3 resultados para growth cycle

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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L’analisi condotta nella tesi mira ad indagare le determinanti del debito delle piccole e medie imprese italiane: la domanda di ricerca è indirizzata a capire se la struttura finanziaria di queste ultime segue i modelli teorici sviluppati nell’ambito della letteratura di Corporate Finance o se, d’altro canto, non sia possibile prescindere dalle peculiarità delle piccole e medie imprese per spiegare il ricorso alle diverse fonti di finanziamento. La ricerca empirica effettuata nella dissertazione vuole essere un tentativo di coniugare le teorie di riferimento e le evidenze empiriche relative alle piccole e medie imprese italiane, analizzandone il comportamento attraverso lo studio del campione di dati fornito da Capitalia, relativo alla Nona Indagine per il periodo 2001-2003. Il campione in oggetto fa riferimento a circa 4000 imprese con più di 10 addetti, prevalentemente del settore manifatturiero. Per indagare le determinanti del debito nelle sue componenti più tradizionali, si sono prese in considerazione il debito commerciale e il debito bancario a breve termine come forme di finanziamento correnti mentre, tra le forme di finanziamento di medio-lungo periodo, le variabili usate sono state il ricorso al debito bancario a lungo termine e a strumenti obbligazionari. Inoltre, si è ricorso anche a misure più tradizionali di leva finanziaria, quali il rapporto di indebitamento, la proporzione tra debiti bancari, sia di breve che di lungo periodo, e l’ammontare dei finanziamenti esterni rispetto al valore dell’impresa, distinguendo anche qui, tra finanziamenti a breve e a lungo termine. L’analisi descrittiva ha mostrato il massiccio ricorso al debito bancario e, in generale, alle forme di indebitamento a breve. Le imprese di dimensioni minori, più giovani e opache tendono a ricorrere alle fonti interne e a forme di indebitamento a breve, mentre le imprese maggiormente dimensionate mostrano una struttura del debito più articolata. Questo ha suggerito la definizione di una diversa misura di debito, che tiene conto della complessità della sua struttura all’interno delle imprese, in base ad un ricorso di tipo gerarchico alle fonti di finanziamento: il grado di complessità dipende dalle tipologie e dalla quantità dei contratti di debito conclusi dall’impresa . E’ plausibile pensare che le imprese ricorrano prima alle fonti interne di finanziamento, perché prive di costi, e poi all’indebitamento nei confronti di diversi stakeholders: rispetto alla prossimità e alla facilità dell’ottenimento del finanziamento, è sembrato naturale pensare che un’impresa ricorra dapprima al debito commerciale, poi al debito bancario e solo infine all’emissione di obbligazioni, in un ordine gerarchico. Ne consegue che se un’impresa (non) ha contratto debiti con fornitori, banche e mercato, la complessità della struttura del suo debito è massima (nulla). L’analisi econometrica successiva è stata indirizzata in tre direzioni. In primis, l’analisi longitudinale dei dati è stata volta ad evidenziare se la struttura finanziaria delle PMI risponde ad un particolare modello teorico, in accordo con le teoria tradizionali di riferimento. In secondo luogo, l’analisi delle determinanti si è allargata allo studio degli aspetti peculiari delle imprese medio-piccole. Infine, si è indagato se, nell’ambito delle imprese di dimensioni minori, si osservano comportamenti omogenei oppure se determinate scelte nelle fonti di finanziamento sono da ricondurre all’esistenza di alcuni vincoli. Quindi, partendo dalla rassegna dei principali riferimenti nella letteratura, costituiti dalla Trade-off theory (Modigliani e Miller, 1963, De Angelo e Masulis, 1980, Miller, 1977), dalla Pecking order theory (Myers 1984, Myers e Majluf, 1984) e dalla Financial growth cycle theory (Berger e Udell, 1998), una prima serie di analisi econometriche è stata rivolta alla verifica empirica delle teorie suddette. Una seconda analisi mira, invece, a capire se il comportamento delle imprese possa essere spiegato