatica sui ponti metallici chiodati, si è scoperto che giocano un ruolo importante molti fattori, anzitutto i ponti ferroviari sono soggetti a grandi variazioni delle tensioni indotte da carichi permanenti e accidentali, così come imperfezioni geometriche e inclinazioni o deviazioni di elementi strutturali comportano sforzi secondari che solitamente non vengono considerati nella valutazione del fenomeno della fatica. Vibrazioni, forze orizzontali trasversali, vincoli interni, difetti localizzati o diffusi come danni per la corrosione, rappresentano cause che concorrono al danneggiamento per fatica della struttura. Per questo motivo si studiano dei modelli agli elementi finiti (FE) che riguardino i particolari delle connessioni e che devono poi essere inseriti all’interno di un modello globale del ponte. L’identificazione degli elementi critici a fatica viene infatti solitamente svolta empiricamente, quindi è necessario che i modelli numerici di cui si dispone per analizzare la struttura nei particolari delle connessioni, così come nella sua totalità, siano il più corrispondenti possibile alla situazione reale. Ciò che ci si propone di sviluppare in questa tesi è un procedimento che consenta di affinare i modelli numerici in modo da ottenere un comportamento dinamico analogo a quello del sistema fisico reale. Si è presa in esame la seguente struttura, un ponte metallico ferroviario a binario unico sulla linea Bologna – Padova, che attraversa il fiume Po tra le località di Pontelagoscuro ed Occhiobello in provincia di Ferrara. Questo ponte fu realizzato intorno agli anni che vanno dal 1945 al 1949 e tra il 2002 e il 2006 ha subito interventi di innalzamento, ampliamento ed adeguamento nel contesto delle operazioni di potenziamento della linea ferroviaria, che hanno portato tra l’altro all’affiancamento di un nuovo ponte, anch’esso a singolo binario, per i convogli diretti nella direzione opposta. Le travate metalliche del ponte ferroviario sono costituite da travi principali a traliccio a gabbia chiusa, con uno schema statico di travi semplicemente appoggiate; tutte le aste delle travi reticolari sono formate da profilati metallici in composizione chiodata. In particolare si è rivolta l’attenzione verso una delle travate centrali, della quale si intende affrontare un’analisi numerica con caratterizzazione dinamica del modello agli Elementi Finiti (FEM), in modo da conoscerne lo specifico comportamento strutturale. Ad oggi infatti l’analisi strutturale si basa prevalentemente sulla previsione del comportamento delle strutture tramite modelli matematici basati su procedimenti risolutivi generali, primo fra tutti il Metodo agli Elementi Finiti. Tuttavia i risultati derivanti dal modello numerico possono discostarsi dal reale comportamento della struttura, proprio a causa delle ipotesi poste alla base della modellazione. Difficilmente infatti si ha la possibilità di riscontrare se le ipotesi assunte nel calcolo della struttura corrispondano effettivamente alla situazione reale, tanto più se come nella struttura in esame si tratta di una costruzione datata e della quale si hanno poche informazioni circa i dettagli relativi alla costruzione, considerando inoltre che, come già anticipato, sforzi secondari e altri fattori vengono trascurati nella valutazione del fenomeno della fatica. Nel seguito si prenderanno in esame le ipotesi su masse strutturali, rigidezze dei vincoli e momento d’inerzia delle aste di parete, grandezze che caratterizzano in particolare il comportamento dinamico della struttura; per questo sarebbe ancora più difficilmente verificabile se tali ipotesi corrispondano effettivamente alla costruzione reale. Da queste problematiche nasce l’esigenza di affinare il modello numerico agli Elementi Finiti, identificando a posteriori quei parametri meccanici ritenuti significativi per il comportamento dinamico della struttura in esame. In specifico si andrà a porre il problema di identificazione come un problema di ottimizzazione, dove i valori dei parametri meccanici vengono valutati in modo che le caratteristiche dinamiche del modello, siano il più simili possibile ai risultati ottenuti da elaborazioni sperimentali sulla struttura reale. La funzione costo è definita come la distanza tra frequenze proprie e deformate modali ottenute dalla struttura reale e dal modello matematico; questa funzione può presentare più minimi locali, ma la soluzione esatta del problema è rappresentata solo dal minimo globale. Quindi il successo del processo di ottimizzazione dipende proprio dalla definizione della funzione costo e dalla capacità dell’algoritmo di trovare il minimo globale. Per questo motivo è stato preso in considerazione per la risoluzione del problema, l’algoritmo di tipo evolutivo DE (Differential Evolution Algorithm), perché gli algoritmi genetici ed evolutivi vengono segnalati per robustezza ed efficienza, tra i metodi di ricerca globale caratterizzati dall’obiettivo di evitare la convergenza in minimi locali della funzione costo. Obiettivo della tesi infatti è l’utilizzo dell’algoritmo DE modificato con approssimazione quadratica (DE-Q), per affinare il modello numerico e quindi ottenere l’identificazione dei parametri meccanici che influenzano il comportamento dinamico di una struttura reale, il ponte ferroviario metallico a Pontelagoscuro.

