52 resultados para Terapia respiratoria
em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna
Resumo:
Il Complesso I (CI) mitocondriale è uno dei target metabolici più promettenti nelle terapie anti- cancro. In particolare, la metformina è un inibitore noto del CI, capace di inibire la crescita delle cellule tumorali, ma non di eradicare la patologia. Recentemente, l’associazione metformina ed ipoglicemia si è rivelata letale per i tumori, sebbene l’efficacia terapeutica del trattamento sinergico possa essere influenzata dall’accumulo di alterazioni genetiche nei più noti drivers della tumorigenesi. Abbiamo così investigato l’effetto dello stress metabolico indotto dalla restrizione di glucosio in un pannello di linee cellulari tumorali con un severo deficit sul CI e con un diverso stato genetico di TP53. Il deficit del CI associato alla carenza di glucosio inducono un abbattimento dei livelli di espressione della proteina p53 mutata, ma non della controparte wild-type. Il fenomeno biologico osservato non dipende né da un blocco trascrizionale, né dall’innesco di vie di degradazione intracellulare, come proteasoma ed autofagia. La scomparsa di p53 mutata, invece, sembra dipendere da un blocco generale della sintesi proteica, verosimilmente indotto dallo stress energetico e nutrizionale. Nella controparte p53 wild-type, invece, si osserva solo una parziale riduzione della sintesi proteica, suggerendo l’innesco di possibili vie di adattamento per compensare il danno sul CI. La carenza di amminoacidi è una caratteristica dei tumori solidi che potrebbe essere esacerbata in condizioni di deficit generali della catena respiratoria mitocondriale. In particolare, l’inibizione del CI causa auxotrofia da aspartato, metabolita limitante per la proliferazione, condizione che potrebbe generare il blocco della sintesi proteica osservato. L’incremento di espressione dei livelli del trasportatore aspartato/glutatammato mediata da p53 mutata compensa l’auxotrofia da aspartato, identificando un meccanismo di adattamento al deficit del CI. Dunque, i risultati ottenuti sottolineano l’importanza di implementare la terapia anti-complesso I nel cancro, poiché il diverso stato di p53 può alterare l’efficacia del trattamento.
Resumo:
La terapia di resincronizzazione cardiaca (TRC) è un presidio non farmacologico che riduce la mortalità e la morbosità nei pazienti con scompenso refrattario alla terapia medica. La maggior parte dei dati riguardanti gli effetti della TRC coinvolgono i pazienti con le indicazioni consolidate seguenti: classe NYHA III-IV, ritardo della conduzione ventricolare (QRS>opp= 20 msec), disfunzione sistolica ventricolare sinistra (frazione di eiezione ventricolare sinistra >opp= 35%) e ritmo sinusale (RS). Mentre è noto che la fibrillazione atriale permanente (FA) sia presente in una porzione consistente dei pazienti con scompenso cardiaco, vi sono pochi dati riguardanti la sopravvivenza e gli effetti a lungo-termine della TRC in pazienti con scompenso cardiaco e fibrillazione atriale (FA); la maggior parte degli studi sono osservazionali ed hanno dimostrato che la TRC potrebbe conferire dei benefici a corto e medio termine anche in pazienti con FA permanente. Solo recentemente un ampio studio osservazionale ha descritto che, a lungo-termine, la TRC migliora significativamente la capacità funzionale, la frazione di eiezione e induce il rimodellamento inverso del ventricolo sinistro solamente in quei pazienti con FA dove la TRC viene combinata con l’ablazione del nodo atrio-ventricolare (NAV). La strategia ablativa del NAV infatti conferendo una stimolazione completa e costante, permette di eliminare gli effetti del ritmo spontaneo di FA (ritmo irregolare e tendenzialmente tachicardico) cheinterferisce in maniera importante con la stimolazione biventricolare in particolare durante gli sforzi fisici. Sulla base di queste premesse il presente studio si propone di valutare gli effetti a lungo-termine della TRC su pazienti con scompenso cardiaco e FA permanente focalizzando su due aspetti principali: 1) confrontando la sopravvivenza di pazienti con FA permanente rispetto ai pazienti in RS; 2) confrontando la