6 resultados para vitamina E

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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L'insufficienza renale cronica (CKD) è associata ad un rischio cardiovascolare più elevato rispetto alla popolazione generale: fattori come uremia, stress ossidativo, età dialitica, infiammazione, alterazioni del metabolismo minerale e presenza di calcificazioni vascolari incidono fortemente sulla morbosità e mortalità per cause cardiovascolari nel paziente uremico. Diversi studi hanno verificato il coinvolgimento dei progenitori endoteliali (EPC) nella malattia aterosclerotica ed è stato dimostrato che esprimono osteocalcina, marcatore di calcificazione. Inoltre, nella CKD è presente una disfunzione in numero e funzionalità delle EPC. Attualmente, il ruolo delle EPC nella formazione delle calcificazioni vascolari nei pazienti in dialisi non è stato ancora chiarito. Lo scopo della tesi è quello di studiare le EPC prelevate da pazienti con CKD, al fine di determinarne numero e fenotipo. È stato anche valutato l'effetto del trattamento in vitro e in vivo con calcitriolo e paracalcitolo sulle EPC, dato il deficit di vitamina D dei pazienti con CKD: il trattamento con vitamina D sembra avere effetti positivi sul sistema cardiovascolare. Sono stati valutati: numero di EPC circolanti e la relativa espressione di osteocalcina e del recettore della vitamina D; morfologia e fenotipo EPC in vitro; effetti di calcitriolo e paracalcitolo sull’espressione di osteocalcina e sui depositi di calcio. I risultati dello studio suggeriscono che il trattamento con vitamina D abbia un effetto positivo sulle EPC, aumentando il numero di EPC circolanti e normalizzandone la morfologia. Sia calcitriolo che paracalcitolo sono in grado di ridurre notevolmente l’espressione di OC, mentre solo il paracalcitolo ha un effetto significativo sulla riduzione dei depositi di calcio in coltura. In conclusione, il trattamento con vitamina D sembra ridurre il potenziale calcifico delle EPC nell’uremia, aprendo nuove strade per la gestione del rischio cardiovascolare nei pazienti affetti da CKD.

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Premessa: nell’aprile 2006, l’American Heart Association ha approvato la nuova definizione e classificazione delle cardiomiopatie (B. J. Maron e coll. 2006), riconoscendole come un eterogeneo gruppo di malattie associate a disfunzione meccanica e/o elettrica riconducibili ad un ampia variabilità di cause. La distinzione tra le varie forme si basa non più sui processi etiopatogenetici che ne sono alla base, ma sulla modalità di presentazione clinica della malattia. Si distinguono così le forme primarie, a prevalente od esclusivo interessamento cardiaco, dalle forme secondarie in cui la cardiomiopatia rientra nell’ambito di un disordine sistemico dove sono evidenziabili anche disturbi extracardiaci. La nostra attenzione è, nel presente studio, focalizzata sull’analisi delle cardiomiopatie diagnosticate nei primi anni di vita in cui si registra una più alta incidenza di forme secondarie rispetto all’adulto, riservando un particolare riguardo verso quelle forme associate a disordini metabolici. Nello specifico, il nostro obiettivo è quello di sottolineare l’influenza di una diagnosi precoce sull’evoluzione della malattia. Materiali e metodi: abbiamo eseguito uno studio descrittivo in base ad un’analisi retrospettiva di tutti i pazienti giunti all’osservazione del Centro di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’ EEvolutiva del Policlinico S. Orsola- Malpighi di Bologna, dal 1990 al 2006, con diagnosi di cardiomiopatia riscontrata nei primi due anni di vita. Complessivamente sono stati studiati 40 pazienti di cui 20 con cardiomiopatia ipertrofica, 18 con cardiomiopatia dilatativa e 2 con cardiomiopatia restrittiva con un’età media alla diagnosi di 4,5 mesi (range:0-24 mesi). Per i pazienti descritti a partire dal 2002, 23 in totale, sono state eseguite le seguenti indagini metaboliche: emogasanalisi, dosaggio della carnitina, metabolismo degli acidi grassi liberi (pre e post pasto), aminoacidemia quantitativa (pre e post pasto), acidi organici, mucopolisaccaridi ed oligosaccaridi urinari, acilcarnitine. Gli stessi pazienti sono stati inoltre sottoposti a prelievo bioptico di muscolo scheletrico per l’analisi ultrastrutturale, e per l’analisi dell’attività enzimatica della catena respiratoria mitocondriale. Nella stessa seduta veniva effettuata la biopsia cutanea per l’eventuale valutazione di deficit enzimatici nei fibroblasti. Risultati: l’età media alla diagnosi era di 132 giorni (range: 0-540 giorni) per le cardiomiopatie ipertrofiche, 90 giorni per le dilatative (range: 0-210 giorni) mentre le 2 bambine con cardiomiopatia restrittiva avevano 18 e 24 mesi al momento della diagnosi. Le indagini metaboliche eseguite sui 23 pazienti ci hanno permesso di individuare 5 bambini con malattia metabolica (di cui 2 deficit severi della catena respiratoria mitocondriale, 1 con insufficienza della β- ossidazione per alterazione delle acilcarnitine , 1 con sindrome di Barth e 1 con malattia di Pompe) e un caso di cardiomiopatia dilatativa associata a rachitismo carenziale. Di questi, 4 sono deceduti e uno è stato perduto al follow-up mentre la forma associata a rachitismo ha mostrato un netto miglioramento della funzionalità cardiaca dopo appropriata terapia con vitamina D e calcio. In tutti la malattia era stata diagnosticata entro l’anno di vita. Ciò concorda con gli studi documentati in letteratura che associano le malattie metaboliche ad un esordio precoce e ad una prognosi infausta. Da un punto di vista morfologico, un’evoluzione severa si associava alla forma dilatativa, ed in particolare a quella con aspetto non compaction del ventricolo sinistro, rispetto alla ipertrofica e, tra le ipertrofiche, alle forme con ostruzione all’efflusso ventricolare. Conclusioni: in accordo con quanto riscontrato in letteratura, abbiamo visto come le cardiomiopatie associate a forme secondarie, ed in particolare a disordini metabolici, sono di più frequente riscontro nella prima infanzia rispetto alle età successive e, per questo, l’esordio molto precoce di una cardiomiopatia deve essere sempre sospettata come l’espressione di una malattia sistemica. Abbiamo osservato, inoltre, una stretta correlazione tra l’età del bambino alla diagnosi e l’evoluzione della cardiomiopatia, registrando un peggioramento della prognosi in funzione della precocità della manifestazione clinica. In particolare la diagnosi eseguita in epoca prenatale si associava, nella maggior parte dei casi, ad un’evoluzione severa, comportandosi come una variabile indipendente da altri fattori prognostici. Riteniamo, quindi, opportuno sottoporre tutti i bambini con diagnosi di cardiomiopatia effettuata nei primi anni di vita ad uno screening metabolico completo volto ad individuare quelle forme per le quali sia possibile intraprendere una terapia specifica o, al contrario, escludere disordini che possano controindicare, o meno, l’esecuzione di un trapianto cardiaco qualora se ne presenti la necessità clinica.