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L’evolvere del sistema insediativo nelle Marche, dal dopoguerra ad oggi, ha condotto ad un diffuso sottoutilizzo dei piccoli centri storici ed all’abbandono, ormai definitivo, di quei borghi minori, privi di funzioni di pregio, privi ormai anche delle dotazioni minime funzionali all’abitare. Il piccolo nucleo di Sant’Arduino si inserisce in quel lungo elenco di borghi che, con il graduale abbandono dell’agricoltura, hanno subito un progressivo processo di spopolamento. Lungo la strada che da Macerata Feltria conduce verso il monte Carpegna, il complesso monumentale è quasi sospeso su un dirupo: un campanile senza campane, una chiesa sconsacrata e pochi edifici rustici da alcuni anni completamente abbandonati. E' tutto quello che rimane dell'antico castello e della Chiesa parrocchiale di Sant’Arduino, che oggi ha perso la propria autonomia amministrativa e si colloca nel Comune di Pietrarubbia. Questo lavoro vuole offrire un contributo al processo di valorizzazione dei nuclei minori di antico impianto, intento promosso dalla stessa Regione all’interno del progetto “Borghi delle Marche”. La sensibilizzazione per un recupero urbanistico e architettonico del patrimonio tradizionale minore si coniuga con la scelta di inserire l’intervento nel suo contesto culturale e geografico, cercando di impostare, non un isolato intervento di recupero, ma un anello di connessione in termini sociali, culturali e funzionali con le politiche di sviluppo del territorio. Il percorso individuato si è articolato su una prima fase di indagine volta ad ottenere una conoscenza del tema dei borghi abbandonati e del sistema dei borghi delle Marche, successivamente l’analisi storica e la lettura e l’indagine dell’oggetto, fasi propedeutiche all’elaborazione di un’ipotesi di intervento, per giungere all’individuazione della modalità di riuso compatibile con il rispetto dei valori storico, formali e culturali del luogo. Per questo la scelta del riuso turistico del complesso, trovando nella funzione di albergo diffuso la possibile e concreta conversione dei manufatti. Il tutto basandosi su un’approfondita ricerca storica e su un’analisi dei sistemi costruttivi tradizionali, inserendo gli interventi di restauro dell’esistente e di integrazione delle nuove strutture nel totale rispetto della fabbrica. L’idea che ha mosso l’intero lavoro parte dall’analisi della cultura rurale locale, che ha generato il patrimonio dell’architettura minore. L’alta valle del Foglia può rappresentare un territorio nuovamente appetibile se non perde le sue ricchezze; la valorizzazione e il recupero di quest’architettura diffusa può rappresentare un buon trampolino di lancio per riappropriarsi della storia e della tradizione del luogo.

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Fin dai primi approcci alla città dell'Aquila, quando ancora non la conoscevamo e attraverso libri e articoli in rete cercavamo di capire la sua storia e la sua identità, abbiamo riconosciuto chiaramente quanto fosse importante la sua università. Le testimonianze precedenti il sisma parlavano di una città universitaria con quasi 30000 iscritti in continua crescita, viva e attiva, una città giovane; quelle posteriori il 6 aprile 2009 invece erano le richieste di aiuto da parte di docenti e fuorisede che si rifiutavano di abbandonare quello che per loro era diventato un importante punto di riferimento per la loro vita e la loro formazione. Forse anche perchè noi stesse studentesse, abbiamo fin da subito sentito il dovere di occuparci di questo angoscioso problema, da un lato per essere solidali verso i nostri sfortunati colleghi, dall'altro per non permettere un ulteriore abbandono dell'ateneo aquilano da parte di altri studenti. Lo slogan apparso sui cartelloni di alcuni studenti aquilani durante una manifestazione fatta per sensibilizzare la popolazione sulla loro situazione palesa il loro attaccamento alla città e la loro volontà di continuare a farne parte e partecipare alla sua ricostruzione: "Noi siamo il cuore de L'Aquila". L’Università dell’Aquila vuole tornare nel centro storico. A confermare questa volontà, più volte espressa, c’è l’acquisizione della vecchia struttura dell’ospedale San Salvatore nei pressi della Fontana Luminosa, dove verrà realizzato il nuovo polo umanistico. La nuova sede di Lettere e filosofia, situata nella parte