anche da altri fattori: il modello del ciclo di vita dell’impresa, mutuato dalle discipline manageriali, così come il contesto italiano e la particolarità del rapporto bancaimpresa, hanno suggerito l’analisi di altre determinanti al ricorso delle diverse fonti di debito. Di conseguenza, si sono usate delle opportune analisi econometriche per evidenziare se la struttura proprietaria e di controllo dell’impresa, il suo livello di complessità organizzativa possano incidere sulla struttura del debito delle imprese. Poi, si è indagato se il massiccio ricorso al debito bancario è spiegato dalle peculiarità del rapporto banca-impresa nel nostro Paese, rintracciabili nei fenomeni tipici del relationship lending e del multiaffidamento. Ancora, si sono verificati i possibili effetti di tale rapporto sulla complessità della struttura del debito delle imprese. Infine, l’analisi della letteratura recente sulla capital structure delle imprese, l’approccio sviluppato da Fazzari Hubbard e Petersen (1988) e Almeida e Campello (2006 , 2007) ha suggerito un ultimo livello di analisi. La presenza di vincoli nelle decisioni di finanziamento, legati essenzialmente alla profittabilità, alla dimensione delle imprese, alle sue opportunità di crescita, e alla reputazione verso l’esterno, secondo la letteratura recente, è cruciale nell’analisi delle differenze sistematiche di comportamento delle imprese. Per di più, all’interno del lavoro di tesi, così come in Almeida e Campello (2007), si è ipotizzato che la propensione agli investimenti possa essere considerata un fattore endogeno rispetto alla struttura del debito delle imprese, non esogeno come la letteratura tradizionale vuole. Per questo motivo, si è proceduto ad un ultimo tipo di analisi econometrica, volta a rilevare possibili differenze significative nel comportamento delle imprese rispetto al ricorso alle fonti di finanziamento a titolo di debito: nel caso in cui esse presentino una dimensione contenuta, una bassa redditività e una scarsa reputazione all’esterno infatti, vi dovrebbe essere un effetto di complementarietà tra fonti interne ed esterne. L’effetto sarebbe tale per cui non sussisterebbe, o per lo meno non sarebbe significativa, una relazione negativa tra fonti interne ed esterne. Complessivamente, i risultati delle analisi empiriche condotte, supportano sia le teorie classiche di riferimento nell’ambito della disciplina della Corporate finance, sia la teoria proposta da Berger e Udell (1998): le variabili che risultano significative nella spiegazione della struttura del debito sono principalmente quelle relative alla dimensione, all’età, al livello e alla qualità delle informazioni disponibili. Inoltre, il ricorso a fonti interne risulta essere la primaria fonte di finanziamento, seguita dal debito. Il ricorso a fonti esterne, in particolare al debito bancario, aumenta quanto più l’impresa cresce, ha una struttura solida e la capacità di fornire delle garanzie, e ha una reputazione forte. La struttura del debito, peraltro, diventa più complessa all’aumentare della dimensione, dell’età e del livello di informazioni disponibili. L’analisi della struttura proprietaria e della componente organizzativa all’interno delle imprese ha evidenziato principalmente che la struttura del debito aumenta di complessità con maggiore probabilità se la proprietà è diffusa, se vi è un management indipendente e se la piramide organizzativa è ben definita. Relativamente al rapporto banca-impresa, i principali risultati mostrano che l’indebitamento bancario sembra essere favorito dai fenomeni di relationship lending e dal multiaffidamento. Tali peculiarità assumono tratti diversi a seconda della fase del ciclo di vita delle imprese della Nona Indagine. Infine, per quanto attiene all’ultima tipologia di analisi condotta, le evidenze empiriche suggeriscono che le piccole e medie imprese possano essere soggette a delle restrizioni che si riflettono nell’ambito delle loro politiche di investimento. Tali vincoli, relativi alla dimensione, ai profitti conseguiti e alla reputazione all’esterno, aiutano a spiegare le scelte di finanziamento delle PMI del campione.