sopravvivenza di pazienti in FA suddivisi secondo la modalità di controllo della frequenza con somministrazione di farmaci antiaritmici (gruppo FA-farm) oppure mediante controllo ablazione del NAV (gruppo FA-abl). Metodi e risultati: Sono presentati i dati di 1303 pazienti sottoposti consecutivamente ad impianto di dispositivo per la TRC e seguiti per un periodo mediano di 24 mesi. Diciotto pazienti sono stati persi durante il follow-up per cui la popolazione dello studio è rappresentata da una popolazione totale di 1295 pazienti di cui 1042 in RS e 243 (19%) in FA permanente. Nei pazienti con FA il controllo della frequenza cardiaca è stato effettuato mediante la somministrazione di farmaci anti-aritmici (gruppo FA-farm: 125 pazienti) oppure mediante ablazione del NAV (FA-abl: 118 pazienti). Rispetto ai pazienti in RS, i pazienti in FA permanente erano significativamente più vecchi, più spesso presentavano eziologia nonischemica, avevano una frazione di eiezione più elevata al preimpianto, una durata del QRS minore e erano più raramente trattati con un defibrillatore. Lungo un follow-up mediano di 24 mesi, 170/1042 pazienti in RS e 39/243 in FA sono deceduti (l’incidenza di mortalità a 1 anno era di 8,4% e 8,9%, rispettivamente). I rapporti di rischio derivanti dall’analisi multivariata con il 95% dell’intervallo di confidenza (HR, 95% CI) erano simili sia per la morte per tutte le cause che per la morte cardiaca (0.9 [0.57-1.42], p=0.64 e 1.00 [0.60-1.66] p=0.99, rispettivamente). Fra i pazienti con FA, il gruppo FA-abl presentava una durata media del QRS minore ed era meno frequentemente trattato con il defibrillatore impiantabile rispetto al gruppo FA-farm. Soli 11/118 pazienti del FA-abl sono deceduti rispetto a 28/125 nel gruppo FA-farm (mortalità cumulativa a 1 anno di 9,3% e 15,2% rispettivamente, p<0.001), con HR, 95% CI per FA-abl vs FA-farm di 0.15 [0.05-0.43],,p<0.001 per la mortalità per tutte le cause, di 0.18 [0.06-0.57], p=0.004 per la mortalità cardiaca, e di 0.09 [0.02-0.42], p<0.002 per la mortalità da scompenso cardiaco. Conclusioni: I pazienti con scompenso cardiaco e FA permanente trattati con la TRC presentano una simile sopravvivenza a lungo-termine di pazienti in RS. Nei pazienti in FA l’ablazione del NAV in aggiunta alla TRC migliora significativamente la sopravvivenza rispetto alla sola TRC; questo effetto è ottenuto primariamente attraverso una riduzione della morte per scompenso cardiaco.
Resumo:
INTRODUCTION: A relationship between inflammatory response and coagulation is suggested by many observations. In particular, pro-inflammatory cytokines, such as TNFalpha, promote the activation of coagulation and reduce the production of anticoagulant molecules. It is known that inflammatory bowel diseases show a prothrombotic state and a condition of hypercoagulability. Aim of our study was to evaluate whether anti-TNFalpha therapy induces changes in the levels of coagulation activation markers in IBD patients. MATERIALS AND METHODS: We analyzed 48 plasma samples obtained before and 1 hour after 24 infliximab infusions (5 mg/kg) in 9 IBD patients (5 men and 4 women; mean age: 47.6+17.6 years; 4 Crohn's disease, 4 Ulcerative Colitis,1 Indeterminate Colitis). F1+2 and D-dymer levels were measured in each sample using ELISA methods.The data were statistically analyzed by means of Wilcoxon matched paired test. RESULTS: Median F1+2 levels were markdely reduced 1 hour after anti-TNFα infusion (median pre-infusion levels were 247.0 pmol/L and median post-infusion levels were 185.3 pmol/L) (p<0.002). Median D-dymer levels were also significantly reduced, from 485.2 ng/mL to 427.6 ng/mL (p< 0.001). These modifications were more evident in patients naive for infliximab therapy (p<0.02 for F1+2 and p<0.02 for D-dymer) and in Crohn's disease compared with Ulcerative Colitis patients (p=0.01 for F1+2 and p<0.007 for D-dymer).CONCLUSIONS: Infusion of infliximab significantly reduces the activation of coagulation cascade in IBD patients. This effect is early enough to suggest a direct effect of infliximab on the coagulation cascade and a possible new anti-inflammatory mechanism of action of this molecule.