più nuova dell’ex complesso ospedaliero sarà aperta per il prossimo anno accademico e nell'ultima porzione di struttura acquistata si insedierà anche la facoltà di Scienze della formazione. “L’Università deve tornare nel centro storico - ha affermato il rettore Ferdinando di Orio nella conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa - perché deve tornare a rappresentare ciò che L’Aquila è, ovvero una città universitaria”. Da qui un percorso di studio che partendo dalla storia della città e della sua università ci ha portato fino alla scelta dell'area, secondo noi la più adatta ad ospitare servizi per gli studenti universitari e permettere un tempestivo approccio al problema. Un'area che si è rivelata piena di potenzialità e per noi possibile punto di riferimento per la rinascita del centro storico aquilano. Dagli studi preliminari svolti è infatti emerso che l'area di progetto è attualmente poco sfruttata benchè la sua posizione sia assolutamente favorevole. Importante è per esempio la vicinanza alla stazione ferroviaria, usata da studenti fuori sede soprattutto della conca aquilana, professori e ospiti che devono raggiungere la città. Il piazzale della stazione ferroviaria, assieme alla via XX Settembre sono poi importanti fermate del servizio urbano ed extraurbano pubblico che collegano l'area con l'università, l'ospedale, e l'autostazione di Collemaggio. Altrettanto rilevante è parsa la prossimità dell'area al centro storico ed il fatto che si presenti agibile nella quasi sua totalità il che permette di poter pensare ad un intervento di ricostruzione tempestivo. Oltre alle mura storiche, la zona di progetto si trova nelle immediate vicinanze di altre due importanti emergenze: la Fontana delle 99 cannelle, uno dei più importanti e più significativi monumenti dell’Aquila e l'edificio dell'ex-mattatoio, struttura di archeologia industriale nella quale il Comune ha scelto di localizzare temporaneamente il Museo Nazionale d'Abruzzo. Attraverso la realizzazione di questo importante spazio espositivo insieme con il restauro della Fontana delle novantanove Cannelle e della Porta Rivera a cura del FAI, sarà possibile ripristinare un polo di attrazione culturale e monumentale. L’operazione assume inoltre un valore simbolico, poiché viene effettuato in un luogo di primaria importanza, legato all’origine stessa della città, che farà da battistrada per la riappropriazione del centro storico. Noi ci affianchiamo quindi a questo importante intervento e alle ultime direttive segnalate dal Comune e dall'Ateneo che dimostrano la loro volontà di riappropriarsi del centro storico, localizzando nell'area i servizi che dopo il sisma risultano necessari affinché gli studenti possano continuare i loro studi nella città e andando a potenziare il sistema museale già presente per creare un importante polo didattico e culturale.

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Lo studio effettuato verte sulla ricerca delle cave storiche di pietra da taglio in provincia di Bologna, facendo partire la ricerca al 1870 circa, data in cui si hanno le prime notizie cartacee di cave bolognesi. Nella ricerca si è potuto contare sull’aiuto dei Dott. Stefano Segadelli e Maria Tersa De Nardo, geologi della regione Emilia-Romagna, che hanno messo a disposizione la propria conoscenza e le pubblicazioni della regione a questo scopo. Si è scoperto quindi che non esiste in bibliografia la localizzazione di tali cave e si è cercato tramite l’utilizzo del software ArcGIS , di georeferenziarle, correlandole di informazioni raccolte durante la ricerca. A Bologna al momento attuale non esistono cave di pietra da taglio attive, così tutte le fonti che si sono incontrate hanno fornito dati parziali, che uniti hanno permesso di ottenere una panoramica soddisfacente della situazione a inizio secolo scorso. Le fonti studiate sono state, in breve: il catasto cave della regione Emilia-Romagna, gli shape preesistenti della localizzazione delle cave, le pubblicazioni “Uso del Suolo”, oltre ai dati forniti dai vari Uffici Tecnici dei comuni nei quali erano attive le cave. I litotipi cavati in provincia sono quattro: arenaria, calcare, gesso e ofiolite. Per l’ofiolite si tratta di coltivazioni sporadiche e difficilmente ripetibili dato il rischio che può esserci di incontrare l’amianto in queste formazioni; è quindi probabile che non verranno più aperte. Il