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A large body of literature documents in both mice and Drosophila the involvement of Insulin pathway in growth regulation, probably due to its role in glucose and lipid import, nutrient storage, and translation of RNAs implicated in ribosome biogenesis (Vanhaesebroeck et al. 2001). Moreover several lines of evidence implicate this pathway as a causal factor in cancer (Sale, 2008; Zeng and Yee 2007; Hursting et al., 2007; Chan et al., 2008). With regards to Myc, studies in cell culture have implied this family of transcription factors as regulators of the cell cycle that are rapidly induced in response to growth factors. Myc is a potent oncogene, rearranged and overexpressed in a wide range of human tumors and necessary during development. Its conditional knock-out in mice results in reduction of body weight due to defect in cell proliferation (Trumpp et al. 2001). Evidence from in vivo studies in Drosophila and mammals suggests a critical function for myc in cell growth regulation (Iritani and Eisenman 1999; Johnston et al. 1999; Kim et al. 2000; de Alboran et al. 2001; Douglas et al. 2001). This role is supported by our analysis of Myc target genes in Drosophila, which include genes involved in RNA binding, processing, ribosome biogenesis and nucleolar function (Orain et al 2003, Bellosta et al., 2005, Hulf et al, 2005). The fact that Insulin signaling and Myc have both been associated with growth control suggests that they may interact with each other. However, genetic evidence suggesting that Insulin signaling regulates Myc in vivo is lacking. In this work we were able to show, for the first time, a direct modulation of dMyc in response to Insulin stimulation/silencing both in vitro and in vivo. Our results suggest that dMyc up-regulation in response to DILPs signaling occurs both at the mRNA and potein level. We believe dMyc protein accumulation after Insulin signaling activation is conditioned to AKT-dependent GSK3β/sgg inactivation. In fact, we were able to demonstate that dMyc protein stabilization through phosphorylation is a conserved feature between Drosophila and vertebrates and requires multiple events. The final phosphorylation step, that results in a non-stable form of dMyc protein, ready to be degraded by the proteasome, is performed by GSK3β/sgg kinase (Sears, 2004). At the same time we demonstrated that CKI family of protein kinase are required to prime dMyc phosphorylation. DILPs and TOR/Nutrient signalings are known to communicate at several levels (Neufeld, 2003). For this reason we further investigated TOR contribution to dMyc-dependent growth regulation. dMyc protein accumulates in S2 cells after aminoacid stimulation, while its mRNA does not seem to be affected upon TORC1 inhibition, suggesting that the Nutrient pathway regulates dMyc mostly post-transcriptionally. In support to this hypothesis, we observed a TORC1-dependent GSK3β/sgg inactivation, further confirming a synergic effect of DILPs and Nutrients on dMyc protein stability. On the other hand, our data show that Rheb but not S6K, both downstream of the TOR kinase, contributes to the dMyc-induced growth of the eye tissue, suggesting that Rheb controls growth independently of S6K.. Moreover, Rheb seems to be able to regulate organ size during development inducing cell death, a mechanism no longer occurring in absence of dmyc. These observations suggest that Rheb might control growth through a new pathway independent of TOR/S6K but still dependent on dMyc. In order to dissect the mechanism of dMyc regulation in response to these events, we analyzed the relative contribution of Rheb, TOR and S6K to dMyc expression, biochemically in S2 cells and in vivo in morphogenetic clones and we further confirmed an interplay between Rheb and Myc that seems to be indipendent from TOR. In this work we clarified the mechanisms that stabilize dMyc protein in vitro and in vivo and we observed for the first time dMyc responsiveness to DILPs and TOR. At the same time, we discovered a new branch of the Nutrient pathway that appears to drive growth through dMyc but indipendently from TOR. We believe our work shed light on the mechanisms cells use to grow or restrain growth in presence/absence of growth promoting cues and for this reason it contributes to understand the physiology of growth control.

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In cycling cells positive stimuli like nutrient, growth factors and mitogens increase ribosome biogenesis rate and protein synthesis to ensure both growth and proliferation. In contrast, under stress situation, proliferating cells negatively modulate ribosome production to reduce protein synthesis and block cell cycle progression. The main strategy used by cycling cell to coordinate cell proliferation and ribosome biogenesis is to share regulatory elements, which participate directly in ribosome production and in cell cycle regulation. In fact, there is evidence that stimulation or inhibition of cell proliferation exerts direct effect on activity of the RNA polymerases controlling the ribosome biogenesis, while several alterations in normal ribosome biogenesis cause changes of the expression and the activity of the tumor suppressor p53, the main effector of cell cycle progression inhibition. The available data on the cross-talk between ribosome biogenesis and cell proliferation have been until now obtained in experimental model in which changes in ribosome biogenesis were obtained either by reducing the activity of the RNA polymerase I or by down-regulating the expression of the ribosomal proteins. The molecular pathways involved in the relationship between the effect of the inhibition of RNA polymerase III (Pol III) activity and cell cycle progression have been not yet investigated. In eukaryotes, RNA Polymerase III is responsible for transcription of factors involved both in ribosome assembly (5S rRNA) and rRNA processing (RNAse P and MRP).Thus, the aim of this study is characterize the effects of the down-regulation of RNA Polymerase III activity, or the specific depletion of 5S rRNA. The results that will be obtained might lead to a deeper understanding of the molecular pathway that controls the coordination between ribosome biogenesis and cell cycle, and might give useful information about the possibility to target RNA Polymerase III for cancer treatment.