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Nel 1997 venne isolata una popolazione cellulare con caratteristiche appartenenti a cellule endoteliali mature e a cellule progenitrici ; le cellule appartenenti a queste popolazione furono denominate EPCs (cellule endoteliali progenitrici circolanti) e fu messa in evidenza la loro capacità di dare origine a vasculogenesi postnatale. Lo scopo dello studio è stata la caratterizzazione di tale popolazione cellulare in termini biologici e la valutazione delle differenze delle EPCs in soggetti sani e nefropatici in emodialisi. È stata infine valutata l’eventuale capacità della Vitamina D di influenzare le capacità delle Late EPCs in termini di formazione di colonie in vitro e di attività anticalcifica in soggetti in insufficienza renale cronica.

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Lo studio CAVE PTX ha lo scopo di valutare la reale prevalenza della paratiroidectomia nei pazienti dializzati in Italia, verificare l’aderenza ai targets ematochimici proposti dalle linee guida internazionali K/DOQI e ricercare la presenza di fratture vertebrali e calcificazioni vascolari. Al momento attuale riportiamo i dati preliminari sulla prevalenza e le caratteristiche cliniche generali dei pazienti finora arruolati. Il nostro studio ha ricevuto contributi da 149 centri dialisi italiani, su un totale di 670, pari al 22%. La popolazione dialitica dalla quale sono stati ottenuti i casi di paratiroidectomia è risultata pari a 12515 pazienti;l’87,7% dei pazienti effettuava l’emodialisi mentre il 12,3% la dialisi peritoneale. Cinquecentoventotto, pari al 4,22%, avevano effettuato un intervento di paratiroidectomia (4,5%emodializzati, 1,9% in dialisi peritoneale;p<0.001). Abbiamo considerato tre gruppi differenti di PTH: basso (<150 pg/ml), ottimale (150 -300 pg/ml) ed elevato (>300 pg/ml). I valori medi di PTH e calcemia sono risultati significativamente diversi (più alti) tra casi e controlli nei due gruppi con PTH basso (PTX = 40±39 vs controllo = 92±42 pg/ml; p<.0001) e PTH alto (PTX= 630 ± 417 vs controllo 577 ±331; p<.05). La percentuale di pazienti con PTH troppo basso è risultata più elevata nei pazienti chirurgici rispetto al resto della popolazione (64vs23%; p<0.0001), mentre la percentuale dei casi con PTH troppo alto è risultata significativamente più alta nel gruppo di controllo (38%vs19%; p<0.003). Il 61% dei casi assumeva vitamina D rispetto al 64 % dei controlli; l’88% vs 75% un chelante del fosforo ed il 13%vs 35% il calciomimentico. In conclusione, la paratiroidectomia ha una bassa prevalenza in Italia, i pazienti sono più spesso di sesso femminile, in emodialisi e con età relativamente giovane ma da più tempo in dialisi.