gesso era una grande risorsa a fine ‘800, con molte cave aperte nella Vena del Gesso. Questa zona è diventata il Parco dei Gessi Bolognesi, lasciando alla cava di Borgo Rivola il compito di provvedere al fabbisogno regionale. Il calcare viene per lo più usato come inerte, ma non mancano esempi di formazioni adatte a essere usate come blocchi. La vera protagonista del panorama bolognese rimane l’arenaria, che venne usata da sempre per costruire paesi e città in provincia. Le cave, molte e di ridotte dimensioni, sono molto spesso difficili da trovare a causa della conseguente rinaturalizzazione. Ci sono possibilità però di vedere riaprire cave di questo materiale a Monte Finocchia, tramite la messa in sicurezza di una frana, e forse anche tramite la volontà di sindaci di comunità montane, sensibili a questo argomento. Per avere una descrizione “viva” della situazione attuale, sono stati intervistati il Dott. Maurizio Aiuola, geologo della Provincia di Bologna, e il Geom. Massimo Romagnoli della Regione Emilia-Romagna, che hanno fornito una panoramica esauriente dei problemi che hanno portato ad avere in regione dei poli unici estrattivi anziché più cave di modeste dimensioni, e delle possibilità future. Le grandi cave sono, da parte della regione, più facilmente controllabili, essendo poche, e più facilmente ripristinabili data la disponibilità economica di chi la gestisce. Uno dei problemi emersi che contrastano l’apertura di aree estrattive minori, inoltre, è la spietata concorrenza dei materiali esteri, che costano, a parità di qualità, circa la metà del materiale italiano. Un esempio di ciò lo si è potuto esaminare nel comune di Sestola (MO), dove, grazie all’aiuto e alle spiegazioni del Geom. Edo Giacomelli si è documentato come il granito e la pietra di Luserna esteri utilizzati rispondano ai requisiti di resistenza e non gelività che un paese sottoposto ai rigori dell’inverno richiede ai lapidei, al contrario di alcune arenarie già in opera provenienti dal comune di Bagno di Romagna. Alla luce di questo esempio si è proceduto a calcolare brevemente l’ LCA di questo commercio, utilizzando con l’aiuto dell’ Ing. Cristian Chiavetta il software SimaPRO, in cui si è ipotizzato il trasporto di 1000 m3 di arenaria da Shanghai (Cina) a Bologna e da Karachi (Pakistan) a Bologna, comparandolo con le emissioni che possono esserci nel trasporto della stessa quantità di materiale dal comune di Monghidoro (BO) al centro di Bologna. Come previsto, il trasporto da paesi lontani comporta un impatto ambientale quasi non comparabile con quello locale, in termini di consumo di risorse organiche e inorganiche e la conseguente emissione di gas serra. Si è ipotizzato allora una riapertura di cave locali a fini non edilizi ma di restauro; esistono infatti molti edifici e monumenti vincolati in provincia, e quando questi devono essere restaurati, dove si sceglie di cavare il materiale necessario e rispondente a quello già in opera? Al riguardo, si è passati attraverso altre due interviste ai Professori Francesco Eleuteri, architetto presso la Soprintendenza dei Beni Culturali a Bologna e Gian Carlo Grillini, geologo-petrografo e esperto di restauro. Ciò che è emerso è che effettivamente non esiste attualmente una panoramica soddisfacente di quello che è il patrimonio lapideo della provincia, mancando, oltre alla georeferenziazione, una caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica adeguata a poter descrivere ciò che veniva anticamente cavato; l’ipotesi di riapertura a fini restaurativi potrebbe esserci, ma non sembra essere la maggiore necessità attualmente, in quanto il restauro viene per lo più fatto senza sostituzioni o integrazioni, tranne rari casi; è pur sempre utile avere una carta alla mano che possa correlare l’edificio storico con la zona di estrazione del materiale, quindi entrambi i professori hanno auspicato una prosecuzione della ricerca. Si può concludere dicendo che la ricerca può proseguire con una migliore e più efficace localizzazione delle cave sul terreno, usando anche come fonte il sapere della popolazione locale, e di procedere con una parte pratica che riguardi la caratterizzazione minero-petrografica e fisico-meccanica. L’utilità di questi dati può esserci nel momento in cui si facciano ricerche storiche sui beni artistici presenti a Bologna, e qualora si ipotizzi una riapertura di una zona estrattiva.