Resumo:
Admission blood lactate concentration has been shown to be a useful indicator of disease severity in human medicine and numerous studies have associated hyperlactatemia with patients at high risk of death who should be treated aggressively regardless of the cause of the lactate generation. The degree and duration of hyperlactacidaemia also have been correlated with the subsequent development of organ failure. Similarly, in a small number of studies about equine colic, blood lactate concentration has been investigated as a useful prognostic variable . In neonatal foals blood lactate was studied first by Magdesian (2003) who described venous blood lactate concentration in 14 normal foals during the initial 48 hours post-partum. A preliminary study about lactate concentration in foals presenting to a neonatal intensive care unit reported that surviving foals had earlier lactate clearance. The measurement of blood lactate concentration is traditionally available with a wet chemistry laboratory method or with blood-gas analyzers, for clinicians working at university or large private hospital. But this methods may not be easily accessible to many practitioners in field conditions. Several relatively inexpensive, easy to use and rapid pocket size monitors to measure lactate concentration have been validated in human patients and athletes. None of these portable lactate analyzer have been evaluated in clinically normal neonatal foals or in foals referred to a neonatal intensive care unit. The aims of this study were to validate the Lactate Scout analyzer in neonatal foals, investigating the correlation between lactate concentration in whole blood measured with the portable monitor and measured in plasma with the reference laboratory analyzer. The effect of hematocrit (Hct) on the accuracy of Lactate Scout was also evaluated. Further, we determined the utility of venous lactate measurement in critically-ill foals, describing lactate values in the most frequent neonatal pathologies, evaluating serial blood lactate measurements during hospitalization and investigating its prognostic value. The study also describes normal range for lactate in healthy neonatal foals during the first 72 hours of life.
Resumo:
Premessa: nell’aprile 2006, l’American Heart Association ha approvato la nuova definizione e classificazione delle cardiomiopatie (B. J. Maron e coll. 2006), riconoscendole come un eterogeneo gruppo di malattie associate a disfunzione meccanica e/o elettrica riconducibili ad un ampia variabilità di cause. La distinzione tra le varie forme si basa non più sui processi etiopatogenetici che ne sono alla base, ma sulla modalità di presentazione clinica della malattia. Si distinguono così le forme primarie, a prevalente od esclusivo interessamento cardiaco, dalle forme secondarie in cui la cardiomiopatia rientra nell’ambito di un disordine sistemico dove sono evidenziabili anche disturbi extracardiaci. La nostra attenzione è, nel presente studio, focalizzata sull’analisi delle cardiomiopatie diagnosticate nei primi anni di vita in cui si registra una più alta incidenza di forme secondarie rispetto all’adulto, riservando un particolare riguardo verso quelle forme associate a disordini metabolici. Nello specifico, il nostro obiettivo è quello di sottolineare l’influenza di una diagnosi precoce sull’evoluzione della malattia. Materiali e metodi: abbiamo eseguito uno studio descrittivo in base ad un’analisi retrospettiva di tutti i pazienti giunti all’osservazione del Centro di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’ Età Evolutiva del Policlinico S. Orsola- Malpighi di Bologna, dal 1990 al 2006, con diagnosi di cardiomiopatia riscontrata nei primi due anni di vita. Complessivamente sono stati studiati 40 pazienti di cui 20 con cardiomiopatia ipertrofica, 18 con cardiomiopatia dilatativa e 2 con cardiomiopatia restrittiva con un’età media alla diagnosi di 4,5 mesi (range:0-24 mesi). Per i pazienti descritti a partire dal 2002, 23 in totale, sono state eseguite le seguenti indagini metaboliche: emogasanalisi, dosaggio della carnitina, metabolismo degli acidi grassi liberi (pre e post pasto), aminoacidemia quantitativa (pre e post pasto), acidi organici, mucopolisaccaridi