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Premesse: Gli eventi ischemici (EI) e le emorragie cerebrali (EIC) sono le più temute complicanze della fibrillazione atriale (FA) e della profilassi antitrombotica. Metodi: in 6 mesi sono stati valutati prospetticamente i pazienti ammessi in uno dei PS dell’area di Bologna con FA associata ad EI (ictus o embolia periferica) o ad EIC. Risultati: sono stati arruolati 178 pazienti (60 maschi, età mediana 85 anni) con EI. Il trattamento antitrombotico in corso era: a) antagonisti della vitamina K (AVK) in 31 (17.4%), INR all’ingresso: <2 in 16, in range (2.0-3.0) in 13, >3 in 2; b) aspirina (ASA) in 107 (60.1%); c) nessun trattamento in 40 (22.5%), soprattutto in FA di nuova insorgenza. Nei 20 pazienti (8 maschi; età mediana 82) con EIC il trattamento era: a)AVK in 13 (65%), INR in range in 11 pazienti, > 3 in 2, b) ASA in 6 (30%). La maggior parte degli EI (88%) ed EIC (95%) si sono verificati in pazienti con età > 70 anni. Abbiamo valutato l’incidenza annuale di eventi nei soggetti con età > 70 anni seguiti neo centri della terapia anticoagulante (TAO) e nei soggetti con FA stimata non seguiti nei centri TAO. L’incidenza annuale di EI è risultata 12% (95%CI 10.7-13.3) nei pazienti non seguiti nei centri TAO, 0.57% (95% CI 0.42-0.76) nei pazienti dei centri TAO ( RRA 11.4%, RRR 95%, p<0.0001). Per le EIC l’incidenza annuale è risultata 0.63% (95% CI 0.34-1.04) e 0.30% (95% CI 0.19-0.44) nei due gruppi ( RRA di 0.33%/anno, RRR del 52%/anno, p=0.040). Conclusioni: gli EI si sono verificati soprattutto in pazienti anziani in trattamento con ASA o senza trattamento. La metà dei pazienti in AVK avevano un INR sub terapeutico. L’approccio terapeutico negli anziani con FA deve prevedere un’ adeguata gestione della profilassi antitrombotica.

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In Medicina Veterinaria l'avvelenamento da rodenticidi anticoagulanti è conosciuto e studiato ormai da anni, essendo una delle intossicazioni più comunemente riscontrate nelle specie non target. In letteratura si rinvengono numerose pubblicazioni ma alcuni aspetti sono rimasti ancora inesplorati.Questo studio si propone di valutare il processo infiammatorio, mediante le proteine di fase acuta (APPs), in corso di fenomeni emorragici, prendendo come modello reale un gruppo di soggetti accidentalmente avvelenati da rodenticidi anticoagulanti. I 102 soggetti avvelenati presentano un valore più elevato di proteina C reattiva (CRP)con una mediana di 4.77 mg/dl statisticamente significativo rispetto alla mediana delle due popolazioni di controllo di pari entità numerica create con cross match di sesso, razza ed età; rispettivamente 0.02 mg/dl dei soggetti sani e 0.37 mg/dl dei soggetti malati di altre patologie. Inoltre all'interno del gruppo dei soggetti avvelenati un valore di CRP elevato all'ammissione può predisporre al decesso. La proteina C reattiva assume quindi un ruolo diagnostico e prognostico in questo avvelenamento. Un'altra finalità, di non inferiore importanza, è quella di definire una linea guida terapeutica con l'ausilio di biomarker coagulativi e di valutare la sicurezza della vitamina K per via endovenosa: in 73 cani, non in terapia con vitamina k, intossicati da rodenticidi anticoagulanti, i tempi della coagulazione (PT ed aPTT) ritornano nel range di normalità dopo 4 ore dalla prima somministrazione di 5 mg/kg di vitamina k per via endovenosa e nessun soggetto durante e dopo il trattamento ha manifestato reazioni anafilattiche, nessuno dei pazienti ha necessitato trasfusione ematica e tutti sono sopravvissuti. Infine si è valutata l'epidemiologia dell'ingestione dei prodotti rodenticidi nella specie oggetto di studio e la determinazione dei principi attivi mediante cromatografia liquida abbinata a spettrofotometria di massa (UPLC-MS/MS).