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Questa tesi di laurea si pone in continuità rispetto all’esperienza maturata nel Laboratorio di Sintesi Finale di Urbanistica “Spiagge urbane. Paesaggi, luoghi, architetture nella città balneare adriatica”. Nel corso del Laboratorio è stata condotta una riflessione sulle possibili strategie di “dedensificazione” della località balneare di Viserbella, nella Riviera di Rimini. La tesi è quindi l’occasione per ripensare lo sviluppo e la trasformazione di una parte del litorale riminese, creando una città balneare capace di conferire un’impronta indelebile nel tessuto esistente. L’esigenza di “dedensificare” nasce per dare una concreta risposta ad un incontrollato sviluppo turistico che ha creato contemporaneamente l’affascinante prodotto che è la costa romagnola, e il tessuto completamente saturo e senza alcuna pianificazione urbanistica, sviluppatosi, per lo più, tra la linea di costa e la linea ferroviaria. La storia di Viserbella, posta tra Torre Pedrera e Viserba, inizia nei primi decenni del Novecento, ma il vero sviluppo, legato al boom turistico, avviene negli anni Cinquanta, quando la località si satura di edifici, alcuni dei quali di scarso valore architettonico e collocati sull’arenile, e di infrastrutture inefficienti. Lo studio dell’area di progetto si articola in quattro fasi. La prima riguarda l’analisi territoriale della costa romagnola compresa tra Cesenatico e Cattolica, con un raffronto particolare tra la piccola località e la città di Rimini. La seconda parte è volta a ricostruire, invece, le fasi dello sviluppo urbano dell’agglomerato. La ricerca bibliografica, archivistica, cartografica e le interviste agli abitanti ci hanno permesso la ricostruzione della storia di Viserbella. La terza parte si concentra sull’analisi urbana, territoriale, ambientale e infrastrutturale e sull’individuazione delle criticità e delle potenzialità della località determinate, in particolar modo, dai sopraluoghi e dai rilievi fotografici. Basilari sono state, in questo senso, le indagini svolte tra i residenti che ci hanno mostrato le reali necessità e le esigenze della località e il raffronto con gli strumenti urbanistici vigenti. La fase di ricerca è stata seguita da diversi docenti e professionisti che hanno lavorato con noi per approfondire diversi aspetti come i piani urbanistici, lo studio del paesaggio e dell’area. Con i risultati ottenuti dalle indagini suddette abbiamo redatto il metaprogetto alla scala urbana che identifica le strategie di indirizzo attraverso le quali si delineano le azioni di programmazione, finalizzate al raggiungimento di un risultato. La conoscenza del territorio, le ricerche e le analisi effettuate, permettono infatti di poter operare consapevolmente nella quarta fase: quella progettuale. Il progetto urbanistico di “dedensificazione” per la località di Viserbella ha come presupposto primario la sostituzione dell’attuale linea ferroviaria Rimini-Ravenna con una linea a raso che migliori i collegamenti con le località vicine e la qualità della vita, dando ulteriori possibilità di sviluppo all’insediamento oltre la ferrovia. Da questo emergono gli altri obiettivi progettuali tra cui: riqualificare l’area a monte della ferrovia che attualmente si presenta degradata e abbandonata; rafforzare e creare connessioni tra entroterra e litorale; riqualificare il tessuto esistente con l’inserimento di spazi pubblici e aree verdi per la collettività; “restituire” la spiaggia al suo uso tradizionale, eliminando gli edifici presenti sull’arenile; migliorare i servizi esistenti e realizzarne di nuovi allo scopo di rinnovare la vita della collettività e di creare spazi adeguati alle esigenze di tutti. Restituire un’identità a questo luogo, è l’intento primario raggiungibile integrando gli elementi artificiali con quelli naturali e creando un nuovo skyline della città. La progettazione della nuova Viserbella pone le basi per forgiare degli spazi urbani e naturali vivibili dagli abitanti della località e dai turisti, sia in estate che in inverno.

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IMPARARE LA SOSTENIBILITA’ Oggetto di questa tesi di laurea è la progettazione di un asilo nido in prossimità della scuola dell’infanzia “Coccinella” di Bertinoro (FC) per rispondere alle esigenze espresse dalla’Amministrazione Comunale, orientate a realizzare un ampliamento della struttura esistente, completando così il polo scolastico comprendente anche la scuola elementare comunale adiacente. La strategia di intervento che il progetto ha adottato prevede due scenari: uno che assume integralmente gli obiettivi dell’Amministrazione e prevede la realizzazione di una struttura per la prima infanzia ad ampliamento di quella esistente, e un secondo che invece propone anche la realizzazione di una nuova scuola materna, in sostituzione di quella attualmente presente. Il progetto ha adottato un approccio integrato dal punto di vista formale e costruttivo, mostrando particolari attenzioni alle tematiche ambientali, assunte come determinanti per ottenere elevati livelli di benessere per i fruitori. La scuola diventa così promotrice di una progettazione orientata a principi di sostenibilità ambientale, efficienza e risparmio energetico, attraverso scelte in