ed oligosaccaridi urinari, acilcarnitine. Gli stessi pazienti sono stati inoltre sottoposti a prelievo bioptico di muscolo scheletrico per l’analisi ultrastrutturale, e per l’analisi dell’attività enzimatica della catena respiratoria mitocondriale. Nella stessa seduta veniva effettuata la biopsia cutanea per l’eventuale valutazione di deficit enzimatici nei fibroblasti. Risultati: l’età media alla diagnosi era di 132 giorni (range: 0-540 giorni) per le cardiomiopatie ipertrofiche, 90 giorni per le dilatative (range: 0-210 giorni) mentre le 2 bambine con cardiomiopatia restrittiva avevano 18 e 24 mesi al momento della diagnosi. Le indagini metaboliche eseguite sui 23 pazienti ci hanno permesso di individuare 5 bambini con malattia metabolica (di cui 2 deficit severi della catena respiratoria mitocondriale, 1 con insufficienza della β- ossidazione per alterazione delle acilcarnitine , 1 con sindrome di Barth e 1 con malattia di Pompe) e un caso di cardiomiopatia dilatativa associata a rachitismo carenziale. Di questi, 4 sono deceduti e uno è stato perduto al follow-up mentre la forma associata a rachitismo ha mostrato un netto miglioramento della funzionalità cardiaca dopo appropriata terapia con vitamina D e calcio. In tutti la malattia era stata diagnosticata entro l’anno di vita. Ciò concorda con gli studi documentati in letteratura che associano le malattie metaboliche ad un esordio precoce e ad una prognosi infausta. Da un punto di vista morfologico, un’evoluzione severa si associava alla forma dilatativa, ed in particolare a quella con aspetto non compaction del ventricolo sinistro, rispetto alla ipertrofica e, tra le ipertrofiche, alle forme con ostruzione all’efflusso ventricolare. Conclusioni: in accordo con quanto riscontrato in letteratura, abbiamo visto come le cardiomiopatie associate a forme secondarie, ed in particolare a disordini metabolici, sono di più frequente riscontro nella prima infanzia rispetto alle età successive e, per questo, l’esordio molto precoce di una cardiomiopatia deve essere sempre sospettata come l’espressione di una malattia sistemica. Abbiamo osservato, inoltre, una stretta correlazione tra l’età del bambino alla diagnosi e l’evoluzione della cardiomiopatia, registrando un peggioramento della prognosi in funzione della precocità della manifestazione clinica. In particolare la diagnosi eseguita in epoca prenatale si associava, nella maggior parte dei casi, ad un’evoluzione severa, comportandosi come una variabile indipendente da altri fattori prognostici. Riteniamo, quindi, opportuno sottoporre tutti i bambini con diagnosi di cardiomiopatia effettuata nei primi anni di vita ad uno screening metabolico completo volto ad individuare quelle forme per le quali sia possibile intraprendere una terapia specifica o, al contrario, escludere disordini che possano controindicare, o meno, l’esecuzione di un trapianto cardiaco qualora se ne presenti la necessità clinica.
Resumo:
Aims: We aimed to quantify the release of bio-markers of myocardial damage in relation to direct intramyocardial injections of genes and stem cells in patients with severe coronary artery disease. Methods and Results: We studied 71 patients with “no-option” coronary artery disease. Patients had, via the percutaneous transluminal route, a total of 11±1 (mean ± SD) intramyocardial injections of vascular endothelial growth factor genes (n=56) or mesenchymal stromal cells (n=15). Injections were guided to an ischemic area by electromechanical mapping, using the NOGA™/Myostar™ catheter system. ECG was monitored continuously until discharge. Plasma CKMB (upper normal laboratory limit=5 μg/l) was 2 μg/l (2-3) at baseline; increased to 6 (5-9) after 8 hours (p < 0.0001) and normalized to 4 (3-5) after 24 hours. A total of 8 patients (17%), receiving a volume of 0.3 ml per injection, had CKMB rises exceeding 3 times the upper limit, whereas no patient in the group receiving 0.2 ml had a more than two fold CKMB increase. No patient developed new ECG changes. There were no clinically important ventricular arrhythmias and no death. Conclusion: Direct Intramyocardial injections of stem cells or genes lead to measurable release of cardiac bio-markers, which was related to the injected volume.