cui, sin dalle prime fasi, tecnologia, ambiente, comfort e salute cercano un reciproco equilibrio. A scala urbana si è scelto di recuperare e ampliare il sistema di percorsi pedonali che consente il collegamento tra le diverse parti della città, valorizzando il paesaggio quale risorsa primaria. A scala locale, per garantire l’integrazione del nuovo intervento con l’ambiente e il territorio, il progetto ha richiesto un’approfondita analisi preliminare del sito, comprendente lo studio di elementi del contesto sociale, culturale, ambientale e paesaggistico. A questi si sono affiancati gli aspetti climatologici, funzionali alla scelta dell’esposizione da attribuire all’edificio in modo da mitigare gli effetti delle variazioni climatiche e ottimizzare la qualità indoor. Dal punto di vista funzionale e distributivo il progetto ha risposto a criteri di massima flessibilità e fruibilità degli ambienti interni, assecondando le esigenze di educatori e bambini. Particolare attenzione è stata rivolta alla scelta della tipologia costruttiva, adottando elementi prefabbricati in legno assemblati a secco. Questo sistema consente la realizzazione di strutture affidabili, durevoli nel tempo e rispondenti a tre criteri fondamentali nell’ottica della sostenibilità: impiego di materiali rinnovabili, minimizzazione dei rifiuti e del consumo di acqua in cantiere e possibilità di recupero tramite smontaggio. Per garantire un corretto rapporto tra costruito e contesto urbano si è deciso di utilizzare materiali da rivestimento della tradizione locale, quali la pietra, e di attenuare l’impatto visivo dell’intervento attraverso l’impiego di coperture verdi. Queste, oltre a restituire in copertura il suolo occupato dai volumi edificati, contribuiscono alla mitigazione del microclima, sia all’interno dell’edificio che nel suo intorno. Rispetto agli obiettivi di benessere degli utenti, il progetto si è posto l’obiettivo di superare i confini determinati dalla normativa sui requisiti energetici, puntando al raggiungimento di condizioni ottimali in termini di salubrità del costruito e confort abitativo. Questo intervento si propone di sperimentare un approccio ecologico di sensibilizzazione ai criteri di sostenibilità, capace di coinvolgere tutti i protagonisti della vita scolastica: i bambini, gli insegnanti, i genitori e la città. “Imparare la sostenibilità” è l’obiettivo del progetto e la linea guida della tesi, i “percorsi di sostenibilità”, rappresenta il frutto degli studi, delle analisi, delle scelte che ci hanno spinto ad ottenere lo scopo prefissato e racchiude in un significato sia fisico che metaforico i risultati finali, sia a scala urbana, che a scala dell’edificio. Il termine “percorsi” ci permette di comprendere sia la nuova rete di collegamenti tra l’area di intervento e il resto della città quali strumento di rigenerazione e di contatto con il paesaggio, ma anche il processo di crescita e formativo che il bambino, destinatario e protagonista del progetto, intraprenderà in questi luoghi. La realizzazione di edifici tecnologicamente efficienti dal punto di vista delle prestazioni energetiche (raggiungimento classe B per la struttura esistente, classe A per le ipotesi di ampliamento) ma anche dal punto di vista del confort luminoso rappresenta la premessa per la formazione di una nuova generazione più responsabile e rispettosa nei confronti dell’ambiente che la circonda.

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Questa tesi ha come oggetto la riqualificazione energetica e funzionale della scuola media statale “P. Amaducci” di Bertinoro e la realizzazione, all’interno della stessa area, di una scuola elementare che condivida, con la struttura esistente, spazi per attività parascolastiche e sportive. Il lotto di intervento è situato ai margini del centro urbano, circondato da un’area identificata dalla pubblica amministrazione come di possibile espansione residenziale; esso presenta diverse criticità, tra cui la poca sicurezza dei percorsi pedonali, la frammentarietà del sistema degli spazi aperti, la mancanza di adeguate aree di sosta e di parcheggio. Grazie alla sua posizione elevata e alla collocazione all’interno di un ambito di interesse paesaggistico, dall’area si gode di un’ampia visuale sul territorio circostante, caratterizzato dalla coltivazione della vite. L’attuale scuola media statale “P. Amaducci”, realizzata nel 1990, è un edificio di circa 17800 mc con disposizione planimetrica a corte aperta, sviluppato su tre piani, ad est del quale nel 2000 è stato collocato un edificio a blocco di 12000 mc, che ospita un palazzetto dello sport di rilevanza provinciale. Nonostante la sua recente costruzione, la struttura presenta diverse carenze progettali, tra cui lo sfavorevole orientamento delle aule per la didattica, che determina un elevato livello di discomfort, la scarsa prestazione energetica che colloca l’edificio in classe energetica E, e il generale sovradimensionamento del complesso e dei singoli spazi interni (circa 180% di spazio in più rispetto a quanto previsto dal D.M.del 1975 sull’edilizia scolastica. La scuola era originariamente progettata per ospitare tre sezioni, per un totale di 225 alunni; attualmente è frequentata da solo 132 studenti, con conseguente mancata utilizzazione di una parte consistente dell’edificio. Gli obiettivi dell’intervento sono quelli fissati dall’Amministrazione comunale e consistono essenzialmente in: - Riunificazione della scuola media con la scuola elementare in un unico polo scolastico, mettendo in comune una serie di ambienti quali l'auditorium, la mensa, le aule speciali, l’adiacente palazzetto dello sport. - Realizzazione di un ampliamento per la nuova scuola elementare, con capacità di 10 aule. Esso andrebbe realizzato a monte dell'attuale scuola media favorendo un ingresso separato dei due ordini di scuola. - Revisione di alcune soluzioni progettuali ed energetiche errate o non funzionali presenti nell'attuale struttura. A seguito di alcune analisi effettuate sulla popolazione di Bertinoro e sull’accesso ai plessi scolastici dalle frazioni vicine (Fratta Terme, Capocolle, Panighina) è emersa la scarsa dinamica demografica del comune, la quale ha suggerito di prevedere la riduzione degli spazi destinati alla scuola media e l’utilizzo dei locali eccedenti per ospitare aule per la didattica ad uso della nuova scuola elementare, prevedendo inoltre l’uso congiunto degli spazi per attività parascolastiche tra le due scuole (mensa, biblioteca, auditorium e palestra) e progettando un ampliamento per ospitare le altre attività necessarie al funzionamento della nuova scuola elementare. Il progetto ha assunto la sostenibilità e il minimo impatto sull’ambiente come principi generatori gli elementi del contesto naturale come risorse: mantiene l’edificio adagiato sul declivio del terreno e valorizza la vista verso la vallata circostante, in modo da aprirlo sul paesaggio. Per limitare una delle criticità funzionali rilevate, il progetto si è proposto di separare i percorsi pedonali da quelli carrabili inserendo zone filtro con la funzione di proteggere l’accesso al polo scolastico e al palazzetto dello sport e, al fine di evitare la promiscuità delle utenze, di differenziare altimetricamente gli ingressi dei diversi edifici e di prevedere due parcheggi, uno a monte dell’area (di pertinenza della nuova scuola primaria), e uno a valle (ad uso degli utenti della scuola secondaria di primo grado e della palestra). Nella nuova configurazione spaziale dell’edificio esistente, le aule per la didattica sono collocate sul fronte principale orientato a sud-est e dotate di ampie aperture provviste di schermature studiate sulla radiazione solare locale. Per raggiungere un ottimo livello di illuminamento si è “scavato” un canale di luce all’interno dell’edificio, che fornisce alle aule un apporto di luce naturale aggiuntivo rispetto a quello che entra dalle facciate. Sul fronte nord-ovest si localizzano invece le aule speciali e i servizi, affacciati sulla corte. L’ingresso e il vano scala esistenti, in rapporto al volume ridimensionato della scuola media, risultano così in posizione baricentrica. La tesi presenta due diverse ipotesi di ampliamento, che prevedono entrambe la collocazione dei nuovi volumi a monte dell’edificio esistente, connessi ad esso tramite lo spazio dell’ingresso e la localizzazione di quattro aule per la didattica in una parte dell’edificio esistente. Il primo progetto di ampliamento si propone di ridefinire e valorizzare la corte interna attraverso l’inserimento a monte dell’edificio esistente di un volume su un solo piano, che si va ad inserire nel profilo della collina, secondo il principio del minimo impatto sul paesaggio circostante. Il secondo progetto di ampliamento punta invece sulla continuità visiva tra gli spazi aperti e il paesaggio: per questo si è collocato il nuovo volume, che si sviluppa su due piani (nella ricerca di un ottimale rapporto di forma) in adiacenza all’edificio esistente,dando luogo ad un ampio spazio verde su cui si affacciano le aule esposte a sud-est.

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Resumo:

L’arteria principale dell’antica Regio VIII si è dimostrata l’elemento cardine per la fondazione delle città in epoca romana. Le città che nascono sulla via Emilia entrano in un rapporto di simbiosi e di dipendenza con la strada antica, tanto che quest’ultima diventa l’asse generatore di tutta la forma urbis. Questo tracciato generatore è rimasto immutato se non per alcune sporadiche eccezioni e si è consolidato, nella sua forma e funzione, andando a creare così un’integrazione perfetta con l’imago urbis. Anche la città di Claterna deve la sua fondazione alla presenza di questo importante segno, tracciato nel 187 a.C.; un segno che nasce da un’astrazione e dal possesso dell’idea di linea retta da parte dei romani, il cui compito è dare ordine allo spazio che consideravano un caos, e come tale doveva essere organizzato in maniera geometrica e razionale. La via Emilia diventa l’asse generatore della città, la quale segue appunto l’orientamento fornito dall’asse stesso che assume il ruolo di decumanus maximus per l’insediamento, e sulla quale si baserà la costruzione della centuriazione claternate. Il tracciato così forte e importante dal punto di vista funzionale assume però in contemporanea un ruolo di divisione della civitas, in quanto va a separare in maniera netta la zona sud da quella nord. Questa situazione è maggiormente percepibile oggi rispetto al passato, vista la situazione di incolto che prevale sull’area. L’area di progetto risulta infatti tagliata dalla strada statale ed è di conseguenza interessata da problematiche di traffico veicolare anche pesante; tale situazione di attraversamento veloce non permette al viaggiatore di cogliere una lettura completa e unitaria di quello che era l’antico insediamento romano. Inoltre la quota di campagna, che racchiude il layer archeologico, è più bassa rispetto alla quota di percorrenza della strada e non essendoci alcun elemento visivo che possa richiamare l’attenzione di chi percorre questo tratto di via Emilia, l’area d’interesse rimane completamente nascosta e inserita nel contesto paesaggistico. Il paesaggio diventa l’unico immediato protagonista in questo frangente di via Emilia; qui è diverso da molte altre situazioni in cui l’abitato si accosta alla strada, o ancora da quando la strada antica, e ciò si verifica nei maggiori centri urbani, viene ad essere inglobata nel reticolo cittadino fatto di strade ed edifici e con esso si va a confondere ed integrare. Infatti nella porzione compresa tra il comune di Osteria Grande e la frazione di Maggio, ci si trova di fronte ad un vero e proprio spaccato della conformazione geomorfologica del territorio che interessa tutta la regione Emilia Romagna: rivolgendosi verso sud, lo sguardo è catturato dalla presenza della catena appenninica, dove si intravede il grande Parco dei Gessi, che si abbassa dolcemente fino a formare le colline. I lievi pendii si vanno a congiungere con la bassa pianura che si scontra con il segno della via Emilia, ma al di là della quale, verso nord, continua come una distesa senza limite fino all’orizzonte, per andare poi a sfumare nel mare Adriatico. Questi due aspetti, la non percepibilità della città romana nascosta nella terra e la forte presenza del paesaggio che si staglia sul cielo, entrano in contrasto proprio sulla base della loro capacità di manifestarsi all’occhio di chi sta percorrendo la via Emilia: la città romana è composta da un disegno di tracce al livello della terra; il paesaggio circostante invece diventa una vera e propria quinta scenica che non ha però oggetti da poter esporre in quanto sono sepolti e non sono ancora stati adeguatamente valorizzati. Tutte le città, da Rimini a Piacenza, che hanno continuato ad esistere, si sono trasformate fortemente prima in epoca medievale e poi rinascimentale tanto che il layer archeologico romano si è quasi completamente cancellato. La situazione di Claterna è completamente diversa. La città romana è stata mano a mano abbandonata alla fine del IV secolo fino a diventare una delle “semirutarum urbium cadavera” che, insieme a Bononia, Mutina, Regium e Brixillum fino a Placentia, Sant’Ambrogio ha descritto nella sua Epistola all’amico Faustino. Ciò mostra molto chiaramente quale fosse la situazione di tali città in età tardo-antica e in che situazione di degrado e abbandono fossero investite. Mentre alcune di queste importanti urbes riuscirono a risollevare le loro sorti, Claterna non fu più interessata dalla presenza di centri abitati, e ciò è dovuto probabilmente al trasferimento degli occupanti in centri e zone più sicure. Di conseguenza non si è verificato qui quello che è successo nei più importanti centri emiliano-romagnoli. Le successive fasi di sviluppo e di ampliamento di città come Bologna e Piacenza sono andate ad attaccare in maniera irrecuperabile il layer archeologico di epoca romana tanto da rendere lacunosa la conoscenza della forma urbis e delle sue più importanti caratteristiche. A Claterna invece lo strato archeologico romano è rimasto congelato nel tempo e non ha subito danni contingenti come nelle città sopra citate, in quanto il suolo appunto non è stato più interessato da fenomeni di inurbamento, di edificazione e di grandi trasformazioni urbane. Ciò ha garantito che i resti archeologici non venissero distrutti e quindi si sono mantenuti e conservati all’interno della terra che li ha protetti nel corso dei secoli dalla mano dell’uomo. Solo in alcune porzioni sono stati rovinati a causa degli strumenti agricoli che hanno lavorato la terra nell’ultimo secolo andando ad asportare del materiale che è stato quindi riportato alla luce. E’ stata proprio questa serie di ritrovamenti superficiali e fortunati a far intuire la presenza di resti archeologici, e che di conseguenza ha portato ad effettuare delle verifiche archeologiche con sondaggi che si sono concluse con esiti positivi e hanno permesso la collocazione di un vincolo archeologico come tutela dell’area in oggetto. L’area di progetto non è quindi stata contaminata dall’opera dell’uomo e ciò ha garantito probabilmente, secondo le indagini degli archeologi che lavorano presso il sito di Claterna, un buono stato di conservazione per gran parte dell’insediamento urbano e non solo di alcune porzioni minori di città o di abitazioni di epoca romana. Tutto questo attribuisce al sito una grande potenzialità visto che i casi di ritrovamenti archeologici così ampi e ben conservati sono molto limitati, quasi unici. Si tratterebbe quindi di riportare alla luce, in una prospettiva futura, un intero impianto urbano di epoca romana in buono stato di conservazione, di restituire un sapere che è rimasto nascosto e intaccato per secoli e di cui non si hanno che altre limitatissime testimonianze.